Vangelo Lc 9, 7-9 Erode diceva: «Giovanni, l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?».

Vangelo Novus Ordo Lc 9, 7-9
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, il tetràrca Erode sentì parlare di tutti questi avvenimenti e non sapeva che cosa pensare, perché alcuni dicevano: «Giovanni è risorto dai morti», altri: «È apparso Elìa», e altri ancora: «È risorto uno degli antichi profeti».
Ma Erode diceva: «Giovanni, l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?». E cercava di vederlo.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
«È risorto uno degli antichi profeti».

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo

    Cap. CCCXLVIII. Mannaen riferisce su Erode Antipa e da Cafarnao va con Gesù a Nazareth. Svelate le trasfigurazioni della Vergine.

   2 dicembre 1945.

   348.1Quando pongono piede sulla spiaggetta di Cafarnao, sono accolti dal gridìo dei bambini che emulano le rondini indaffarate alla costruzione dei nidi novelli, tanto scorrono veloci, garrendo con le loro vocette, dalla spiaggia alle case, ilari della semplice gioia dei fanciulli, per i quali è spettacolo meraviglioso e magico oggetto un pesciolino trovato morto sulla riva, o un sassetto che l’onda ha levigato e che, per il suo colore, sembra una pietra preziosa, o il fiore scoperto fra due sassi, o lo scarabeo cangiante catturato a volo. Tutti prodigi da far vedere alle mamme, perché prendano parte alla gioia del loro figliolino.
   Ma ora queste rondinelle umane hanno visto Gesù e tutti i loro voli convergono verso di Lui, che sta per porre piede sulla spiaggetta. Ed è una tepida valanga viva di carni fanciulle, è una catena soave di manine tenerelle, è un amore di cuori infantili quello che si abbatte su Gesù, che ne è stretto, legato, riscaldato come da un dolce fuoco.
   «Io! Io!».
   «Un bacio!».
   «A me!».
   «Anche io!».
   «Gesù! Ti voglio bene!».
   «Non andare più via per tanto!».
   «Venivo tutti i giorni qui a vedere se venivi».
   «Io andavo alla tua casa».
   «Tieni questo fiore, era per la mamma, ma te lo do».
   «Ancora un bacio a me, bello forte. Quello di prima non mi ha toccato perché Giaele mi ha spinto indietro…».
   E le vocette continuano mentre Gesù tenta camminare fra quella rete di tenerezze.
   «Ma lasciatelo un poco stare! Via! Basta!», gridano discepoli e apostoli cercando di allentare la stretta. Ma sì! Sembrano liane munite di ventose! Di qui vengono staccate, di là si appiccicano.
   «Lasciate! Lasciate fare! Con pazienza arriveremo», dice sorridendo Gesù, e fa passi inverosimilmente piccoli per potere procedere senza calpestare piedini nudi.

   348.2Ma quello che lo libera dall’amorosa stretta è il sopraggiungere di Mannaen con altri discepoli, fra i quali i pastori che erano in Giudea.
   «La pace a Te, Maestro!», tuona l’imponente Mannaen nel suo splendido abito, senza più ori alla fronte e alle dita, ma con una magnifica spada al fianco che suscita l’ammirazione venerabonda dei bambini, i quali, davanti a questo magnifico cavaliere vestito di porpora e con una così stupenda arma al fianco, si scansano intimoriti.
   E così Gesù può abbracciarlo e abbracciare Elia, Levi, Mattia, Giuseppe, Giovanni, Simeone e non so quant’altri.
   «Come mai sei qui? E come hai saputo che ero sbarcato?».
   «Saputo, lo si è saputo dai gridi dei bambini. Hanno trapassato i muri come frecce di gioia. Ma qui sono venuto pensando che è prossimo il tuo viaggio in Giudea e che certo vi prenderanno parte le donne… Ho voluto esserci anche io… Per proteggerti, Signore, se non è troppa superbia il pensarlo. Vi è molta effervescenza in Israele contro di Te. Dolorosa cosa a dirsi. Ma Tu non la ignori».

   348.3Parlando così, raggiungono la casa e vi entrano. Mannaen continua il suo discorso dopo che il padrone di casa e la moglie hanno venerato il Maestro.
   «Ormai l’effervescenza e l’interessamento su di Te ha pervaso ogni luogo, scuotendo e richiamando l’attenzione anche dei più ottusi e distratti da cose molto diverse da ciò che Tu sei. Le notizie di ciò che Tu operi sono penetrate persino dentro alle sozze muraglie di Macheronte o nei lussuriosi rifugi di Erode, siano essi il palazzo di Tiberiade o i castelli di Erodiade o la splendida reggia degli Asmonei presso il Sisto. Superano come ondate di luce e di potenza le barriere di tenebre e di bassezza, abbattono i cumuli del peccato messi a fare da trincea e da riparo ai sozzi amori della Corte e ai truci delitti, saettano come strali di fuoco scrivendo parole ben più gravi di quelle del convito di Baldassarre[89] sulle licenziose pareti delle alcove e delle sale del trono e dei banchetti. Urlano il tuo Nome e la tua potenza, la tua natura e la tua missione. E Erode ne trema di paura; ed Erodiade si convelle nei letti, paurosa che Tu sia il Re vendicatore che le leverà ricchezze e immunità, se pur non anche la vita, gettandola in balìa delle turbe che faranno vendetta dei suoi molti delitti. Si trema a Corte. E per Te. Si trema di paura umana e di paura sovrumana. Da quando la testa di Giovanni è caduta mozzata, sembra che un fuoco arda le viscere dei suoi uccisori. Non hanno più neppure la loro misera pace di prima, pace da porci sazi di crapule, che trovano silenzio ai rimproveri della coscienza nell’ubbriachezza o nella copula. Non c’è più nulla che li pacifichi… Sono perseguitati… E si odiano dopo ogni ora di amore, sazi l’uno dell’altra, incolpandosi l’un l’altro di aver commesso il delitto che turba, che ha passato la misura; mentre Salome, come presa da un demonio, è scossa da un erotismo che degraderebbe una schiava delle macine. La Reggia è fetente più di una cloaca. Erode mi ha interrogato più volte su Te. Ed io ogni volta ho risposto: “Per me è il Messia, il Re d’Israele dell’unica stirpe regale, quella di Davide. È il Figlio dell’uomo detto dai Profeti, è il Verbo di Dio, Colui che, per essere il Cristo, l’Unto di Dio, ha il diritto di regnare su ogni vivente”. Ed Erode sbianca di paura sentendo in Te il Vendicatore. E respinge la paura, l’urlo della coscienza che il rimorso sbrana, dicendo — poiché i cortigiani per confortarlo dicono che Tu sei Giovanni falsamente creduto morto, e con ciò lo fanno basire più che mai di orrore, oppure Elia, o qualche altro profeta dei tempi passati — dicendo: “No, non può essere Giovanni! Quello io l’ho fatto decapitare, e la sua testa l’ha Erodiade in sicura custodia. E non può essere uno dei profeti. Non si rivive, una volta morti. Ma non può essere neppure il Cristo. Chi lo dice? Chi lo dice che lo è? Chi osa dirmi che Egli è il Re dell’unica stirpe regale? Io sono il Re! Io! E non altri. Il Messia è stato ucciso da Erode il Grande: in un mare di sangue è stato affogato, appena nato. Sgozzato è stato come un agnellino… e aveva pochi mesi… Lo senti come piange? Il suo belato mi grida sempre dentro alla testa insieme al ruggito di Giovanni: ‘Non ti è lecito’… Non mi è lecito?! Sì. Tutto mi è lecito, perché io sono ‘il re’. Qua vino e donne, se Erodiade si rifiuta ai miei amplessi, e che danzi Salome per svegliare il mio senso spaurito dai tuoi paurosi racconti”. E si ubbriaca fra le mime della Corte, mentre nelle sue stanze ulula la femmina folle le sue bestemmie al Martire e le sue minacce a Te, e nelle sue Salome conosce cosa è essere nata dal peccato di due libidinosi e avere aderito ad un delitto, ottenendolo con l’abbandono del corpo alle smanie lubriche di un sozzo. Ma poi torna in sé Erode e vuole sapere di Te, e vorrebbe vederti. E per questo favorisce le mie venute a Te, nella speranza che io ti porti a lui. Cosa che non farò mai, per non portare la tua santità in un antro di fiere immonde. E vorrebbe averti Erodiade per colpirti. E lo grida col suo stilo fra le mani… E vorrebbe averti Salome, che ti ha visto, a tua insaputa, a Tiberiade lo scorso etamim, e che insania di Te… Questa è la Reggia, Maestro! Ma io vi resto, perché sorveglio così le intenzioni su Te».
   «Io te ne sono grato, e l’Altissimo te ne benedice. È anche questo servire l’Eterno nei suoi decreti».
   «L’ho pensato. E per questo sono venuto».
   «Mannaen, Io ti prego di una cosa, poiché sei venuto. Non con Me ma con le donne scendi verso Gerusalemme. Io vado con questi per via ignota e non potranno farmi del male. Ma esse sono donne e indifese, e chi le accompagna è di animo mite e ammaestrato ad offrire la guancia a chi già l’ha percosso. La tua presenza sarà protezione sicura. Un sacrificio, comprendo. Ma staremo insieme in Giudea. Non negarmelo, amico».
   «Signore, ogni tuo desiderio è legge per il tuo servo. Sono al servizio della Madre tua e delle condiscepole da questo momento fino a quando Tu vorrai».
   «Grazie. Anche questa tua ubbidienza sarà scritta in Cielo.

   348.4Ora dedichiamo l’attesa delle barche per tutti curando i malati che mi attendono».
   E Gesù scende nell’orto dove sono barelle o infermi e li sana rapidamente, mentre accoglie l’ossequio di Giairo e degli amici, pochi, di Cafarnao.
   Le donne, intanto — e sono Porfirea e Salome, più l’anziana moglie di Bartolomeo e quella meno anziana di Filippo con le figlie giovinette — si occupano delle vivande per la numerosa turba di discepoli, che saranno sfamati con le corbe di pesce che Betsaida e Cafarnao hanno offerto. E un gran sventrare di ventri argentati, ancora palpitanti, un gran sciaquare di pesci nei catini, un grande sfrigolio degli stessi sulle graticole, avviene in cucina, mentre Marziam, con altri discepoli, alimenta i fuochi e porta brocche d’acqua in aiuto delle donne.
   Il pasto è presto pronto e presto consumato. Ed essendo ormai reclutate le barche per il trasporto di tanti, non resta che imbarcarsi per Magdala, su un lago d’incanto, tanto è sereno, angelico nel castone smeraldino delle rive.
   I giardini e la casa di Maria di Magdala si aprono ospitali nel meriggio solare ad accogliere il Maestro e i suoi discepoli, e tutta Magdala si riversa a salutare il Rabbi che va verso Gerusalemme.

   348.5E le fresche pendici dei colli galilei sentono la marcia solerte e lieta della turba fedele, seguita da un comodo carro dove sono Giovanna con Porfirea, Salome, le mogli di Bartolomeo e Filippo e le due giovinette figlie di quest’ultimo, più i ridenti Maria e Mattia, irriconoscibili nell’aspetto da quello che erano cinque mesi addietro. Marziam marcia bravamente con gli adulti, anzi, per volere di Gesù, è proprio nel gruppo apostolico, fra Pietro e Giovanni, e non perde parola di quanto dice Gesù.
   Il sole splende in un cielo purissimo e folate tiepide portano odore di bosco, di mentucce, di viole, dei primi mughetti, dei rosai sempre più fioriti e, sovrano su tutti, quell’odore fresco, lievemente amarognolo, dei fiori delle piante da frutto, che da ogni dove spargono neve di petali sulle zolle erbose. Tutti ne hanno fra i capelli mentre procedono in un continuo cinguettio d’uccelli, fra canti di seduzione e trepidi richiami da folto a folto, tra i maschi audaci e le femmine pudiche, mentre le pecore brucano, pingui di maternità, e i primi agnellini urtano il musetto rosato nella tonda mammella per aumentare la secrezione del latte, oppure caroleggiano sui prati d’erba tenerella come bambini felici.

   348.6Come viene presto Nazaret dopo Cana, dove Susanna si unisce alle altre donne portando seco i prodotti della sua terra in ceste e vasi, e un intero tralcio di rose rosse tutte in bocci, prossimi a schiudersi, «da offrirsi a Maria», dice.
   «Io pure, vedi?», dice Giovanna scoprendo una specie di cassa dove sono adagiate rose e rose fra muschi umidi. «Le prime e le più belle. Sempre un nulla per Lei, tanto cara!».
   Vedo che ogni donna ha portato derrate per il viaggio pasquale, e con le derrate chi questo fiore, chi quella pianta per l’orto di Maria; e Porfirea si scusa di non avere portato che un vaso di canfora, splendido nelle minute foglioline glauche che sprigionano il loro aroma solo a sfiorarle. «Maria la desiderava questa pianta balsamica…», dice. E tutte la elogiano per la bellezza rigogliosa dell’arboscello. «Oh! l’ho vegliato tutto l’inverno, tenendolo al riparo dal gelo e dalla grandine nella mia stanza. Marziam mi aiutava a portarlo al sole ogni mattina, a ritirarlo ogni sera… E quel caro fanciullo, se non ci fosse stata la barca e ora il carro, se lo sarebbe caricato sulle spalle per portarlo a Maria, facendo cortesia a Lei e a me», dice l’umile donna, che si rinfranca sempre più per la bontà di Giovanna e che non sta in sé dalla gioia di essere in viaggio per Gerusalemme, e col Maestro, il suo uomo e il suo Marziam.
   «Non ci sei mai stata?».
   «Finché visse mio padre, ogni anno. Ma poi… La madre non vi andò più… I fratelli mi ci avrebbero portata, ma facevo comodo alla madre e non mi lasciava andare. Dopo ho sposato Simone… e non sono stata più molto bene in salute. Simone avrebbe dovuto stare molto in viaggio e si annoiava… Rimanevo perciò a casa ad attenderlo… Il Signore vedeva il mio desiderio… ed era come facessi il sacrificio nel Tempio…», dice la mite donna.
   E Giovanna, che l’ha vicina, le mette la mano sulle splendide trecce dicendole: «Cara!». E in quell’aggettivo c’è tanto amore, tanta comprensione e tanto significato.

   348.7Ecco Nazaret… ecco la casa di Maria d’Alfeo, che è già fra le braccia dei figli, e con le mani, gocciolanti e rosse del bucato che sta facendo, se li carezza, e poi corre, asciugandosele nel grembiule grossolano, ad abbracciare Gesù… Ed ecco la casa di Alfeo di Sara, immediatamente precedente quella di Maria. E Alfeo che ordina al nipotino più grande di correre ad avvertire Maria, e intanto sgamba a passi da gigante verso Gesù con una bracciata di nipotini fra le braccia, e lo saluta insieme a quella nidiata stretta fra le braccia come un mazzo di fiori offerto a Gesù.
   Ed ecco Maria farsi sulla porta, nel sole, nel suo abito da casa di un chiaro azzurro un poco stinto, l’oro dei capelli splendente vaporoso sulla fronte verginale e massiccio nel pesante nodo delle trecce sulla nuca, e cadere sul petto del Figlio che la bacia con tutto il suo amore. Gli altri si fermano prudenti per lasciarli liberi nel primo incontro.
   Ma Ella subito si stacca e volge il viso, inattaccabile all’età, ora tutto roseo per la sorpresa e luminoso di sorriso, e saluta con la sua voce d’angelo: «La pace a voi, servi del Signore e discepoli del Figlio mio. La pace a voi, sorelle nel Signore», e con le discepole, scese dal carro, scambia un bacio fraterno.
   «Oh! Marziam! Ora non potrò più tenerti fra le braccia! Sei un uomo ormai. Ma vieni dalla Mamma di tutti i buoni, che un bacio te lo darò ancora. Caro! Dio ti benedica e ti faccia crescere nelle sue vie, robusto come cresce il tuo corpo giovinetto, e più ancora. Figlio mio, dovremo portarlo a suo nonno. Sarà felice di vederlo così», dice poi volgendosi a Gesù.
   E poi abbraccia Giacomo e Giuda d’Alfeo. E dà loro la notizia che certo essi amano: «Quest’anno Simone viene con me, come discepolo del Maestro. Me lo ha detto».
   E uno per uno saluta i più noti, i più influenti, avendo per ognuno una parola di grazia. Mannaen viene condotto a Lei da Gesù e presentato come sua scorta nel viaggio verso Gerusalemme.
   «Tu non vieni con noi, Figlio?».
   «Madre, ho altri luoghi da evangelizzare. Ci vedremo a Betania».
   «La tua volontà sia fatta ora e sempre. Grazie, Mannaen. Tu: angelo umano; i nostri custodi: angeli del Cielo; e noi saremo sicure come fossimo nel Santo dei Santi». E offre la sua manina a Mannaen in segno di amicizia. E il cavaliere, cresciuto nel fasto, si inginocchia per baciare la mano gentile che si offre a lui.

   348.8Intanto sono stati scaricati i fiori e quanto deve restare a Nazaret. Poi il carro va al suo destino in qualche scuderia della città.
   La piccola casa pare un roseto per le rose sparse ogni dove dalle discepole. Ma la pianta di Porfirea, posata sulla tavola, raccoglie la più viva ammirazione di Maria, che la fa portare in luogo acconcio secondo le indicazioni della moglie di Pietro.
   Non possono certo entrare tutti nella minuscola casa, nell’orto che non è una tenuta né un podere, ma che sembra salire verso il cielo sereno, farsi aereo, tante sono le nuvole dei fiori sulle piante del brolo.
   E Giuda d’Alfeo, sorridendo, chiede a Maria: «Hai colto anche oggi il tuo ramo per la tua anfora?».
   «Senza dubbio, Giuda. E quando siete venuti lo contemplavo…».
   «E risognavi, Mamma, il tuo mistero lontano», dice Gesù abbracciandola col braccio sinistro e attirandosela contro il cuore.
   Maria alza il viso imporporato e sospira: «Sì, Figlio mio… e risognavo il primo palpito del tuo cuore in me…».
   Gesù dice: «Restino le discepole, gli apostoli, Marziam, i discepoli pastori, il sacerdote Giovanni, Stefano, Erma e Mannaen. Gli altri si spargano in cerca di alloggio…».
   «Molti possono stare in casa mia…», urla dalla soglia, sulla quale è bloccato, Simone d’Alfeo. «Sono loro condiscepolo e li reclamo».
   «Oh! fratello, vieni avanti, che ti possa baciare», dice espansivo Gesù, mentre Alfeo di Sara e Ismaele e Aser, i due discepoli, ex-asinai, di Nazaret, a loro volta dicono: «A casa nostra. Venite, venite!».
   I discepoli non prescelti se ne vanno e può essere chiusa la porta… per essere riaperta però subito dopo per la venuta di Maria d’Alfeo, che non può stare lontana anche se si sciupa il suo bucato. Sono quasi quaranta persone e perciò si spargono nell’orto tiepido e quieto, finché sono distribuiti i cibi, che ognuno trova con sapori celesti tanto è felice di consumarli nella casa del Signore, distribuiti da Maria.
   Torna Simone, che ha sistemato i discepoli, e dice: «Non mi hai chiamato come gli altri, ma io ti sono fratello e ci sto lo stesso».
   «Bene vieni, Simone.

   348.9Vi ho qui voluti per farvi conoscere Maria. Molti di voi conoscete la “madre” Maria, alcuni la “sposa” Maria. Ma nessuno conosce la “vergine” Maria. Io ve la voglio fare conoscere in questo giardino in fiore, nel quale il vostro cuore viene col desiderio nelle lontananze forzate e come ad un riposo nelle fatiche dell’apostolato.
   Vi ho ascoltato parlare, voi apostoli, discepoli e parenti, ed ho sentito le vostre impressioni, i vostri ricordi, le vostre asserzioni sulla Madre mia. Io vi trasfigurerò tutto questo, molto ammirativo ma ancora molto umano, in un soprannaturale conoscere. Perché mia Madre, prima di Me, va trasfigurata agli occhi dei più meritevoli, per mostrarla quale Essa è. Voi vedete una donna. Una donna che per la sua santità vi pare diversa dalle altre, ma che in realtà vedete come un’anima fasciata dalla carne, come quella di tutte le sue sorelle di sesso. Ma Io ora vi voglio scoprire l’anima di mia Madre. La sua vera ed eterna bellezza.
   Vieni qui, Madre mia. Non arrossire. Non ritrarti intimidita, colomba soave di Dio. Tuo Figlio è la Parola di Dio e può parlare di te e del tuo mistero, dei tuoi misteri, o sublime Mistero di Dio. Sediamoci qui, in quest’ombra leggera di alberi in fiore, presso la casa, presso la tua stanza santa. Così! Alziamo questa tenda ondeggiante e ne escano onde di santità e di Paradiso da questa stanza verginale, a saturare di te tutti noi… Sì. Io pure. Che Io mi profumi di te, Vergine perfetta, per potere sopportare i fetori del mondo, per potere vedere candore avendo saturata la pupilla del tuo Candore… Qui Marziam, Giovanni, Stefano, e voi discepole, bene di fronte alla porta aperta sulla dimora casta della Casta fra tutte le donne. E dietro voi, amici miei. E qui, al mio fianco, tu, diletta Madre mia.

   348.10Vi ho detto poc’anzi “l’eterna bellezza dell’anima di mia Madre”. Sono la Parola e perciò so usare della parola senza errore. Ho detto “eterna”, non “immortale”. E non senza scopo l’ho detto. Immortale è chi, essendo nato, non muore più. Così l’anima dei giusti è immortale in Cielo, l’anima dei peccatori è immortale nell’inferno, perché l’anima, creata che sia, non muore più che alla grazia. Ma l’anima ha vita, esiste dal momento che Dio la pensa. È il Pensiero di Dio che la crea[90]. L’anima di mia Madre è da sempre pensata da Dio. Perciò è eterna nella sua bellezza, nella quale Dio ha riversato ogni perfezione per averne delizia e conforto.
   È detto nel libro del nostro avo Salomone[91], che ti antevide e perciò profeta tuo può essere detto: “Dio mi possedette all’inizio delle sue opere, fin dal principio, avanti la Creazione. Ab eterno io fui stabilita, al principio, prima che fosse fatta la Terra. Non erano ancora gli abissi ed io ero concepita. Non ancora le sorgenti delle acque sgorgavano, non ancora le montagne erano fermate sulla loro grave mole, ed io già ero. Prima delle colline io ero partorita. Egli non aveva ancora fatto la Terra, i fiumi, né i cardini del mondo, ed io già ero. Quando preparava i cieli e il Cielo, io ero presente. Quando con legge inviolabile chiuse sotto la volta l’abisso, quando rese stabile in alto la volta celeste e vi sospese le fonti delle acque, quando fissò al mare i suoi confini e dette legge alle acque di non passare il loro termine, quando gettava i fondamenti della Terra, io ero con Lui a ordinare tutte le cose. Sempre nella gioia io scherzavo dinanzi a Lui continuamente. Scherzavo nell’universo”.
   Sì, o Madre di cui Dio, l’Immenso, il Sublime, il Vergine, l’Increato, era gravido, e ti portava come il suo dolcissimo pondo, giubilando di sentirti agitarti in Lui, dandogli i sorrisi dei quali fece il Creato! Tu che a dolore partorì per darti al Mondo, anima soavissima, nata dal Vergine per essere la “Vergine”, Perfezione del Creato, Luce del Paradiso, Consiglio di Dio, che guardandoti poté perdonare la Colpa perché tu sola, da te sola, sai amare come tutta l’Umanità messa insieme non sa amare. In te il Perdono di Dio! In te il Medicamento di Dio, tu, carezza dell’Eterno sulla ferita dall’uomo fatta a Dio! In te la Salute del mondo, Madre dell’Amore incarnato e del concesso Redentore!
   L’anima della Madre mia! Fuso nell’Amore col Padre, Io ti guardavo dentro di Me, o anima della Madre mia!… E il tuo splendore, la tua preghiera, l’idea di essere da te portato, mi consolavano in eterno del mio destino di dolore e di esperienze disumane di ciò che è il mondo corrotto per il Dio perfettissimo. Grazie, o Madre! Io sono venuto già saturo delle tue consolazioni, Io sono sceso sentendo te sola, il tuo profumo, il tuo canto, il tuo amore… Gioia, gioia mia!

   348.11Ma udite, voi che ora sapete che una sola è la Donna nella quale non è macchia, una sola la Creatura che non costa ferita al Redentore, udite la seconda trasfigurazione di Maria, l’Eletta di Dio.
   Era un sereno pomeriggio di adar ed erano in fiore gli alberi nell’orto silenzioso, e Maria, sposa a Giuseppe, aveva colto un ramo di albero in fiore per sostituirlo all’altro che era nella sua stanzetta. Da poco era venuta a Nazaret, Maria, presa dal Tempio per ornare una casa di santi. E con l’anima tripartita fra il Tempio, la casa e il Cielo, Ella guardava il ramo in fiore, pensando che con uno simile, sbocciato insolitamente, un ramo reciso in questo brolo nel colmo dell’inverno e fioritosi come per primavera davanti all’Arca del Signore — forse lo aveva scaldato il Sole-Iddio raggiante sulla sua Gloria — Dio le aveva significato la sua volontà… E pensava ancora che nel giorno delle nozze Giuseppe le aveva portato altri fiori, ma mai simili al primo che portava scritto sui petali leggeri: “Ti voglio unita a Giuseppe”… Tante cose pensava… E pensando salì a Dio. Le mani erano solerti fra la rocca e il fuso, e filavano un filo più sottile d’uno dei capelli del suo capo giovinetto…
   L’anima tesseva un tappeto d’amore, andando solerte, come spola sul telaio, dalla Terra al Cielo. Dai bisogni della casa, dello sposo, a quelli dell’anima, di Dio. E cantava, e pregava. E il tappeto si formava sul mistico telaio, si srotolava dalla Terra al Cielo, saliva a sperdersi lassù… Formato di che? Dai fili sottili, perfetti, forti, delle sue virtù, dal filo volante della spola che Ella credeva “sua”, mentre era di Dio: la spola della Volontà di Dio sulla quale era avvolta la volontà della piccola, grande Vergine d’Israele, la Sconosciuta al mondo, la Conosciuta da Dio, la sua volontà avvolta, fatta una con la Volontà del Signore. E il tappeto si infiorava di fiori d’amore, di purezza, di palme di pace, di palme di gloria, di mammole, di gelsomini… Ogni virtù fioriva sul tappeto dell’amore che la Vergine di Dio svolgeva, invitante, dalla Terra al Cielo. E poiché il tappeto non bastava, Ella lanciava il cuore cantando[92]: “Venga il * mio Diletto nel suo giardino e mangi il frutto dei suoi pomi… Il mio Diletto discenda nel suo giardino, all’aiuola degli aromi, a pascersi tra i giardini, a coglier gigli. Io son del mio Diletto, e il mio Diletto è mio, Egli che si pasce fra i gigli!”.
   E da lontananze infinite, fra torrenti di Luce, veniva una Voce quale orecchio umano non può udire, né gola umana formare. E diceva: “Quanto sei bella, amica mia! Quanto sei bella!… Miele stillano le tue labbra… Un giardino chiuso tu sei, una fonte sigillata, o sorella, mia sposa…”, e insieme le due voci si univano per cantare l’eterna verità: “L’amore è forte più della morte. Nulla può estinguere o sommergere il ‘nostro’ amore”. E la Vergine trasfigurava così… così… così… mentre scendeva Gabriele e la richiamava, col suo ardere, alla Terra, le riuniva lo spirito alla carne, perché Ella potesse intendere e comprendere la richiesta di Colui che l’aveva chiamata “Sorella” ma che la voleva “Sposa”.
   Ecco, là avvenne il Mistero… E una pudica, la più pudica di tutte le donne, Colei che neppure conosceva lo stimolo istintivo della carne, tramortì davanti all’Angelo di Dio, perché anche un angelo turba l’umiltà e la verecondia della Vergine, e solo si placò udendolo parlare, e credette, e disse la parola per cui il “loro” amore divenne Carne e vincerà la Morte, né nessun’acqua potrà estinguerlo, né malvagità sommergerlo…».

   348.12Gesù si china dolcemente su Maria che gli è scivolata ai piedi quasi estatica, nella rievocazione dell’ora lontana, luminosa di una luce speciale che pare le esali dall’anima, e le chiede sommessamente: «Quale la tua risposta, o Purissima, a chi ti assicurava che divenendo Madre di Dio non avresti perduto la tua perfetta Verginità?».
   E Maria, quasi in sogno, lentamente, sorridendo, con gli occhi dilatati per un pianto felice: «Ecco l’Ancella del Signore! Si faccia di me secondo la sua Parola», e reclina la testa sui ginocchi del Figlio, adorando.
   Gesù la vela col suo manto, nascondendola agli occhi di tutti, e dice: «E fu fatto. E si farà sino alla fine. Sino all’altra e all’altra ancora delle sue trasfigurazioni. Sarà sempre “l’Ancella di Dio”. Farà sempre come dirà “la Parola”. Mia Madre! Questa è mia Madre. Ed è bene che voi cominciate a conoscerla in tutta la sua santa Figura… Madre! Madre! Rialza il tuo viso, Diletta… Richiama i tuoi devoti alla Terra dove per ora siamo…», dice scoprendo Maria dopo qualche tempo, durante il quale non era rumore oltre al ronzio delle api e al chioccolio della piccola fonte.
   Maria alza il viso molle di pianto e sussurra: «Perché, Figlio, mi hai fatto questo? I segreti del Re sono sacri…».
   «Ma il Re li può svelare[93] quando vuole. Madre, l’ho fatto perché sia compreso il detto di un Profeta: “Una Donna chiuderà in sé l’Uomo”, e l’altro dell’altro Profeta: “La Vergine concepirà e partorirà un Figlio”. E anche perché essi, che inorridiscono di troppe cose, per loro avvilenti, del Verbo di Dio, abbiano a contrappeso tante altre cose che li confermino nella gioia di essere “miei”. Così non si scandalizzeranno mai più e conquisteranno anche per ciò il Cielo… 

   348.13Ora chi deve andare alle case ospitali vada. Io resto con le donne e Marziam. Domani all’alba siano qui tutti gli uomini, ché voglio condurvi qui vicino. Poi torneremo a salutare le discepole per poi tornare a Cafarnao a radunare altri discepoli e inviarli dietro a queste»…
 

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Lc 9, 1-6:« Gesù convocò i Dodici e diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie».

Vangelo Novus Ordo Lc 9, 1-6
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù convocò i Dodici e diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie. E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi.
Disse loro: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche. In qualunque casa entriate, rimanete là, e di là poi ripartite. Quanto a coloro che non vi accolgono, uscite dalla loro città e scuotete la polvere dai vostri piedi come testimonianza contro di loro».
Allora essi uscirono e giravano di villaggio in villaggio, ovunque annunciando la buona notizia e operando guarigioni.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
«E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi».

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo

   Cap. CCLXV. Istruzioni ai dodici apostoli che iniziano il loro ministero.

   28 agosto 1945.

   265.1 Gesù con gli apostoli — e ci sono tutti, segno che Giuda Iscariota, compita la sua opera, ha raggiunto i compagni — sono seduti a tavola nella casa di Cafarnao. È sera. La luce del giorno morente entra dalla porta e dalle finestre spalancate, e queste lasciano vedere il mutarsi della porpora del tramonto in un rosso paonazzo irreale, il quale agli orli si sfrangia in accartocciamenti di un color viola ardesia che finisce in grigio. Mi fa pensare ad un foglio di carta gettato sul fuoco, che si accende come il carbone sul quale è stato gettato, ma agli orli, dopo la vampa, si accartoccia e si spegne in un color piombo bluastro che finisce in un grigio perlaceo quasi bianco.
   «Caldo», sentenzia Pietro accennando il nuvolone che copre l’occidente di quei colori. «Caldo. Non acqua. Quella è nebbia, non nuvola. Io questa notte dormo nella barca per avere più fresco».
   «No. Questa notte andiamo fra gli uliveti. Ho bisogno di parlarvi. Ormai Giuda è tornato. È tempo di parlare. Conosco un posto ventilato. Vi staremo bene. Alzatevi e andiamo».
   «È lontano?», chiedono prendendo i mantelli.
   «No. Molto vicino. A un trar di frombola dall’ultima casa.
   Potete lasciare i mantelli. Però prendete esca e acciarino per vederci nel rientrare».
   Escono dalla stanza alta e scendono la scaletta dopo avere salutato il padrone e la moglie che frescheggiano sul terrazzo.
   Gesù volta risolutamente le spalle al lago e, traversato il paese, fa un duecento o trecento metri fra gli ulivi di una prima collinetta che è alle spalle del paese. Si ferma su un ciglio che, per la sua posizione sporgente e libera da ostacoli, gode di tutta l’aria possibile a godersi in quella notte d’afa.

   265.2 «Sediamo e prestatemi attenzione. È venuta l’ora della vostra evangelizzazione. Sono a metà circa della mia vita pubblica per preparare i cuori al mio Regno. Ora è tempo che anche i miei apostoli prendano parte alla preparazione di questo Regno. I re fanno così quando hanno deciso la conquista di un regno. Prima indagano e avvicinano persone per sentire le reazioni e lavorarle all’idea che perseguono. Poi estendono l’opera preparatoria con messi fidati, mandati nel paese da conquistare. E sempre più ne mandano finché tutto il paese è noto nelle sue particolarità geografiche e morali. Poi, fatto questo, il re porta a compimento l’opera proclamandosi re di quel luogo e incoronandosi tale. E sangue scorre per fare questo. Perché le vittorie costano sempre del sangue…».
   «Noi siamo pronti a combattere per Te e a versare il nostro sangue», promettono unanimemente gli apostoli.
   «Io non verserò altro sangue che quello del Santo e dei santi».
   «Vuoi iniziare dal Tempio la conquista, irrompendo nell’ora dei sacrifici?…».
   «Non divaghiamo, amici. Il futuro lo saprete a suo tempo. Ma non fremete d’orrore. Vi assicuro che non sconvolgerò le cerimonie con la violenza di una irruzione. Eppure saranno sconvolte e vi sarà una sera in cui il terrore impedirà la preghiera rituale. Il terrore dei peccatori. Ma Io, quella sera, sarò in pace. In pace con lo spirito mio e col mio corpo. Una pace totale, beata…».
   Gesù guarda uno per uno i suoi dodici, ed è come guardasse la stessa pagina per dodici volte e vi leggesse per dodici volte la parola che vi è scritta: incomprensione. Sorride e prosegue.

   265.3 «Dunque ho deciso di mandarvi per penetrare più avanti e più ampiamente di quanto possa fare Io da solo. Però fra il mio modo di evangelizzare e il vostro vi saranno differenze prudenziali che Io metto per non portarvi a difficoltà troppo forti, in pericoli troppo seri per la vostra anima e anche per il vostro corpo, e per non nuocere all’opera mia.
   Voi non siete ancora formati al punto di poter avvicinare chicchessia senza averne danno o senza fargli danno, e tanto meno siete eroici al punto di sfidare il mondo per l’Idea andando incontro alle vendette del mondo. Perciò, andando a predicarmi non andate fra i gentili e non entrate nelle città dei samaritani, ma andate dalle pecorelle sperdute della casa d’Israele. Vi è tanto da fare anche fra queste, perché in verità vi dico che le turbe, che vi paiono tante intorno a Me, sono la centesima parte di quelle che in Israele ancora attendono il Messia e non lo conoscono né sanno che è vivente. Portate a queste la fede e la conoscenza di Me.
   Nel vostro cammino predicate dicendo: “Il Regno dei Cieli è vicino”. Sia questo l’annuncio base. Su questo appoggiate tutta la vostra predicazione. Tanto avete sentito parlare del Regno da Me! Non avete che a ripetere ciò che Io vi ho detto. Ma l’uomo, per essere attirato e convinto sulle verità spirituali, ha bisogno di dolcezze materiali, come fosse un eterno bambino che non studia una lezione e non impara un mestiere se non è allettato da un dolce della mamma o un premio del maestro di scuola o del maestro del mestiere. Io, perché voi abbiate il mezzo per essere creduti e cercati, vi concedo il dono del miracolo…».
   Gli apostoli scattano in piedi, meno Giacomo d’Alfeo e Giovanni, urlando, protestando, esaltandosi, ognuno a seconda del temperamento. Veramente, che si pavoneggi nell’idea del miracolo da fare non c’è che l’Iscariota che, con quel po’ po’ di conto che ha sull’anima di una accusa falsa e interessata, esclama:
   «Era ora che noi pure si facesse questo per avere un minimo di autorità sulle turbe!».
   Gesù lo guarda ma non dice nulla. Pietro e lo Zelote, che stanno dicendo: «No, Signore! Noi non siamo degni di tanto! Ciò spetta ai santi», dànno sulla voce a Giuda, dicendo lo Zelote: «Come ti permetti di fare rimprovero al Maestro, uomo stolto e orgoglioso?», e Pietro: «Il minimo? E che vuoi fare più del miracolo? Diventare Dio tu pure? Hai lo stesso prurito di Lucifero?».
   «Silenzio!», intima Gesù.
   E prosegue: «Vi è una cosa che è ancor più del miracolo e che convince ugualmente le folle e con maggiore profondità e durata: una vita santa. Ma da questa voi siete ancora lontani, e tu, Giuda, più lontano degli altri. Ma lasciatemi parlare perché è una lunga istruzione.

   265.4 Andate perciò guarendo gli infermi, mondando i lebbrosi, risuscitando i morti del corpo o dello spirito, perché corpo e spirito possono essere ugualmente infermi, lebbrosi, morti. E voi anche sapete come si fa ad operare miracolo: con una vita di penitenza, una preghiera fervente, un sincero desiderio di far brillare la potenza di Dio, un’umiltà profonda, una viva carità, una accesa fede, una speranza che non si turba per difficoltà di sorta. In verità vi dico che tutto è possibile a chi ha in sé questi elementi. Anche i demoni fuggiranno di fronte al Nome del Signore detto da voi, avendo in voi quanto ho detto. Questo potere vi viene dato da Me e dal Padre nostro. Non si compera con nessuna moneta. Solo il nostro volere lo concede e solo la vita giusta lo mantiene. Ma, come vi è dato gratis, così gratuitamente datelo agli altri, ai bisognosi di esso. Guai a voi se avvilirete il dono di Dio facendolo servire per impinguare la vostra borsa. Non è vostra potenza, è potenza di Dio. Usatela, ma non ve ne appropriate dicendo: “È mia”. Come vi viene data, così vi può essere tolta.
   Simone di Giona poco fa ha detto a Giuda di Simone: “Hai tu lo stesso prurito di Lucifero?”. Ha detto una giusta defini zione. Dire: “Io faccio ciò che fa Dio perché io sono come Dio” è imitare Lucifero. E il suo castigo è noto. Come noto è ciò che avvenne ai due che nel paradiso terrestre mangiarono il frutto proibito, per istigazione dell’Invidioso, che voleva mettere altri infelici nel suo Inferno, oltre ai ribelli angelici che già vi erano, ma anche per prurito loro proprio di superbia perfetta.
   Unico frutto che vi è lecito prendere da ciò che fate sono le anime che col miracolo conquisterete al Signore e che al Signore vanno date. Ecco le vostre monete. Non altre. Nell’altra vita ne godrete il tesoro.

   265.5 Andate senza ricchezze. Non portate con voi né oro, né argento, né monete nelle vostre cinture, non sacca da viaggio con due o più vesti e doppi calzari, né bastone da pellegrino, né armi da uomo. Perché le vostre visite apostoliche per ora saranno corte, ed ogni vigilia del sabato ci ritroveremo e potrete deporre le vesti sudate senza avere bisogno di portarvi dietro il ricambio. Non occorre il bastone perché qui dolce è il cammino, e ciò che serve su colli e pianure è ben diverso da ciò che serve nei deserti e sui monti alti. Non occorrono armi. Queste sono buone per l’uomo che non conosce la santa povertà e ignora il divino perdono. Ma voi non avete tesori da tutelare e difendere dai ladroni. Unico da temere, unico ladrone per voi, è Satana. Ed esso si vince con la costanza e la preghiera, non con spade e pugnali.
   A chi vi offende perdonate. Se vi spogliassero del mantello, date anche la veste. Rimaneste anche nudi affatto per mitezza e distacco dalle ricchezze, non scandalizzerete gli angeli del Signore e neppure l’infinita Castità di Dio, perché la vostra carità vestirebbe di oro il vostro corpo nudo, e la mitezza vi farebbe ornata cintura, e il perdono verso il ladrone vi darebbe manto e corona regale. Sareste perciò vestiti meglio di un re. E non di stoffe corruttibili, ma di materie incorruttibili.
   Non abbiate preoccupazioni per il vostro nutrimento. Avrete sempre quanto è appropriato alla vostra condizione e al vostro ministero, perché l’operaio è degno del nutrimento che gli viene porto. Sempre. E se gli uomini non provvedessero, Dio provvederebbe al suo operaio. Già vi ho mostrato che per vivere e per predicare non è necessario avere i ventri colmi del cibo ingurgitato. Ciò serve agli animali immondi, la cui missione è quella di ingrassare, per essere uccisi per ingrassare gli uomini. Ma voi non dovete che impinguare lo spirito vostro e altrui di cibi sapienziali. E la Sapienza si illumina ad una mente che la crapula non rende ottusa e ad un cuore che si nutre di cose soprannaturali. Voi non siete mai stati tanto eloquenti come dopo il ritiro sul monte[61]. E allora mangiaste solo quanto era necessario per non morire. Eppure al termine del ritiro eravate forti e ilari come non mai. Non è forse vero?

   265.6 In qualunque città o luogo entrerete, informatevi che vi sia chi meriti di accogliervi. Non perché siete Simone, o Giuda, o Bartolomeo, o Giacomo, o Giovanni, e così via. Ma perché siete i messi del Signore. Foste anche stati dei rifiuti, degli assassini, dei ladri, dei pubblicani, pentiti ora e al mio servizio, meritate rispetto perché miei messi. Dico più ancora. Dico: guai a voi se avete l’apparenza di miei messi e nell’interno siete abbietti e insatanassati. Guai a voi! L’inferno è ancor poco per quello che meritate per il vostro inganno. Ma anche foste contemporaneamente messi di Dio in palese, e rifiuti, pubblicani, ladri, assassini in occulto, o anche un sospetto fosse nei cuori verso di voi, una quasi certezza, vi va dato ancora onore e rispetto perché siete miei messi. L’occhio dell’uomo deve sorpassare il mezzo e vedere il messo e il fine, vedere Dio e la sua opera al di là del mezzo troppo spesso manchevole. Solo in casi di colpa grave, ledente la fede dei cuori, Io per ora, poi chi mi succederà, provvederanno a recidere il membro guasto. Perché non è lecito che per un sacerdote demonio si perdano anime di fedeli. Non sarà mai lecito, per nascondere le piaghe nate nel corpo apostolico, permettere sopravvivenza in esso di corpi incancreniti che col loro aspetto ripugnante allontanano e col loro fetore demoniaco avvelenano.
   Voi dunque vi informerete quale è la famiglia di vita più retta, là dove le donne sanno stare ritirate e i costumi sono castigati. E là entrerete e dimorerete finché non partiate dal luogo. Non imitate i fuchi che, dopo aver succhiato un fiore, passano ad altro più nutriente. Voi, sia che siate capitati fra persone di buon letto e ricca mensa, o sia che siate capitati in umile famiglia ricca solo di virtù, rimanete dove siete. Non cercate mai il “meglio” per il corpo che perisce. Ma, anzi, date ad esso sempre il peggio, riserbando tutti i diritti allo spirito. E, ve lo dico perché è bene lo facciate, date, sol che lo possiate fare, la preferenza ai poveri per la vostra sosta. Per non umiliarli, per ricordo di Me che sono e resto povero e di esser povero me ne vanto, e anche perché i poveri sono sovente migliori dei ricchi. Troverete sempre poveri giusti, mentre raro sarà trovare un ricco senza ingiustizia. Non avete perciò la scusa di dire: “Non ho trovato bontà altro che nei ricchi” per giustificare la vostra smania di benessere.
   Nell’atto di entrare nella casa salutate col mio saluto, che è il più dolce che vi sia. Dite: “La pace sia con voi. La pace sia in questa casa”, oppure “la pace venga in questa casa”. Infatti voi, messi di Gesù e della Buona Novella, portate con voi la pace, e la vostra venuta in un luogo è far venire la pace in esso. Se la casa ne è degna, la pace verrà e permarrà in essa; se non ne è degna, la pace tornerà a voi. Però badate di essere voi pacifici onde avere Dio come vostro Padre. Un padre aiuta sempre. E voi, aiutati da Dio, farete tutto, e tutto bene.
   Può darsi anche, anzi certo avverrà, che vi sarà città o casa che non vi ricevono e non vogliono ascoltare le vostre parole cacciandovi o deridendovi, o anche inseguendovi a colpi di pietra come profeti noiosi. E qui avrete più che mai bisogno di esser pacifici, umili, miti per abito di vita. Perché altrimenti l’ira prenderà il sopravvento e voi peccherete scandalizzando e aumentando l’incredulità dei convertendi. Mentre, se riceverete l’offesa di esser cacciati, derisi, inseguiti, con pace, voi convertirete con la predica più bella: quella silenziosa della virtù vera. Ritroverete un giorno i nemici di oggi sul vostro cammino e vi diranno: “Vi abbiamo cercato perché il vostro modo di agire ci ha fatti persuasi della Verità che annunciate. Vogliate perdonarci e accoglierci per discepoli. Perché noi non vi conoscevamo, ma ora vi conosciamo per santi. Perciò, se santi siete, dovete essere i messi di un santo, e noi crediamo ora in Lui”. Ma, nell’uscire dalla città o casa dove non siete stati accolti, scuotete da voi anche la polvere dei vostri calzari, acciò la superbia e la durezza di quel luogo non si apprenda neppure alle vostre suole. In verità vi dico: nel giorno del Giudizio, Sodoma e Gomorra saranno trattate meno duramente di quella città.

   265.7 Ecco: Io vi mando come pecore fra i lupi. Siate dunque prudenti come le serpi e semplici come le colombe. Perché voi sapete come il mondo, che in verità è più di lupi che di pecore, usa anche con Me che sono il Cristo. Io posso difendermi col mio potere e lo farò finché non è l’ora del trionfo temporaneo del mondo. Ma voi non avete questo potere e vi necessita maggior prudenza e semplicità. Maggiore accortezza, perciò, per evitare per ora carceri e flagellazioni.
   In verità voi, per ora, nonostante le vostre proteste di volere dare il sangue per Me, non sopportate neppure uno sguardo ironico o iracondo. Poi verrà un tempo in cui sarete forti come eroi contro tutte le persecuzioni, forti più di eroi, di un eroismo inconcepibile secondo il mondo, inspiegabile, e verrà detto “follia”. No, che follia non sarà! Sarà l’immedesimazione per forza di amore dell’uomo con l’Uomo Dio, e voi saprete fare ciò che Io avrò già fatto. Per capire questo eroismo occorrerà vederlo, studiarlo e giudicarlo da piani ultraterreni. Perché è cosa soprannaturale che esula da tutte le restrizioni della natura umana. I re, i re dello spirito saranno i miei eroi, in eterno re ed eroi…
   In quel tempo vi arresteranno mettendovi le mani addosso, trascinandovi davanti ai tribunali, davanti ai presidi e ai re, onde vi giudichino e vi condannino per il grande peccato, agli occhi del mondo, di essere i servi di Dio, i ministri e tutori del Bene, i maestri delle virtù. E per essere questo sarete flagellati e in mille guise puniti, fino ad essere uccisi. E voi renderete testimonianza di Me ai re, ai presidi, alle nazioni, confessando col sangue che voi amate Cristo, il Figlio vero di Dio vero.
   Quando sarete nelle loro mani, non vi mettete in pena su ciò che avete a rispondere e di quanto avrete a dire. Nessuna pena abbiate allora che non sia quella dell’afflizione verso i giudici e gli accusatori che Satana travia al punto da renderli ciechi alla Verità. Le parole da dire vi saranno date in quel momento. Il Padre vostro ve le metterà sulle labbra, perché allora non sarete voi che parlerete per convertire alla Fede e professare la Verità, ma sarà lo Spirito del Padre vostro quello che parlerà in voi.

   265.8 Allora il fratello darà la morte al fratello, il padre al figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire. No, non tramortite e non vi scandalizzate! Rispondete a Me. Per voi è più grande delitto uccidere un padre, un fratello, un figlio, o Dio stesso?».
   «Dio non si può uccidere», dice secco Giuda Iscariota.
   «È vero. È Spirito imprendibile», conferma Bartolomeo. E gli altri, pur tacendo, sono dello stesso parere.
   «Io sono Dio, e Carne sono», dice calmo Gesù.
   «Nessuno pensa ad ucciderti», ribatte l’Iscariota.
   «Vi prego, rispondete alla mia domanda».
   «Ma è più grave uccidere Dio! Si intende!».
   «Ebbene, Dio sarà ucciso dall’uomo, nella Carne dell’Uomo Dio e nell’anima degli uccisori dell’Uomo Dio. Dunque, come si giungerà a questo delitto senza orrore in chi lo compie, parimenti si giungerà al delitto dei padri, dei fratelli, dei figli, contro i figli, i fratelli, i padri.

   265.9 Sarete odiati da tutti a causa del mio Nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvo. E quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra. Non per viltà, ma per dare tempo alla neonata Chiesa di Cristo di giungere ad età non più di lattante debole e inetto, ma ad una età maggiore in cui sarà capace di affrontare la vita e la morte senza temere Morte. Quelli che lo Spirito consiglierà a fuggire, fuggano. Come Io sono fuggito quando ero pargolo. In verità, nella vita della mia Chiesa si ripeteranno tutte le vicende della mia vita d’uomo. Tutte. Dal mistero del suo formarsi all’umiltà dei primi tempi, ai turbamenti e insidie date dai feroci, alla necessità di fuggire per continuare a esistere, dalla povertà e dal lavoro indefesso fino a molte altre cose che Io vivo attualmente, che patirò in seguito, prima di giungere al trionfo eterno. Quelli invece che lo Spirito consiglia di rimanere, restino. Perché, anche se cadranno uccisi, essi vivranno e saranno utili alla Chiesa. Perché è sempre bene ciò che lo Spirito di Dio consiglia.

   265.10 In verità vi dico che non finirete, voi e chi vi succederà, di percorrere le vie e le città di Israele prima che venga il Figlio dell’uomo. Perché Israele, per un suo tremendo peccato, sarà disperso come pula investita da un turbine e sparso per tutta la terra, e secoli e millenni, uno dopo un altro uno, e oltre, si succederanno prima che sia di nuovo raccolto sull’aia di Areuna Gebuseo[62]. Tutte le volte che lo tenterà, prima dell’ora segnata, sarà nuovamente preso dal turbine e disperso, perché Israele dovrà piangere il suo peccato per tanti secoli quante sono le stille che pioveranno dalle vene dell’Agnello di Dio immolato per i peccati del mondo. E la Chiesa mia dovrà pure, essa che sarà stata colpita da Israele in Me e nei miei apostoli e discepoli, aprire braccia di madre e cercare di raccogliere Israele sotto il suo manto come una chioccia fa coi pulcini sviati. Quando Israele sarà tutto sotto il manto della Chiesa di Cristo, allora Io verrò.

   265.11 Ma queste saranno le cose future. Parliamo delle immediate.
   Ricordatevi che il discepolo non è da più del Maestro, né il servo da più del Padrone. Perciò basti al discepolo di essere come il Maestro, ed è già immeritato onore; e al servo di essere come il Padrone, ed è già soprannaturale bontà concedervi che ciò sia. Se hanno chiamato Belzebù il padrone di casa, come chiameranno i suoi servi? E potranno i servi ribellarsi se il Padrone non si ribella, non odia e maledice, ma calmo nella sua giustizia continua la sua opera, trasferendo il giudizio ad altro momento, quando, dopo avere tutto tentato per persuadere, avrà visto in essi l’ostinazione nel Male? No. Non potranno i servi fare ciò che non fa il Padrone, ma bensì imitarlo, pensando che essi sono anche peccatori mentre Egli era senza peccato. Non temete dunque quelli che vi chiameranno: “demoni”. La verità, verrà un giorno che sarà nota e si vedrà allora chi era il “demonio”. Se voi o loro.
   Non c’è niente di nascosto che non si abbia a rivelare, e niente di segreto che non si abbia a sapere. Quello che ora Io vi dico nelle tenebre e in segreto, perché il mondo non è degno di sapere tutte le parole del Verbo — non è ancora degno di questo, né è ora di dirlo anche agli indegni — voi, quando sarà l’ora che tutto deve esser noto, ditelo nella luce, dall’alto dei tetti gridate ciò che ora Io vi sussurro più all’anima che all’orecchio. Perché allora il mondo sarà stato battezzato dal Sangue, e Satana avrà contro uno stendardo per cui il mondo potrà, volendo, comprendere i segreti di Dio, mentre Satana non potrà nuocere altro che su chi desidera il morso di Satana e lo preferisce al mio bacio. Ma otto parti su dieci del mondo non vorranno comprendere. Solo le minoranze saranno volonterose di sapere tutto per seguire tutto che è mia Dottrina. Non importa. Siccome non si può separare queste due parti sante dalla massa ingiusta, predicate anche dai tetti la mia Dottrina, predicatela dall’alto dei monti, sui mari senza confine, nelle viscere della Terra. Se anche gli uomini non l’ascolteranno, raccoglieranno le divine parole gli uccelli ed i venti, i pesci e le onde, e ne serberanno l’eco le viscere del suolo per dirlo alle interne sorgenti, ai minerali, ai metalli, e ne gioiranno tutti, perché essi pure sono creati da Dio per essere di sgabello ai miei piedi e di gioia al mio cuore.
   Non temete coloro che uccidono il corpo ma non possono uccidere l’anima, ma temete solo quello che può mandare a perdizione la vostra anima e ricongiungere nell’ultimo Giudizio questa al risorto corpo, per gettarli nei fuochi d’Inferno. Non temete. Non si vendono forse due passeri per un soldo? Eppure, se il Padre non lo permette, non uno di essi cadrà nonostante tutte le insidie dell’uomo. Non temete dunque. Voi siete noti al Padre. Noti gli sono nel loro numero anche i capelli che avete sul capo. Voi siete dappiù di molti passeri! Ed Io vi dico che chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anche Io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei Cieli. Ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anche Io lo rinnegherò davanti al Padre mio. Riconoscere qui è per seguire e praticare; rinnegare è per abbandonare la mia via per viltà, per concupiscenza triplice, o per calcolo meschino, per affetto umano verso uno dei vostri, contrari a Me. Perché ci sarà questo 

   265.12 Non pensate che Io sia venuto a mettere concordia sulla Terra e per la Terra. La mia pace è più alta delle calcolate paci per il barcamenare di ogni giorno. Non sono venuto a mettere la pace, ma la spada. La spada tagliente per recidere le liane che trattengono nel fango e aprire le vie ai voli nel soprannaturale. Perciò Io sono venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera. Perché Io sono Colui che regna e ha ogni diritto sui suoi sudditi. Perché nessuno è più grande di Me nei diritti sugli affetti. Perché in Me si accentrano tutti gli amori sublimandosi, ed Io sono Padre, Madre, Sposo, Fratello, Amico, e vi amo come tale, e come tale vado amato. E quando dico: “Voglio”, nessun legame può resistere e la creatura è mia. Io col Padre l’ho creata, Io da Me stesso la salvo, Io ho il diritto di averla.
   In verità i nemici dell’uomo sono gli uomini oltre che i demoni; e i nemici dell’uomo nuovo, del cristiano, saranno quelli di casa, coi loro lamenti, minacce o suppliche. Chi però d’ora in poi amerà il padre e la madre più di Me non è degno di Me; chi ama il figlio o la figlia più di Me non è degno di Me. Chi non prende la sua croce quotidiana, complessa, fatta di rassegnazioni, di rinunce, di ubbidienze, di eroismi, di dolori, di malattie, di lutti, di tutto quello che manifesta la volontà di Dio o una prova dell’uomo, e con essa non mi segue, non è degno di Me. Chi tiene conto della sua vita terrena più di quella spirituale perderà la Vita vera. Chi avrà perduto la sua vita terrena per amore mio la ritroverà eterna e beata.

   265.13 Chi riceve voi riceve Me. Chi riceve Me riceve Colui che mi ha mandato. Chi riceve un profeta come profeta riceverà premio proporzionato alla carità data al profeta, chi un giusto come giusto riceverà un premio proporzionato al giusto. E ciò perché chi riconosce nel profeta il profeta è segno che è profeta lui pure, ossia molto santo perché tenuto fra le braccia dallo Spirito di Dio, e chi avrà riconosciuto un giusto come giusto dimostra di essere lui stesso giusto, perché le anime simili si riconoscono. Ad ognuno dunque sarà dato secondo giustizia.
   Ma a chi avrà dato anche un solo calice d’acqua pura ad uno dei miei servi, fosse anche il più piccolo — e sono servi di Gesù tutti quelli che lo predicano con una vita santa, e possono esserlo i re come i mendicanti, i sapienti come coloro che non sanno nulla, i vecchi come i pargoli, perché in tutte le età e le classi si può essere miei discepoli — chi avrà dato ad un mio discepolo anche un calice d’acqua in mio nome e perché mio discepolo, in verità vi dico che non perderà la sua ricompensa.

   265.14 Ho detto. Ora preghiamo e poi andiamo a casa. All’alba partirete e così: Simone di Giona con Giovanni, Simone Zelote con Giuda Iscariota, Andrea con Matteo, Giacomo d’Alfeo con Tommaso, Filippo con Giacomo di Zebedeo, Giuda mio fratello con Bartolomeo. Questa settimana così. Poi darò il nuovo ordine. Preghiamo».
   E pregano ad alta voce…

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Mt 9, 9-13: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati».

Vangelo Novus Ordo Mt 9, 9-13
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, mentre andava via, Gesù, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?».
Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
“Misericordia io voglio e non sacrifici”.

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli  Vetus e Novus ordo

     Cap. XCVII. La chiamata di Matteo.

   4 febbraio 1945. […].

   97.1 Quasi subito dopo vedo questo.
   Ancora la piazza del mercato di Cafarnao. Ma in un’ora più calda, in cui il mercato è già finito e sulla piazza sono solo degli sfaccendati che parlano e dei bambini che giuocano.
   Gesù, in mezzo al suo gruppo, viene dal lago verso la piazza, carezzando bambini che gli corrono incontro e interessandosi alle loro confidenze.
   Una bambina mostra un grande sgraffio sanguinante sulla fronte e accusa il fratellino di averglielo fatto.
   «Perché hai fatto male alla sorella? Non sta bene».
   «Non l’ho fatto apposta. Volevo cogliere quei fichi e ho preso un bastone. Ma era troppo pesante e mi è cascato addosso a lei… Li coglievo anche per lei».
   «È vero, Giovanna?».
   «È vero».
   «Vedi allora che tuo fratello non ti ha voluto fare del male.
   Voleva anzi darti una gioia. Perciò ora fate subito pace e vi date un bacio. I buoni fratellini, e anche i buoni bambini, non devono conoscere mai il rancore. Su…».
   I due bambini piangenti si baciano. Piangono tutti e due: una per il dolore dello sgraffio, l’altro per il dolore di aver dato dolore.
   Gesù sorride davanti a quel bacio condito di lacrimoni. «Oh!
   ecco! Ora, perché vedo che siete buoni, i fichi ve li raccolgo Io. E senza bastone».
   Sfido io! Alto come è, e col braccio così lungo, arriva senza fatica a farlo. Coglie e distribuisce.
   Accorre una donna: «Prendi, prendi, Maestro. Ora ti porto del pane».
   «No. Non è per Me. È per Giovanna e Tobiolo. Ne avevano voglia».
   «E avete disturbato il Maestro per questo? Oh! che indiscreti! Perdona, Signore».
   «Donna, c’era da fare una pace… e l’ho fatta con l’oggetto stesso della guerra: i fichi. Ma i bambini non sono mai indiscreti. A loro piacciono i dolci fichi e a Me… piacciono le loro dolci anime innocenti. Mi levano tanto amaro…».
   «Maestro… sono i signori quelli che non ti amano. Ma noi, popolo, ti vogliamo bene. E loro sono pochi, mentre noi siamo tanti…».
   «Lo so, donna. Grazie del tuo conforto. La pace sia con te.
   Addio, Giovanna! Addio, Tobiolo! Siate buoni. Senza farvi del male e senza volervi del male. Non è vero?».
   «Sì, sì, Gesù», rispondono i due bambinelli. 

   97.2 Gesù si incammina e dice sorridendo: «Oh! ora che con l’aiuto dei fichi si è messo sereno dove erano nubi, andiamo a… Dove dite che andiamo?».
   Gli apostoli non sanno. Chi dice un luogo, chi l’altro. Ma Gesù scrolla sempre il capo e ride.
   Pietro dice: «Io rinuncio. A meno che Tu non lo dica… Ho delle idee nere, oggi. Tu non lo hai visto. Ma quando sbarcavamo c’era Eli, il fariseo. Più verde del solito! E ci guardava in un modo!».
   «Lascialo guardare».
   «Eh! per forza. Ma ti assicuro, Maestro, che per far pace con quello lì non bastano due fichi!».
   «Cosa ho detto alla mamma di Tobiolo? “Ho fatta pace con lo stesso oggetto della guerra”. E così cercherò di fare pace riverendo, posto che secondo loro li ho offesi, i notabili di Cafarnao. Così anche qualcun’altro sarà contento».
   «Chi?».
   Gesù non risponde alla domanda e continua: «Non riuscirò, probabilmente, perché manca la volontà, in loro, di fare pace. Ma udite: se in tutte le contese il più prudente sapesse cedere e, in luogo di accanirsi a voler ragione, conciliasse, magari spartendo a metà quello che, anche voglio ammettere, fosse suo di diritto, sarebbe sempre meglio e più santo. Non sempre uno nuoce col partito preso di nuocere. Delle volte fa male senza volere. Pensate sempre questo e perdonate. Eli e gli altri credono di servire Dio con giustizia agendo come fanno. Con pazienza e costanza, e tanta umiltà e buona grazia, cercherò di farli persuasi che un nuovo tempo è venuto e che Dio, ora, vuole essere servito a seconda che Io insegno. La furbizia dell’apostolo è la buona grazia, l’arma la costanza, la riuscita l’esempio e la preghiera per i convertendi». 

   97.3 Sono giunti sulla piazza. Gesù va diritto verso il banco delle gabelle, dove Matteo sta tirando i suoi conti e verificando le monete, che suddivide per categorie, mettendole in sacchetti di diverso colore e collocandoli in un forziere di ferro, che due servi attendono di trasportare altrove.
   Appena l’ombra gettata dall’alto corpo di Gesù si allunga sul banco, Matteo alza il capo per vedere chi è il ritardatario pagatore. Pietro, intanto, dice, tirando Gesù per una manica: «Non c’è nulla da pagare, Maestro. Che fai?».
   Ma Gesù non gli dà retta. Guarda fisso Matteo, che si è subito alzato in piedi con atto reverente. Un altro sguardo trapanante. Ma questo non è lo sguardo del giudice severo dell’altra volta. È uno sguardo di chiamata e di amore. Lo avviluppa, lo satura di amore. Matteo diventa rosso. Non sa che fare, che dire…
   «Matteo, figlio di Alfeo, l’ora è suonata. Vieni. Seguimi!», impone Gesù maestosamente.
   «Io? Maestro, Signore! Ma sai chi sono? Per Te, non per me lo dico…».
   «Vieni. Seguimi, Matteo, figlio d’Alfeo», ripete più dolce.
   «Oh! come posso aver trovato grazia presso Dio? Io… Io…».
   «Matteo, figlio di Alfeo, Io ti ho letto il cuore. Vieni, seguimi». Il terzo invito è una carezza.
   «Oh! subito, mio Signore!» e Matteo, piangente, esce da dietro il banco, senza neppur occuparsi di raccogliere le monete sparse sul banco, di chiudere il cofano. Nulla.
   «Dove andiamo, Signore?», chiede quando è presso a Gesù.
   «Dove mi porti?».
   «A casa tua. Vuoi ospitare il Figlio dell’uomo?».
   «Oh!… ma… ma che diranno quelli che ti odiano?».
   «Io ascolto quel che si dice in Cielo, e là si dice: “Gloria a Dio per un peccatore che si salva!”, e il Padre dice: “In eterno la Misericordia si alzerà nei Cieli e si librerà sulla Terra e, poiché di un eterno amore, di un perfetto amore Io ti amo, ecco che anche a te uso misericordia”. Vieni. E, con la mia venuta, oltre che il cuore ti si santifichi la casa».
   «Già purificata l’ho, per una speranza che avevo nell’anima mia… ma che la ragione non poteva credere che fosse vera…
   Oh! io coi tuoi santi…», e guarda i discepoli.
   «Sì. Coi miei amici. Venite. Vi unisco. E siate fratelli».
   I discepoli sono talmente stupefatti che non hanno ancor trovato modo di dir parola. Hanno camminato in gruppo dietro a Gesù e Matteo nella piazza tutta sole, e ormai assolutamente vuota di popolo, per un breve tratto di strada che arde in un sole abbacinante. Non c’è un vivente per le strade. Solo il sole e la polvere.

   97.4 Entrano in casa. Una bella casa dal largo portone che si apre sulla via. Un bell’atrio ombroso e fresco, oltre il quale si vede un ampio cortile messo a giardino.
   «Entra, Maestro mio! Portate acqua e bevande».
   I servi accorrono col richiesto. Matteo esce a dare ordini mentre Gesù e i suoi si rinfrescano. Poi torna.
   «Ora vieni, Maestro. La sala è più fresca… Ora verranno amici… Oh! voglio sia fatta gran festa! È la mia rigenerazione… È la mia… è la mia circoncisione vera, questa… Tu mi hai circonciso il cuore col tuo amore… Maestro, sarà l’ultima festa… Ora non più feste per il pubblicano Matteo. Non più feste di questo mondo… Solo la festa interna dell’essere redento e di servire Te… di essere amato da Te… Quanto ho pianto… Quanto, in questi mesi… Sono quasi tre mesi che piango… Non sapevo come fare… volevo venire… Ma come venire da Te, Santo, con la mia anima sporca?…».
   «Tu la lavavi col pentimento e con la carità. Per Me e per il prossimo. Pietro? Vieni qui».
   Pietro, che ancora non ha parlato tanto è sbalordito, viene avanti. I due uomini, ugualmente anziani, bassotti, tarchiati, sono di fronte, e Gesù è fra l’uno e l’altro, sorridente, bello.
   «Pietro, tu mi hai chiesto tante volte chi era lo sconosciuto della borsa portata da Giacomo. Eccolo, lo hai di fronte».
   «Chi? Questo lad… Oh! perdona, Matteo! Ma chi lo poteva pensare che eri tu? e che proprio tu, nostra disperazione per la tua usura, fossi capace di strapparti tutte le settimane un pezzo di cuore dando quel ricco obolo?».
   «Lo so. Vi ho ingiustamente tassati. Ma ecco, io mi inginocchio davanti a voi tutti e vi dico: non mi cacciate! Egli mi ha accolto. Non siate da più di Lui nella severità».
   Pietro, che si trova ai piedi Matteo, lo alza di colpo, di peso, rudemente e affettuosamente: «Su, su. Non a me né agli altri. A Lui chiedi perdono. Noi… va’ là, su per giù siamo tutti ladri come te… Oh! l’ho detto! Maledetta lingua! Ma sono fatto così: quel che penso dico, quel che ho in cuore ho sul labbro. Vieni, che facciamo patto di pace e di amore», e bacia sulle guance Matteo.
   Anche gli altri lo fanno, più o meno affettuosamente. Dico così perché Andrea è sostenuto, per la sua timidezza, e Giuda Iscariota è gelido. Pare che abbracci un fascio di rettili, tanto il suo abbraccio è scostante e breve.

   97.5 Matteo esce, sentendo rumore.
   «Però, Maestro», dice Giuda Iscariota, «mi pare che ciò non sia prudente. Già ti accusano i farisei di qui, e Tu… Un pubblicano fra i tuoi! Un pubblicano dopo una meretrice!… Hai deciso di rovinarti? Se così è, dillo che…».
   «Che noi ce la filiamo, vero?», termina Pietro ironico.
   «E chi parla con te?».
   «Lo so che tu non parli con me, ma io, invece, parlo con la tua signora anima, con la tua purissima anima, con la tua sapiente anima. Lo so che tu, membro del Tempio, senti fetore di peccato in noi, poveri, che del Tempio non siamo. Lo so che tu, completo giudeo, amalgama di fariseo, sadduceo ed erodiano, mezzo scriba e briciola di esseno – ne vuoi altre di nobili parole? – ti senti male fra noi, come uno splendido agone capitato in una rete piena di ghiozzi. Ma che ci vuoi fare? Egli ci ha presi e noi… ci restiamo. Se ti senti male… va’ via tu. Respireremo meglio tutti. Anche Lui, che, lo vedi?, è sdegnato per me e per te. Per me perché manco di pazienza e anche… sì, anche di carità, ma più con te che non capisci nulla, con tutta la tua tela di nobili attributi, e che non hai carità, non umiltà, non rispetto. Nulla hai, ragazzo. Ma solo un gran fumo… e voglia Dio sia fumo innocuo».
   Gesù ha lasciato che Pietro parlasse rimanendo ritto, severo, con le braccia conserte, la bocca ben serrata e gli occhi…
   poco raccomandabili. Alla fine dice: «Hai detto tutto, Pietro?
   Anche tu hai purificato il tuo cuore dal lievito che c’era dentro? Bene hai fatto. Oggi è Pasqua d’Azzimi per un figlio di Abramo. La chiamata del Cristo è come il sangue dell’agnello sulle vostre anime, e dove essa è non scenderà più la colpa. Non scenderà se colui che la riceve ad essa è fedele. Liberazione è la mia chiamata e va festeggiata senza lieviti di sorta».
   A Giuda non una parola. Pietro tace mortificato.
   «L’ospite torna», dice Gesù. «E con degli amici. Non mostriamo ad essi altro che virtù. Chi non riesce a tanto esca. Non siate pari a farisei, che opprimono con comandi che loro per primi non osservano».

   97.6 Rientra Matteo con altri uomini, e il convito ha luogo. Gesù è al centro, tra Pietro e Matteo. Parlano di molte cose e Gesù con pazienza spiega a questo e a quello[30] quanto vogliono. Vi sono anche lamenti sui farisei che li sprezzano.
   «Ebbene, venite a chi non vi sprezza. E poi agite in modo che i buoni, almeno, non vi possano sprezzare», risponde Gesù.
   «Tu sei buono. Ma sei solo!».
   «No. Questi sono come Me, e poi… c’è il Padre Iddio che ama chi si pente e vuole tornare suo amico. E mancasse all’uomo ogni cosa, ma restasse il Padre, non sarebbe già piena la gioia dell’uomo?».
   Il convito è ai dolciumi quando un servo fa un cenno al padrone di casa e gli dice qualche cosa.
   «Maestro: Eli, Simone e Gioachino chiedono di entrare e parlarti. Li vuoi vedere?».
   «Certo».
   «Ma… i miei amici sono pubblicani».
   «Ed essi vengono per vedere proprio questo. Lasciamolo loro vedere. Non servirebbe il nasconderlo. Non servirebbe per il bene, ché il male aumenterebbe l’episodio sino a dire che qui erano anche meretrici. Entrino».

   97.7 Entrano i tre farisei, si guardano intorno con un riso cattivo e stanno per parlare.
   Ma Gesù, che si è alzato e andato loro incontro insieme a Matteo, li precede. Mette una mano sulla spalla di Matteo e dice: «O veri figli di Israele, Io vi saluto e vi do una grande notizia che certo farà giubilante il vostro cuore di perfetti israeliti, che sospira all’osservanza della Legge da parte di tutti i cuori per dare gloria a Dio. Ecco: Matteo, figlio di Alfeo, da oggi non è più il peccatore, lo scandalo di Cafarnao. Una pecora rognosa di Israele si è sanata. Giubilate! Dietro a lui altre pecore peccatrici si saneranno e la vostra città, della cui santità tanto vi interessate, diverrà gradita al Signore come santa. Egli lascia tutto per servire Dio. Date il bacio di pace all’israelita sviato che torna nel seno di Abramo».
   «E vi torna coi pubblicani? In gaio convito? Oh! invero che è una conversione propizia! Guarda là, Eli, quello è Giosia, il procacciatore di femmine».
   «E quello Simon d’Isacco, l’adultero».
   «E quello? Ecco Azaria, il biscazziere nella cui bisca romani e giudei giuocano, rissano, si ubbriacano e vanno a donne».
   «Ma, Maestro. Sai almeno chi sono costoro? Lo sapevi?».
   «Lo sapevo».
   «E voi, allora, voi di Cafarnao, voi discepoli, perché lo avete permesso? Mi fa stupore, Simone di Giona!».
   «E tu, Filippo, noto anche qui, e tu Natanaele! Ma io trasecolo! Tu, vero israelita! Come mai hai permesso che il tuo Maestro mangiasse coi pubblicani e i peccatori?».
   «Ma non c’è dunque più ritegno in Israele».
   I tre sono scandalizzati del tutto.
   Gesù dice: «Lasciate in pace i miei discepoli. Io l’ho voluto. Io solo».
   «Eh! già! si capisce. Quando si vuol fare i santi e non lo si è, si cade presto in errori imperdonabili!».
   «E quando si allevano al non rispetto i discepoli – e ancor mi brucia la risata irriverente di costui, giudeo e del Tempio, a me Eli il fariseo! – non si può che esser senza rispetto per la Legge. Si insegna ciò che si sa».
   «Ti sbagli, Eli. Vi sbagliate tutti. Si insegna ciò che si sa. È vero. Ed Io, che so la Legge, la insegno a chi non la sa: ai peccatori, perciò. Voi… vi so già padroni della vostra anima. I peccatori non lo sono. Io ricerco la loro anima, la ridò loro, perché a loro volta me la portino, così come è: malata, ferita, sporca, ed Io la curi e mondi. Sono venuto per questo. Sono i peccatori che hanno bisogno del Salvatore. Ed Io vengo a salvarli. Comprendetemi… e non mi odiate senza ragione».
   Gesù è dolce, persuasivo, umile… Ma i tre sono tre ispidi cardi tutti aculei… ed escono con mosse di disgusto.
   «Sono andati… Ora ci criticheranno dovunque», mormora Giuda Iscariota.
   «E lasciali fare! Fa’ solo che il Padre non ti abbia a criticare. Non esser mortificato, Matteo, né voi, suoi amici. La coscienza ci dice: “Non fate del male”. Basta così».
   Gesù si risiede al suo posto e tutto ha fine.

[30] a questo e a quello, invece di a Tizio e Caio, è correzione di MV su una copia dattiloscritta. 

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Lc 8, 16-18: «Non c’è nulla di segreto che non sia manifestato, nulla di nascosto che non sia conosciuto e venga in piena luce».

Vangelo Novus Ordo Lc 8, 16-18
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la mette sotto un letto, ma la pone su un candelabro, perché chi entra veda la luce.
Non c’è nulla di segreto che non sia manifestato, nulla di nascosto che non sia conosciuto e venga in piena luce.
Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
«Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere».

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo


CLXIX. Primo discorso della Montagna: la missione degli apostoli e dei discepoli.

   22 maggio 1945.

   169.1 Gesù va solo e svelto per una via maestra. Diretto verso un monte che è bene spiegare come è fatto.

   Dunque questo monte, che si alza presso la via maestra che dal lago va a ovest, dopo qualche tempo dà inizio di sé con una dolce e bassa elevazione che si prolunga per molto spazio, un pianoro da cui si vede tutto il lago con la città di Tiberiade verso il sud e le altre, meno belle, che salgono verso il nord. Poi il monte ha un altro balzo in altezza e sale con una salita piuttosto accentuata fino ad un picco, che poi si abbassa per rialzarsi di nuovo con un picco simile, in una bizzarra forma di sella.
   Gesù intraprende la salita al pianoro per una mulattiera ancora abbastanza bella e raggiunge un paesetto, i cui abitanti certo sono lavoratori di questa pianura sopraelevata dove già il grano tende a spighire. Traversa il paese e procede fra i campi e i prati tutti sparsi di fiori e tutti fruscianti di messi. Il giorno è sereno e mostra tutte le bellezze della natura circostante.
   Oltre la solitaria montagnola, alla quale si dirige Gesù, vi è al nord la vetta imponente dell’Hermon, la cui sommità pare un’enorme perla posata su una base di smeraldi, tanto è candida la cima incappucciata di neve mentre è verde la pendice per i boschi che la coprono. Oltre il lago, ma fra questo e l’Hermon, la pianura verde dove è il lago di Meron, che però da qui non si vede, e poi altri monti che vanno verso il lago di Tiberiade nel lato nord occidentale e, oltre il lago, monti ancora, in lontananze che li ammorbidiscono, e altre dolci pianure. A sud, oltre la via maestra, le colline che credo celino Nazaret. Più si sale e più la vista spazia. Non vedo ciò che è ad occidente perché il monte fa da parete.

   169.2 Gesù incontra per primo l’apostolo Filippo, che pare messo di sentinella in quel posto. «Come, Maestro? Tu qui? Ti attendevamo sulla via. Io sono qua ad attendere i compagni andati in cerca di latte presso dei pastori che pasturano su queste cime. In basso, alla via, è Simone con Giuda di Simone e con loro sono Isacco e… Oh! ecco. Venite! Venite! È qui il Maestro!».
   Gli apostoli, che stanno scendendo con fiaschette e borracce, si danno a correre e i più giovani arrivano naturalmente per primi. La loro festa al Maestro è commovente. Infine si sono riuniti e mentre Gesù sorride vogliono tutti parlare, raccontare… «Ma ti aspettavamo sulla via!».
   «Avevamo pensato che non venissi neppure per oggi».
   «C’è tanta gente, sai?».
   «Oh! ma eravamo molto impicciati perché ci sono scribi e persino dei discepoli di Gamaliele…».
   «Ma sì, Signore! Ci hai lasciati proprio sul momento buono!
   Non ho mai avuto tanta paura come in quel momento. Non me lo fare più uno scherzo così!».
   Pietro si lamenta e Gesù sorride e chiede: «Ma vi è accaduto del male?».
   «Oh! no! Anzi… Oh! mio Maestro! Ma non sai che Giovanni ha parlato?… Pareva che Tu parlassi in lui. Io… noi eravamo sbalorditi… Questo ragazzo, che solo un anno fa era capace solo di gettare la rete… oh!». Pietro è ancora ammirato e si scrolla il ridente Giovanni che tace. «Guardate se pare possibile che questo fanciullo abbia detto con questa bocca ridente quelle parole! Pareva Salomone».
   «Anche Simone ha parlato bene, mio Signore. È stato proprio il “capo”», dice Giovanni.
   «Sfido io! Mi ha preso e messo lì! Mah!… Dicono che ho parlato bene. Sarà. Io non lo so… perché tra lo stupore per le parole di Giovanni e la paura di parlare in mezzo a tanti e di farti fare una brutta figura, ero sbalordito…».
   «Di farmi fare? A Me? Ma eri tu che parlavi e la brutta figura l’avresti fatta tu, Simone», lo stuzzica Gesù.
   «Oh! per me… Non mi importava niente di me. Non volevo che ti schernissero come stolto per avere preso un ebete per tuo apostolo».
   Gesù sfavilla di gioia per l’umiltà e l’amore di Pietro. Ma non chiede che: «E gli altri?».
   «Anche lo Zelote ha parlato bene. Ma lui… si sa. Questo è stato la sorpresa! Ma già, da quando siamo stati in orazione, il ragazzo pare sempre coll’anima in Cielo».
   «È vero! È vero!». Tutti confermano le parole di Pietro. E poi continuano a narrare.
   «E sai? Fra i discepoli ora ci sono due che, a detta di Giuda di Simone, sono molto importanti. Giuda si dà molto da fare. Eh! già! Lui conosce molti di quelli… in su, e li sa trattare. E gli piace parlare… Parla bene. Ma la gente preferisce sentire Simone, i tuoi fratelli e soprattutto questo ragazzo. Ieri un uomo mi ha detto: “Parla bene quel giovane (era di Giuda che parlava) ma preferisco te a lui”. Oh! poveretto! Preferire me che non so che dire quattro parole!… Ma perché sei venuto qui? Il luogo di incontro era sulla via, e là siamo stati».
   «Perché sapevo che vi avrei trovati qui.

   169.3 Ora udite. Scendete e dite agli altri di venire. Anche ai discepoli noti. E che la gente non venga per oggi. Voglio parlare a voi soli».
   «Allora è meglio attendere a sera. Quando ha inizio il tramonto la gente si sparge per le borgate vicine e torna al mattino attendendo Te. Se no… chi li tiene?».
   «Va bene. Fate così. Vi attendo là, sulla cima. La notte è ormai mite. Possiamo dormire anche all’aperto».
   «Dove vuoi, Maestro. Basta Tu sia con noi».
   I discepoli vanno e Gesù riprende a salire fino alla cima, che è quella già vista nella visione dello scorso anno[8] per la fine del discorso del Monte e per il primo incontro con la Maddalena. Ancora più ampio è il panorama che si sta facendo acceso per il tramonto che si inizia.
   Gesù si siede su un masso e si raccoglie in meditazione. E così sta finché lo scalpiccio dei passi sul sentiero non lo fa avvertito che gli apostoli sono di ritorno. La sera si fa vicina. Ma su quell’altura ancora il sole persiste traendo odore da ogni erba e fioretto. Dei mughetti selvaggi odorano forte e gli alti steli dei narcisi scuotono le loro stelle e i loro bocci come per chiamare le rugiade.
   Gesù si alza in piedi e saluta col suo: «La pace sia con voi».
   Sono molti i discepoli che salgono con gli apostoli. Isacco li capitana col suo sorriso d’asceta sul volto sottile. Si affollano tutti intorno a Gesù che sta salutando particolarmente Giuda Iscariota e Simone lo Zelote.
   «Vi ho voluti tutti con Me, per stare qualche ora con voi soli e per parlare a voi soli. Ho qualcosa da dirvi per prepararvi sempre più alla missione. Prendiamo il cibo e poi parleremo, e nel sonno l’anima continuerà ad assaporare la dottrina».
   Consumano la parca cena e poi si stringono a cerchio intorno a Gesù seduto su un pietrone. Sono un centinaio circa, forse più, fra discepoli e apostoli. Una corona di volti attenti che la fiamma di due fuochi rischiara bizzarramente.

   169.4 Gesù parla piano, gestendo pacato, col viso che pare più bianco, emergente come è dall’abito azzurro cupo e al raggio della luna novella che scende proprio dove è Lui, una piccola virgola di luna nel cielo, una lama di luce che carezza il Padrone del Cielo e della Terra.
   «Vi ho voluti qui, in disparte, perché siete i miei amici. Vi ho chiamati dopo la prima prova fatta dai dodici, e per allargare il cerchio dei miei discepoli operanti e per udire da voi le prime reazioni dell’essere diretti da coloro che Io do a voi come miei continuatori. So che tutto è andato bene. Io sorreggevo con la preghiera le anime degli apostoli usciti dall’orazione con una forza nuova nella mente e nel cuore. Una forza che non viene da studio umano ma da completo abbandono in Dio.

   169.5 Coloro che più hanno dato sono coloro che più si sono dimenticati.
   Dimenticare se stessi è ardua cosa. L’uomo è fatto di ricordi, e quelli che più hanno voce sono i ricordi del proprio io. Bisogna distinguere fra l’io e l’io. Vi è lo spirituale io dato dall’anima che si ricorda di Dio e della sua origine da Dio, e vi è l’io inferiore della carne che si ricorda di mille esigenze che tutto abbracciano di se stessa e delle passioni e che – poiché sono tante voci da fare un coro – e che soverchiano, se lo spirito non è ben robusto, la voce solitaria dello spirito che ricorda la sua nobiltà di figlio di Dio. Perciò – meno che per questo ricordo santo che bisognerebbe sempre più aizzare e tenere vivo e forte – perciò per essere perfetti come discepoli bisogna sapere dimenticare se stessi, in tutti i ricordi, le esigenze, le pavide riflessioni dell’io umano.
   In questa prima prova, fra i miei dodici, coloro che hanno più dato sono coloro che più si sono dimenticati. Dimenticati non solo per il loro passato, ma anche nella loro limitata personalità. Sono coloro che non si sono più ricordati di ciò che erano e si sono talmente fusi a Dio da non temere. Di nulla.
   Perché le sostenutezze di alcuni? Perché si sono ricordati i loro scrupoli abituali, le loro abituali considerazioni, le loro abituali prevenzioni. Perché le laconicità di altri? Perché si sono ricordati le loro incapacità dottrinali e hanno temuto di fare brutte figure o di farmele fare. Perché le vistose esibizioni di altri ancora? Perché questi si sono ricordati le loro abituali superbie, i desideri di mettersi in vista, di essere applauditi, di emergere, di essere “qualcosa”. Infine, perché l’improvviso svelarsi di altri in una rabbinica oratoria sicura, persuasiva, trionfale? Perché questi, e questi soli – così come quelli che fino allora umili e cercanti di passare inosservati e che al momento buono hanno saputo di colpo assumere la dignità di primato a loro conferita e non mai voluta esercitare per tema di troppo presumere – hanno saputo ricordarsi di Dio. Le prime tre categorie si sono ricordate dell’io inferiore. L’altra, la quarta, dell’io superiore, e non hanno temuto. Sentivano Dio con sé, Dio in sé, e non hanno temuto. Oh! santo ardimento che viene dall’essere con Dio!

   169.6 Or dunque ascoltate, e voi e voi, apostoli e discepoli. Voi apostoli avete già sentito questi concetti. Ma ora li capirete con più profondità. Voi discepoli non li avete ancora uditi o ne avete udito frammenti. E vi necessita di scolpirveli nel cuore. Perché Io sempre più vi userò, dato che sempre più cresce il gregge di Cristo. Perché il mondo sempre più vi assalirà, crescendo in esso i lupi contro Me Pastore e contro il mio gregge, ed Io voglio mettervi in mano le armi di difesa della Dottrina e del gregge mio. Quanto basta al gregge non basta a voi, piccoli pastori. Se è lecito alle pecore di commettere errori, brucando erbe che fanno amaro il sangue o folle il desiderio, non è lecito che voi commettiate gli stessi errori, portando molto gregge a rovina. Perché pensate che là dove è un pastore idolo periscono per veleno le pecore o per assalto di lupi.

   169.7 Voi siete il sale della Terra e la luce del mondo. Ma se falliste alla vostra missione diverreste un insipido e inutile sale. Nulla più potrebbe ridarvi sapore, posto che Dio non ve l’ha potuto dare, posto che avendolo avuto in dono voi lo avete dissalato lavandolo con le insipide e sporche acque dell’umanità, addolcendolo con il corrotto dolciore del senso, mescolando al puro sale di Dio detriti e detriti di superbia, avarizia, gola, lussuria, ira, accidia, di modo che risulta un granello di sale ogni sette volte sette granelli di ogni singolo vizio. Il vostro sale allora non è che una mescolanza di pietre in cui si sperde il misero granello sperduto, di pietre che stridono sotto il dente, che lasciano in bocca sapore di terra e fanno ripugnante e sgradito il cibo. Neppur più per usi inferiori è buono, ché farebbe nocumento anche alle missioni umane un sapere infuso nei sette vizi. E allora il sale non serve che ad essere sparso e calpestato sotto i piedi incuranti del popolo. Quanto, quanto popolo potrà calpestare così gli uomini di Dio! Perché questi vocati avranno permesso al popolo di calpestarli incurante, dato che non sono più sostanza alla quale si accorre per avere sapore di elette, di celesti cose, ma saranno unicamente detriti.
   Voi siete la luce del mondo. Voi siete come questo culmine che fu l’ultimo a perdere il sole ed è il primo a inargentarsi di luna. Chi è posto in alto brilla ed è visto perché l’occhio anche più svagato si posa qualche volta sulle alture. Direi che l’occhio materiale, che viene detto specchio dell’anima, riflette l’anelito dell’anima, l’anelito inavvertito spesso ma sempre vivente finché l’uomo non è un demone, l’anelito dell’alto, dell’alto dove la istintiva ragione colloca l’Altissimo. E cercando i Cieli alza, almeno qualche volta nella vita, l’occhio alle altezze.
   Vi prego di ricordarvi di ciò che facciamo tutti, fin dalla fanciullezza, entrando in Gerusalemme. Dove corrono gli sguardi?
   Al monte Moria, incoronato dal trionfo di marmo e oro del Tempio. E che, quando siamo nel recinto dello stesso? Di guardare le cupole preziose che splendono al sole. Quanto bello è nel sacro recinto, sparso nei suoi atrii, nei suoi portici e cortili! Ma l’occhio corre lassù. Ancora vi prego ricordarvi di quando si è in cammino. Dove va il nostro occhio, quasi per dimenticare la lunghezza del cammino, la monotonia, la stanchezza, il calore o il fango? Alle cime, anche se piccole, anche se lontane. E con che sollievo le vediamo apparire se siamo in una pianura piatta e uniforme! Qui è fango? Là è nitore. Qui è afa? Là è frescura. Qui è limitazione all’occhio? Là è ampiezza. E solo a guardarle ci sembra meno caldo il giorno, meno viscido il fango, meno triste l’andare. Se poi una città splende in cima al monte, ecco che allora non vi è occhio che non l’ammiri. Si direbbe che anche un luogo da poco si abbelli se si posa, quasi aereo, sul culmine di una montagna. Ed è per questo che nella vera e nelle false religioni, sol che si sia potuto, si sono posti i templi in alto e, se un colle od un monte non c’era, si è fatto ad essi un piedestallo di pietre, costruendo a fatica di braccia l’elevazione su cui posare il tempio. Perché si fa questo? Perché si vuole che il tempio sia visto per richiamare con la sua vista il pensiero a Dio.
   Ugualmente ho detto che voi siete una luce. Chi accende un lume a sera in una casa dove lo mette? Nel buco sotto il forno? Nella caverna che fa da cantina? O chiuso dentro un cassapanco? O anche semplicemente e solamente lo si opprime col moggio? No. Perché allora sarebbe inutile accenderlo. Ma si pone il lume sull’alto di una mensola, o lo si appende al suo portalume perché essendo alto rischiari tutta la stanza e illumini tutti gli abitanti in essa. Ma appunto perché ciò che è posto in alto ha incarico di ricordare Iddio e di fare luce, deve essere all’altezza del suo compito.

   169.8 Voi dovete ricordare il Dio vero. Fate allora di non avere in voi il paganesimo settemplice. Altrimenti diverreste alti luoghi profani con boschetti sacri a questo o quel dio e trascinereste nel vostro paganesimo coloro che vi guardano come templi di Dio. Voi dovete portare la luce di Dio. Un lucignolo sporco, un lucignolo non nutrito di olio, fuma e non fa luce, puzza e non illumina. Una lampada nascosta dietro un quarzo sudicio non crea la leggiadria splendida, non crea il fulgido giuoco della luce sul lucido minerale. Ma langue dietro il velo di nero fumo che fa opaco il diamantifero riparo.
   La luce di Dio splende là dove è solerte la volontà a pulire giornalmente dalle scorie che lo stesso lavoro, coi suoi contatti, e reazioni, e delusioni, produce. La luce di Dio splende là dove il lucignolo è immerso in abbondante liquido di orazione e di carità. La luce di Dio si moltiplica in infiniti splendori, quante sono le perfezioni di Dio delle quali ognuna suscita nel santo una virtù esercitata eroicamente, se il servo di Dio tiene netto il quarzo inattaccabile della sua anima dal nero fumo di ogni fumigante mala passione. Inattaccabile quarzo. Inattaccabile! (Gesù tuona in questa chiusa e la voce rimbomba nell’anfiteatro naturale).
   Solo Dio ha il diritto e il potere di rigare quel cristallo, di scriverci sopra col diamante del suo volere il suo santissimo Nome. Allora quel Nome diviene ornamento che segna un più vivo sfaccettare di soprannaturali bellezze sul quarzo purissimo. Ma se lo stolto servo del Signore, perdendo il controllo di sé e la vista della sua missione, tutta e unicamente soprannaturale, si lascia incidere falsi ornamenti, sgraffi e non incisioni, misteriose e sataniche cifre fatte dall’artiglio di fuoco di Satana, allora no, che la lampada mirabile non splende più bella e sempre integra, ma si crepa e rovina, soffocando sotto i detriti del cristallo scheggiato la fiamma, o se non si crepa fa un groviglio di segni di inequivocabile natura nei quali si deposita la fuligine e si insinua e corrompe.

   169.9 Guai, tre volte guai ai pastori che perdono la carità, che si rifiutano di ascendere giorno per giorno per portare in alto il gregge che attende la loro ascesi per ascendere. Io li percuoterò abbattendoli dal loro posto e spegnendo del tutto il loro fumo.
   Guai, tre volte guai ai maestri che ripudiano la Sapienza per saturarsi di scienza sovente contraria, sempre superba, talora satanica, perché li fa uomini mentre – udite e ritenete – mentre se ogni uomo ha destino di divenire simile a Dio, con la santificazione che fa dell’uomo un figlio di Dio, il maestro, il sacerdote ne dovrebbe avere già l’aspetto dalla Terra, e questo solo, di figlio di Dio. Di creatura tutt’anima e perfezione dovrebbe avere aspetto. Dovrebbe avere, per aspirare a Dio i suoi discepoli. Anatema ai maestri di soprannaturale dottrina che divengono idoli di umano sapere.
   Guai, sette volte guai ai morti allo spirito fra i miei sacerdoti, a quelli che col loro insapore, col loro tepore di carne mal viva, col loro sonno pieno di allucinate apparizioni di tutto ciò che è fuorché Dio uno e trino, pieno di calcoli di tutto ciò che è fuorché soprumano desiderio di aumentare le ricchezze dei cuori e di Dio, vivono umani, meschini, torpidi, trascinando nelle loro acque morte quelli che li seguono credendoli “vita”.
   Maledizione di Dio sui corruttori del mio piccolo, amato gregge. Non a coloro che periscono per ignavia vostra, o inadempienti servi del Signore, ma a voi, di ogni ora e di ogni tempo, e per ogni contingenza e per ogni conseguenza, Io chiederò ragione e vorrò punizione.
   Ricordatevi queste parole. Ed ora andate. Io salgo sulla cima. Voi dormite pure. Domani, per il gregge, il Pastore aprirà i pascoli della Verità».


    Cap. CLXXX. Disputa nella cucina di Pietro a Betsaida. Spiegazione della parabola del seminatore. La notizia della seconda cattura del Battista.

   7 giugno 1945.

   180.1 Eccoci di nuovo nella cucina di Pietro. La cena deve essere stata abbondante, perché i piatti coi resti di pesce e di carne, di formaggi, di frutta secche o per lo meno avvizzite, di focacce di miele, si ammucchiano su una specie di credenza che ricorda un poco le nostre madie toscane, e anfore con calici sono ancora sparsi sulla tavola.

    La moglie di Pietro deve aver fatto miracoli per fare contento il marito e deve avere lavorato tutta la giornata. Ora, stanca ma contenta, sta nel suo angolino e ascolta ciò che dice il suo uomo e ciò che dicono gli altri. Lo guarda, il suo Simone, che per lei deve essere un grande uomo anche se un poco esigente, e quando lo sente parlare con parole nuove su quella bocca che prima parlava solo di barche, di reti, di pesci e di denaro, ha persino uno sbattimento di palpebre come fosse abbagliata da troppa luce. Pietro, sia per la gioia di avere alla sua tavola Gesù, sia per la gioia dell’abbondante pasto consumato, è proprio in vena questa sera, e si rivela in lui il futuro Pietro che predica alle folle.
   Non so quale osservazione di un compagno abbia originato la risposta scultorea di Pietro che dice: «Avverrà loro come ai fondatori della torre di Babele[27]. La loro stessa superbia provocherà il crollo delle loro teorie e rimarranno schiacciati».
   Al fratello obbietta Andrea: «Ma Dio è Misericordia. Impedirà il crollo per dare loro tempo di ravvedersi».
   «Non te lo pensare. A coronamento della loro superbia metteranno calunnia e persecuzione. Oh! io già me lo sento. Persecuzioni su noi per disperderci come testimoni odiosi. E, posto che attaccheranno con insidia la Verità, Dio farà le vendette ed essi periranno».
   «Avremo noi forza di resistenza?», chiede Tommaso.
   «Ecco… per me non l’avrei. Ma fido in Lui», e Pietro accenna il Maestro, che ascolta e tace stando un poco a capo chino come per tenere nascosto il suo viso espressivo.
   «Io penso che Dio non ci darà prove superiori alle nostre forze», dice Matteo.
   «O per lo meno aumenterà le forze in proporzione delle prove», termina Giacomo d’Alfeo.
   «Egli lo fa già.

   180.2 Io ero ricco e potente. Se Dio non mi avesse voluto conservare per un suo fine, io sarei perito nella disperazione quando fui perseguitato e lebbroso. Avrei infierito su me stesso… Invece nel mio crollo completo scese una ricchezza nuova che non avevo mai posseduta prima, la ricchezza di una persuasione: “Dio c’è”. Prima… Dio… Sì, ero credente, ero un fedele israelita. Ma era una fede di formalismi. E mi pareva che il premio della stessa fosse sempre inferiore alle mie virtù. Mi permettevo di discutere con Dio perché mi sentivo ancora qualcosa sulla Terra. Simon Pietro ha ragione. Io pure costruivo una torre di Babele con le autolodi e le soddisfazioni del mio io. Quando tutto mi crollò addosso, e fui un verme schiacciato dal peso di tutto questo inutile umano, allora non discussi più con Dio, ma con me stesso, col mio pazzo me stesso, e finii di demolirlo. E più lo facevo, facendo strada a ciò che io penso sia il Dio immanente sul nostro essere di terrestri, ecco che raggiungevo una forza, una ricchezza nuova. La certezza che non ero solo e che Dio vegliava sull’uomo vinto dall’uomo e dal male».
   «Secondo te, che pensi che sia Dio, questo che tu hai detto “il Dio immanente sul nostro essere di terrestri”? Che vuoi dire? Non ti comprendo e mi pare un’eresia. Dio è quello che conosciamo attraverso la Legge ed i Profeti. Non ve ne è altro», dice un poco severo Giuda Iscariota.
   «Se ci fosse Giovanni te lo direbbe meglio di me. Ma io te lo dico come so. Dio è quello che conosciamo attraverso la Legge e i Profeti. È vero. Ma in che lo conosciamo? Come?».
   Giuda d’Alfeo scatta: «Poco e male. Ancora lo conoscevano essi, i Profeti che ce lo hanno descritto. Noi ne abbiamo l’idea confusa che trapela dall’ingombro di tutta una catasta accumulata dalle sètte…».
   «Sètte? Ma come parli? Noi non abbiamo sètte. Noi siamo i figli della Legge. Tutti», dice l’Iscariota sdegnato, aggressivo.
   «I figli delle leggi. Non della Legge. È una lieve differenza. Dal singolare al plurale. Ma nella sua realtà ciò è: che siamo figli di ciò che abbiamo creato, e non più di ciò che Dio ci ha dato», ribatte il Taddeo.
   «Le leggi sono nate dalla Legge», dice l’Iscariota.
   «Anche le malattie nascono dal nostro corpo, e non mi vorrai dire che sono cose buone», replica il Taddeo.
   «Ma lasciatemi sapere cosa è il Dio immanente di Simone Zelote». L’Iscariota, che non può ribattere alla osservazione di Giuda d’Alfeo, cerca di ricondurre la questione al punto di partenza.

   180.3 Simone Zelote dice: «Ai nostri sensi occorre sempre un termine per afferrare un’idea. Ognuno di noi, parlo di noi credenti, crede per forza di fede all’Altissimo, Signore e Creatore, eterno Iddio che sta nel Cielo. Ma anche ogni essere ha bisogno di più di questa nuda fede, vergine, incorporea, atta e sufficiente agli angeli che vedono e amano Dio spiritualmente, condividendo con Lui la natura spirituale e avendo capacità di vedere Dio. Noi abbiamo bisogno di crearci una “figura” di Dio, la quale figura è fatta delle qualità essenziali che doniamo a Dio per dare un nome alla sua perfezione assoluta, infinita. Più l’anima si concentra e più riesce a raggiungere l’esattezza nella cognizione di Dio. Ecco ciò che io dico: il Dio immanente. Io non sono un filosofo. Forse avrò applicato male la parola. Ma insomma per me il Dio immanente è il sentire, il percepire Dio sul nostro spirito, e sentirlo e percepirlo non più come idea astratta ma come reale presenza datrice di una fortezza e di una pace nuova».
   «Va bene. Ma insomma come lo sentivi? Quale differenza c’è fra il sentire per fede e sentire per immanenza?», chiede un poco ironico l’Iscariota.
   «Dio è sicurezza, ragazzo. Quando tu lo senti come dice Simone, con quella parola che io non capisco alla lettera ma della quale capisco lo spirito – e credi che il nostro male è di capire solo la lettera e non lo spirito delle parole di Dio – vuol dire che riesci ad afferrare non solo il concetto della maestà terribile, ma della paternità dolcissima di Dio. Vuol dire che senti che, quando tutto il mondo ti giudicasse e condannasse con ingiustizia, Uno solo, Lui, l’Eterno che ti è padre, non ti giudica ma ti assolve e consola. Vuol dire che senti che quando tutto il mondo ti odiasse tu sentiresti su te un amore più grande di tutto il mondo. Vuol dire che segregato in una carcere o in un deserto tu sentiresti sempre che Uno ti parla e dice: “Sii santo per essere come il Padre tuo”. Vuol dire che per l’amore vero a questo Padre Dio, che finalmente si arriva a sentire tale, si accetta, si opera, si prende o si lascia senza misure umane, pensando solo a rendere amore per amore, a copiare il più possibile Dio nelle proprie azioni», dice Pietro.
   «Sei superbo! Copiare Dio! Non ti è concesso», giudica l’Iscariota.
   «Non è superbia. L’amore porta all’ubbidienza. Copiare Dio mi sembra ancora una forma di ubbidienza, perché Dio dice di averci fatto a sua immagine e somiglianza», replica Pietro.
   «Ci ha fatto. Noi non dobbiamo andare più su».
   «Ma sei un disgraziato se pensi così, caro ragazzo! Tu dimentichi che noi siamo decaduti e che Dio ci vuole riportare a ciò che eravamo».

   180.4 Gesù prende la parola: «Più ancora, Pietro, Giuda e voi tutti. Più ancora. La perfezione di Adamo era ancora suscettibile di aumento mediante l’amore che lo avrebbe portato ad una immagine sempre più esatta del suo Creatore. Adamo senza la macchia del peccato sarebbe stato un tersissimo specchio di Dio. Per questo Io dico: “Siate perfetti come è perfetto il Padre che è nei Cieli”. Come il Padre. Perciò come Dio. Pietro ha detto molto bene. E molto bene Simone. Vi prego ricordare le loro parole e applicarle alle vostre anime».
   La moglie di Pietro per poco si sviene nella gioia di sentire lodare così suo marito. Piange dentro il suo velo, quieta e beata.
   Pietro sembra gli venga un colpo apoplettico tanto diventa rosso. Resta muto per qualche momento e poi dice: «Ebbene, allora dàmmi il premio. La parabola di stamane…».
   Anche gli altri si uniscono a Pietro dicendo: «Sì. Lo hai promesso. Le parabole servono bene a fare comprendere il paragone. Ma noi comprendiamo che esse hanno uno spirito superiore al paragone.

   180.5 Perché parli ad essi in parabole?».
   «Perché a loro non è concesso di intendere più di ciò che spiego. A voi va dato molto di più perché voi, miei apostoli, dovete conoscere il mistero; e vi è perciò dato di intendere i misteri del Regno dei Cieli. Per questo vi dico: “Domandate se non comprendete lo spirito della parabola”. Voi date tutto, e tutto vi va dato perché a vostra volta tutto voi possiate dare. Voi tutto date a Dio: affetti, tempo, interessi, libertà, vita. E tutto Dio vi dà per compensarvi e per farvi capaci di tutto dare in nome di Dio a chi è dopo di voi. Così a chi ha dato sarà dato e con abbondanza. Ma a chi non ha dato che parzialmente o non ha dato affatto, sarà tolto anche quello che ha.
   Parlo loro in parabole perché vedendo vedano solo quello che la loro volontà di aderire a Dio illumina, perché udendo, sempre per la stessa loro volontà di adesione, odano e comprendano. Voi vedete! Molti odono la mia parola, pochi aderiscono a Dio. I loro spiriti sono monchi della buona volontà. In loro si adempie la profezia[28] di Isaia: “Udirete con le orecchie e non intenderete, guarderete con gli occhi e non vedrete”. Perché questo popolo ha un cuore insensibile; sono duri gli orecchi e hanno chiusi gli occhi per non vedere e per non sentire, per non intendere col cuore e non convertirsi acciò Io li guarisca. Ma voi beati per i vostri occhi che vedono e i vostri orecchi che odono, per la vostra buona volontà!
   In verità vi dico che molti profeti e molti giusti desiderarono vedere ciò che voi vedete e non lo videro, e udire ciò che voi udite e non l’udirono. Si consumarono nel desiderio di comprendere il mistero delle parole, ma spenta la luce della profezia ecco le parole rimanere come carboni spenti, anche per il santo che le aveva avute.
   Solo Dio disvela Se stesso. Quando la sua luce si ritrae, terminato il suo scopo di illuminare il mistero, l’incapacità di intendere fascia, come le bende di una mummia, la regale verità della parola ricevuta. Per questo Io ti ho detto stamane: “Verrà un giorno che ritroverai tutto quanto ti ho dato”. Ora non puoi ritenere. Ma dopo la luce verrà su te, e non per un attimo ma per un inseparabile connubio dello Spirito eterno col tuo, onde infallibile sarà il tuo ammaestramento in ciò che è cosa del Regno di Dio. E, così come in te, nei tuoi successori, se vivranno di Dio come di unico pane.[29]

   180.6 Ora sentite lo spirito della parabola.
   Abbiamo quattro generi di campi: quelli fertili, quelli spinosi, quelli sassosi, quelli pieni di sentieri. Abbiamo anche quattro generi di spiriti.
   Abbiamo gli spiriti onesti, gli spiriti di buona volontà, preparati dalla stessa e dalla buona opera di un apostolo, di un “vero” apostolo; perché ci sono apostoli che hanno il nome ma non lo spirito di apostoli, i quali sono più micidiali sulle volontà in formazione degli stessi uccelli, spini e sassi. Sconvolgono in modo tale, con le loro intransigenze, con le loro frette, con i loro rimproveri, con le loro minacce, che allontanano per sempre da Dio. Altri ve ne sono che, all’opposto, con un innaffiamento continuo di benignità fuori posto, fanno marcire il seme in un terreno troppo molle. Devirilizzano con la loro devirilizzazione gli animi che curano. Ma stiamo ai veri apostoli, ossia agli specchi tersi di Dio. Essi sono paterni, misericordiosi, pazienti, e nello stesso tempo forti come è il loro Signore. Or bene, gli spiriti preparati da questi e dalla loro propria volontà sono paragonabili ai campi fertili, mondi di pietre e di rovi, netti da gramigne e da logli, in cui prospera la parola di Dio, e ogni parola – un seme – fa cespo e spighe, dando dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta per cento. In questi che mi seguono ce ne sono? Certo. E santi saranno. Fra essi ce ne sono di tutte le caste e di tutti i paesi, anche gentili ci sono, e che pure daranno il cento per cento per la loro buona volontà, unicamente per essa, oppure per la loro e quella di un apostolo o discepolo che me li prepara.
   I campi spinosi sono quelli in cui l’incuria ha lasciato penetrare spinosi grovigli di interessi personali che soffocano il buon seme. Occorre sorvegliarsi sempre, sempre, sempre. Non dire mai: “Oh! ormai io sono formato, seminato, posso stare tranquillo che darò seme di vita eterna”. Occorre sorvegliarsi: la lotta fra il Bene e Male è continua. Avete mai osservato una tribù di formiche che si insedia in una casa? Eccole sul focolare. La donna non lascia più cibarie lì e le mette sul tavolo; e loro fiutano l’aria e danno l’assalto al tavolo. La donna le mette nella credenza e loro passano dalla serratura nella credenza.
   La donna appende al soffitto le sue provviste e loro fanno un lungo cammino lungo le pareti e i travicelli, si calano per la fune e mangiano. La donna le brucia, le scotta, le avvelena. E poi sta tranquilla credendo di averle distrutte. Oh! se non vigila, che sorpresa! Ecco le nuove nate che escono, e siamo da capo. Così finché si vive; bisogna sorvegliarsi per estirpare le male piante non appena spuntano. In caso contrario esse fanno un soffitto di rovi e soffocano il grano. Le cure mondane, l’inganno delle ricchezze creano il groviglio, affogano la pianta del seme di Dio e non le fanno fare spiga.
   Ecco ora i campi pieni di sassi. Quanti in Israele! Sono quelli che appartengono ai “figli delle leggi”, come ha detto mio fratello Giuda molto giustamente. In loro non è la pietra unica della Testimonianza, non vi è la pietra della Legge. Vi è la sassaia delle piccole, povere, umane leggi create dagli uomini. Tante e tante che col loro peso hanno fatto a scaglie anche la pietra della Legge. Una rovina che impedisce ogni attecchimento di seme. Non è più nutrita la radice. Non c’è terra, non c’è succo. L’acqua fa marcire perché stagna sul pavimento di selci, il sole si arroventa su quelle selci e brucia le pianticine. Sono gli spiriti dei sostitutori delle complicate dottrine umane alla semplice dottrina di Dio. La ricevono anche con gioia, la mia parola. Al momento ne sono scossi e sedotti. Ma poi… Occorrerebbe l’eroismo di sgobbare a mondare il campo, l’animo e la mente da tutta la sassaia dei retori. Allora il seme farebbe radica e sarebbe un forte cespo. Così… è nulla. Basta un timore di rappresaglie umane. Basta una riflessione: “Ma e poi? Che me ne verrà dagli uomini potenti?”, e il povero seme non nutrito langue. Basta che tutta la sassaia si agiti col suono vano dei cento e cento precetti che si sono sostituiti al Precetto, che ecco che l’uomo perisce col seme ricevuto… Israele ne è pieno. Questo spiega come il venire a Dio vada in ragione inversa della potenza umana.
   Ultimi i campi pieni di strade, polverosi, nudi. Quelli dei mondani, degli egoisti. Il loro comodo è la loro legge, il godimento il loro fine. Non fare fatica, sonnecchiare, ridere, mangiare… Lo spirito del mondo è re in questi. La polvere della mondanità ricopre il terreno che diviene terriccio. Gli uccelli, ossia le dissipazioni, si precipitano sui mille sentieri aperti per rendere più facile la vita. Lo spirito del mondo, ossia del Maligno, becca e distrugge ogni seme che cade su questo terreno aperto a tutte le sensualità e le leggerezze.

   180.7 Avete inteso? Avete altro da chiedere? No? Allora possiamo andare a prendere riposo per partire domani per Cafarnao. Devo andare ancora in un posto prima di incominciare il viaggio verso Gerusalemme per la Pasqua».
   «Passeremo ancora per Arimatea?», chiede l’Iscariota.
   «Non è sicuro. A seconda dei…».
   Alla porta viene bussato violentemente.
   «Ma chi può essere a quest’ora?», dice Pietro alzandosi per aprire.
   Si presenta Giovanni. Stravolto, impolverato, con chiari segni di pianto sul viso.
   «Tu qui?», gridano tutti. «Ma che è accaduto?».
   Gesù, che si è alzato, dice solo: «La Madre dove è?».
   E Giovanni, venendo avanti e andando a inginocchiarsi ai piedi del suo Maestro, tendendo le braccia come per avere soccorso, dice: «La Madre sta bene, ma è in pianto come me, come tanti, e ti prega di non venire seguendo il Giordano dalla parte nostra. Mi ha mandato indietro per questo, perché… perché Giovanni tuo cugino è stato preso prigione…». E Giovanni piange mentre molto subbuglio si solleva fra i presenti.
   Gesù impallidisce profondamente ma non si agita. Solamente dice: «Alzati e racconta».
   «Andavo in giù con la Madre e le donne. Anche Isacco e Timoneo erano con noi. Tre donne e tre uomini. Ho ubbidito al tuo ordine di condurre Maria da Giovanni… ah! Tu lo sapevi che era l’ultimo addio!… Che doveva essere l’ultimo addio… Il temporale di giorni or sono ci ha fatto sostare di poche ore. Ma sono bastate perché Giovanni non potesse più vedere Maria… Noi siamo arrivati all’ora di sesta e lui era stato catturato al gallicinio…».
   «Ma dove? Ma come? Da chi? Nel suo antro?», tutti chiedono, tutti vogliono sapere.
   «È stato tradito!… Si è usato il tuo Nome per tradirlo!».
   «Che orrore! Ma chi è stato?», urlano tutti.
   E Giovanni rabbrividendo, dicendolo piano questo orrore che neppur l’aria dovrebbe udire, confessa: «Da un suo discepolo…».
   Il subbuglio è al colmo. Chi maledice, chi piange, chi sbalordito resta in posa di statua.

 8 Giovanni si attacca al collo di Gesù e grida: «Io ho paura per Te! per Te! per Te! I santi hanno i traditori che per l’oro si vendono, per l’oro e la paura dei grandi, per sete di premio, per… per ubbidienza a Satana. Per mille, mille cose! Oh! Gesù, Gesù, Gesù! Che dolore! Il mio primo maestro! Il mio Giovanni che mi ha dato Te!».
   «Buono! Buono! Non mi accadrà nulla per ora».
   «Ma poi? Ma poi? Mi guardo… guardo questi… ho paura di tutti, anche di me. Ci sarà fra noi il tuo traditore…»
   «Ma sei pazzo? E credi che non lo faremo a pezzi?» urla Pietro.
   E l’Iscariota: «Oh! pazzo per davvero! Io non lo sarò mai. Ma, se mi sentissi indebolito al punto di poterlo diventare, mi ucciderei. Meglio così che uccisore di Dio».
   Gesù si libera dalla stretta di Giovanni e scuote rudemente l’Iscariota dicendo: «Non bestemmiare! Nulla ti potrà indebolire, se non vuoi. E se ciò fosse, fa’ di piangere, e non avere un delitto oltre al deicidio. Debole diviene chi da sé si svena di Dio».

   180.9 Poi torna da Giovanni, che piange col capo sul tavolo, e dice: «Parla, con ordine. Io pure soffro. Era il mio sangue ed il mio Precursore».
   «Non ho visto che i discepoli, parte di essi, costernati e furenti contro il traditore. Gli altri hanno accompagnato Giovanni verso la sua prigione per essergli vicino nella morte».
   «Ma non è ancora morto… l’altra volta poté fuggire», cerca di confortare lo Zelote che vuole molto bene a Giovanni.
   «Non è ancora morto. Ma morirà», risponde Giovanni.
   «Sì. Morirà. Egli lo sa come Io lo so. Nulla e nessuno lo salverà questa volta. Quando? Non so. So che vivo non uscirà dalle mani di Erode».
   «Sì, di Erode. Senti. Egli è andato verso quella gola da cui noi pure passammo al ritorno in Galilea, fra l’Ebal e il Garizim, perché gli fu detto dal traditore: “Il Messia è morente per un assalto di nemici. Ti vuole vedere per affidarti un segreto”. E lui è andato col traditore e con qualche altro. Nell’ombra del vallone erano gli armati di Erode e lo hanno preso. Gli altri sono fuggiti portando la notizia ai discepoli rimasti presso Ennon. Erano appena venuti quando giunsi io con la Madre. E quello che è orribile è che era uno delle nostre città… e che sono stati[30] i farisei di Cafarnao alla testa del complotto per prenderlo. Erano stati da lui dicendo che Tu eri stato loro ospite e che da lì partivi per la Giudea… Non sarebbe uscito dal suo rifugio altro che per Te…».

   180.10 Un silenzio di tomba succede alla narrazione di Giovanni.
   Gesù sembra svenato, cogli occhi di un azzurro cupissimo e come appannati. Sta a capo chino, la mano ancora sulla spalla di Giovanni, e la mano è scossa da un lieve tremito. Nessuno osa parlare.
   Gesù rompe il silenzio: «Andremo in Giudea da altra via.
   Ma domani devo andare a Cafarnao. Al più presto. Riposate. Io salgo fra gli ulivi. Ho bisogno di essere solo». Ed esce senza aggiungere altro.
   «Va certo a piangere», mormora Giacomo d’Alfeo.
   «Seguiamolo, fratello», dice Giuda Taddeo.
   «No. Lasciatelo piangere. Solo usciamo piano, in ascolto.
   Temo insidia da per tutto», risponde lo Zelote.
   «Sì. Andiamo. Noi pescatori sulla riva. Se qualcuno viene dal lago lo vedremo. Voi per gli ulivi. È certo al suo solito posto, presso il noce. All’alba prepareremo le barche per andare presto. Quei serpenti! Eh! l’ho detto io! Di’, ragazzo? Ma… la Madre è proprio in sicuro?».
   «Oh, sì! Anche i pastori discepoli di Giovanni sono andati con Lei. Andrea… non lo vedremo più il nostro Giovanni!».
   «Taci! Taci! Mi sembra il canto del cuculo… Uno precede l’altro e… e…».
   «Per l’Arca santa! Tacete! Se parlate ancora di sventura al Maestro, comincio da voi a farvi assaggiare il sapore del mio remo sulle reni!», urla Pietro inferocito. «Voi», dice poi a quelli che restano per gli ulivi, «prendete dei bastoni, dei grossi rami, là nella legnaia ce ne sono, e spargetevi armati. Il primo che si accosta a Gesù per nuocergli sia morto».
   «Discepoli! Discepoli! Bisogna essere cauti coi nuovi!», esclama Filippo.
   Il nuovo discepolo si sente ferito e chiede: «Dubiti di me? Egli mi ha scelto e voluto».
   «Non di te. Ma di quelli che sono scribi e farisei e dei loro adoratori. Da lì verrà la rovina, credetelo».
   Escono e si spargono chi per le barche, chi fra gli ulivi delle colline, e tutto ha termine.

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!
  


Vangelo Mc 9, 30-37: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me».

Vangelo Novus Ordo Mc 9, 30-37
Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
«Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo

   Cap. CCCLII. Un peccatore convertito dalla Maddalena. Parabola per il piccolo Beniamino e lezione su chi è il più grande, sullo scandalo ai bambini e sull’uso del nome di Gesù.

   6 Dicembre 1945

 1 E proprio mentre si incendiano cielo e lago per i fuochi del tramonto, essi tornano verso Cafarnao. Sono contenti. Parlano fra di loro. Gesù parla poco, ma sorride. Notano che, se il messaggero fosse stato più preciso, avrebbero potuto risparmiare sulla strada. Ma però, anche, dicono che la fatica è valsa, perché un gruppo di piccoli figli ha avuto un padre guarito quando già raffreddava per la morte vicina, e anche perché non sono più senza un minimo di denaro.
   «Ve lo avevo detto che il Padre avrebbe provveduto a tutto », dice Gesù.
   «Ed è un antico amante di Maria di Magdala?», chiede Filippo.
   «Pare… A quello che ci hanno detto… », risponde Tommaso.
   «A Te, Signore, che disse l’uomo?», chiede Giuda d’Alfeo.
   Gesù sorride evasivamente.
   «Io l’ho visto più di una volta con lei quando andavo a Tiberiade con amici. Questo è certo», asserisce Matteo.
   «Su, fratello, accontentaci… L’uomo ti chiese solo di guarire o di essere perdonato anche?», chiede Giacomo d’Alfeo.
   «Che domanda senza ragione! Quando mai il Signore non esige pentimento per concedere grazia?», dice l’Iscariota con alquanto sdegno per Giacomo d’Alfeo. 
   «Mio fratello non ha detto una stoltezza. Gesù guarisce o libera e poi dice: “Và e non peccare”», gli risponde il Taddeo.
   «Ma perché vede già il pentimento nei cuori», ribatte l’Iscariota.
   «Negli indemoniati non c’è pentimento né volontà di essere liberati. Non uno lo ha dimostrato tutto ciò. Ricordati ogni caso e vedrai che o fuggivano o si avventavano nemici, o quanto meno, tentavano l’una o l’altra cosa, e non vi riuscivano solo perché impediti a completarla dai parenti», replica il Taddeo.
   «E dal potere di Gesù», aumenta lo Zelote.
   «Ma allora Gesù tiene conto del volere dei parenti che rappresentano il volere dell’indemoniato, il quale, se non fosse impedito dal demonio, vorrebbe liberazione».
   «Oh! quante sottigliezze! E per i peccatori allora? Mi pare che usi la stessa formula, anche se non sono indemoniati», dice Giacomo di Zebedeo.
   «A me ha detto: “Seguimi”, e non gli avevo ancora detto una parola io, in merito al mio stato», osserva Matteo.
   «Ma te la vedeva in cuore», dice l’Iscariota che vuole avere sempre ragione ad ogni costo.

 2 «E va bene! Ma quell’uomo, a voce di popolo grande libidinoso e grande peccatore, e non indemoniato, o meglio non posseduto – perché un demonio, coi suoi peccati, lo doveva avere a maestro se non a possessore – moribondo, e così via, cosa ha chiesto insomma? Stiamo andando a passeggio fra le nubi, mi pare… Stiamo alla prima domanda », dice Pietro.
   Gesù lo accontenta: «Quell’uomo ha voluto essere solo con Me per poter parlare con libertà. Non ha esposto subito il suo stato di salute… ma quello dello spirito suo. Ha detto: “Sono morente, ma non ancora come ho fatto credere per poterti avere con sollecitudine. Ho bisogno del tuo perdono per guarire. Mi basta questo. Se guarire non mi farai, mi rassegnerò. L’ho meritato. Ma fà salva l’anima mia”, e mi ha confessato le sue colpe… ». Gesù dice così, ma il suo viso splende di gioia.
   «E tu ne sorridi, Maestro? Mi fa specie! », osserva Bartolomeo.
   «Si, Bartolomai. Ne sorrido perché esse non sono più e perché con le colpe ho saputo il nome della redentrice. L’apostolo fu una donna in questo caso».
   «Tua Madre!», dicono in molti.
   E altri: «Giovanna di Cusa! Se lui andava a Tiberiade sovente, forse la conosce».
   Gesù scrolla il capo.
   Gli chiedono: «Chi allora?».
   «Maria di Lazzaro», risponde Gesù.
   «È venuta qui? Perché non si è fatta vedere da nessuno di noi?».
   «Non è venuta. Ha scritto al suo antico compagno di colpa. Ho letto le lettere. Supplicano tutte la stessa cosa: di ascoltarla, di redimersi come lei si è redenta, di seguirla nel bene come l’aveva seguita nella colpa, e con parole di lacrime lo pregano di alleggerire l’anima di Maria dal rimorso di avere sedotto la sua anima. E lo ha convertito. Tanto che si era isolato nella sua campagna per vincere le tentazioni delle città. La malattia, più di rimorso d’anima che di fisico, ha finito di prepararlo alla Grazia. Ecco. Siete contenti adesso? Comprendete ora perché sorrido?».
   «Si, Maestro», dicono tutti. E poi, vedendo che Gesù allunga il passo come per isolarsi, si mettono a bisbigliare fra di loro…

 3 Sono già alle viste di Cafarnao quando, allo sbocco della via fatta da loro con quella che costeggia il lago venendo da Magdala, incrociano i discepoli venuti a piedi evangelizzando da Tiberiade. Tutti meno Marziam, i pastori e Mannaen, che sono andati da Nazaret verso Gerusalemme con le donne. E anzi i discepoli sono aumentati per qualche altro elemento che si è unito a loro di ritorno dalla missione e che porta seco nuovi proseliti della dottrina cristiana.
   Gesù li saluta dolcemente, ma subito si torna ad isolare in una meditazione ed orazione profonda, avanti di qualche passo da loro.
   Gli apostoli invece si imbrancano con i discepoli, specie coi più influenti, ossia Stefano, Erma, il sacerdote Giovanni, Giovanni lo scriba, Timoneo, Giuseppe di Emmaus, Ermasteo (che da quel che capisco vola sulla via della perfezione), Abele di Betlemme di Galilea, la cui madre è in fondo alla turba con altre donne. E discepoli e apostoli si scambiano domande e risposte su quanto è avvenuto da quando si sono lasciati. Così viene raccontato della guarigione e della conversione di oggi, e del miracolo dello statere nella bocca del pesce… Questo, per le cause che lo hanno originato, suscita un grande parlare che si propaga da fila a fila come un fuoco appiccato a paglie asciutte…


 4 Dice Gesù: 
«Qui metterete la visione del 7 marzo 1944: “Il piccolo Beniamino di Cafarnao”, senza il commento. E proseguirete con il resto della lezione e della visione. Và avanti».
   Premetto di omettere l’ultima frase: «La visione mi cessa qui ecc.». Sarebbe fuori luogo ora che la visione prosegue.


   7 Marzo 1944

 5 Vedo Gesù che cammina per una strada di campagna, seguito e contornato dai suoi apostoli e discepoli.
   Il lago di Galilea traluce poco lontano tutto quieto e azzurro sotto un bel sole o di primavera o di autunno, perché non è un sole violento come quello estivo. Ma direi che è primavera, perché la natura è molto fresca, senza quei toni dorati e stanchi che si vedono in autunno.
   Sembra che, data la sera che si avvicina, Gesù si ritiri nella casa ospitale e si diriga perciò al paese che si vede già apparire. Gesù, come fa sovente, è qualche passo più avanti dei discepoli. Due o tre, non di più, ma tanto da poter isolarsi nei suoi pensieri, bisognoso di silenzio, dopo una giornata di evangelizzazione. Cammina assorto, tenendo nella mano destra un rametto verde, certo colto a qualche cespuglio, col quale frusta leggermente, soprappensiero, le erbe della proda.
   Dietro di Lui i discepoli parlano invece animatamente. Rievocano gli episodi della giornata e non hanno la mano troppo leggera per pesare i difetti altrui e le altrui cattiverie. Tutti più o meno criticano il fatto che quelli della riscossione del tributo al Tempio abbiano voluto essere pagati da Gesù.
   Pietro, sempre veemente, definisce ciò un sacrilegio, perché il Messia non è tenuto a pagare il tributo: «Questo è come volere che Dio paghi a Se stesso», dice. «E ciò non è giusto. Se poi credo che Egli non sia il Messia diventa un sacrilegio».
   Gesù si volta un momento di dice: «Simone, Simone, ce ne saranno tanti che dubiteranno di Me! Anche fra chi crede di esser sicuro e incrollabile nella fede in Me. Non giudicare i fratelli, Simone. Giudica sempre per primo te stesso».
   Giuda, con un sorrisetto ironico, dice all’umiliato Pietro che ha curvato il capo: «Questa è per te. Perché sei il più anziano vuoi sempre fare il dottore. Non è detto che si vada giudicati nel merito per età. Fra noi vi è chi ti supera per sapere e per potere sociale».
   Si accende una discussione sui rispettivi meriti. E chi vanta d’esser fra i primi discepoli, e chi appoggia la sua tesi di preferenza al posto influente lasciato per seguire Gesù, e chi dice che nessuno come lui ha dei diritti perché nessuno come lui ha convertito tanto se stesso passando da pubblicano a discepolo. La discussione va per le lunghe e, se non temessi di offendere gli apostoli, direi che assume il tono di una vera lite.
   Gesù se ne astrae. Pare non udire più nulla. Intanto si è giunti alle prime case del paese, che so essere Cafarnao. Gesù prosegue, e gli altri dietro, sempre discutendo.

 6 Un bimbetto di un sette, otto anni, corre saltellando dietro a Gesù. Lo raggiunge sorpassando il gruppo vociferante degli apostoli. È un bel bambino dai capelli castano scuro tutti ricciuti, corti. Ha due occhietti neri, intelligenti nel visetto bruno. Chiama confidenzialmente il Maestro come lo conoscesse bene. «Gesù», dice, «mi lasci venire con Te fino a casa tua?».
   «La mamma lo sa?», chiede Gesù guardandolo con un sorriso buono.
   «Lo sa».
   «In verità?». Gesù, pur sorridendo, guarda con sguardo penetrante.
   «Si, Gesù, in verità».
   «Allora vieni».
   Il bambino fa un salto di gioia e afferra la mano sinistra di Gesù che gliela porge. Con che amorosa fiducia il bambino mette la sua manina bruna nella lunga mano del mio Gesù! Vorrei fare altrettanto anche io!
   «Raccontami una bella parabola, Gesù », dice il bambino saltellando al fianco del Maestro e guardandolo da sotto in su con un visetto splendente di gioia.
   Anche Gesù lo guarda con un allegro sorriso che gli schiude la bocca ombreggiata di baffi e dalla barba biondo-rossa, che il sole accende come fosse d’oro. Gli occhi di zaffiro scuro gli ridono di gioia mentre guarda il bambino.
   «Cosa te ne fai della parabola? Non è un gioco».
   «E’ più bella di un gioco. Quando vado a dormire me la penso e poi me la sogno e domani me la ricordo e me la ridico per essere buono. Mi fa essere buono».
   «Te la ricordi?».
   «Si. Vuoi che ti dica tutte quelle che mi hai dette?».
   «Sei bravo, Beniamino, più degli uomini, che dimenticano. In premio ti dirò la parabola».
   Il bambino non salta più. Cammina serio e composto come un adulto e non perde una parola, non un’infles-sione di Gesù, che guarda attentamente, senza più occuparsi neppure di dove mette i piedi.

 7 «Un pastore molto buono, venuto a conoscenza che in un luogo del creato erano molte pecore abbandonate da pastori poco buoni, le quali pericolavano su vie perverse e in pascoli nocivi e andavano sempre più verso burroni privi di luce, venne in quel posto e, sacrificando tutto il suo avere, acquistò quelle pecore e quegli agnelli. Voleva portarli nel suo regno, perché quel pastore era anche re come lo sono stati tanti re in Israele. Nel suo regno quelle pecore e quegli agnelli avrebbero trovato pascoli sani, fresche e pure acque, vie sicure e ripari in abbattibili contro i ladroni e i lupi feroci. Perciò quel pastore radunò le sue pecore e i suoi agnelli e disse loro: “Sono venuto a salvarvi, a portarvi dove non soffrirete più, dove non conoscerete più insidie e dolore. Amatemi, seguitemi perché io vi amo tanto e per avervi mi sono sacrificato in tutti i modi. Ma se mi amerete, il mio sacrificio non mi peserà. Venitemi dietro e andiamo”. E il pastore davanti, dietro le pecore, presero il cammino verso il regno della gioia.
   Il pastore ogni momento si volgeva per vedere se lo seguivano, per esortare le stanche, per rincuorare le sfiduciate, per soccorrere le malate, per carezzare gli agnelli. Come le amava! Dava loro il suo pane e il suo sale e per primo assaggiava l’acqua delle fonti e la benediva per sentire se era sana e per renderla santa. Ma le pecore – lo credi Beniamino? – le pecore dopo qualche tempo si stancarono. Prima una, poi due, poi dieci, poi cento, rimasero indietro a brucare l’erba fino ad empirsi senza poter più muoversi, e si sdraiarono stanche e sazie nella polvere e nel fango. Altre si spenzolarono sui precipizi nonostante il pastore dicesse: “Non lo fate”; talune, poiché egli si metteva dove era maggior pericolo per impedire a loro di andarvi, lo urtarono col capo protervo e tentarono di precipitarlo più di una volta. Così molte finirono nei burroni e morirono miseramente. Altre si azzuffarono fra di loro e, incorna e intesta, si uccisero fra loro. Solo un agnellino non si distrasse mai. Esso correva, belando, e diceva col suo belato al pastore: “Ti amo”; correva dietro al pastore buono e, quando giunsero alle porte del suo regno, non erano che loro due: il pastore e l’agnellino fedele. Allora il pastore non disse: “entra”, ma disse “vieni”, e lo prese sul petto, fra le braccia, e lo portò dentro chiamando tutti i suoi sudditi e dicendo loro: “Ecco, costui mi ama. Voglio che sia meco in eterno. E voi amatelo perché esso è il prediletto del mio cuore”.

 8 La parabola è finita, Beniamino. Ora mi sai dire: chi è quel pastore buono?».
   «Tu sei, Gesù».
   «E quell’agnellino chi è?».
   «Io sono, Gesù».
   «Ma ora Io andrò via. Tu ti dimenticherai di Me».
   «No, Gesù. Non mi dimenticherò perché ti amo».
   «L’amore ti cesserà quando non mi vedrai più».
   «Dirò dentro di me le parole che Tu mi hai dette e sarà come Tu fossi presente. Ti amerò e ubbidirò così. E, dimmi, Gesù: Tu ti ricorderai di Beniamino?».
   «Sempre».
   «Come farai a ricordarti? ».
   «Mi dirò che tu mi hai promesso d’amarmi e di ubbidirmi e mi ricorderò così di te ».
   «E mi darai il tuo Regno?».
   «Se sarai buono, si».
   «Sarò buono».
   «Come farai? La vita è lunga».
   «Ma anche le tue parole sono tanto buone. Se io me le dirò e farò quello che esse dicono di fare, mi conserverò buono per tutta la vita. E lo farò perché ti amo. Quando si vuol bene non è fatica essere buoni. A me non è fatica ubbidire alla mamma perché le voglio bene. Non mi sarà fatica essere ubbidiente a Te perché ti voglio bene».
   Gesù si è fermato e guarda il visetto acceso dall’amore più che dal sole. La gioia di Gesù è così viva che pare un altro sole si sia acceso nella sua anima e irraggi dalle pupille. Si china e bacia sulla fronte il bambino.

 9 Si è fermato davanti ad una casetta modesta con un pozzo sul davanti. Gesù va poi a sedersi presso il pozzo e là lo raggiungono i discepoli, che ancora stanno misurando le rispettive prerogative.
   Gesù li guarda. Poi li chiama: «Venite qui intorno e udite l’ultimo insegnamento della giornata, voi che vi fate rochi nella celebrazione dei vostri meriti e pensate di aggiudicarvi un posto in base a quelli. Vedete questo fanciullo? Egli è nella verità più di voi. La sua innocenza gli dà la chiave per aprire le porte del mio Regno. Egli ha compreso, nella sua semplicità di pargolo, che nell’amore è la forza per divenire grandi e nell’ubbidienza fatta per amore quella per entrare nel mio Regno. Siate semplici, umili, amorosi di un amore che non è solo dato a Me ma è scambievole tra voi, ubbidienti alle mie parole, a tutte, anche a queste, se volete aggiungere dove entreranno questi innocenti. Imparate dai piccoli. Il Padre rivela loro la verità come non la rivela ai sapienti».
   Gesù parla tenendo ritto contro le sue ginocchia Beniamino, al quale tiene le mani sulle spalle. Ora il volto di Gesù è pieno di Maestà. È serio, non corrucciato, ma è serio. Proprio da Maestro. L’ultimo raggio di sole gli fa un nimbo di raggi sul capo biondo.
   La visione mi cessa qui, lasciandomi piena di dolcezza nei miei dolori.


   [6 Dicembre 1945]

10 Dunque: i discepoli non sono potuti entrare nella casa, è naturale. Per numero e per rispetto. Non lo fanno mai se non sono invitati a farlo, in massa o in particolare, dal Maestro. Noto sempre un grande rispetto, un grande ritegno, nonostante l’affabilità del Maestro e la sua lunga dimestichezza. Anche Isacco, che potrei dire il discepolo primo, nel numero dei discepoli, non si concede mai libertà di andare a Gesù senza che un sorriso, almeno un sorriso del Maestro, non lo chiami vicino.

   Un po’ diverso, no?, dal modo spicciativo e quasi burlesco con cui molti trattano ciò che è soprannaturale… Questo è un mio commento, e che sento giusto, perché non mi va giù che la gente abbia con ciò che è al di sopra di noi i modi che non abbiamo per gli uomini pari a noi, solo che siano un cincino da più di noi… Mah!… E andiamo avanti…

   I discepoli, dunque, si sono sparsi sulla riva del lago a comperare pesce per la cena, pane e quanto occorre. Torna anche Giacomo di Zebedeo e chiama il Maestro, che è seduto sulla terrazza con Giovanni accoccolato ai suoi piedi in un dolce e abbandonato colloquio… Gesù si alza e si sporge dal parapetto.
   Giacomo dice: «Quanto pesce, Maestro! Mio padre dice che Tu hai benedetto le reti con la tua venuta. Guarda: questo è per noi», e mostra una cesta di pesce che sembra d’argento.
   «Dio gli dia grazie per la sua generosità. Preparatelo, che dopo cena andremo sulla riva coi discepoli».
   E così fanno. Il lago è nero nella notte, in attesa della luna che si alza tardi. E più di vederlo lo si sente borbottare, sciacquettare fra i sassi del greto. Solo le inverosimili stelle dei paesi d’oriente si specchiano nelle acque tranquille. Si siedono in cerchio intorno ad una barchetta capovolta, sulla quale si è seduto Gesù. E i piccoli fanali delle barche, portati qui, al centro del circolo, illuminano appena i volti più vicini. Quello di Gesù è tutto illuminato da sotto in su per un fanaletto messo ai suoi piedi, e tutti perciò lo possono vedere bene mentre parla a questo e a quello.

11 E sul principio è una conversazione alla buona, familiare. Ma poi assume il tono di una lezione. Anzi Gesù lo dice apertamente:
   «Venite e ascoltate. Fra poco ci separeremo e voglio ammaestrarvi ancora per formarvi meglio.
   Oggi Io vi ho sentito discutere e non sempre con carità. Ai maggiori fra voi ho già dato la lezione. Ma voglio darla a voi pure, né farà male a questi, di voi maggiori, se se la sentono ripetere. Ora il piccolo Beniamino non è qui contro i miei ginocchi. Dorme nel suo letto e sogna i suoi sogni innocenti. E forse la sua anima candida è qui fra mezzo a noi lo stesso. Ma fate conto che egli, o qualche altro fanciullo, sia qui, a vostro esempio. Voi, in cuor vostro, avete tutti un chiodo fisso, una curiosità, un pericolo. Questo: essere il primo del Regno dei Cieli. Questa: sapere chi sarà questo primo. E infine il pericolo: il desiderio ancora umano di sentirsi rispondere “tu sei il primo nel Regno dei Cieli” dai compagni compiacenti o dal Maestro, soprattutto dal Maestro del quale sapete la verità e la conoscenza del futuro. Non è forse così? Le domande tremano sulle vostre labbra e vivono in fondo al cuore.
   Il Maestro, per vostro bene, aderisce a questa curiosità per quanto Egli aborra di cedere alle curiosità umane. Il vostro Maestro non è un ciarlatano che si interroga per due spiccioli fra i frastuoni di un mercato. E non è uno preso dallo spirito pitonico il quale gli procura denaro col fargli fare l’indovino, per aderire alle ristrette menti dell’uomo che vogliono sapere il futuro per “regolarsi”. L’uomo non si può regolare da sé. Dio lo regola se l’uomo ha fede in Lui! E non serve sapere, o credere di sapere il futuro, se poi non si ha il mezzo per stornare il futuro profetizzato. Il mezzo è uno solo: la preghiera al Padre e Signore perché per sua misericordia ci aiuti. In verità vi dico che la preghiera fidente può mutare un castigo in benedizione. Ma chi ricorre agli uomini per potere, da uomo e con mezzi da uomo, deviare il futuro, non sa pregare affatto o sa pregare molto male. Io, questa volta, perché questa curiosità può darvi buon insegnamento, rispondo ad essa, Io che aborro le domande curiose e irrispettose.

12 Voi vi chiedete: “Chi fra noi è il più grande nel Regno dei Cieli?”.
   Io annullo la limitazione del “fra noi” e allargo i confini a tutto il mondo presente e futuro, e rispondo: “Il più grande nel Regno dei Cieli è il minimo fra gli uomini”. Ossia quello che è considerato “minimo” dagli uomini. Il semplice, l’umile, il fiducioso, l’ignaro. Perciò il fanciullo, o chi sa rifarsi anima di fanciullo. Non è la scienza, non il potere, non la ricchezza, non l’attività, anche se buona, quelle che vi faranno “il più grande” nel beato Regno. Ma è l’essere come i pargoli per amorevolezza, umiltà, semplicità, fede.
   Osservate come mi amano i fanciulli, e imitateli. Come credono in Me, e imitateli. Come ricordano ciò che dico, e imitateli. Come fanno ciò che insegno, e imitateli. Come non insuperbiscono di ciò che fanno, e imitateli. Come non si ingelosiscono di Me e dei compagni, e imitateli. In verità vi dico che se non mutate il vostro modo di pensare, di agire e di amare, e non ve lo rifate sul modello dei pargoli, non entrerete nel Regno dei Cieli. Essi sanno ciò che voi sapete, di essenziale, nella mia dottrina. Ma con quale differenza praticano ciò che insegno! Voi dite che per ogni atto buono che compite: “Io ho fatto”. Il fanciullo mi dice: “Gesù, mi sono ricordato di Te oggi, e per Te ho ubbidito, ho amato, ho trattenuto una voglia di rissa… e sono contento perchè Tu, io lo so, sai quando sono buono e ne si contento”. E ancora osservate i fanciulli quando mancano. Con che umiltà mi confessano: “Oggi sono stato cattivo. E mi spiace perchè ti ho dato dolore”. Non cercano scuse. Sanno che Io so. Credono. Si dolgono per il mio dolore.
   Oh! cari al cuor mio, fanciulli in cui non è superbia, doppiezza, lussuria! Io ve lo dico: divenite simili ai fanciulli se volete entrare nel mio Regno. Amate i fanciulli come l’esempio angelico che ancora potete avere. Che come angeli dovreste essere. A vostra scusa potreste dire: “Noi non vediamo gli angeli”. Ma Dio vi dà i fanciulli per modelli, e quelli li avete fra voi. E se vedete un fanciullo abbandonato materialmente, o abbandonato moralmente e che può perire, accoglietelo in mio nome, perchè essi sono i molto amati da Dio. E chiunque accoglie un fanciullo in mio Nome accoglie Me stesso, perchè Io sono nell’anima dei fanciulli, che è innocente.
   E chi accoglie me, accoglie Colui che mi ha mandato, il Signore altissimo.

13 E guardatevi dallo scandalizzare uno di questi piccoli il cui occhio vede Iddio. Non si deve mai dare scandalo a nessuno. Ma guai, tre volte guai, chi sfiora il candore ignaro dei fanciulli! Lasciateli angeli più che potete. Troppo ripugnante è il mondo e la carne per l’anima che viene dai Cieli! E il fanciullo, per la sua innocenza, è ancora tutt’anima. Abbiate rispetto all’anima del fanciullo e al suo stesso corpo, come avete rispetto al luogo sacro. Sacro è anche il fanciullo perchè ha Dio in sè. In ogni corpo è il tempio dello Spirito. Ma il tempio del fanciullo è il più sacro e profondo, è oltre il doppio Velo. Non scuotete neppure le tende della sublime ignoranza della concupiscenza col vento delle vostre passioni.
   Io vorrei un fanciullo in ogni famiglia, in mezzo ad ogni accolta di persone, perchè fosse di freno alle passioni degli uomini. Il fanciullo santifica, da ristoro e freschezza solo col raggio dei suoi occhi senza malizia. Ma guai coloro che levano santità al fanciullo col loro modo di agire scandaloso! Guai a coloro che con le loro licenza dànno malizie ai fanciulli! Guai a coloro che con le loro parole e ironie ledono la fede in Me dei fanciulli! Sarebbe meglio che a tutti questi si legasse al collo una pietra da macina e si gettassero in mare perchè affogassero col loro scandalo. Guai al mondo per gli scandali che dà agli innocenti! Perchè se è inevitabile che avvengano scandali, guai all’uomo che per sua causa li provoca.
   Nessuno ha il diritto di fare violenza al suo corpo e alla sua vita. Perchè vita e corpo ci vengono da Dio, e solo Lui ha il diritto di prenderne delle parti o il tutto. Ma però Io vi dico che se la vostra mano vi scandalizza è meglio che la mozziate, che se il vostro piede vi porta a dare scandalo è bene che voi lo mozziate. Meglio per voi entrare monchi o zoppi nella Vita che essere gettati nel fuoco eterno con le due mani e i due piedi. E se non basta avere mozzo un piede o una mano, fate che vi siano mozzati anche l’altra mano o l’altro piede, per non fare più scandalo e per avere tempo di pentirvi prima di essere lanciati dove il fuoco non si estingue, e rode come un verme in eterno. E se è il vostro occhio che vi è cagione di scandalo, cavatelo. E’ meglio essere orbi di un occhio che essere nell’inferno con tutti e due. Con un occhio solo, o anche senz’occhi, giunti al Cielo vedreste la Luce, mentre coi due occhi scandalosi, tenebre e orrore vedreste nell’inferno. E questo solo.

14 Ricordatevi tutto questo. Non disprezzate i piccoli, non scandalizzateli, non derideteli. Sono da più di voi, perchè i loro angeli vedono sempre Iddio che dice loro le verità da rivelare ai fanciulli e a quelli dal cuore di fanciullo.
   E voi come fanciulli amatevi fra di voi. Senza dispute, senza orgogli, State in pace fra voi. Abbiate spirito di pace con tutti. Fratelli siete, nel nome del Signore, e non nemici. Non ci sono, non ci devono essere nemici per i discepoli di Gesù.L’unico nemico è satana. Di quello siate nemici acerrimi, scendendo in battaglia contro di lui e contro i peccati che portano satana nei cuori.
   Siate instancabili nel combattere il male quale che sia la forma che assume. E pazienti. Non c’è limitazione all’operare dell’apostolo, perchè non c’è limitazione all’operare del male. Il demonio non dice mai: “Basta. Ora sono stanco e mi riposo”. Egli è instancabile. Passa agile come il pensiero, e più ancora, da questo a quell’uomo, e tenta e prende, e seduce, e tormenta, e non dà pace. Assale proditoriamente e abbatte se non si è più che vigilanti. Delle volte si insedia da conquistatore per debolezza dell’assalito, altre vi entra da amico, perchè il modo di vivere della preda cercata è già tale da essere alleanza col nemico. Tal’altra, scacciato da uno, gira e piomba sul migliore, per farsi vendetta dello smacco avuto da Dio o da un servo di Dio. Ma voi dovete dire ciò che dice lui: “Io non riposo”. Lui non riposa per popolare l’inferno. Voi non dovete riposare per popolare il Paradiso. Non dategli quartiere. Io vi predìco che più lo combatterete più vi farà soffrire. Ma non dovete tenere conto di ciò. Egli può scorrere le Terra. Ma nel Cielo non penetra. Perciò là non vi darà più noia. E là saranno tutti quelli che lo hanno combattuto… ».

15 Gesù si interrompe bruscamente e chiede: «Ma insomma, perchè date sempre noia a Giovanni? Che vogliono da te?».
   Giovanni si fa rosso come una fiamma e Bartolomeo, Tommaso, l’Iscariota chinano la testa vedendosi scoperti.
   «Ebbene?», chiede con imperio Gesù.
   «Maestro, i miei compagni vogliono che io ti dica una cosa. ».
   «Dilla, dunque».
   «Oggi, mentre Tu eri da quel malato, e noi giravamo per il paese come Tu avevi detto, abbiamo visto un uomo, che non è tuo discepolo e che neppure mai abbiamo notato fra quelli che ascoltano la tua dottrina, il quale cacciava dei demoni in tuo nome da un gruppo di pellegrini che andavano a Gerusalemme. E ci riusciva. Ha guarito uno che aveva un tremito che gli impediva ogni lavoro, e ha reso la favella a una fanciulla che era stata assalita nel bosco da un demonio in forma di cane che le aveva legato la lingua. Egli diceva: “Vattene, demonio, in nome del Signore Gesù il Cristo, Re della stirpe di Davide, Re d’Israele. Egli è il Salvatore e Vincitore. Fuggi davanti al suo Nome!”, e il demonio fuggiva realmente. Noi ci siamo risentiti. E glielo abbiamo proibito. Ci ha detto: “Che faccio di male? Onoro il Cristo liberandogli la via dai demoni che non sono degni di vederlo”. Gli abbiamo risposto: “Non sei esorcista secondo Israele e non sei discepolo secondo Cristo. Non ti è lecito farlo”. Ha detto: “Fare il bene è sempre lecito”, e si è ribellato alla nostra ingiunzione dicendo: “E continuerò a fare ciò che faccio”. Ecco, volevano ti dicessi questo, specie ora che Tu hai detto che in Cielo saranno tutti quelli che hanno combattuto satana».

16 «Va bene. Quell’uomo sarà di questi. Lo è. Egli aveva ragione e voi torto. Infinite sono le vie del Signore e non è detto che solo quelli che prendono la via diretta giungano al Cielo. In ogni luogo e in ogni tempo, e con mille modi diversi, ci saranno creature che verranno a Me, magari da una strada inizialmente cattiva. Ma Dio vedrà la loro retta intenzione e li attirerà alla via buona. Ugualmente vi saranno alcuni che per ebbrezza concupiscente e triplice usciranno dalla via buona e prenderanno una via che li allontana o addirittura li dirotta. Non dovete perciò mai giudicare i vostri simili. Solo Dio vede. Fate di non uscire voi dalla via buona, dove, più che la vostra volontà, quella di Dio vi ci ha messi. E quando vedete uno che crede nel mio Nome e per esso opera, non lo chiamate straniero, nemico, sacrilego. E’ sempre un mio suddito, amico e fedele, perchè crede nel Nome mio, spontaneamente e meglio di molti fra voi. Per questo il mio Nome sulla sua bocca opera prodigi pari ai vostri e forse più. Dio lo ama perchè mi ama, e finirà di portarlo al Cielo. Nessuno che faccia prodigi inmio Nome mi può essere nemico e dire male di Me. Ma col suo operare dà al Cristo onore e testimonianza di fede. In verità vi dico che credere al mio Nome è già sufficiente a salvare la propria anima. Perchè il mio Nome è Salvezza. Perciò vi dico: se lo incontrerete ancora, non glielo proibite più. Ma anzi chiamatelo “fratello” perchè tale è, anche se è ancora fuori dal recinto del mio Ovile. Chi non è contro di Me è con Me. Chi non è contro di voi è con voi».
   «Abbiamo peccato, Signore?», chiede attrito Giovanni.
   «No. Avete agito per ignoranza, ma senza malizia. Perciò non c’è colpa. Però in avvenire sarebbe colpa, perchè ora sapete. Ed ora andiamo alle nostre case. La pace sia con voi».


17
 
Se crede, può mettere, dopo la fine della visione di oggi, il dettato che segue quella del piccolo Beniamino. A sua facoltà.


[7 Marzo 1944]

Dice poi Gesù:

«Quello che ho detto al mio piccolo discepolo lo dico anche a voi. Il Regno è degli agnelli fedeli che mi amano e mi seguono senza perdersi in lusinghe, mi amano sino alla fine. E dico a voi ciò che ho detto ai miei discepoli adulti: “Imparate dai piccoli”.
   Non è l’esser dotti, ricchi, audaci quello che vi fa conquistare il Regno dei Cieli. Non è l’esserlo umanamente. Ma è l’esserlo della scienza dell’amore, che fa dotti, ricchi, audaci soprannaturalmente. Come illumina l’amore a comprendere la Verità! Come fa ricchi per acquistarla! Come fa audaci per conquistarla! Che fiducia che ispira! Che sicurezza!
   Fate come il piccolo Beniamino, il mio piccolo fiore che m’ha profumato il cuore quella sera ed ha cantato ad esso una musica angelica, che ha ricoperto l’odore dell’umanità ribollente nei discepoli e il rumore delle beghe umane.
   E tu vuoi sapere che avvenne poi di Beniamino? Rimase il piccolo agnello di Cristo e, perduto il suo grande Pastore poiché era tornato al Cielo, si fece discepolo di quello che più mi somigliava, prendendo per sua mano il battesimo e il nome di Stefano primo mio martire. Fu fedele sino alla morte e con lui i suoi parenti, trascinati alla Fede dall’esempio del loro piccolo apostolo familiare.
   Non è conosciuto? Molti sono gli sconosciuti dagli uomini conosciuti da Me nel mio Regno. E di questo sono felici. La fama del mondo non aggiunge una scintilla all’aureola dei beati.
   Piccolo Giovanni, cammina sempre con la tua mano nella mia. Andrai sicura e, giunta al Regno, non ti dirò “entra” ma “vieni”, e ti prenderò fra le braccia per posarti là dove il mio Amore t’ha preparato un posto e il tuo amore lo ha meritato.
   Và in pace. Ti benedico».

   Cap. CCCLV. Il nuovo discepolo Nicolai di Antiochia e il secondo annuncio della Passione.

   9 Dicembre 1945

 1 Gesù è tutto solo sulla terrazza della casa di Tommaso di Cafarnao. Il paese ozia nel sabato, già molto ridotto nei suoi abitanti, perché i più zelanti nelle pratiche di fede sono già partiti per Gerusalemme, e così pure quelli che vi si recano con le famiglie ed hanno bambini che non possono fare marce lunghe ed obbligano gli adulti a soste e a brevi tragitti. Così manca, nella giornata già di suo un pò nuvolosa, la nota d’oro dell’infanzia giuliva.
   Gesù è molto pensieroso. Seduto su una panchetta bassa, in un angolo, presso il parapetto, tiene un gomito sul ginocchio e appoggia la fronte sulla mano con mossa stanca, quasi di sofferenza.

 2 E’ interrotto nel suo meditare dalla venuta di un fanciullino che vuole salutarlo prima di partire per Gerusalemme. «Gesù! Gesù! », chiama ad ogni scalino, non vedendo Gesù perchè il muretto lo nasconde alla vista di chi è in basso. E Gesù è così concentrato che non sente la vocetta leggera e il passo da colombino… di modo che, quando il piccolo arriva sulla terrazza, Egli è ancora in quella posizione di sofferenza. E il bambino ne resta intimorito. Si ferma sul limitare della terrazza, si mette un ditino fra le labbra e pensa… poi decide e lentamente viene avanti… ormai è quasi alle spalle di Gesù… si china per vedere ciò che fa… e dice: «No, bello! Non piangere! Perché? Per quei brutti omacci di ieri? Lo diceva il padre mio con Giairo che sono indegni di Te. Ma Tu non devi piangere. Io ti voglio bene. E te ne vuole la mia sorellina e Giacomo e Tobiolo, e Giovanna e Maria e Michea e tutti, tutti i bambini di Cafarnao. Non piangere più…», e gli si stringe al collo, carezzoso, finendo: «Altrimenti piangerò anche io, e piangerò sempre, per tutto il viaggio…».
   «No, David, non piango più. Tu mi hai consolato. Sei solo? Quando partite?».
   «Dopo il tramonto. Colla barca fino a Tiberiade. Vieni con noi. Il padre mio ti vuole bene, sai?».
   «Lo so, caro. Ma devo andare da altri bambini… Io ti ringrazio di essere venuto a salutarmi e ti benedico, piccolo Davide. Diamoci il bacio di addio e poi torna dalla mamma. Lo sa che sei qui?… ».
   «No. Sono scappato via perché non ti ho visto coi tuoi discepoli e ho pensato che piangevi».
   «Non piango più. Lo vedi. Và, và dalla mamma che forse ti cerca con spavento. Addio. Stà attento agli asini delle carovane. Vedi? Ce ne sono fermi da ogni parte».
   «Ma non piangi proprio più?».
   «No. Non ho più dolore. Tu me lo hai levato. Grazie bambino».
   Il bambino scende saltellando la scaletta e Gesù lo osserva. Poi crolla il capo e torna al suo posto nella penosa meditazione di prima.

 3 Passa del tempo. Il sole, nelle schiarite di nuvole, si mostra nella sua discesa. Un passo più pesante sulla scala. Gesù alza il viso. Vede Giairo che sta dirigendosi da Lui. Lo saluta. Ne è salutato con rispetto.
   «Come mai qui, Giairo?».
   «Signore! Io forse ho sbagliato. Ma Tu che vedi il cuore degli uomini vedrai che nel mio errore non era malanimo. Io non ti ho invitato alla sinagoga per parlare, oggi. Ma ho tanto sofferto per Te, ieri, e tanto ti ho visto soffrire che… non ho osato. Ho interrogato i tuoi. Mi hanno detto: “Vuole stare solo”… Ma poco fa è venuto Filippo, padre di Davide, dicendomi che il suo bambino ti ha visto piangere. Ha detto che Tu lo hai ringraziato di essere venuto da Te. Sono venuto io pure. Maestro, chi ancora è a Cafarnao sta per adunarsi alla sinagoga. E la sinagoga mia è tua, Signore».
   «Grazie, Giairo. Oggi parleranno altri in essa. Io verrò come semplice fedele…».
   «Nè vi saresti tenuto. Tua sinagoga è il mondo. Non vieni proprio, Maestro?».
   «No, Giairo. Sto qui col mio spirito davanti al Padre che mi capisce e che non trova colpe in Me». Gesù ha un brillìo di lacrime nell’occhio mesto.
   «Io pure non trovo colpe in Te… Addio, Signore».
   «Addio, Giairo». E Gesù si siede di nuovo, sempre meditabondo.

 4 Leggera come una colomba sale, nella sua veste bianca, la figlia di Giairo. Guarda… Chiama piano: «Salvatore mio!».
Gesù volge il capo, la vede, le sorride, le dice: «Vieni a Me».
   «Si, mio Signore. Ma io vorrei portarti agli altri. Perchè deve essere muta la sinagoga, oggi?».
   «Vi è tuo padre e tanti altri per empirla di parole».
   «Ma sono parole… La tua è la Parola. Oh! mio Signore! Con la tua parola mi hai restituito alla mamma e al padre mio, ed ero morta. Ma guarda quelli che ora vanno verso la sinagoga! Molti sono più morti di me allora. Vieni a dare loro la Vita».
   «Figlia, tu la meritavi; essi… Nessuna parola può dare vita ad uno che per sè elegge la morte».
   «Si, mio Signore. Ma vieni lo stesso. C’è anche chi vive sempre più, sentendoti… Vieni. Metti la tua mano nella mia e andiamo. Io sono la testimonianza del tuo potere, e sono pronta a testimoniarlo anche davanti ai tuoi nemici, anche a prezzo che mi venga levata questa seconda vita, che d’altronde non è più mia. Tu me l’hai data, Maestro buono, per pietà di una madre e di un padre. Ma io…». La fanciulla, una bella fanciulla già donnina, dai dolci occhioni splendenti nel viso puro e intelligente, si arresta per un’onda di pianto che la strozza, gocciando dalle lunghe ciglia sulle guance.
   «Perché piangi, ora?», chiede Gesù ponendole la mano sui capelli.
   «Perchè… mi è stato detto che Tu dici che morrai…».
   «Tutti si muore, fanciulla».
   «Ma non così come Tu dici! Io… oh! ora io non avrei voluto essere tornata viva, per non vedere ciò, per non esserci quando… questo orrore sarà…».
   «Allora non ci saresti neppure stata per darmi la consolazione che mi dài ora. Non sai che la parola, anche una sola, di un puro e di uno che mi ama, leva ogni pena da Me?».
   «Si? Oh! allora Tu non ne devi più avere perchè io ti amo più del padre, della madre e della mia vita!».
   «Così è».
   «Allora vieni. Non stare solo. Parla per me, per Giairo, per la mamma, per il piccolo Davide, per quelli che ti amano, insomma. Siamo tanti e saremo più ancora. Ma non stare solo. Viene malinconia», e materna d’istinto come ogni donna onesta, termina dicendo: «Con me vicino nessuno ti farà del male. Ed io, del resto, ti difenderò».
   Gesù si alza e l’accontenta. La mano nella mano, traversano le vie ed entrano nella sinagoga da una porta laterale.

 5 Giairo, che stà leggendo ad alta voce un rotolo, sospende la lettura e dice, inchinandosi profondamente: «Maestro, te ne prego, per i retti di cuore parla. Preparaci alla Pasqua con la tua santa parola».
   «Stai leggendo dei Re, non è vero?».
   «Si, Maestro. Cercavo di fare riflettere che chi si separa dal Dio vero cade in idolatria di vitelli d’oro».
   «Bene hai detto. Nessuno ha da dire nulla?».
   Si alza un brusio dalla folla. Chi vuole che parli Gesù e chi urla: «Abbiamo fretta. Si dicano le preghiere e si cessi l’adunanza. Andiamo a Gerusalemme, d’altronde, e là udremo i rabbi», e chi urla così sono i molti disertori di ieri, che il sabato ha trattenuto a Cafarnao.
   Gesù li guarda con somma mestizia e dice: «Avete fretta. E’ vero. Anche Dio ha fretta di giudicarvi. Andate pure». Poi, volgendosi a quelli che li rimproverano dice: « Non li sgridate. Ogni pianta dà il suo frutto».
   «Signore! Ripeti il gesto di Nehemia! (Neemia 5, 13) Tu, Sacerdote supremo!», grida sdegnato Giairo, e gli fanno coro gli apostoli, i discepoli fedeli e quelli di Cafarnao.
   Gesù apre le braccia a croce e, pallidissimo, un vero viso straziato eppure dolcissimo, grida: «Ricordati di Me, o mio Dio! E in bene! E ricordati pure in bene di loro! Io li perdono!». (Neemia 5, 19)

 6 La sinagoga si svuota, rimanendo i fedeli a Gesù…
   E vi è uno straniero in un angolo. Un uomo robusto che nessuno osserva, al quale nessuno parla. Del resto egli pure non parla con nessuno. Guarda solo fissamente Gesù, tanto che il Maestro volge il suo sguardo in quella direzione, lo vede e chiede a Giairo chi sia.
   «Non so. Uno di passaggio certo».
   Gesù lo interpella: «Chi sei?».
   «Nicolai, proselite di Antiochia, diretto a Gerusalemme per la Pasqua».
   «Chi cerchi?».
   «Te, Signore Gesù di Nazaret. Ho desiderio di parlarti».
   «Vieni». E avutolo vicino esce con lui nell’orto dietro la sinagoga per ascoltarlo.
   «Ho parlato ad Antiochia con un tuo discepolo di nome Felice. Ho ardentemente desiderato di conoscerti. Mi ha detto che luogo di sosta tua è Cafarnao, e hai la Madre a Nazaret. E anche che vai al Getsemani o a Betania. L’Eterno fa che io ti trovi al primo luogo. C’ero ieri… E ti ero presso stamane mentre Tu piangevi pregando, presso la fonte… Ti amo, Signore. Perchè sei santo e mite. Credo in Te. Le tue azioni, le tue parole mi avevano già fatto tuo. Ma la tua misericordia di poco fa, per i colpevoli, mi ha deciso. Signore, accoglimi al posto di chi ti abbandona! Vengo a Te con tutto quanto ho: la vita e i beni, tutto». Si è inginocchiato dicendo le ultime parole.
   Gesù lo guarda fissamente… poi dice: «Vieni. Da oggi sarai del Maestro. Andiamo dai tuoi compagni».
   Tornano nella sinagoga, dove è un grande parlare dei discepoli e degli apostoli con Giairo.
   «Ecco un nuovo discepolo. Il Padre mi consola. Amatelo come un fratello. Andiamo con lui a dividere il pane e il sale. Poi nella notte voi partirete con lui per Gerusalemme e noi colle barche andremo a Ippo… E non dite la mia strada a nessuno, onde Io non sia trattenuto».

 7 Ma intanto il sabato è finito, e quelli che vogliono fuggire Gesù sono in folla sulla spiaggia, per contrattare i traghetti per Tiberiade. E litigano con Zebedeo che non vuole cedere la sua barca, già pronta, vicina a quella di Pietro, per la partenza nella notte di Gesù coi i dodici.
   «Io vado ad aiutarlo!», dice Pietro che è irritato.
   Gesù, ad evitare urti troppo forti, lo trattiene dicendo: «Andiamo tutti, non tu solo».
   E vanno… E gustano l’amarezza di vedere che i fuggenti se ne vanno senza un saluto, tagliando netto ogni discussione pur di allontanarsi da Gesù… e sentono anche qualche epiteto spregevole e consigli acri ai fedeli discepoli…
   Gesù si volge per tornare a casa dopo che la turba ostile se ne è andata, e dice al nuovo discepolo: «Li senti? Questo è ciò che ti attende venendo a Me».
   «Lo so. Per questo resto. Ti avevo visto in un giorno glorioso fra folla che ti acclamava salutandoti “re”. Ho scosso le spalle dicendo: “Un altro povero illuso! Un’altra piaga per Israele!”, e non ti ho seguito perchè parevi un re, e neppure a Te pensavo più. Ora ti seguo perchè nelle tue parole e nella tua bontà vedo il promesso Messia».
   «In verità tu sei più giusto di molti altri. Però ancora una volta lo dico. Chi spera in Me un re terreno si ritiri. Chi sente che si vergognerà di Me nel cospetto del mondo accusatore si ritiri. Chi si scandalizzerà di vedermi trattato da malfattore si ritiri. Ve lo dico mentre ancora potete farlo senza essere compromessi agli occhi del mondo. Imitate coloro che fuggono su quelle barche, se non vi sentite di condividere la mia sorte nell’obbrobrio per poterla condividere poi nella gloria. Perchè questo sta per avvenire: il Figlio dell’uomo sta per essere accusato e messo poi nelle mani degli uomini, i quali lo uccideranno come un malfattore e crederanno di averlo vinto. Ma inutilmente avranno fatto il loro delitto. Perchè Io risorgerò dopo tre giorni e trionferò. Beati quelli che sapranno essere meco fino alla fine!».

 8 Sono giunti alla casa e Gesù affida ai discepoli il nuovo venuto, salendo da solo dove era prima. Anzi entra nella stanza superiore e si siede, pensando.
   Salgono dopo un poco l’Iscariota con Pietro.
   «Maestro, Giuda mi ha fatto riflettere a delle cose giuste».
   «Dille».
   «Tu prendi questo Nicolai, un proselite, e del quale ignoriamo il passato. Già tante noie abbiamo avuto… e abbiamo. E ora? Che sappiamo di lui? Possiamo fidarci? Giuda giustamente dice che potrebbe essere una spia mandata dai nemici».
  «Ma sì! Un traditore! Perché non vuole dire da dove viene e chi lo manda? Io l’ho interrogato, ma dice solo: “Sono Nicolai di Antiochia, proselite”. Io ho fieri sospetti».
   «Ti ricordo che egli viene perchè mi vede tradito».
   «Può essere menzogna! Può essere un tradimento!».
   «Chi dovunque vede menzogna o vede tradimento è anima capace di tali cose, perchè si misura sul proprio modello», dice serio Gesù.
   «Signore, Tu mi offendi!», grida Giuda sdegnato.
   «Lasciami, dunque, e vai con chi mi abbandona».
   Giuda esce sbatacchiando la porta con mal modo.
   «Però, Signore, Giuda non ha tutti i torti… E poi non vorrei che… quell’uomo dicesse di Giovanni. Non può essere che l’uomo di Endor il Felice che ti manda questo…».
   «Così è certamente. Ma Giovanni di Endor è prudente ed ha ripreso il suo antico nome. Stà tranquillo, Simone. Un uomo che si fa discepolo, perchè sente che la mia causa umana è già persa, non può essere che uno retto di spirito. Ben diverso è quello di colui che ora è uscito, e che è venuto a Me perchè sperava di essere il principe di un re potente… e non si persuade che Io sono re solo per lo spirito…».
   «Sospetti di lui, Signore?».
   «Di nessuno. Ma in verità ti dico che dove giungerà Nicolai, discepolo e proselite, Giuda di Simone apostolo, israelita e giudeo, non giungerà».
   «Signore, io avrei voglia di interrogare Nicolai su… Giovanni».
  «Non lo fare. Giovanni non gli ha dato incarichi perchè è prudente. Non essere tu l’imprudente».
   «No, Signore. Te lo chiedevo soltanto…».
   «Scendiamo ad affrettare le cene. A notte alta partiremo… Simone… mi ami tu?».
   «Oh! Maestro! Ma che dici?».
   «Simone, il mio cuore è più scuro del lago in una notte di tempesta e tanto agitato come quello…».
   «Oh! Maestro mio!… Che ti devo dire, se io sono ancor più… scuro e agitato di Te? Ti dirò: “Ecco il tuo Simone. E se ti può dare conforto il mio cuore, prenditelo”. Non ho che questo, ma è sincero».
   Gesù gli pone per un momento la testa sul petto ampio e robusto e poi si alza e scende, con Pietro.

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Lc 8, 4-15: «Il significato della parabola è questo: il seme è la parola di Dio».

Vangelo Novus Ordo Lc 8, 4-15
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, poiché una grande folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città, Gesù disse con una parabola: «Il seminatore uscì a seminare il suo seme. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la mangiarono. Un’altra parte cadde sulla pietra e, appena germogliata, seccò per mancanza di umidità. Un’altra parte cadde in mezzo ai rovi e i rovi, cresciuti insieme con essa, la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono, germogliò e fruttò cento volte tanto». Detto questo, esclamò: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!».
I suoi discepoli lo interrogavano sul significato della parabola. Ed egli disse: «A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo con parabole, affinché
vedendo non vedano
e ascoltando non comprendano.
Il significato della parabola è questo: il seme è la parola di Dio. I semi caduti lungo la strada sono coloro che l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la Parola dal loro cuore, perché non avvenga che, credendo, siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, ricevono la Parola con gioia, ma non hanno radici; credono per un certo tempo, ma nel tempo della prova vengono meno. Quello caduto in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione. Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
«Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza».


Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’

Paralleli Novus ordo

   Cap. CLXXIX. La parabola del seminatore. A Corozim con il nuovo discepolo Elia.

  4 giugno 1945.

 1 Mi dice Gesù mostrandomi il corso del Giordano, meglio, lo sbocco del Giordano nel lago di Tiberiade, là dove è stesa la città di Betsaida sulla riva destra del fiume, rispetto a chi guarda il nord: «Ora la città non sembra più sulle rive del lago, ma un poco in dentro nel retroterra. E ciò sconcerta gli studiosi. La spiegazione si deve cercare nell’interramento del lago da questa parte, dovuto a venti secoli di terriccio depositato dal fiume e ad alluvioni e frane scese dai colli di Betsaida. Allora la città era proprio all’imbocco del fiume nel lago, e anzi le barche più piccole, e nelle stagioni più ricche d’acque, risalivano per un buon tratto, fino a quasi l’altezza di Corozim, il fiume stesso, che serviva però sempre da porto e ricovero sulle sue rive alle barche di Betsaida nei giorni di burrasca del lago. Questo non per te, alla quale poco importa, ma per i dottori difficili. E ora va’ avanti».

 2 Le barche degli apostoli, fatto il breve tratto di lago che separa Cafarnao da Betsaida, ammarrano in questa città. Ma altre barche le hanno seguite e molti ne smontano unendosi subito a quelli di Betsaida venuti a salutare il Maestro, che entra nella casa di Pietro dove… è da capo la moglie, che suppongo abbia preferito la solitudine al vivere fra i continui lagni della madre verso suo marito.
   La gente, fuori, reclama a gran voce il Maestro, cosa che fa inquietare non poco Pietro, che sale sulla terrazza e arringa cittadini o meno, dicendo che ci vuole rispetto ed educazione. Lui, il suo Maestro, se lo vorrebbe godere un poco in pace, ora che l’ha nella sua casa, e invece non ha tempo e soddisfazione di offrirgli neppure un poco di acqua e miele fra le molte cose che ha detto alla moglie di portare, e brontola.
   Gesù lo guarda sorridendo e crolla il capo dicendo: «Sembra che tu non mi veda mai e che sia un caso essere insieme!»
   «Ma è così! Quando siamo per il mondo siamo forse io e Te? Nemmeno per sogno! Fra Te e me c’è il mondo coi suoi malati, coi suoi afflitti, coi suoi ascoltatori, coi suoi curiosi, coi suoi calunniatori, coi suoi nemici, e noi non siamo mai io e Te. Qui invece Tu sei con me, in casa mia, e dovrebbero capirlo!». E’ proprio inquieto.
   «Ma non vedo diversità, Simone. Il mio amore è uguale, la mia parola è la stessa. Che Io te la dica a te in privato, o che la dica per tutti, non è lo stesso?».

 3 Pietro confessa allora la sua grande pena: «È che io sono zuccone e mi distraggo con facilità. Quando Tu parli su una piazza, su un monte, fra tanta folla, io, non so perché, capisco tutto, ma poi non ricordo nulla. L’ho detto anche ai compagni e mi hanno dato ragione. Gli altri, voglio dire il popolo che ti ascolta, ti capisce e ricorda quello che dici. Quante volte abbiamo sentito confessare da uno: “Non ho più fatto questo perché Tu lo hai detto”, oppure: “Sono venuto perché una volta ti ho sentito dire quest’altro e mi ha ferito il pensiero”. Noi invece… uhm! è come un corso d’acqua che passa e non si ferma. La sponda non l’ha più quell’acqua che è passata. Ne viene dall’altra, sì, sempre altra, e sempre tanta. Ma passa, passa, passa… E io penso con terrore che, se come Tu dici sarà, che verrà il momento che Tu non sarai più a fare la parte del fiume e… e io… Che avrò da dare a chi ha sete, se non serbo neppure una goccia del tanto che mi dai?».
   Anche gli altri appoggiano i lamenti di Pietro, lamentandosi di non ritrovare mai niente di tutto quello che sentono, quando vorrebbero trovarlo per rispondere ai molti che li interrogano. Gesù sorride e risponde: «Ma non mi pare. La gente è molto contenta anche di voi…»
   «Oh! sì! Per quello che facciamo! Farti largo, e dare delle gomitate per questo, portare i malati, raccogliere gli oboli, e dire: “Sì, il Maestro è quello!”. Bella roba, in verità!».
   «Non ti denigrare troppo, Simone».
   «Non mi denigro. Mi conosco».
   «È la più difficile delle sapienze. Ma Io ti voglio levare questa grande paura. Quando Io ho parlato, e voi non avete potuto tutto comprendere e ritenere, domandate senza timore di apparire noiosi o di sconfortarmi. Abbiamo sempre delle ore di intimità. In queste apritemi il cuore. Do tanto a tanti. E che non darei a voi che amo come più non potrebbe Iddio? Hai parlato di onda che va e nulla resta alla riva. Verrà un giorno in cui ti accorgerai che ogni onda ti ha deposto un seme, e che ogni seme ha fatto pianta. Ti troverai davanti fiori e piante per tutti i casi, ti stupirai di te stesso dicendo: “Ma che mi ha fatto il Signore?”, perché tu allora sarai redento dalla schiavitù del peccato e le tue virtù attuali si saranno perfezionate a grande altezza».
   «Tu lo dici, Signore, ed io mi riposo in questa tua parola».

 4 «Ora andiamo da chi ci attende. Venite. Pace a te, donna. Sarò tuo ospite questa sera».
   Escono e Gesù si dirige al lago per non essere oppresso dalla calca. Pietro è sollecito a staccare la barca di pochi metri dalla riva di modo che la voce di Gesù sia udita da tutti, ma che uno spazio sia fra Lui e gli ascoltatori.
   «Da Cafarnao a qua Io ho pensato quale parola dirvi. E ho trovato indicazione nei fatti del mattino. Voi avete visto tre uomini venire a Me. L’uno spontaneamente, l’altro perché da Me sollecitato, il terzo per subito entusiasmo. E avete anche visto che, di questi, due soli Io ne ho presi. Perché? Ho forse visto nel terzo un traditore? No, in verità. Ma un impreparato. All’apparenza pareva più impreparato questo che ora è al mio fianco, diretto prima a seppellire suo padre. Invece il più impreparato era il terzo. Questo era tanto preparato, a sua stessa insaputa, che ha saputo compiere un ben eroico sacrificio. L’eroismo nel seguire Iddio è sempre prova di forte preparazione spirituale. Questo spiega certi sorprendenti fatti che avvengono intorno a Me. I più preparati a ricevere il Cristo, quale che sia la loro casta e la loro cultura, vengono a Me con una prontezza e una fede assoluta.
   I meno preparati mi osservano come un uomo che esce dal consueto, oppure mi studiano con diffidenza e curiosità, oppure ancora mi attaccano e mi denigrano accusandomi in vari modi. Le diverse maniere di agire sono in proporzione della impreparazione degli spiriti.
   Nel popolo eletto si dovrebbero trovare da per tutto spiriti pronti a ricevere questo Messia nella cui attesa si sono consumati d’ansia i Patriarchi e i Profeti, questo Messia venuto finalmente, preceduto e accompagnato da tutti i segni profetizzati, questo Messia la cui figura spirituale si delinea sempre più chiara attraverso i miracoli visibili sulle membra e sugli elementi, e i miracoli invisibili sulle coscienze che si convertono e sui gentili che si volgono al Dio vero. Invece così non è. E la prontezza nel seguire il Messia è fortemente ostacolata proprio nei figli di questo popolo e, doloroso a dirsi, lo è tanto più quanto più si sale nelle classi più alte di esso.
   Non dico questo per scandalizzarvi. È per indurvi a pregare ed a riflettere. Perché avviene questo? Perché i gentili e i peccatori fanno più strada sulla via mia? Perché essi accolgono quanto Io dico, e gli altri no? Perché i figli d’Israele sono ancorati, anzi, sono incrostati come ostriche perlifere al banco su cui sono nate. Perché sono saturati, ricolmati, obesi della loro sapienza, e non sanno fare largo alla mia col gettare il superfluo per fare posto al necessario. Gli altri non hanno questa schiavitù. Sono poveri pagani, o poveri peccatori, disancorati come nave alla deriva, sono dei poveri che non hanno tesori propri ma solo fardelli di errori o di peccati, dei quali si spogliano con gioia non appena riescono a comprendere cosa è la Buona Novella e sentono il suo miele corroborante ben diverso dal disgustoso miscuglio dei loro peccati.

 5 Udite, e forse capirete meglio come possono esservi diversi frutti ad una stessa opera. Un seminatore andò a seminare. I suoi campi erano molti e di diversa razza. Ce ne erano alcuni che egli aveva ereditati dal padre, sui quali la sua sbadataggine aveva lasciato proliferare piante spinose. Altri erano un suo acquisto, li aveva comperati così come erano da un negligente e tali li aveva lasciati. Altri ancora erano stati intersecati da strade, perché l’uomo era un grande comodista e non voleva fare molta strada per andare da un luogo all’altro. Infine ce ne erano alcuni, i più prossimi alla casa, sui quali egli aveva vegliato per avere un aspetto piacevole davanti alla dimora. Questi erano ben mondi di sassaia, di spine, di gramigne e così via.
   L’uomo dunque prese il suo sacchetto di grano da seme, il migliore dei grani, e iniziò la semina. Il seme cadde nel buon terreno soffice, arato, mondato, concimato dei campi prossimi alla casa. Cadde nei campi intersecati da vie e viette, che li spezzettavano tutti portando inoltre bruttura di polvere arida sulla terra fertile. Altro seme cadde sui campi dove l’inettitudine dell’uomo aveva lasciato proliferare le piante spinose. Ora l’aratro le aveva travolte, pareva non ci fossero più, ma c’erano, perché solo il fuoco, la radicale distruzione delle male piante, impedisce il loro rinascere. L’ultimo seme cadde sui campi comperati da poco e che egli aveva lasciati così come erano, senza dissodarli in profondità e mondarli da tutte le pietre sprofondate nel suolo a fare un pavimento duro sul quale non avevano presa le tenere radici. E poi, sparso tutto il suo seme, se ne tornò a casa e disse: “Oh! bene! Ora non c’è che da attendere la raccolta. E si beava perché, col passare dei mesi, vedeva spuntare fitto il grano nei campi davanti alla casa, e crescere… oh! Che soffice tappeto! e spighire… oh! che mare! e imbiondire e cantare, battendo spiga a spiga, l’osanna al sole. L’uomo diceva: Come questi campi, tutti! Prepariamo la falce e i granai. Quanto pane! Quanto oro!”.

 E si beava perché, col passare dei mesi, vedeva spuntare fitto il grano nei campi davanti alla casa, e crescere… oh! Che soffice tappeto! e spighire… oh! che mare! e imbiondire e cantare, battendo spiga a spiga, l’osanna al sole. L’uomo diceva: Come questi campi, tutti! Prepariamo la falce e i granai. Quanto pane! Quanto oro!”. E si beava…
   Segò il grano dei campi più vicini e poi passò a quelli ereditati dal padre, ma lasciati inselvatichire. E restò di stucco. Grano e grano era nato, perché i campi erano buoni e la terra bonificata dal padre era grassa e fertile. Ma la sua stessa fertilità aveva agito anche sulle piante spinose, travolte ma non sterilite. Esse erano rinate ed avevano fatto un vero soffitto di ramaglie irte di rovi, attraverso le quali il grano non aveva potuto emergere che con le rare spighe ed era morto soffocato quasi tutto.
   L’uomo disse: “Sono stato negligente in questo posto. Ma altrove non erano rovi, e andrà meglio”. E passò ai campi di recente acquisto. Il suo stupore crebbe in pena. Sottili, e ormai disseccate, foglie di grano giacevano come fieno secco sparse per ogni dove. Fieno secco. “Ma come? Ma come?” gemeva l’uomo. “Eppure qui non sono spine! Eppure il grano era lo stesso! Eppure era nato folto e bello. Lo si vede dalle foglie ben formate e numerose. Perché allora tutto è morto senza fare spiga?”. E con dolore si dette a scavare il suolo per vedere se trovava nidi di talpe o altri flagelli. Insetti e roditori no, non ce ne erano. Ma quanti, quanti sassi! Una petraia! I campi erano letteralmente selciati da scaglie di pietra e la poca terra che li copriva era un inganno. Oh! se avesse approfondito l’aratro quando era tempo! Oh! se avesse scavato, prima di acettare quei campi e comperarli per buoni! Oh! se almeno, dopo lo sbaglio fatto di acquistare quanto gli veniva proposto senza persuadersi della sua bontà, li avesse resi buoni a fatica di reni! Ma ormai era tardi ed era inutile il rammarichio.
   L’uomo si alzò in piedi avvilito e andò ai campi intersecati di stradette per sua comodità… E si strappò le vesti dal dolore. Qui non c’era nulla, assolutamente nulla… La terra scura del campo era coperta da un leggero strato di polvere bianca… L’uomo si accasciò al suolo gemendo: “Ma qui perché? Qui non spine e non sassi perché questi sono campi nostri. L’avo, il padre, io, li abbiamo sempre avuti e in lustri e lustri li abbiamo fatti fertili. Io vi ho aperto le strade, avrò levato del terreno al campo, ma ciò non può averlo fatto sterile così…”. Piangeva ancora quando ebbe risposta al suo dolore da un fitto sciame d’uccelli che si accanivano dai sentieri sul campo e da questo ai sentieri per cercare, cercare, cercare semi, semi, semi… Il campo, divenuto una rete di stradette sui bordi delle quali era caduto del grano, aveva attirato molti uccelli, e questi prima avevano mangiato il grano caduto sulla via e poi quello del campo, fino all’ultimo chicco.
   Così il seme, uguale per tutti i campi, aveva dato dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta, dove il nulla. Chi ha orecchie da intendere intenda. Il seme è la Parola: uguale per tutti. I luoghi dove cade il seme: i vostri cuori. Ognuno applichi e comprenda. La pace sia con voi».

 7 E poi, rivolgendosi a Pietro, dice: «Risali finché puoi e poi ammarra dall’altro lato».
   E mentre le due barche fanno poca via sul fiume per poi fermarsi presso la sponda, Gesù si siede chiedendo al discepolo novello: «Chi resta, ora, a casa tua?».
   «Mia madre col fratello maggiore, sposato da cinque anni. Le sorelle sono sparse per la regione. Mio padre era molto buono. E mia madre lo piange desolatamente». Il giovane si arresta bruscamente, perché sente che un singhiozzo gli monta dal cuore.
   Gesù lo afferra per una mano e dice: «Ho conosciuto Io pure questo dolore ed ho visto piangere mia Madre. Ti capisco perciò…»
   Lo sfregare della barca sul greto fa sì che il discorso si interrompa per permettere di scendere a terra. Qui non sono più i colli bassi di Betsaida che quasi tuffano il muso nel lago, ma una pianura ricca di messi si stende da questa sponda, opposta a Betsaida, verso il nord.
   «Andiamo a Meron?» chiede Pietro.
   «No. Prendiamo questo sentiero fra i campi».
   I campi, belli e ben tenuti, mostrano le spighe ancora tenere ma già formate; tutte alla stessa altezza, e col lieve ondeggiare che imprime loro il vento fresco che viene dal nord, sembrano un altro piccolo lago al quale fanno da vele gli alberi che si drizzano qua e là, pieni di zirli d’uccelli.
   «Questi campi non sono come quelli della parabola» osserva il cugino Giacomo.
   «No, davvero! Gli uccelli non li hanno devastati non ci sono spine e non sassi. Un bel grano! Fra un mese sarà già biondo…e fra due sarà pronto alla falce e al granaio» dice Giuda Iscariota.
   «Maestro… io ti ricordo ciò che hai detto in casa mia. Tu hai parlato tanto bene. Ma io comincio ad avere nella testa delle nuvole scompigliate come quelle lassù…» dice Pietro.
   «Questa sera te lo spiegherò.

 8 Ora siamo in vista di Corozim». E Gesù guarda fisso il neo discepolo, dicendo: «A chi da è dato. E l’avere non leva il merito del donativo. Conducimi al sepolcro vostro e alla casa di tua madre».
   Il giovane si inginocchia baciando fra le lacrime la mano di Gesù.
   «Alzati. Andiamo. Il mio spirito ha sentito il tuo pianto. Voglio fortificarti nell’eroismo con il mio amore».
   «Mi aveva raccontato Isacco l’Adulto quanto Tu eri buono. Isacco, sai? Quello al quale Tu hai risanato la figlia. E’ stato il mio apostolo. Ma vedo che la tua bontà è ancora più grande di quanto mi era stato detto».
   «Saluteremo anche l’Adulto per ringraziarlo di avermi dato un discepolo».
   Corozim è raggiunta ed è proprio la casa di Isacco la prima che si trova. Il vecchio, che sta tornando in casa, quando vede il gruppo di Gesù coi suoi, e fra essi il giovane di Corozim, alza le braccia, col suo bastoncello in mano, e resta senza fiato, a bocca aperta. Gesù sorride e il suo sorriso rende voce al vecchione.
   «Dio ti benedica, Maestro! Ma come a me quest’onore?»
   «Per dirti grazie».
   «Ma di che, mio Dio? Io devo dirtela questa parola. Entra, entra. Oh! che dolore che mia figlia sia lontana per assistere la suocera! Perché si è sposata, lo sai? Tutte le benedizioni dopo che ti ho incontrato! Lei guarita, e subito dopo quel ricco parente tornato da lontano, vedovo, con quei piccoli bisognosi di una madre… Oh! ma te le ho già dette queste cose! La mia testa è vecchia! Perdona».
   «La tua testa è saggia e dimentica anche di gloriarsi del bene che fa per il suo Maestro. Dimenticarsi del bene fatto è saggezza. Dimostra umiltà e fiducia in Dio».
   «Ma io… non saprei… E questo discepolo non l’ho per te?».
   «Oh!… Ma non ho fatto nulla, sai? Solo ho detto la verità… e sono contento che Elia sia con Te».
   Si volge a questo Elia e dice: «Tua madre, dopo il primo momento di stupore, ebbe rasciugato il pianto nel saperti del Maestro. Tuo padre ebbe un degno cordoglio, però. Da poco è nel sepolcro».
   «E mio fratello?».
   «Tace… Sai… gli è stato un po’ duro vederti assente… per il paese… Lui pensa ancora così…» Il giovane si volge a Gesù: «Tu lo hai detto. Ma io non vorrei che egli fosse morto… Fa’ che divenga vivo come me, e al tuo servizio».
   Gli altri non capiscono e guardano interrogativamente, ma Gesù risponde: «Non disperare e persevera». Poi benedice Isacco e se ne va, nonostante ogni pressione.

 9 Sostano prima presso il sepolcro chiuso e pregano. Poi, attraverso un vigneto ancora semispoglio, vanno alla casa di Elia.
   L’incontro fra fratelli è piuttosto sostenuto. Il maggiore si sente offeso e lo vuole far rilevare. Il minore si sente umanamente colpevole e non reagisce. Ma l’arrivo della madre, che senza parole si prostra e bacia l’orlo della veste di Gesù, rasserena l’ambiente e gli animi. Tanto che si vuole fare onore al Maestro. Il quale però non accetta nulla, ma solo dice: «Siano giusti i vostri cuori, l’uno verso l’altro, come giusto era colui che piangete. Non date impronta umana al sovrumano: la morte e l’elezione ad una missione. L’anima del giusto non si è agitata nel vedere che il figlio mancava alla sepoltura del suo cadavere. Ma si è anzi messa quieta, nella sicurezza sul futuro del suo Elia. Il pensiero del mondo non turbi la grazia dell’elezione. Se il mondo ha potuto stupire di non vedere costui presso il feretro paterno, gli angeli hanno esultato nel vederlo a fianco del Messia. Siate giusti. E tu, madre, sii consolata da questo. Hai educato con saggezza, e tuo figlio è stato chiamato dalla Sapienza. Vi benedico tutti. La pace sia con voi ora e sempre».
   Tornano sulla via che riprendono per andare al fiume e da qui a Betsaida. L’uomo, Elia, neppure si è attardato un istante sulla soglia paterna. Dopo il bacio di addio alla madre ha seguito il Maestro con la semplicità con cui un bambino segue il suo vero padre.

   Cap. CLXXX. Disputa nella cucina di Pietro a Betsaida. Spiegazione della parabola del seminatore. La notizia della seconda cattura del Battista.

  7 giugno 1945

 1 Eccoci di nuovo nella cucina di Pietro. La cena deve essere stata abbondante, perché i piatti coi resti di pesce e di carne, di formaggi, di frutta secche o per lo meno avvizzite, di focacce di miele, si ammucchiano su una specie di credenza che ricorda un poco le nostre madie toscane, e anfore con calici sono ancora sparsi sulla tavola.
   La moglie di Pietro deve aver fatto miracoli per fare contento il marito e deve avere lavorato tutta la giornata. Ora, stanca ma contenta, sta nel suo angolino e ascolta ciò che dice il suo uomo e ciò che dicono gli altri. Lo guarda, il suo Simone, che per lei deve essere un grande uomo anche se un poco esigente, e quando lo sente parlare con parole nuove su quella bocca che prima parlava solo di barche, di reti, di pesci e di denaro, ha persino uno sbattimento di palpebre come fosse abbagliata da troppa luce. Pietro, sia per la gioia di avere alla sua tavola Gesù, sia per la gioia dell’abbondante pasto consumato, è proprio in vena questa sera, e si rivela in lui il futuro Pietro che predica alle folle.
   Non so quale osservazione di un compagno abbia originato la risposta scultorea di Pietro che dice: «Avverrà loro come ai fondatori della torre di Babele. La loro stessa superbia provocherà il crollo delle loro teorie e rimarranno schiacciati».
   Al fratello obbietta Andrea: «Ma Dio è Misericordia. Impedirà il crollo per dare loro tempo di ravvedersi».
   «Non te lo pensare. A coronamento della loro superbia metteranno calunnia e persecuzione. Oh! io già me lo sento. Persecuzioni su noi per disperderci come testimoni odiosi. E, posto che attaccheranno con insidia. Avremo noi forza di resistenza?» chiede Tommaso.
   «Ecco… per me non l’avrei. Ma fido in Lui» e Pietro accenna il Maestro, che ascolta e tace stando un poco a capo chino come per tenere nascosto il suo viso espressivo.
   «Io penso che Dio non ci darà prove superiori alle nostre forze» dice Matteo.
   «O per lo meno aumenterà le forze in proporzione delle prove» termina Giacomo d’Alfeo.

 2 «Egli lo fa già. Ero ricco e potente. Se Dio non mi avesse voluto conservare per un suo fine, io sarei perito nella disperazione quando fui perseguitato e lebbroso. Avrei infierito su me stesso… Invece nel mio crollo completo scese una ricchezza nuova che non avevo mai posseduta prima, la ricchezza di una persuasione: “Dio c’è”. Prima.. – Dio.. – Sì, ero credente, ero un fedele israelita. Ma era una fede di formalismi. E mi pareva che il premio della stessa fosse sempre inferiore alle mie virtù. Mi permettevo di discutere con Dio perché mi sentivo ancora qualcosa sulla terra. Simon Pietro ha ragione. Io pure costruivo una torre di Babele con le autolodi e le soddisfazioni del mio io. Quando tutto mi crollò addosso, e fui un verme schiacciato dal peso di tutto questo inutile umano, allora non discussi più con Dio, ma con me stesso, col mio pazzo me stesso, e finii di demolirlo. E più lo facevo, facendo strada a ciò che io penso sia il Dio immanente sul nostro essere di terrestri, ecco che raggiungevo una forza, una ricchezza nuova. La certezza che non ero solo e che Dio vegliava sull’uomo vinto dall’uomo e dal male».
   «Secondo te, che pensi che sia Dio, questo che tu hai detto il Dio immanente sul nostro essere di terrestri”? Che vuoi dire? Non ti comprendo e mi pare un’eresia. Dio è quello che conosciamo attraverso la Legge ed i Profeti. Non ve ne è altro» dice un poco severo Giuda Iscariota.
   «Se ci fosse Giovanni te lo direbbe meglio di me. Ma io te lo dico come so. Dio è quello che conosciamo attraverso la Legge e i Profeti. E vero. Ma in che lo conosciamo? Come?».
   Giuda d’Alfeo scatta: «Poco e male. Ancora lo conoscevano essi, i Profeti che ce lo hanno descritto. Noi ne abbiamo l’idea confusa che trapela dall’ingombro di tutta una catasta accumulata dalle sètte…»
   «Sètte? Ma come parli? Noi non abbiamo sètte. Noi siamo i figli della Legge. Tutti» dice l’Iscariota sdegnato, aggressivo.
   «I figli delle leggi. Non della Legge. E’ una lieve differenza. Dal singolare al plurale. Ma nella sua realtà ciò è: che siamo figli di ciò che abbiamo creato, e non più di ciò che Dio ci ha dato» ribatte il Taddeo.
   «Le leggi sono nate dalla Legge» dice l’Iscariota.
   «Anche le malattie nascono dal nostro corpo, e non mi vorrai dire che sono cose buone» replica il Taddeo.
   «Ma lasciatemi sapere cosa è il Dio immanente di Simone Zelote». L’Iscariota, che non può ribattere alla osservazione di Giuda d’Alfeo, cerca di ricondurre la questione al punto di partenza.

 3 Simone Zelote dice: «Ai nostri sensi occorre sempre un termine per afferrare un idea. Ognuno di noi, parlo di noi credenti, crede per forza di fede all’Altissimo, Signore e Creatore, eterno Iddio che sta nel Cielo. Ma anche ogni essere ha bisogno di più di questa nuda fede, vergine, incorporea, atta e sufficiente agli angeli che vedono e amano Dio spiritualmente, condividendo con Lui la natura spirituale e avendo capacità di vedere Dio. Noi abbiamo bisogno di crearci una “figura” di Dio, la quale figura è fatta delle qualità essenziali che doniamo a Dio per dare un nome alla sua perfezione assoluta, infinita. Più l’anima si concentra e più riesce a raggiungere l’esattezza nella cognizione di Dio. Ecco ciò che io dico: il Dio immanente. Io non sono un filosofo. Forse avrò applicato male la parola. Ma insomma per me il Dio immanente è il sentire, il percepire Dio sul nostro spirito, e sentirlo e percepirlo non più come idea astratta ma come reale presenza datrice di una fortezza e di una pace nuova».
   «Va bene. Ma insomma come lo sentivi? Quale differenza c’è fra il sentire per fede e sentire per immanenza?» chiede un poco ironico l’Iscariota.
   «Dio è sicurezza, ragazzo. Quando tu lo senti come dice Simone, con quella parola che io non capisco alla lettera ma della quale capisco lo spirito – e credi che il nostro male è di capire solo la lettera e non lo spirito delle parole di Dio – vuol dire che riesci ad afferrare non solo il concetto della maestà terribile, ma della paternità dolcissima di Dio. Vuol dire che senti che, quando tutto il mondo ti giudicasse e condannasse con ingiustizia, Uno solo, Lui, l’Eterno che ti è padre, non ti giudica ma ti assolve e consola. Vuol dire che senti che quando tutto il mondo ti odiasse tu sentiresti su te un amore più grande di tutto il mondo. Vuol dire che segregato in una carcere o in un deserto tu sentiresti sempre che Uno ti parla e dice: “Sii santo per essere come il Padre tuo”. Vuol dire che per l’amore vero a questo Padre Dio, che finalmente si arriva a sentire tale, si accetta, si opera, si prende o si lascia senza misure umane, pensando solo a rendere amore per amore, a copiare il più possibile Dio nelle proprie azioni» dice Pietro.
   «Sei superbo! Copiare Dio! Non ti è concesso» giudica l’Iscariota.
   «Non è superbia. L’amore porta all’ubbidienza. Copiare Dio mi sembra ancora una forma di ubbidienza, perché Dio dice di averci fatto a sua immagine e somiglianza» replica Pietro.
   «Ci ha fatto. Noi non dobbiamo andare più su».
   «Ma sei un disgraziato se pensi così, caro ragazzo! Tu dimentichi che noi siamo decaduti e che Dio ci vuole riportare a ciò che eravamo».

 4 Gesù prende la parola: «Più ancora, Pietro, Giuda e voi tutti. Più ancora. La perfezione di Adamo era ancora suscettibile di aumento mediante l’amore che lo avrebbe portato ad una immagine sempre più esatta del suo Creatore. Adamo senza la macchia del peccato sarebbe stato un tersissimo specchio di Dio. Per questo Io dico: “Siate perfetti come è perfetto il Padre che è nei Cieli”. Come il Padre. Perciò come Dio. Pietro ha detto molto bene. E molto bene Simone. Vi prego ricordare le loro parole e applicarle alle vostre anime».
   La moglie di Pietro per poco si sviene nella gioia di sentire lodare così suo marito. Piange dentro il suo velo, quieta e beata. Pietro sembra gli venga un colpo apoplettico tanto diventa rosso. Resta muto per qualche momento e poi dice: «Ebbene, allora dammi il premio. La parabola di stamane…»
   Anche gli altri si uniscono a Pietro dicendo: «Si. Lo hai promesso. Le parabole servono bene a fare comprendere il paragone. Ma noi comprendiamo che esse hanno uno spirito superiore al paragone.

 5 Perché parli ad essi in parabole?».
   «Perché a loro non è concesso di intendere più di ciò che spiego. A voi va dato molto di più perché voi, miei apostoli, dovete conoscere il mistero; e vi è perciò dato di intendere i misteri del Regno dei Cieli. Per questo vi dico: “Domandate se non comprendete lo spirito della parabola”. Voi date tutto, e tutto vi va dato perché a vostra volta tutto voi possiate dare. Voi tutto date a Dio: affetti, tempo, interessi, libertà, vita. E tutto Dio vi dà per compensarvi e per farvi capaci di tutto dare in nome di Dio a chi è dopo di voi. Così a chi ha dato sarà dato e con abbondanza. Ma a chi non ha dato che parzialmente o non ha dato affatto, sarà tolto anche quello che ha.
   Parlo loro in parabole perché vedendo vedano solo quello che la loro volontà di aderire a Dio illumina, perché udendo, sempre per la stessa loro volontà di adesione, odano e comprendano. Voi vedete! Molti odono la mia parola, pochi aderiscono a Dio. I loro spiriti sono monchi della buona volontà. In loro si adempie la profezia di Isaia: “Udirete con le orecchie e non intenderete, guarderete con gli occhi e non vedrete”. Perché questo popolo ha un cuore insensibile; sono duri gli orecchi e hanno chiusi gli occhi per non vedere e per non sentire, per non intendere col cuore e non convertirsi acciò Io li guarisca. Ma voi beati per i vostri occhi che vedono e i vostri orecchi che odono, per la vostra buona volontà! In verità vi dico che molti profeti e molti giusti desiderarono vedere ciò che voi vedete e non lo videro, e udire ciò che voi udite e non l’udirono. Si consumarono nel desiderio di comprendere il mistero delle parole, ma spenta la luce della profezia ecco le parole rimanere come carboni spenti, anche per il santo che le aveva avute.
   Solo Dio disvela Se stesso. Quando la sua luce si ritrae, terminato il suo scopo di illuminare il mistero, l’incapacità di intendere fascia, come le bende di una mummia, la regale verità della parola ricevuta. Per questo Io ti ho detto stamane: “Verrà un giorno che ritroverai tutto quanto ti ho dato”. Ora non puoi ritenere. Ma dopo la luce verrà su te, e non per un attimo ma per un inseparabile connubio dello Spirito eterno col tuo, onde infallibile sarà il tuo ammaestramento in ciò che è cosa del Regno di Dio. E così come in te, nei tuoi successori, se vivranno di Dio come di unico pane.

 6 Ora sentite lo spirito della parabola.
   Abbiamo quattro generi di campi: quelli fertili, quelli spinosi, quelli sassosi, quelli pieni di sentieri. Abbiamo anche quattro generi di spiriti.
   Abbiamo gli spiriti onesti, gli spiriti di buona volontà, preparati dalla stessa e dalla buona opera di un apostolo, di un “vero” apostolo; perché ci sono apostoli che hanno il nome ma non lo spirito di apostoli, i quali sono più micidiali sulle volontà in formazione degli stessi uccelli, spini e sassi. Sconvolgono in modo tale, con le loro intransigenze, con le loro frette, con i loro rimproveri, con le loro minacce, che allontanano per sempre da Dio. Altri ve ne sono che, all’opposto, con un innaffiamento continuo di benignità fuori posto, fanno marcire il seme in un terreno troppo molle. Devirilizzano con la loro devirilizzazione gli animi che curano. Ma stiamo ai veri apostoli, ossia agli specchi tersi di Dio. Essi sono paterni, misericordiosi, pazienti, e nello stesso tempo forti come è il loro Signore. Or bene, gli spiriti preparati da questi e dalla loro propria volontà sono paragonabili ai campi fertili, mondi di pietre e di rovi, netti da gramigne e da logli, in cui prospera la parola di Dio, e ogni parola – un seme – fa cespo e spighe, dando dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta per cento. In questi che mi seguono ce ne sono? Certo. E santi saranno. Fra essi ce ne sono di tutte le caste e di tutti i paesi, anche gentili ci sono, e che pure daranno il cento per cento per la loro buona volontà, unicamente per essa, oppure per la loro e quella di un apostolo o discepolo che me li prepara.
   I campi spinosi sono quelli in cui l’incuria ha lasciato penetrare spinosi grovigli di interessi personali che soffocano il buon seme. Occorre sorvegliarsi sempre, sempre, sempre. Non dire mai: “Oh! ormai io sono formato, seminato, posso stare tranquillo che darò seme di vita eterna”. Occorre sorvegliarsi: la lotta fra il Bene e Male è continua. Avete mai osservato una tribù di formiche che si insedia in una casa? Eccole sul focolare. La donna non lascia più cibarie lì e le mette sul tavolo; e loro fiutano l’aria e danno l’assalto al tavolo. La donna le mette nella credenza e loro passano dalla serratura nella credenza. La donna appende al soffitto le sue provviste e loro fanno un lungo cammino lungo le pareti e i travicelli, si calano per la fune e mangiano. La donna le brucia, le scotta, le avvelena. E poi sta tranquilla credendo di averle distrutte. Oh! se non vigila, che sorpresa! Ecco le nuove nate che escono, e siamo da capo. Così finché si vive; bisogua sorvegliarsi per estirpare le male piante non appena spuntano. In caso contrario esse fanno un soffitto di rovi e soffocano il grano. Le cure mondane, l’inganno delle ricchezze creano il groviglio, affogano la pianta del seme di Dio e non le fanno fare spiga.
   Ecco ora i campi pieni di sassi.
   Quanti in Israele! Sono quelli che appartengono ai “figli delle leggi” come ha detto mio fratello Giuda molto giustamente. In loro non è la pietra unica della Testimonianza, non vi è la pietra della Legge. Vi è la sassaia delle piccole, povere, umane leggi create dagli uomini. Tante e tante che col loro peso hanno fatto a scaglie anche la pietra della Legge. Una rovina che impedisce ogni attecchimento di seme. Non è più nutrita la radice. Non c’è terra, non c’è succo. L’acqua fa marcire perché stagna sul pavimento di selci, il sole si arroventa su quelle selci e brucia le pianticine. Sono gli spiriti dei sostitutori delle complicate dottrine umane alla semplice dottrina di Dio. La ricevono anche con gioia, la mia parola. Al momento ne sono scossi e sedotti. Ma poi… Occorrerebbe l’eroismo di sgobbare a mondare il campo, l’animo e la mente da tutta la sassaia dei retori. Allora il seme farebbe radica e sarebbe un forte cespo. Così… è nulla. Basta un timore di rappresaglie umane. Basta una riflessione: “Ma e poi? Che me ne verrà dagli uomini potenti?” e il povero seme non nutrito langue. Basta che tutta la sassaia si agiti col suono vano dei cento e cento precetti che si sono sostituiti al Precetto, che ecco che l’uomo perisce col seme ricevuto… – Israele ne è pieno. Questo spiega come il venire a Dio vada in ragione inversa della potenza umana. Ultimi i campi pieni di strade, polverosi, nudi.
   Quelli dei mondani, degli egoisti. Il loro comodo è la loro legge, il godimento il loro fine. Non fare fatica, sonnecchiare, ridere, mangiare… – Lo spirito del mondo è re in questi. La polvere della mondanità ricopre il terreno che diviene terriccio. Gli uccelli, ossia le dissipazioni, si precipitano sui mille sentieri aperti per rendere più facile la vita. Lo spirito del mondo, ossia del Maligilo, becca e distrugge ogni seme che cade su questo terreno aperto a tutte le sensualità e le leggerezze.

 7 Avete inteso? Avete altro da chiedere? No? Allora possiamo andare a prendere riposo per partire domani per Cafarnao. Devo andare ancora in un posto prima di incominciare il viaggio verso Gerusalemme per la Pasqua».
   «Passeremo ancora per Arimatea?» chiede l’Iscariota.
   «Non è sicuro. A seconda dei…»
   Alla porta viene bussato violentemente.
   «Ma chi può essere a quest’ora?» dice Pietro alzandosi per aprire.
   Si presenta Giovanni. Stravolto, impolverato, con chiari segni di pianto sul viso.
   «Tu qui?» gridano tutti.
   «Ma che è accaduto?».
   Gesù, che si è alzato, dice solo: «La Madre dove è?».
   E Giovanni, venendo avanti e andando a inginocchiarsi ai piedi del suo Maestro, tendendo le braccia come per avere soccorso, dice: «La Madre sta bene, ma è in pianto come me, come tanti, e ti prega di non venire seguendo il Giordano dalla parte nostra. Mi ha mandato indietro per questo, perché… perché Giovanni tuo cugino è stato preso e imprigionato». E Giovanni piange mentre molto subbuglio si solleva fra i presenti.
   Gesù impallidisce profondamente ma non si agita. Solamente dice: «Alzati e racconta».
   «Andavo in giù con la Madre e le donne. Anche Isacco e Timoneo erano con noi. Tre donne e tre uomini. Ho ubbidito al tuo ordine di condurre Maria da Giovanni… ah! Tu lo sapevi che era l’ultimo addio!… Che doveva essere l’ultimo addio… Il temporale di giorni sono ci ha fatto sostare di poche ore. Ma sono bastate perché Giovanni non potesse più vedere Maria… Noi siamo arrivati all’ora di sesta e lui era stato catturato al gallicinio… »
   «Ma dove? Ma come? Da chi? Nel suo antro?» tutti chiedono, tutti vogliono sapere.
   «E’ stato tradito!… Si è usato il tuo Nome per tradirlo!».
   «Che orrore! Ma chi è stato?» urlano tutti.
   E Giovanni rabbrividendo, dicendolo piano questo orrore che neppur l’aria dovrebbe udire, confessa: «Da un suo discepolo…».
   Il subbuglio è al colmo. Chi maledice, chi piange, chi sbalordito resta in posa di statua.

 8 Giovanni si attacca al collo di Gesù e grida: «Io ho paura per Te! per Te! per Te! I santi hanno i traditori che per l’oro si vendono, per l’oro e la paura dei grandi, per sete di premio, per… per ubbidienza a Satana. Per mille, mille cose! Oh! Gesù, Gesù, Gesù! Che dolore! Il mio primo maestro! Il mio Giovanni che mi ha dato Te!».
   «Buono! Buono! Non mi accadrà nulla per ora».
   «Ma poi? Ma poi? Mi guardo… guardo questi… ho paura di tutti, anche di me. Ci sarà fra noi il tuo traditore…»
   «Ma sei pazzo? E credi che non lo faremo a pezzi?» urla Pietro.
   E l’Iscariota: «Oh! pazzo per davvero! Io non lo sarò mai. Ma, se mi sentissi indebolito al punto di poterlo diventare, mi ucciderei. Meglio così che uccisore di Dio».
   Gesù si libera dalla stretta di Giovanni e scuote rudemente l’Iscariota dicendo: «Non bestemmiare! Nulla ti potrà indebolire, se non vuoi. E se ciò fosse, fa’ di piangere, e non avere un delitto oltre al deicidio. Debole diviene chi da sé si svena di Dio».

 9 Poi torna da Giovanni, che piange col capo sul tavolo, e dice: «Parla, con ordine. Io pure soffro. Era il mio sangue ed il mio Precursore».
   «Non ho visto che i discepoli, parte di essi, costernati e furenti contro il traditore. Gli altri hanno accompagnato Giovanni verso la sua prigione per essergli vicino nella morte».
   «Ma non è ancora morto… l’altra volta poté fuggire » cerca di confortare lo Zelote che vuole molto bene a Giovanni.
   «Non è ancora morto. Ma morirà» risponde Giovanni. «Si. Morirà. Egli lo sa come Io lo so. Nulla e nessuno lo salverà questa volta. Quando? Non so. So che vivo non uscirà dalle mani di Erode».
   «Sì, di Erode. Senti. Egli è andato verso quella gola da cui noi pure passammo al ritorno in Galilea, fra l’Ebal e il Garizim, perché gli fu detto dal traditore: “Il Messia è morente per un assalto di nemici. Ti vuole vedere per affidarti un segreto”. E lui è andato col traditore e con qualche altro. Nell’ombra del vallone erano gli armati di Erode e lo hanno preso. Gli altri sono fuggiti portando la notizia ai discepoli rimasti presso Ennon. Erano appena venuti quando giunsi io con la Madre. E quello che è orribile è che era uno delle nostre città… e che sono stati i farisei di Cafarnao alla testa del complotto per prenderlo. Erano stati da lui dicendo che Tu eri stato loro ospite e che da lì partivi per la Giudea… Non sarebbe uscito dal suo rifugio altro che per Te…»

 10 Un silenzio di tomba succede alla narrazione di Giovanni. Gesù sembra svenato, cogli occhi di un azzurro cupissimo e come appannati. Sta a capo chino, la mano ancora sulla spalla di Giovanni, e la mano è scossa da un lieve tremito. Nessuno osa parlare. Gesù rompe il silenzio: «Andremo in Giudea da altra via. Ma domani devo andare a Cafarnao. Al più presto. Riposate. Io salgo fra gli ulivi. Ho bisogno di essere solo». Ed esce senza aggiungere altro.
   «Va certo a piangere» mormora Giacomo d’Alfeo.
   «Seguiamolo, fratello» dice Giuda Taddeo.
   «No. Lasciatelo piangere. Solo usciamo piano, in ascolto. Temo insidia da per tutto» risponde lo Zelote.
   «Si. Andiamo. Noi pescatori sulla riva. Se qualcuno viene dal lago lo vedremo. Voi per gli ulivi. E’ certo al suo solito posto, presso il noce. All’alba prepareremo le barche per andare presto. Quei serpenti! Eh! l’ho detto io! Di’, ragazzo? Ma… la Madre è proprio in sicuro?».
   «Oh, sì! Anche i pastori discepoli di Giovanni sono andati con Lei. Andrea… non lo vedremo più il nostro Giovanni!».
   «Taci! Taci! Mi sembra il canto del cuculo… Uno precede l’altro e… e…».
   «Per l’Arca santa! Tacete! Se parlate ancora di sventura al Maestro, comincio da voi a farvi assaggiare il sapore del mio remo sulle reni! » urla Pietro inferocito.
   «Voi» dice poi a quelli che restano per gli ulivi «prendete dei bastoni, dei grossi rami, là nella legnaia ce ne sono, e spargetevi armati. Il primo che si accosta a Gesù per nuocergli sia morto».
   «Discepoli! Discepoli! Bisogna essere cauti coi nuovi!» esclama Filippo.
   Il nuovo discepolo si sente ferito e chiede: «Dubiti di me? Egli mi ha scelto e voluto».
   «Non di te. Ma di quelli che sono scribi e farisei e dei loro adoratori. Da lì verrà la rovina, credetelo».
   Escono e si spargono chi per le barche, chi fra gli ulivi delle colline, e tutto ha termine.

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Lc 7, 1-10: «Egli merita che tu gli conceda quello che chiede, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga».

Vangelo Lc 7, 1-10
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù, quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al popolo che stava in ascolto, entrò in Cafàrnao.
Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza: «Egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano –, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga».
Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa, quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa».
All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!». E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
«Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!».


Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato

   Cap. CLXXVII. Guarigione del servo del centurione.

  2 giugno 1945

 1 Venendo dalla campagna Gesù entra in Cafarnao. Sono con Lui solo i dodici, anzi gli undici apostoli, perché non c’è Giovanni. I soliti saluti della gente su una gamma molto varia di espressioni, da quelli che sono tutta semplicità dei bambini, a quelli un poco timidi delle donne, a quelli estatici dei miracolati, fino a quelli curiosi o ironici. Ce ne sono per tutti i gusti.
   E Gesù risponde a tutti, a seconda di come è salutato: con carezze ai piccoli, benedizioni alle donne, sorrisi ai miracolati, e rispetto profondo per gli altri. Ma questa volta alla serie si unisce il saluto del centurione del luogo, credo. Lo saluta col suo: «Salve, Maestro!» al quale Gesù risponde col suo: «Dio venga a te».
   Il romano prosegue, mentre la folla si accosta curiosa di vedere come va l’incontro: «Sono più giorni che ti aspetto. Tu non mi riconosci fra gli ascoltatori del Monte. Ero vestito da cittadino. Non mi chiedi perché ero venuto?».
   «Non te lo chiedo. Che vuoi da Me?».
   «L’ordine è di seguire coloro che tendono assembramenti, perché troppe volte Roma dovette pentirsi di avere concesso riunioni di apparenza onesta. Ma, vedendo e udendo, ho pensato a Te come a… come a…

 2 Ho un servo malato, Signore. Egli giace nella mia casa, nel suo letto, paralizzato da un male nelle ossa, e soffre terribilmente. I nostri medici non lo guariscono. I vostri, che ho invitato a venire perché sono mali che vengono dalle arie corrotte di queste regioni, e voi li sapete curare con le erbe del suolo febbricoso della sponda dove stagnano le acque prima di esser bevute dalle arene del mare, si sono rifiutati di venire. Ne ho dolore perché è un servo fedele».
   «Io verrò e te lo guarirò».
   «No, Signore. Non chiedo che Tu faccia tanto. Sono pagano, sudiciume per voi. Se i medici ebrei temono contaminarsi col porre piede nella mia casa, con più ragione essa è contaminazione a Te che sei divino. Io non sono degno che Tu entri sotto il mio tetto. Ma se Tu dici da qui una sola parola il mio servo guarirà, perché Tu comandi a tutto quanto è. Ora se io che sono un uomo sottoposto a tante autorità, la prima delle quali è Cesare, per cui devo fare, pensare, agire come mi è comandato, posso a mia volta comandare ai soldati che ho sotto il mio comando, e se dico ad uno: “Va’ “, all’altro: “Vieni”, e al servo: “Fa’ questo “, uno va dove lo mando, l’altro viene perché lo chiamo, il terzo fa quello che dico, Tu, che sei Chi sei, sarai tosto ubbidito dalla malattia ed essa se ne andrà».
   «Non è un uomo la malattia…» obbietta Gesù.
   «Neppur Tu sei un uomo, ma sei l’Uomo. Puoi dunque comandare anche agli elementi e alle febbri perché tutto è soggetto al tuo potere».

 3 Dei maggiorenti di Cafarnao prendono in disparte Gesù e gli dicono: «Egli è romano, ma Tu ascoltalo perché è uomo dabbene che ci rispetta e ci aiuta. Pensa che ha fatto fabbricare proprio lui la nostra sinagoga e tiene in rispetto i suoi soldati perché non ci sbeffeggino nei sabati. Fàgli dunque grazia per amore della tua città, acciò egli non resti deluso ed irritato ed il suo amore non si volga in odio per noi».
   E Gesù, ascoltati questi e quello, si volge sorridendo al centùrione dicendo: «Va’ avanti che vengo».
   Ma il centurione torna a dire: «No, Signore, io l’ho detto: molto onore sarebbe se Tu entrassi sotto il mio tetto, ma non merito tanto; di’ solo una parola e il mio servo sarà guarito».
   «E sia. Va’ con fede. In questo istante la febbre lo lascia e la vita torna alle membra. Fa’ che alla tua anima pure venga la Vita. Va’».
Il centurione saluta militarmente, e poi si inchina e se ne va.

 4 Gesù lo guarda andare e poi si rivolge ai presenti e dice: «In verità vi dico che non ho trovato tanta fede in Israele. Oh! è pur vero! “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una gran luce. Sopra coloro che abitavano nell’oscura regione di morte la Luce è spuntata”, e ancora: “Il Messia, alzata la sua bandiera sulle nazioni, le riunirà”.
   Oh! Regno mio! Veramente a te affluiranno in numero sterminato! Più che tutti i cammelli e i dromedari di Madian e di Efa, e i portatori d’oro e incenso di Saba, più che tutti i greggi di Cedar e gli arieti di Nabaiot saranno numerosi coloro che verranno a te, ed il mio cuore si dilaterà di gioia vedendo venire a Me i popoli del mare e le potenze delle nazioni. Me aspettano le isole per adorarmi, e i figli degli stranieri edificheranno le mura della mia Chiesa della quale sempre staranno aperte le porte ad accogliere i re e la forza delle nazioni ed a santificarli in Me. Questo che Isaia ha visto, ecco si compirà! Io vi dico che molti verranno da oriente e occidente e sederanno con Abramo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei Cieli, mentre i figli del Regno saranno gettati nelle tenebre esteriori, dove sarà pianto e stridor di denti».
   «Tu dunque profetizzi che i gentili saranno pari ai figli d’Abramo?».
   «Non pari: superiori. Non vi rincresca che perché ciò è vostra colpa. Non Io, ma i Profeti lo dicono, ed i segni già lo confermano.

 Ora alcuno di voi vada verso la casa del centurione per constatare che il suo servo è guarito come la fede del romano lo meritava. Venite. Forse nella casa vi sono malati che attendono la mia venuta».
   E Gesù, con gli apostoli e qualche altro, perché i più si precipitano curiosi e schiamazzanti verso la casa del centurione, si dirige alla solita casa dove sosta nei giorni che è a Cafarnao.

Vangelo Lc 7, 36-50: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato».

Vangelo Novus Ordo Lc 7, 36-50
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo.
Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!».
Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene».
E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco».
Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
«La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo

   Cap. CCXXXVI. La cena in casa di Simone il fariseo e l’assoluzione a Maria di Magdala.

 1 A conforto del mio complesso soffrire, e per farmi dimenticare le cattiverie degli uomini, il mio Gesù mi concede questa soave contemplazione.
   Vedo una ricchissima sala. Un ricco lampadario a molti becchi pende nel centro ed è tutto acceso. Alle pareti tappeti bellissimi, sedili intarsiati ed incrostati di avorio e di laminature preziose e mobili pure molto belli.
   Nel centro una grande tavola quadrata ma composta di quattro tavole unite così.
   La tavola è certo apparecchiata in tal modo per i molti convitati (tutti uomini) ed è ricoperta di bellissime tovaglie e di ricco vasellame. Vi sono anfore e coppe preziose e molti sono i servi che si muovono intorno ad essa portando pietanze e mescendo vini. Nel centro del quadrato non c’è nessuno. Vedo il pavimento molto bello su cui si riflette la luce del lampadario ad olio. Dal lato esterno, invece, ci sono molti letti-sedili, tutti occupati dai commensali.
   Mi pare d’essere nell’angolo semibuio posto in fondo alla sala, presso ad una porta che è spalancata dalla parte esterna, ma che è nello stesso tempo chiusa da un pesante tappeto o arazzo che pende dal suo architrave.
una porta che è spalancata dalla parte esterna, ma che è nello stesso tempo chiusa da un pesante tappeto o arazzo che pende dal suo architrave.
   Nel lato più lontano dalla porta, ossia qui dove sono i due segni, è il padrone di casa con gli invitati più importanti. É un uomo vecchiotto, vestito con un’ampia tunica bianca stretta alla vita da una cintura ricamata. La veste ha anche, al collo e al fondo delle maniche e della veste stessa, dei bordi di ricamo applicato come fossero nastri ricamati o galloni, se più le piace chiamarli così. Ma il volto di questo vecchiotto non mi piace. E un volto maligno, freddo, superbo e avido.
   Nel lato opposto, di fronte a lui, sta il mio Gesù. Io lo vedo di fianco e direi quasi di dietro, alle spalle. Ha la sua solita veste bianca, i sandali, i capelli bipartiti sulla fronte e lunghi come sempre.
   Noto che tanto Lui come tutti i commensali non siedono, come io credevo si sedesse su quei letti-sedili, ossia perpendicolarmente alla tavola, ma parallelamente.    Nella visione delle nozze di Cana non avevo fatto molto caso a questo particolare, avevo visto che mangiavano stando appoggiati sul gomito sinistro, ma mi pareva che fossero meno adagiati, forse perché i letti erano meno lussuosi e molto più corti.    Questi sono dei veri letti, paiono i moderni divani alla turca.
   Gesù ha vicino Giovanni e, dato che Gesù sta appoggiato col gomito sinistro (come tutti), risulta che la posizione dei due è così: Insomma Giovanni è incastra-to fra la tavola e il corpo del Signore, giungendo col suo gomito verso l’inguine del Maestro, di modo che non gli ostacola di mangiare, ma che gli permette anche, se vuole, di appoggiarsi confidenzialmente al suo petto.   
   Di donne non ce ne è nessuna. Tutti parlano, e il padrone di casa ogni tanto si rivolge, con affettata condiscendenza e con palese degnazione, a Gesù. E chiaro che vuol dimostrargli, e dimostrare a tutti i presenti, che gli ha fatto un grande onore ad invitarlo nella sua ricca casa, lui, povero profeta giudicato anche un poco esaltato…
   Vedo che Gesù risponde con cortesia, pacatamente. Sorride del suo lieve sorriso a chi lo interroga, sorride con un sorriso luminoso se chi gli parla, o anche solo lo guarda, è Giovanni.

 2 Vedo alzarsi la ricca tenda che copre il vano della porta ed entrare una donna giovane, bellissima, riccamente vestita e accuratamente pettinata. La sua abbondantissima chioma bionda le fa sulla testa un vero ornamento di ciocche intrecciate con arte. Pare porti un elmo d’oro tutto a rilievi, tanto la chioma splende ed è abbondante. Ha una veste che, se la confronto con quella sempre vista alla Vergine Maria, direi che è molto eccentrica e complicata. Fibbie sulle spalle, gioielli per trattenere le increspature al sommo del petto, catenelle d’oro per delineare il petto stesso, cintura a borchie d’oro e gemme. Una veste procace che mette in rilievo le linee del bellissimo corpo. Sulla testa un velo così leggero che… non vela niente. É un’aggiunta ai suoi vezzi e basta. Ai piedi, sandali molto ricchi con fibbie d’oro, di pelle rossa e con lacci intrecciati sulla caviglia.
   Tutti, meno Gesù, si voltano a guardarla. Giovanni la osserva un attimo, poi si volge verso Gesù. Gli altri la fissano con apparente e maligna golosità. Ma la donna non li guarda per niente e non si cura del sussurrio che si è destato al suo entrare e dell’ammiccare di tutti i presenti, meno Gesù e il discepolo. Gesù mostra di non accorgersi di nulla. Continua a parlare terminando il discorso che aveva intavolato col padrone di casa.
   La donna va verso Gesù e si inginocchia presso i piedi del Maestro. Appoggia in terra un vasetto a forma di anfora molto panciuta, si leva il velo dal capo spuntando lo spillone prezioso che lo tratteneva puntato ai capelli, si sfila dalle dita gli anelli e posa tutto sul letto-sedile presso i piedi di Gesù, e poi prende fra le sue mani i piedi, prima il destro, poi il sinistro, e ne slaccia i sandali, li depone al suolo, poi bacia, con un gran scoppio di pianto, quei piedi, vi appoggia contro la fronte, se li carezza, e le lacrime cadono come una pioggia, che luccica alla fiamma del lampadario, che riga la pelle di quei piedi adorabili.

 3 Gesù volge lentamente il capo, appena appena, e il suo sguardo azzurro cupo si posa un istante sulla testa reclina. Uno sguardo che assolve. Poi torna a guardare verso il centro. La lascia libera nel suo sfogo.
   Ma gli altri no. Motteggiano fra loro, ammiccano, ghignano. E il fariseo si mette un momento seduto per vedere meglio, e ha uno sguardo fra desideroso, crucciato e ironico. Desideroso della donna. É palese questo sentimento. Crucciato che sia entrata tanto liberamente, cosa che potrebbe far pensare agli altri che la donna è… ospite frequente della sua casa. Ironico riguardo a Gesù…
   Ma la donna non si accorge di niente. Continua a piangere dirottamente, senza gridi. Solo lacrimoni e rari singulti. Poi si spunta i capelli, traendone le forcine d’oro che sostenevano la complicata pettinatura, e pone anche queste forcine vicino agli anelli e allo spillone. Le matasse d’oro si srotolano per le spalle. Ella le prende a due mani, se le porta sul petto e le passa sui piedi bagnati di Gesù, finché li vede asciutti. Poi immerge le dita nel vasetto e ne trae una pomata lievemente giallina e odorosissima. Un profumo fra di giglio e tuberosa si spande per tutta la sala. La donna attinge senza avarizia e stende e spalma e bacia e carezza.
   Gesù di tanto in tanto la guarda con tanta amorosa pietà. Giovanni, che si è voltato stupito allo scoppio di pianto, non sa distaccare l’occhio dal gruppo di Gesù e della donna. Guarda l’Uno e l’altra alternativamente. Il volto del fariseo è sempre più arcigno. 

 4 Odo qui le note parole del Vangelo, e le odo accompagnate da un tono e da uno sguardo che fanno abbassare il capo al vecchio astioso. Odo le parole di assoluzione alla donna, che se ne va lasciando ai piedi di Gesù i suoi gioielli. Ella si è arrotolato il velo intorno al capo serrando in esso alla bene meglio le chiome sfatte. Gesù, nel dirle:«Va’ in pace», le pone la mano sulla testa china, per un attimo. Ma con atto dolcissimo.

  5 Gesù ora mi dice: 
   «Quello che ha fatto chinare il capo al fariseo e ai suoi compagni, e che non è riportato nel Vangelo, sono le parole che il mio spirito, attraverso al mio sguardo, ha dardeggiato e confitto in quell’anima arida e avida. Ho risposto molto più di quanto non sia detto, perché nulla mi era occulto dei pensieri degli uomini. Ed egli mi ha capito nel mio muto linguaggio, che era ancor più denso di rimprovero di quanto non lo fossero le mie parole.
   Gli ho detto: “No. Non fare insinuazioni malvagie per giustificare te stesso a te stesso. Io non ho la tua libidine. Costei non viene a Me per attrazione di senso. Io non sono te e come sono i tuoi simili. Ella viene a Me perché il mio sguardo e la mia parola, udita per puro caso, le hanno illuminato l’anima in cui la lussuria aveva creato la tenebra. E viene perché vuol vincere il senso, e comprende, povera creatura, che da sola non vi riuscirebbe mai. Essa ama in Me lo spirito, nulla più che lo spirito che sente soprannaturalmente buono. Dopo tanto male che ha ricevuto da voi tutti, che avete sfruttato la sua debolezza per i vostri vizi ricambiandola poi con le staffilate dello sprezzo, ella viene a Me perché sente di aver trovato il Bene, la Gioia, la Pace, inutilmente cercate fra le pompe del mondo.
   Guarisci da questa tua lebbra di anima, fariseo ipocrita, sappi vedere giusto nelle cose. Deponi superbia di mente e lussuria di carne. Queste sono lebbre ben più fetide di quelle della vostra persona. Di quest’ultima il mio tocco vi può guarire perché per essa mi invocate, ma della lebbra dello spirito no, perché voi di questa non volete guarire perché vi piace. Costei lo vuole. Ed ecco che Io la mondo, ecco che Io la affranco dalle catene della sua schiavitù. La peccatrice è morta. Essa è là, in quegli ornamenti che ella si vergogna di offrirmi perché Io li santifichi usandoli per i bisogni miei e dei miei discepoli, per i poveri che Io soccorro con l’altrui superfluo perché Io, Padrone dell’universo, non possiedo nulla ora che sono il Salvatore dell’uomo. Essa è là in quel profumo sparso sui miei piedi, avvilito come i suoi capelli, su quella parte del corpo che tu hai spregiato di rinfrescare con l’acqua del tuo pozzo dopo che ho fatto tanto cammino per venire a portare luce anche a te.
   La peccatrice è morta. Ed è rinata Maria, rifatta bella come fanciulla pudica dal suo vivo dolore, dal suo retto amore. S’è lavata nel suo pianto. In verità ti dico, o fariseo, che fra costui che m’ama nella sua giovinezza pura e questa che m’ama nella sincera contrizione di un cuore rinato alla Grazia, Io non faccio differenza, e al puro e alla pentita commetto l’incarico di comprendere il mio pensiero come nessuno e quello di dare al mio Corpo le estreme onoranze ed il primo saluto (non conto quello particolare di mia Madre) quando Io sarò risorto”.
   Ecco quanto volevo dire col mio sguardo al fariseo.

 6 Ma a te faccio notare un’altra cosa, a tua gioia e a gioia di molti. 
   Anche a Betania Maria ripeté il gesto che segnò l’alba della sua redenzione. Vi sono gesti personali che si ripetono e denunciano una persona come lo stile della stessa.    Gesti inconfondibili. Ma, poiché era giusto, a Betania il gesto è meno avvilito e più confidenziale nella sua riverente adorazione.
   Molto ha camminato Maria da quell’alba di sua redenzione. Molto. L’amore l’ha trascinata come rapido vento in alto e in avanti. L’amore l’ha arsa come un rogo distruggendo in lei la carne impura e facendo signore in lei uno spirito purificato. E Maria, diversa nella sua risorta dignità di donna come diversa nella veste, ora semplice come quella della Madre mia, nell’acconciatura, nello sguardo, nel contegno, nella parola, nuova, ha un nuovo modo di onorarmi con lo stesso gesto. Prende l’ultimo dei suoi vasi di profumo, serbato per Me, e me lo sparge sui piedi, senza pianto, con sguardo che l’amore e la sicurezza d’esser perdonata e salvata fa lieto, e sul capo. Può ben ungermi e toccarmi il capo, ora, Maria. Il pentimento e l’amore l’hanno mondata col fuoco dei serafini ed ella è un serafino. 

7 Dillo a te stessa, o Maria, mia piccola “voce”, dillo alle anime. Va’, dillo alle anime che non osano venire a Me perché si sentono colpevoli. Molto, molto, molto è perdonato a chi molto ama. A chi molto mi ama. Voi non sapete, povere anime, come vi ama il Salvatore! Non temete di Me. Venite. Con fiducia. Con coraggio. Io vi apro il Cuore e le braccia.  Ricordatelo sempre: “Io non faccio differenza fra colui che mi ama con la sua purezza integra e colui che mi ama nella sincera contrizione d’un cuore rinato alla Grazia”. Sono il Salvatore. Ricordatevelo sempre.  
   Va’ in pace. Ti benedico».

   22 gennaio 1944.  

 8 Quest’oggi ho sempre pensato al dettato di Gesù di ieri sera e a quanto vedevo e comprendevo anche se non detto.  
   Intanto, per incidenza, le dico che i discorsi dei commensali, per quelli che capivo, ossia quelli particolarmente rivolti a Gesù, vertevano su fatti del giorno: i romani, la Legge contrastata da essi, e poi la missione di Gesù come Maestro di una nuova scuola. Ma sotto l’apparente benevolenza si capiva che erano domande viziose e capziose, fatte per trarlo in impiccio. Cosa non facile perché Gesù con poche parole poneva una risposta giusta e conclusiva ad ogni discorso.  
   Alla domanda, per esempio, di quale particolare scuola o setta si fosse fatto maestro nuovo, rispose semplicemente:  
   «Della scuola di Dio. È Lui che seguo nella sua santa Legge ed è di Lui che mi curo facendo sì che a questi piccoli (e guardava con amore Giovanni ed in Giovanni guardava tutti i retti di cuore) venga rinnovata in tutta la sua essenza così come era il giorno che il Signore Iddio la promulgò sul Sinai. Riporto gli uomini alla Luce di Dio».  
   All’altra su cosa pensasse dell’abuso di Cesare, che s’era fatto dominatore della Palestina, aveva risposto: «Cesare è ciò che è perché così vuole Iddio. Ricorda il profeta Isaia. Non chiama egli, per ispirazione divina, Assur “bastone” della sua collera? La verga che punisce il popolo di Dio che troppo s’è staccato da Dio ed ha la finzione per sua veste e per suo spirito? E non dice che, dopo averlo usato per punizione, lo spezzerà perché esso del suo compito se ne sarà abusato, divenendo di troppo superbo e feroce?».  Queste sono le due risposte che più mi hanno colpito.

 9 Questa sera, poi, il mio Gesù mi dice sorridendo:  
   «Ti dovrei chiamare come Daniele. Sei quella dei desideri e quella che mi sei cara perché desideri tanto il tuo Dio. E potrei continuare a dirti ciò che fu detto a Daniele dall’angelo mio:    “Non temere, perché, fin dal primo giorno in cui applicasti il tuo cuore a comprendere e ad affliggerti nel cospetto di Dio, sono state esaudite le tue preghiere ed Io sono venuto a causa di esse”. Ma qui non è l’angelo che parla. Io sono che ti parlo: Gesù.  
   Sempre, o Maria, Io vengo quando uno “applica il suo cuore a comprendere”. Non sono un Dio duro e severo. Sono Misericordia viva. E più rapido del pensiero vengo a chi si volge a Me.

 10 Anche alla povera Maria di Magdala, così immersa nel suo peccare, sono andato veloce, con lo spirito mio, non appena ho sentito sorgere in lei il desiderio di comprendere. Comprendere la luce di Dio e comprendere il suo stato di tenebre. E mi sono fatto a lei Luce.      Parlavo a molti quel giorno, ma in verità parlavo per lei sola. Non vedevo che lei, che s’era accostata portata da un empito d’anima che si rivoltava alla carne che la teneva soggetta. Non vedevo che lei col suo povero volto in tempesta, col suo sforzato sorriso che nascondeva, sotto una veste di sicurezza e gioia mendace che era un sfida al mondo e a se stessa, tanto interno pianto. Non vedevo che lei, ben più avvolta nei rovi della pecorella smarrita della parabola, lei che affogava nel disgusto della sua vita, venuto a galla come quelle ondate profonde che portano seco l’acqua del fondo.  
   Non ho detto grandi parole, né ho toccato un argomento indicato per lei, peccatrice ben nota, per non mortificarla e per non costringerla a fuggire, a vergognarsi o a venire. L’ho lasciata in pace. Ho lasciato che la mia parola e il mio sguardo scendessero in lei e vi fermentassero per fare di quell’impulso di un momento il suo glorioso futuro di santa. Ho parlato con una delle più dolci parabole: un raggio di luce e di bontà effuso proprio per lei. 

 11 E quella sera, mentre ponevo piede nella casa del ricco superbo, nel quale la mia parola non poteva fermentare in futura gloria perché uccisa dalla superbia farisaica, già sapevo che ella sarebbe venuta, dopo aver tanto pianto nella sua stanza di vizio e, alla luce di quel pianto, già deciso il suo futuro.  
Gli uomini, arsi di lussuria, nel vederla entrare hanno trasalito nella carne e insinuato col pensiero. Tutti l’hanno desiderata, meno i due “puri” del convito: Io e Giovanni. Tutti hanno creduto che ella venisse per uno di quei facili capricci che, vera possessione demoniaca, la gettavano in improvvise avventure. Ma Satana era ormai vinto. E tutti hanno, con invidia, pensato, vedendo che ad essi non si volgeva, che venisse per Me. L’uomo sporca sempre anche le cose più pure, quando è solo uomo di carne e sangue. Solo i puri vedono giusto, perché il peccato non è in loro a fare turbamento al pensiero.  

 12 Ma che l’uomo non comprenda, non deve sgomentare, Maria. Dio comprende. E basta per il Cielo. La gloria che viene dagli uomini non aumenta di un grammo la gloria che è sorte degli eletti in Paradiso. Ricordalo sempre.  
   La povera Maria di Magdala è sempre stata mal giudicata nei suoi atti buoni. Non lo era stata nelle sue azioni malvagie perché esse erano bocconi di lussuria offerti all’insaziabile fame dei libidinosi. Criticata e mal giudicata a Cafarnao, in casa del fariseo, criticata e rimproverata a Betania, in casa sua. Ma Giovanni, che dice una grande parola, dà la chiave di quest’ultima critica: “Giuda… perché era ladro”. Io dico: “Il fariseo e i suoi amici perché erano lussuriosi”. Ecco, vedi? L’avidità del senso, l’avidità del denaro alzano la voce a critica dell’atto buono. I buoni non criticano. Mai. Comprendono.  
   Ma, ripeto, non importa della critica del mondo. Importa del giudizio di Dio.  […]».

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Gv 19, 25-27: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!».

Vangelo Gv 19, 25-27
Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala.
Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
«Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!».

Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato

   Cap. DCIX. La crocifissione, la morte e la deposizione dalla croce.

   27 marzo 1945.

 1 Quattro nerboruti uomini, che per l’aspetto mi paiono giudei, e giudei degni della croce più dei condannati, certo della stessa categoria dei flagellatori, saltano da un sentiero sul luogo del supplizio. Sono vestiti di tuniche corte e sbracciate ed hanno in mano chiodi, martelli e funi che mostrano con lazzi ai tre condannati. La folla si agita in un delirio crudele.
   Il centurione offre a Gesù l’anfora perché beva la mistura anestetica di vino mirrato. Ma Gesù la rifiuta. I due ladroni invece ne bevono molta. Poi l’anfora, dall’ampia bocca svasata, viene posta presso un grosso sasso, quasi sullo scrimolo della cima.
 2 Viene dato l’ordine ai condannati di spogliarsi. I due ladroni lo fanno senza nessun pudore. Anzi si divertono a fare atti osceni verso la folla e specie verso il gruppo sacerdotale, tutto candido nelle sue vesti di lino e che è piano piano tornato sulla piazzetta più bassa, usando della sua qualità per insinuarsi lì. Ai sacerdoti si sono uniti due o tre farisei e altri prepotenti personaggi, che l’odio fa amici. E vedo persone di conoscenza, come il fariseo Giocana e Ismaele, lo scriba Sadoch, Eli di Cafarnao…
   I carnefici offrono tre stracci ai condannati perché se li leghino all’inguine. E i ladroni li pigliano con più orrende bestemmie. Gesù, che si spoglia lentamente per lo spasimo delle ferite, lo ricusa. Forse pensa conservare le corte brache che ha tenute anche nella flagellazione. Ma, quando gli viene detto di levarsi anche le stesse, Egli tende la mano per mendicare lo straccio dei boia a difesa della sua nudità. È proprio l’Annichilito fino a dover chiedere uno straccio ai delinquenti.
   Ma Maria ha visto e si è sfilata il lungo e sottile telo bianco, che le vela il capo sotto al manto oscuro e nel quale Ella ha già versato tanto pianto. Se lo leva senza far cadere il manto, lo dà a Giovanni perché lo porga a Longino per il Figlio. Il centurione prende il velo senza fare ostacolo e, quando vede che Gesù sta per denudarsi del tutto, stando voltato non verso la folla ma verso la parte vuota di popolo, mostrando così la sua schiena rigata di lividi e di vesciche, sanguinante di ferite aperte o dalle croste oscure, gli porge il lino materno. E Gesù lo riconosce. Se ne avvolge a più riprese il bacino, assicurandoselo per bene perché non caschi… E sul lino, fino allora solo bagnato di pianto, cadono le prime gocce di sangue, perché molte delle ferite, appena coperte di coagulo, nel chinarsi per levarsi i sandali e deporre le vesti si sono riaperte e il sangue riprende a sgorgare.
 3 Ora Gesù si volge verso la folla. E si vede così che anche il petto, le braccia, le gambe sono tutte state colpite dai flagelli. All’altezza del fegato è un enorme livido, e sotto l’arco costale sinistro vi sono nette sette righe in rilievo, terminate da sette piccole lacerazioni sanguinanti fra un cerchio violaceo… un colpo feroce di flagello in quella zona tanto sensibile del diaframma. I ginocchi, contusi dalle ripetute cadute, iniziate subito dopo la cattura e terminate sul Calvario, sono neri di ematoma e aperti sulla rotula, specie il destro, in una vasta lacerazione sanguinante.
   La folla lo schernisce come in coro: «Oh! Bello! Il più bello dei figli degli uomini! Le figlie di Gerusalemme ti adorano…». E intona, con tono di salmo: «Il mio diletto è candido e rubicondo, distinto fra mille e mille. La sua testa è oro puro, i suoi capelli grappoli di palma, setosi come piuma di corvo. Gli occhi son come due colombe bagnantesi ai ruscelli non d’acqua ma di latte, nel latte della sua orbita. Le sue guance sono aiuole di aromi, le sue labbra porpurei gigli stillanti preziosa mirra. Le sue mani tornite come lavoro d’orafo terminate in rosei giacinti. Il suo tronco è avorio venato di zaffiri. Le sue gambe, perfette colonne di candido marmo su basi d’oro. La sua maestà è come quella del Libano; imponente egli è più dell’alto cedro. La sua lingua è intrisa di dolcezza ed egli è tutto delizia»; e ridono e urlano anche: «Il lebbroso! Il lebbroso! Hai dunque fornicato con un idolo se Dio ti ha così colpito? Hai mormorato contro i santi di Israele come Maria di Mosè, se sei stato così punito? Oh! Oh! il Perfetto! Sei il Figlio di Dio? Ma no! L’aborto di Satana sei! Almeno egli, Mammona, è potente e forte. Tu… sei uno straccio impotente e schifoso».
 4 I ladroni sono legati sulle croci e vengono portati al loro posto, uno a destra, uno a sinistra rispetto al posto destinato a Gesù. Urlano, imprecano, maledicono e, specie quando le croci vengono portate presso il buco e li sconquassano facendo segare i polsi dalle funi, le loro bestemmie a Dio, alla Legge, ai romani, ai giudei, sono infernali.
   È la volta di Gesù. Egli si stende mite sul legno. I due ladroni erano tanto ribelli che, non bastando a farlo i quattro boia, erano dovuti intervenire dei soldati a tenerli, perché a calci non respingessero gli aguzzini che li legavano per i polsi. Ma per Gesù non c’è bisogno di aiuto. Si corica e mette il capo dove gli dicono di metterlo. Apre le braccia come gli dicono di farlo, stende le gambe come gli ordinano. Si è solo preoccupato di accomodarsi per bene il suo velo. Ora il suo lungo corpo, snello e bianco, spicca sul legno oscuro e sul suolo giallo.
 5 Due carnefici gli si siedono sul petto per tenerlo fermo. E io penso che oppressione e che dolore deve aver provato sotto quel peso. Un terzo gli prende il braccio destro, tenendolo con una mano sulla prima porzione dell’avambraccio e l’altra al termine delle dita. Il quarto, che ha già in mano il lungo chiodo acuminato sulla punta quadrangolare nel fusto, terminato in una piastra rotonda e piatta, larga come un soldone dei tempi passati, guarda se il buco già fatto nel legno corrisponde alla giuntura radio-ulnare del polso. Va bene. Il boia appoggia la punta del chiodo al polso, alza il martello e dà il primo colpo.
   Gesù, che aveva gli occhi chiusi, all’acuto dolore ha un grido e una contrazione, e spalanca gli occhi nuotanti fra le lacrime. Deve essere un dolore atroce quello che prova… Il chiodo penetra spezzando muscoli, vene, nervi, frantumando ossa…
  Maria risponde al grido della sua Creatura torturata con un gemito che ha quasi del lamento di un agnello sgozzato, e si curva, come spezzata, tenendosi la testa fra le mani. Gesù, per non torturarla, non grida più. Ma i colpi ci sono, metodici, aspri, di ferro contro ferro… e si pensa che sotto è un membro vivo quello che li riceve.
 La mano destra è inchiodata. Si passa alla sinistra. Il foro non corrisponde al carpo. Allora prendono una fune, legano il polso sinistro e tirano fino a slogare la giuntura e a strappare tendini e muscoli, oltre che lacerare la pelle già segata dalle funi della cattura. Anche l’altra mano deve soffrire, perché è stirata per riflesso, e intorno al suo chiodo si allarga il buco. Ora si arriva appena all’inizio del metacarpo, presso il polso. Si rassegnano e inchiodano dove possono, ossia fra il pollice e le altre dita, proprio al centro del metacarpo. Qui il chiodo entra più facilmente ma con maggiore spasimo, perché deve recidere nervi importanti, tanto che le dita restano inerti, mentre le altre della destra hanno contrazioni e tremiti che denunciano la loro vitalità. Ma Gesù non grida più, ha solo un lamento roco dietro le labbra fortemente chiuse, e lacrime di spasimo cadono per terra dopo esser cadute sul legno.
 Ora è la volta dei piedi. A un due metri e più dal termine della croce è un piccolo cuneo, appena sufficiente ad un piede. Su questo vengono portati i piedi per vedere se va bene la misura. E dato che è un poco in basso e i piedi arrivano male, stiracchiano per i malleoli il povero Martire. Il legno scabro della croce sfrega così sulle ferite, smuove la corona che si sposta strappando nuovi capelli e minaccia di cadere. Un boia gliela ricalca sul capo con una manata…
   Ora, quelli che erano seduti sul petto di Gesù si alzano per spostarsi sui ginocchi, dato che Gesù ha un movimento involontario di ritirare le gambe, vedendo brillare al sole il lunghissimo chiodo, lungo il doppio e largo il doppio di quello usato per le mani. E pesano sui ginocchi scorticati, e premono sui poveri stinchi contusi, mentre gli altri due compiono l’operazione, molto più difficile, dell’inchiodatura di un piede sull’altro, cercando di combinare le due giunture dei tarsi insieme.
   Per quanto guardino e tengano fermi i piedi, al malleolo e alle dita, contro il cuneo, il piede sotosto si sposta per la vibrazione del chiodo, e lo devono schiodare quasi, perché, dopo essere entrato nelle parti molli, il chiodo, già spuntato per avere perforato il piede destro, deve essere portato un poco più in centro. E picchiano, picchiano, picchiano… Non si sente che l’atroce rumore del martello sulla testa del chiodo, perché tutto il Calvario non è che occhi e orecchie tese, per raccogliere atto e rumore e gioirne…
   Sul suono aspro del ferro è un lamento in sordina di colomba: il gemere roco di Maria, che sempre più si curva, ad ogni colpo, come se il martello piagasse Lei, la Madre Martire. Ed ha ragione di parere prossima ad essere spezzata da quella tortura. La crocifissione è tremenda. Pari alla flagellazione in spasimo, più atroce a vedersi, perché si vede scomparire il chiodo fra le carni vive. Ma in compenso è più breve. Mentre la flagellazione spossa per la sua durata.
   Per me, l’agonia dell’Orto, la flagellazione e la crocifissione sono i momenti più atroci. Mi svelano tutta la tortura del Cristo. La morte mi solleva, perché dico: «È finito!». Ma queste non sono fine. Sono principio a nuove sofferenze.
 7 Ora la croce è strascinata presso il buco e rimbalza, scuotendo il povero Crocifisso, sul suolo ineguale. Viene issata la croce, che sfugge per due volte a coloro che la alzano e ricade una volta di schianto, un’altra sul braccio destro della stessa, dando un aspro tormento a Gesù, perché la scossa subita smuove gli arti feriti.
   Ma quando poi la croce viene lasciata cadere nel suo buco e, prima di essere assicurata con pietre e terriccio, ondeggia in tutti i sensi, imprimendo continui spostamenti al povero Corpo sospeso a tre chiodi, la sofferenza deve essere atroce. Tutto il peso del corpo si sposta in avanti e in basso, e i buchi si allargano, specie quello della mano sinistra, e si allarga il foro nei piedi mentre il sangue spiccia più forte. E se quello dei piedi goccia lungo le dita per terra e lungo il legno della croce, quello delle mani segue gli avambracci, perché sono più alti al polso che all’ascella per forza della posizione, e riga anche le coste scendendo dall’ascella verso la cintura. La corona, quando la croce ondeggia prima di essere fissata, si sposta, perché il capo ribatte all’indietro, conficcando nella nuca il grosso nodo di spini che termina la pungente corona, e poi torna ad adagiarsi sulla fronte e graffia, graffia senza pietà.
   Finalmente la croce è assicurata e non c’è che il tormento dell’essere appeso. Issano anche i ladroni, i quali, una volta messi verticalmente, urlano come fossero scotennati vivi per la tortura delle funi, che segano i polsi e fanno divenire nere le mani, con le vene gonfie come corde.
   Gesù tace. La folla non tace più, invece. Ma riprende il suo vocio infernale.
   Ora la cima del Golgota ha il suo trofeo e la sua guardia d’onore. Al limite più alto (lato A) la croce di Gesù. Al lato B e C le altre due. Mezza centuria di soldati, con le armi al piede, tutto intorno alla vetta; dentro a questo cerchio d’armati, i dieci appiedati, che giocano a dadi le vesti dei condannati. Ritto in piedi, fra la croce di Gesù e quella di destra, Longino. E pare monti la guardia d’onore al Re Martire. L’altra mezza centuria, in riposo, è agli ordini dell’aiutante di Longino sul sentiero di sinistra e sulla piazzuola più bassa, in attesa di essere adoperata se ce ne sarà bisogno. Nei soldati c’è l’indifferenza quasi totale. Solo qualcuno alza ogni tanto il volto ai crocifissi.
 8 Longino invece osserva tutto con curiosità e interesse, confronta e mentalmente giudica. Confronta i crocifissi, e specie il Cristo, e gli spettatori. Il suo occhio penetrante non perde un particolare. E per vedere meglio fa solecchio con la mano, perché il sole gli deve dare noia.
   È infatti un sole strano. Di un giallo rosso d’incendio. E poi pare che l’incendio si spenga di colpo per un nuvolone di pece che sorge da dietro le catene giudee e che corre veloce per il cielo, scomparendo dietro ad altri monti. E quando il sole ritorna fuori è così vivo che l’occhio non lo sopporta che male.
    Nel guardare vede Maria, proprio sotto il balzo, che tiene alzato verso il Figlio il suo volto straziato. Chiama uno dei soldati che giuocano a dadi e gli dice: «Se la Madre vuole salire col fi­glio che l’accompagna, venga. Scortala e aiutala».
   E Maria con Giovanni, creduto «figlio», sale per la scaletta incisa nella roccia tufacea, credo, e penetra oltre il cordone dei soldati andando ai piedi della croce, ma un poco scosta per essere vista e per vedere il suo Gesù.
   La folla le propina subito i più obbrobriosi insulti. Accomunandola nelle bestemmie al Figlio. Ma Ella, con le labbra tremanti e sbiancate, cerca solo di dargli conforto, con un sorriso straziato su cui si asciugano le lacrime che nessuna forza di volontà riesce a trattenere negli occhi.
 9 La gente, cominciando dai sacerdoti, scribi, farisei, sadducei, erodiani e simili, si procura lo spasso di fare come un carosello, salendo dalla strada erta, passando lungo il rialzo finale e scendendo per l’altra via, o viceversa. E mentre passano ai piedi della vetta, sulla seconda piazzuola, non mancano di offrire le loro parole blasfeme come omaggio al Morente. Tutta la turpitudine, la crudeltà, l’odio e l’insania di cui sono capaci gli uomini con la lingua, vengono ampiamente testificate da queste bocche d’inferno. I più accaniti sono i membri del Tempio, coi farisei per aiuto.
   «Ebbene? Tu, Salvatore dell’uman genere, perché non ti salvi? Ti ha abbandonato il tuo re Belzebù? Ti ha rinnegato?», urlano tre sacerdoti.
   E un branco di giudei: «Tu, che non più tardi di or sono cinque giorni, con l’aiuto del Demonio, facevi dire al Padre… ah! ah! ah! che ti avrebbe glorificato, come mai non gli ricordi di mantenere la sua promessa?».
   E tre farisei: «Bestemmiatore! Ha salvato gli altri, diceva, con l’aiuto di Dio! E non riesce a salvare Se stesso! Vuoi che ti si creda? E allora fai il miracolo. Non puoi più, eh? Ora hai le mani inchiodate, e sei nudo».
   E dei sadducei ed erodiani ai soldati: «Attenti alla malìa, voi che vi siete prese le sue vesti! Ha dentro il segno infernale!».
 Una folla in coro: «Scendi dalla croce e ti crederemo. Tu che distruggi il Tempio… Folle!… Guardalo là, il glorioso e santo Tempio d’Israele. È intoccabile, o profanatore! E Tu muori».
   Altri sacerdoti: «Blasfemo! Figlio di Dio, Tu? E scendi di lì, allora. Fulminaci, se sei Dio. Non ti temiamo e sputiamo verso Te».
   Altri che passano e scrollano il capo: «Non sa che piangere. Salvati, se è vero che sei l’Eletto!».
   I soldati: «E salvati, dunque! Incenerisci questa suburra della suburra! Sì! Suburra dell’Impero siete, giudei canaglie. Fàllo! Roma ti metterà in Campidoglio e ti adorerà come un nume!».
   I sacerdoti coi loro compari: «Erano più dolci le braccia delle femmine di quelle della croce, non è vero? Ma, guarda, sono già lì pronte a riceverti le tue… (e dicono un termine infame). Ci hai tutta Gerusalemme a farti da pronuba». E fischiano come carrettieri.
   Altri lanciando dei sassi: «Muta questi in pane, Tu, moltiplicatore dei pani».
   Altri, scimmiottando gli osanna della domenica delle palme, lanciano dei rami e gridano: «Maledetto colui che viene in nome del Demonio! Maledetto il suo regno! Gloria a Sionne che lo recide di fra i vivi!».
   Un fariseo si piazza di fronte alla croce, e mostra il pugno facendo le corna e dice: «”Ti affido al Dio del Sinai”, Tu dicesti? Ora il Dio del Sinai ti prepara al fuoco eterno. Perché non chiami Giona a renderti il buon servizio?».
   Un altro: «Non rovinare la croce con i colpi della tua testa. Deve servire per i tuoi seguaci. Una intera legione ne morirà sul tuo legno, te lo giuro su Jeové. E per primo ci metterò Lazzaro. Vedremo se Tu lo levi di morte, ora».
 «Sì! Sì! Andiamo da Lazzaro. Inchiodiamolo dall’altro lato della croce», e pappagallescamente fanno la parlata lenta di Gesù dicendo: «Lazzaro, amico mio, vieni fuori! Slegatelo e lasciatelo andare!».
 «No! Diceva a Marta e Maria, le sue femmine: “Io sono la Risurrezione e la Vita”. Ah! Ah! Ah! La Risurrezione non sa mandare indietro la morte, e la Vita muore!».
 10«Ecco là Maria con Marta. Chiediamo dove è Lazzaro e andiamolo a cercare». E si fanno avanti, verso le donne, chiedendo arrogantemente: «Dove è Lazzaro? Al palazzo?».
   E Maria Maddalena, mentre le altre terrorizzate fuggono dietro i pastori, si fa avanti, ritrovando nel suo dolore la antica baldanza dei tempi di peccato, e dice: «Andate. Troverete già in palazzo i soldati di Roma e cinquecento armati delle mie terre, che vi castreranno come vecchi caproni destinati al pasto degli schiavi alle macine».
   «Sfrontata! Così parli ai sacerdoti?».
   «Sacrileghi! Turpi! Maledetti! Volgetevi! Alle spalle avete, io le vedo, le lingue delle fiamme infernali».
   I vili si volgono, veramente terrorizzati, tanto è sicura l’affermazione di Maria; ma, se non hanno le fiamme alle spalle, hanno alle reni le ben pontute lance romane. Perché Longino ha dato un ordine e la mezza centuria che era in riposo è entrata in fazione e punge alle natiche i primi che trova. Questi fuggono urlando e la mezza centuria resta a chiudere gli imbocchi delle due strade e a fare baluardo alla piazzuola. I giudei imprecano, ma Roma è la più forte.
   La Maddalena riabbassa il suo velo — se lo era alzato per parlare agli insultatori — e torna al suo posto. Le altre si riuniscono a lei.
 11Ma il ladrone di sinistra continua gli insulti dalla sua croce. Pare si sia fatto il condensatore di tutte le bestemmie altrui e le snocciola tutte, terminando: «Salvati e salvaci, se vuoi che ti si creda. Il Cristo Tu? Un folle sei! Il mondo è dei furbi e Dio non c’è. Io ci sono. Questo è vero, e per me tutto è lecito. Dio?… Fola! Messa per tenerci quieti. Viva il nostro io! Lui solo è re e dio!».
   L’altro ladrone, che è a destra ed ha quasi ai piedi Maria, e la guarda quasi più che non guardi Cristo, e da qualche momento piange mormorando: «la madre», dice: «Taci. Non temi Dio neppure ora che soffri questa pena? Perché insulti chi è buono? È in un supplizio ancor più grande del nostro. E non ha fatto nulla di male».
 Ma il ladrone continua le sue imprecazioni.
 12Gesù tace. Anelante per lo sforzo della posizione, per la febbre, per lo stato cardiaco e respiratorio, conseguenza della flagellazione subita in forma tanto violenta, e anche dell’angoscia profonda che gli aveva fatto sudar sangue, cerca trovare un sollievo, alleggerendo il peso che grava sui piedi, sospendendosi alle mani e facendo forza con le braccia. Forse lo fa anche per vincere un poco il crampo che già tormenta i piedi e che si tradisce con il tremito muscolare. Ma lo stesso tremore è nelle fibre delle braccia, che sono sforzate in quella posizione e devono essere gelate nelle loro estremità, perché poste più in alto e abbandonate dal sangue, che a fatica giunge ai polsi e poi ne geme dai buchi dei chiodi lasciando senza circolazione le dita. Specie quelle della sinistra sono già cadaveriche e stanno senza moto, ripiegate verso il palmo. Anche le dita dei piedi esprimono il loro tormento. Specie gli alluci, forse perché meno è leso il loro nervo, si alzano, si abbassano, si divaricano.
   Il tronco, poi, svela tutta la sua pena col suo movimento, che è veloce ma non profondo, ed affatica senza dare sollievo. Le coste, molto ampie e alte di loro, perché la struttura di questo Corpo è perfetta, sono ora dilatate oltre misura per la posizione assunta dal corpo e per l’edema polmonare che certo si è formato nell’interno. Eppure non servono ad alleggerire lo sforzo respiratorio, tanto che tutto l’addome aiuta col suo muoversi il diaframma, che sempre più si va paralizzando.
   E la congestione e l’asfissia aumentano di minuto in minuto, come lo indicano il colorito cianotico che sottolinea le labbra, di un rosso acceso dalla febbre, e le striature di un rosso violaceo, che spennellano il collo lungo le giugulari turgide e si allargano fino sulle guance, verso le orecchie e le tempie, mentre il naso è affilato e esangue, e gli occhi affondano in un cerchio che è livido dove è privo del sangue colato dalla corona.
   Sotto l’arco costale sinistro si vede l’urto propagato dalla punta cardiaca, irregolare, ma violento, e ogni tanto, per una convulsione interna, il diaframma ha un fremito profondo che si rivela da una distensione totale della pelle, per quanto può stendersi su quel povero Corpo ferito e morente.
   Il Volto ha già l’aspetto che vediamo nelle fotografie della Sindone, col naso deviato e gonfio da una parte; e anche il tenere l’occhio destro quasi chiuso, per il gonfiore che è da questo lato, aumenta la somiglianza. La bocca, invece, è aperta, con la sua ferita sul labbro superiore ormai ridotta ad una crosta.
   La sete, data dalla perdita di sangue, dalla febbre e dal sole, deve essere intensa, tanto che Egli, con mossa macchinale, beve le stille del suo sudore e del suo pianto, e anche quelle del sangue che scende dalla fronte fin sui baffi, e si bagna con queste la lingua…
   La corona di spine gli vieta di appoggiarsi al tronco della croce per aiutare la sospensione sulle braccia e alleggerire i piedi. Le reni e tutta la spina si arcua verso l’esterno, stando staccato dal tronco della croce dal bacino in su per forza di inerzia che fa pendere in avanti un corpo sospeso come era il suo.
 13I giudei, respinti oltre la piazzuola, non cessano di insultare, e il ladrone impenitente fa eco.
   L’altro, che ora guarda con sempre maggiore pietà la Madre e piange, lo rimbecca aspramente quando sente che nell’insulto è compresa anche Lei. «Taci. Ricordati che sei nato da una donna. E pensa che le nostre han pianto per causa dei figli. E furono lacrime di vergogna… perché noi siamo delinquenti. Le nostre madri sono morte… Io vorrei poterle chiedere perdono… Ma lo potrò? Era una santa… L’ho uccisa col dolore che le davo… Io sono un peccatore… Chi mi perdona? Madre, in nome del tuo Figlio morente, prega per me».
   La Madre alza per un momento il suo viso straziato e lo guarda, questo sciagurato che attraverso al ricordo di sua madre e alla contemplazione della Madre va verso il pentimento, e pare lo carezzi col suo sguardo di colomba.
   Disma piange più forte. Cosa che scatena ancora di più gli scherni della folla e del compagno. La prima urla: «Bravo! Pigliati questa per madre. Così ha due figli delinquenti!». E l’altro rincara: «Ti ama perché sei una copia minore del suo beneamato».
 14Gesù parla per la prima volta: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!».
   Questa preghiera vince ogni timore in Disma. Osa guardare il Cristo e dice: «Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo Regno. Io è giusto che qui soffra. Ma dammi misericordia e pace oltre la vita. Una volta ti ho sentito parlare e, folle, ho respinto la tua parola. Ora me ne pento. E dei miei peccati me ne pento davanti a Te, Figlio dell’Altissimo. Io credo che Tu venga da Dio. Io credo nel tuo potere. Io credo nella tua misericordia. Cristo, perdonami in nome di tua Madre e del tuo Padre santissimo».
   Gesù si volge e lo guarda con profonda pietà, ed ha un sorriso ancora bellissimo sulla povera bocca torturata. Dice: «Io te lo dico: oggi tu sarai meco in Paradiso».
   Il ladrone pentito si mette calmo e, non sapendo più le preghiere imparate da bambino, ripete come una giaculatoria: «Gesù Nazareno, re dei giudei, pietà di me; Gesù Nazareno, re dei giudei, io spero in Te; Gesù Nazareno, re dei giudei, io credo nella tua Divinità».
   L’altro continua nelle sue bestemmie.
 15Il cielo si fa sempre più fosco. Ora difficilmente le nubi si aprono per fare passare il sole. Ma anzi si accavallano a più e più strati plumbei, bianchi, verdognoli, si sormontano, si dipanano secondo i giuochi di un vento freddo, che a intervalli scorre il cielo e poi scende sulla terra e poi tace di nuovo, ed è quasi più sinistra l’aria quando tace, afosa e morta, di quando fischia tagliente e veloce.
   La luce, prima viva fin oltre misura, si va facendo verdastra. E i volti prendono bizzarri aspetti. I soldati, sotto i loro elmi e nelle loro corazze, prima lucenti ed ora divenute come appannate nella luce verdastra e sotto il cielo di cenere, mostrano i duri profili come scalpellati. I giudei, per la maggioranza bruni di pelle e capelli e barba, paiono degli annegati, tanto il loro volto si fa terreo. Le donne sembrano statue di neve azzurrastra per il pallore esangue che la luce accentua.
   Gesù sembra illividire sinistramente come per inizio di decomposizione, quasi fosse già morto. La testa gli comincia a pendere sul petto. Le forze mancano rapidamente. Trema, nonostante la febbre che lo arde. E nella sua debolezza mormora il nome che prima ha solo detto nel fondo del cuore: «Mamma!», «Mamma!». Lo mormora piano, come in un sospiro, quasi fosse già in un lieve delirio che gli impedisca di trattenere quanto la volontà vorrebbe trattenere. E Maria, ogni volta, ha un atto infrenabile di tendere le braccia come per soccorrerlo.
   E la gente crudele ride di questi spasimi di chi muore e di chi spasima. Salgono da capo sino a dietro i pastori, che però sono sulla piazzetta bassa, i sacerdoti e gli scribi. E poiché i soldati vorrebbero respingerli, reagiscono dicendo: «Ci stanno questi galilei? Ci stiamo anche noi, che dobbiamo verificare che giustizia sia fatta fino in fondo. E da lontano, in questa luce strana, non possiamo vedere».
   Infatti molti cominciano a impressionarsi della luce che sta fasciando il mondo, e qualcuno ha paura. Anche i soldati accennano al cielo e ad una specie di cono, che pare di lavagna tanto è cupo e che si leva come un pino da dietro una vetta. Sembra una tromba marina. Si alza, si alza e pare che generi nubi sempre più nere, quasi fosse un vulcano eruttante fumo e lava.
   È in questa luce crepuscolare e paurosa che Gesù dà a Maria Giovanni e a Giovanni Maria. Curva il capo, poiché la Madre si è fatta più sotto alla croce per vederlo meglio, e dice: «Don­na, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua Madre».
   Maria ha il volto ancor più sconvolto dopo questa parola che è il testamento del suo Gesù, che non ha nulla da dare alla Madre se non un uomo, Egli che per amore dell’Uomo la priva del­l’Uomo-Dio, nato da Lei. Ma cerca, la povera Madre, di non piangere che mutamente, perché non può, non può non piangere… Le stille del pianto gemono nonostante ogni sforzo per trattenerle, anche se la bocca ha il suo straziato sorriso, fissato sulle labbra per Lui, per confortare Lui…
   Le sofferenze crescono sempre più. E la luce sempre più decresce.
 16È in questa luce di fondo marino che emergono, da dietro dei giudei, Nicodemo e Giuseppe, e dicono: «Scansatevi!».
   «Non si può. Che volete?», dicono i soldati.
   «Passare. Siamo amici del Cristo».
   Si voltano i capi dei sacerdoti. «Chi osa professarsi amico del ribelle?», dicono i sacerdoti sdegnati.
   E Giuseppe risoluto: «Io, nobile membro del Gran Consiglio, Giuseppe d’Arimatea, l’Anziano, e con me è Nicodemo, capo dei giudei».
   «Chi parteggia per il ribelle è ribelle».
   «E chi parteggia per gli assassini è assassino, Eleazaro di Anna. Ho vissuto da giusto. E ora vecchio sono e prossimo alla morte. Non voglio divenire ingiusto mentre già il Cielo su me discende e con esso il Giudice eterno».
   «E tu, Nicodemo! Mi meraviglio!».
   «Io pure. E di una cosa sola: che Israele sia tanto corrotto da non sapere più riconoscere Dio».
   «Mi fai ribrezzo».
   «Scansati, allora, e lasciami passare. Non chiedo che quello».
   «Per contaminarti più ancora?».
   «Se non mi sono contaminato a starvi presso, nulla più mi contamina. Soldato, a te la borsa e il segno di lasciapassare». E passa al decurione più vicino una borsa e una tavoletta cerata.
   Il decurione osserva e dice ai soldati: «Lasciate passare i due».
   E Giuseppe con Nicodemo si avvicinano ai pastori. Non so neppure se Gesù li veda in quella caligine sempre più fitta e con l’occhio che già si vela nell’agonia. Ma essi lo vedono e piangono senza rispetto umano, nonostante ora su di loro si avventino gli improperi sacerdotali.
 17Le sofferenze sono sempre più forti. Il corpo ha i primi inarcamenti propri della tetanìa e ogni clamore di folla li esaspera. La morte delle fibre e dei nervi si estende dalle estremità torturate al tronco, rendendo sempre più difficoltoso il moto respiratorio, debole la contrazione diaframmatica e disordinato il movimento cardiaco. Il volto di Cristo passa alternativamente da vampe di rossore intensissimo a pallori verdastri di morente per dissanguamento. La bocca si muove con maggiore fatica, perché i nervi sovraffaticati del collo e del capo stesso, che hanno per decine di volte fatto da leva al corpo tutto puntandosi sulla sbarra trasversa della croce, propagano il crampo anche alle mascelle. La gola, enfiata dalle carotidi ingorgate, deve dolere ed estendere il suo edema alla lingua, che appare ingrossata e lenta nei movimenti. La schiena, anche nei momenti che le contrazioni tetanizzanti non la curvano ad arco completo dalla nuca alle anche, appoggiate come punti estremi al tronco della croce, si arcua sempre più in avanti, perché le membra divengono sempre più pesanti del peso delle carni morte.
   La gente vede poco e male queste cose, perché la luce è ormai di un cenere cupo, e solo chi è ai piedi della croce può vedere bene.
 18Gesù si affloscia, un certo momento, tutto in avanti e in basso, come già morto; non ansa più, la testa gli pende inerte in avanti, il corpo dalle anche in su è tutto staccato facendo angolo con le braccia alla croce.
   Maria ha un grido: «È morto!». Un grido tragico che si propaga nell’aria nera. E Gesù appare realmente morto.
   Un altro grido femminile le risponde e nel gruppo delle donne vedo un tramestio. Poi una decina di persone si allontanano sostenendo qualche cosa. Ma non posso vedere chi si allontana così. È troppo poca la luce nebbiosa. Sembra di essere immersi in una nube di cenere vulcanica fittissima.
   «Non è possibile», urlano dei sacerdoti e dei giudei. «È una finta per farci andare via. Soldato, pungilo con la lancia. È una buona medicina per ridargli voce». E poiché i soldati non lo fanno, una scarica di pietre e di zolle di terra volano verso la croce, colpendo il Martire e ricadendo sulle corazze romane.
   Il farmaco, come ironicamente dicono i giudei, opera il prodigio. Certo qualche sasso ha colpito a segno, forse sulla ferita di una mano, o sul capo stesso, perché miravano in alto. Gesù ha un gemito pietoso e rinviene. Il torace torna a respirare con fatica e la testa a muoversi da destra a manca, cercando un luogo dove posarsi per soffrire meno, senza trovare altro che maggior pena.
 19A gran fatica, puntandosi una volta ancora sui piedi torturati, trovando forza nella sua volontà, unicamente in quella, Gesù si irrigidisce sulla croce, torna eretto come fosse un sano nella sua forza completa, alza il volto guardando con occhi bene aperti il mondo steso ai suoi piedi, la città lontana, che appena si intravvede come un biancore incerto nella foschia, e il cielo nero dal quale ogni azzurro ed ogni ricordo di luce sono scomparsi. E a questo cielo chiuso, compatto, basso, simile ad una enorme lastra di lavagna scura, Egli grida a gran voce, vincendo con la forza della volontà, col bisogno dell’anima, l’ostacolo delle mascelle irrigidite, della lingua ingrossata, della gola edematica: «Eloi, Eloi, lamma scebacteni!» (io sento dire così). Deve sentirsi morire, e in un assoluto abbandono del Cielo, per confessare con tal voce l’abbandono paterno.
   La gente ride e lo scherza. Lo insulta: «Non sa che farne Dio di Te! I demoni sono maledetti da Dio!».
   Altri gridano: «Vediamo se Elia, che Egli chiama, viene a salvarlo».
   E altri: «Dategli un poco d’aceto, che si gargarizzi la gola. Fa bene alla voce! Elia o Dio, poiché è incerto ciò che il folle vuole, sono lontani… Ci vuol voce per farsi sentire!», e ridono come iene o come demoni.
   Ma nessun soldato dà l’aceto e nessuno viene dal Cielo per dare conforto. È l’agonia solitaria, totale, crudele, anche soprannaturalmente crudele, della Grande Vittima.
   Tornano le valanghe di dolore desolato che già l’avevano oppresso nel Getsemani. Tornano le onde dei peccati di tutto il mondo a percuotere il naufrago innocente, a sommergerlo nella loro amaritudine. Torna soprattutto la sensazione, più crocifiggente della croce stessa, più disperante di ogni tortura, che Dio ha abbandonato e che la preghiera non sale a Lui…
   Ed è il tormento finale. Quello che accelera la morte, perché spreme le ultime gocce di sangue dai pori, perché stritola le superstiti fibre del cuore, perché termina ciò che la prima cognizione di questo abbandono ha iniziato: la morte. Perché di questo per prima cosa è morto il mio Gesù, o Dio, che lo hai colpito per noi! Dopo il tuo abbandono, per il tuo abbandono, che diventa una creatura? O un folle, o un morto. Gesù non poteva divenire folle, perché la sua intelligenza era divina e, spirituale come è l’intelligenza, trionfava sopra il trauma totale del colpito da Dio. Divenne dunque un morto: il Morto, il santissimo Morto, l’innocentissimo Morto. Morto Lui che era la Vita. Ucciso dal tuo abbandono e dai nostri peccati.
 20L’oscurità si fa ancora più fitta. Gerusalemme scompare del tutto. Lo stesso Calvario pare annullarsi nelle sue falde. Solo la cima è visibile, quasi che le tenebre la tengano alta a raccogliere l’unica e l’ultima superstite luce, posandola come per una offerta, col suo trofeo divino, su uno stagno di onice liquida, perché sia vista dall’amore e dall’odio.
   E dalla luce non più luce viene la voce lamentosa di Gesù: «Ho sete!».
   Vi è infatti un vento che asseta anche i sani. Un vento continuo, ora, violento, pieno di polvere, freddo, pauroso. Penso quale spasimo avrà dato col suo soffio violento ai polmoni, al cuore, alle fauci di Gesù, alle sue membra gelate, intormentite, ferite. Ma proprio tutto si è messo a torturare il Martire.
   Un soldato va ad un vaso dove i satelliti del boia hanno messo dell’aceto col fiele, perché col suo amaro aumenti la salivazione nei suppliziati. Prende la spugna immersa nel liquido, la infila su una canna sottile eppure rigida, che è già pronta lì presso, e porge la spugna al Morente.
   Gesù si tende avido verso la spugna che viene. Pare un infante affamato che cerchi il capezzolo materno.
   Maria, che vede e certo pensa questa cosa, geme, appoggiandosi a Giovanni: «Oh! ed io neppure una stilla di pianto gli posso dare… Oh! seno mio, ché non gemi latte? Oh! Dio, perché, perché così ci abbandoni? Un miracolo per la mia Creatura! Chi mi solleva per dissetarlo del mio sangue, posto che latte non ho?…».
   Gesù, che ha succhiato avidamente l’aspra e amara bevanda, torce il capo, avvelenato dal disgusto di essa. Deve, oltretutto, essere come del corrosivo sulle labbra ferite e spaccate.
 21Si ritrae, si accascia, si abbandona. Tutto il peso del corpo piomba sui piedi e in avanti. Sono le estremità ferite quelle che soffrono la pena atroce dello slabbrarsi sotto il peso di un corpo che si abbandona. Non più un movimento per sollevare questo dolore. Dal bacino in su, tutto è staccato dal legno, e tale resta.
   La testa pende in avanti tanto pesantemente che il collo pare scavato in tre posti: al giugolo, completamente infossato, e di qua e di là dello sternocleidomastoideo. Il respiro è sempre più anelante, ma interciso. È già più un rantolo sincopato che un respiro. Ogni tanto un colpo di tosse penosa porta una schiuma lievemente rosata alle labbra. E le distanze fra una espirazione e l’altra diventano sempre più lunghe. L’addome è già fermo. Solo il torace ha ancora dei sollevamenti, ma faticosi, stentati… La paralisi polmonare si accentua sempre più.
   E sempre più fievole, tornando al lamento infantile del bambino, viene l’invocazione: «Mamma!». E la misera mormora: «Sì, tesoro, sono qui». E quando la vista che si vela gli fa dire: «Mamma, dove sei? Non ti vedo più. Anche tu mi abbandoni?», e non è neanche una parola,ma un mormorio che appena è udibile da chi più col cuore che con l’udito raccoglie ogni sospiro del Morente, Ella dice: «No, no, Figlio! Non ti abbandono io! Sentimi, caro… La Mamma è qui, qui è… e solo si tormenta di non poter venire dove Tu sei…».
   È uno strazio… E Giovanni piange liberamente. Gesù deve sentire quel pianto. Ma non dice niente. Penso che la morte imminente lo faccia parlare come in delirio e neppure sappia quanto dice e, purtroppo, neppure comprenda il conforto materno e l’amore del Prediletto.
   Longino — che inavvertitamente ha lasciato la sua posa di riposo, con le mani conserte sul petto e una gamba accavallata, ora una, ora l’altra, per dare sollievo alla lunga attesa in piedi, e ora invece è rigido sull’attenti, la mano sinistra sulla spada, la destra regolarmente tesa lungo il fianco, come fosse sui gradini del trono imperiale — non vuole commuoversi. Ma il suo volto si altera nello sforzo di vincere l’emozione, e gli occhi hanno un luccicore di pianto che solo la sua ferrea disciplina trattiene.
   Gli altri soldati, che giocavano a dadi, hanno smesso e si sono drizzati in piedi, rimettendosi gli elmi che avevano servito ad agitare i dadi, e stanno in gruppo presso la scaletta scavata nel tufo, silenziosi, attenti. Gli altri sono di servizio e non possono mutare posizione. Sembrano statue. Ma qualcuno dei più prossimi, e che sente le parole di Maria, mugola qualcosa fra le labbra e scrolla il capo.
 22Un silenzio. Poi, netta nell’oscurità totale, la parola: «Tutto è compiuto!», e poi l’ansito sempre più rantoloso, con pause di silenzio fra un rantolo e l’altro, sempre più vaste.
 Il tempo scorre su questo ritmo angoscioso. La vita torna quando l’aria è rotta dall’anelito aspro del Morente… La vita cessa quando questo suono penoso non si ode più. Si soffre a sentirlo… si soffre a non sentirlo… Si dice: «Basta di questa sofferenza!», e si dice: «Oh! Dio! che non sia l’ultimo respiro».
   Le Marie piangono tutte, col capo contro il rialzo terroso. E si sente bene il loro pianto, perché tutta la folla ora tace di nuovo per raccogliere i rantoli del Morente.
   Ancora un silenzio. Poi, pronunciata con infinita dolcezza, con ardente preghiera, la supplica: «Padre, nelle tue mani raccomando lo spirito mio!».
   Ancora un silenzio. Si fa lieve anche il rantolo. È appena un soffio limitato alle labbra e alla gola.
   Poi, ecco, l’ultimo spasimo di Gesù. Una convulsione atroce, che pare voglia svellere il corpo infisso, coi tre chiodi, dal legno, sale per tre volte dai piedi al capo, scorre per tutti i poveri nervi torturati; solleva tre volte l’addome in una maniera anormale, poi lo lascia dopo averlo dilatato come per sconvolgimento dei visceri, ed esso ricade e si infossa come svuotato; alza, gonfia e contrae tanto fortemente il torace, che la pelle si infossa fra coste e coste che si tendono, apparendo sotto l’epidermide e riaprendo le ferite dei flagelli; fa rovesciare violentemente indietro, una, due, tre volte il capo, che percuote contro il legno, duramente; contrae in uno spasimo tutti i muscoli del volto, accentuando la deviazione della bocca a destra, fa spalancare e dilatare le palpebre sotto cui si vede roteare il globo oculare e apparire la sclerotica. Il corpo si tende tutto; nell’ultima delle tre contrazioni è un arco teso, vibrante, tremendo a vedersi, e poi un grido potente, impensabile in quel corpo sfinito, si sprigiona, lacera l’aria, il «grande grido» di cui parlanoi Vangeli e che è la prima parte della parola «Mamma»… E più nulla…
   La testa ricade sul petto, il corpo in avanti, il fremito cessa, cessa il respiro. È spirato.
 23La Terra risponde al grido dell’Ucciso con un boato pauroso. Sembra che da mille buccine dei giganti traggano un unico suono e su questo tremendo accordo ecco le note isolate, laceranti dei fulmini che rigano il cielo in tutti i sensi, cadendo sulla città, sul Tempio, sulla folla… Credo che ci saranno stati dei fulminati, perché la folla è colpita direttamente. I fulmini sono l’unica luce saltuaria che permetta di vedere. E poi subito, e mentre durano ancora le scariche delle saette, la terra si scuote in un turbine di vento ciclonico. Il terremoto e l’aeromoto si fondono per dare un apocalittico castigo ai bestemmiatori. La vetta del Golgota ondeggia e balla come un piatto in mano di un pazzo, nelle scosse sussultorie e ondulatorie che scuotono talmente le tre croci che sembra le debbano ribaltare.
   Longino, Giovanni, i soldati si abbrancano dove possono, come possono, per non cadere. Ma Giovanni, mentre con un braccio afferra la croce, con l’altro sostiene Maria che, e per il dolore e per il traballio, gli si è abbandonata sul cuore. Gli altri soldati, e specie quelli del lato che scoscende, si sono dovuti rifugiare al centro per non essere gettati giù dai dirupi. I ladroni urlano di terrore, la folla urla ancora di più e vorrebbe scappare. Ma non può. Cadono le persone l’una sull’altra, si pestano, precipitano nelle spaccature del suolo, si feriscono, rotolano giù per la china, impazziti.
   Per tre volte si ripete il terremoto e l’aeromoto, e poi si fa l’immobilità assoluta di un mondo morto. Solo dei lampi, ma senza tuono, rigano ancora il cielo e illuminano la scena dei giudei fuggenti in ogni senso, con le mani fra i capelli, o tese in avanti, o alzate al cielo, schernito fino allora e di cui ora hanno paura. La oscurità si tempera di un barlume di luce che, aiutato dal lampeggio silenzioso e magnetico, permette di vedere che molti restano al suolo, morti o svenuti, non so. Una casa arde nell’interno delle mura e le fiamme si alzano dritte nell’aria ferma, mettendo un punto di rosso fuoco sul verde cenere dell’atmosfera.
 24Maria alza il capo dal petto di Giovanni e guarda il suo Gesù. Lo chiama, perché mal lo vede nella poca luce e coi suoi poveri occhi pieni di pianto. Tre volte lo chiama: «Gesù! Gesù! Gesù!». È la prima volta che lo chiama per nome da quando è sul Calvario. Infine, ad un lampo che fa come una corona sopra la vetta del Golgota, lo vede, immobile, tutto pendente in avanti, col capo talmente piegato in avanti, e a destra, da toccare con la guancia la spalla e col mento le coste, e comprende. Tende le mani che tremano nell’aria scura e grida: «Figlio mio! Figlio mio! Figlio mio!». Poi ascolta… Ha la bocca aperta, pare voglia ascoltare anche con quella, come ha dilatati gli occhi per vedere, per vedere… Non può credere che il suo Gesù non sia più…
   Giovanni, che anche lui ha guardato e ascoltato, ed ha compreso che tutto è finito, abbraccia Maria e cerca allontanarla dicendo: «Non soffre più».
   Ma, prima che l’apostolo termini la frase, Maria, che ha capito, si svincola, gira su se stessa, si curva ad arco verso il suolo, si porta le mani agli occhi e grida: «Non ho più Figlio!».
   E poi vacilla e cadrebbe se Giovanni non se la raccogliesse tutta sul cuore, e poi egli si siede, per terra, per sostenerla meglio sul suo petto, finché le Marie, non più trattenute dal cerchio superiore di armati — perché, ora che i giudei sono fuggiti, i romani si sono ammucchiati sulla piazzuola sottostante commentando l’accaduto — sostituiscono l’apostolo presso la Madre.
   La Maddalena si siede dove era Giovanni, e quasi si adagia Maria sui ginocchi, sostenendola fra le braccia e il suo petto, baciandola sul volto esangue, riverso sulla spalla pietosa. Marta e Susanna, con la spugna e un lino intrisi nell’aceto, le bagnano le tempie e le narici, mentre la cognata Maria le bacia le mani chiamandola con strazio, e appena Maria riapre gli occhi, e gira uno sguardo che il dolore rende come ebete, le dice: «Figlia, figlia diletta, ascolta… dimmi che mi vedi… Sono la tua Maria… Non mi guardare così!…». E poiché il primo singhiozzo apre la gola di Maria e le prime lacrime cadono, ella, la buona Maria d’Alfeo, dice: «Sì, sì, piangi… Qui con me, come da una mamma, povera, santa figlia mia»; e quando si sente dire: «Oh! Maria! Maria! hai visto?», ella geme: «Sì, sì,… ma… ma… figlia… oh! figlia!…». Non trova più altro e piange, l’anziana Maria. Un pianto desolato, a cui fanno eco tutte le altre, ossia Marta e Maria, la madre di Giovanni e Susanna.
   Le altre pie donne non ci sono più. Penso siano andate via, e con esse i pastori, quando si udì quel grido femminile…
 25I soldati parlottano fra di loro.
   «Hai visto i giudei? Ora avevano paura».
   «E si battevano il petto».
   «I più terrorizzati erano i sacerdoti!».
   «Che paura! Ho sentito altri terremoti. Ma come questo mai. Guarda: la terra è rimasta piena di fessure».
   «E lì è franato tutto un pezzo della via lunga».
   «E sotto ci sono dei corpi».
   «Lasciali! Tanti serpenti di meno».
   «Oh! un altro incendio! Nella campagna…».
   «Ma è morto proprio?».
   «E non vedi? Ne hai dubbi?».
 26Spuntano da dietro la roccia Giuseppe e Nicodemo. Certo si erano rifugiati lì, dietro il riparo del monte, per salvarsi dai fulmini. Vanno da Longino. «Vogliamo il Cadavere».
 «Solo il Proconsole lo concede. Andate, e presto, perché ho sentito che i giudei vogliono andare al Pretorio ed ottenere il crucifragio. Non vorrei facessero sfregio».
   «Come lo sai?».
   «Rapporto dell’alfiere. Andate. Io attendo».
   I due si precipitano giù per la strada ripida e scompaiono.
 27È qui che Longino si accosta a Giovanni e gli dice piano qualche parola che non afferro. Poi si fa dare da un soldato una lancia. Guarda le donne tutte intente a Maria, che riprende lentamente le forze. Esse hanno, tutte, le spalle alla croce.
   Longino si pone di fronte al Crocifisso, studia bene il colpo e poi lo vibra. La larga lancia penetra profondamente da sotto in su, da destra a sinistra.
   Giovanni, combattuto fra il desiderio di vedere e l’orrore di vedere, torce per un attimo il viso.
   «È fatto, amico», dice Longino e termina: «Meglio così. Come a un cavaliere. E senza spezzare ossa… Era veramente un Giusto!».
   Dalla ferita geme molt’acqua e un filino appena di sangue già tendente a raggrumarsi. Geme, ho detto. Non esce che filtrando dal taglio netto che rimane inerte, mentre, se vi fosse stato del respiro, si sarebbe aperto e chiuso nel moto toracico addominale…
 28…Mentre sul Calvario tutto resta in questo tragico aspetto, io raggiungo Giuseppe e Nicodemo che scendono per una scorciatoia per fare più presto.
   Sono quasi alla base quando si incontrano con Gamaliele. Un Gamaliele spettinato, senza copricapo, senza mantello, con la splendida veste sporca di terriccio e strappata dai rovi. Un Gamaliele che corre, salendo e ansando, con le mani nei capelli radi e molto brizzolati di uomo anziano. Si parlano senza fermarsi.
   «Gamaliele! Tu?».
   «Tu, Giuseppe? Lo lasci?».
   «Io no. Ma tu come qui? E così?…».
   «Cose tremende! Ero nel Tempio! Il segno! Il Tempio scardinato! Il velo di porpora e giacinto pende lacerato! Il Sancta San­torum è scoperto! Anatema è su noi!». Ha parlato continuando a correre verso la cima, reso pazzo dalla prova.
   I due lo guardano andare… si guardano… dicono insieme: «”Queste pietre fremeranno alle mie ultime parole!”. Egli glielo aveva promesso!…».
 29Affrettano la corsa verso la città.
   Per la campagna, fra il monte e le mura, e oltre, vagano, nell’aria ancora fosca, persone con aspetto di ebeti… Urli, pianti, lamenti… Chi dice: «Il suo Sangue ha piovuto fuoco!». Chi: «Fra i fulmini Geové è apparso a maledire il Tempio!». Chi geme: «I sepolcri! I sepolcri!».
   Giuseppe afferra uno che dà di cozzo la testa contro la muraglia e lo chiama a nome, tirandoselo dietro mentre entra in città: «Simone! Ma che vai dicendo?».
   «Lasciami! Un morto anche tu! Tutti i morti! Tutti fuori! E mi maledicono».
   «È impazzito», dice Nicodemo.
   Lo lasciano e trottano verso il Pretorio.
   La città è in preda del terrore. Gente che vaga battendosi il petto. Gente che fa un salto indietro o si volge spaventata sentendo dietro una voce o un passo.
   In uno dei tanti archivolti oscuri, l’apparizione di Nicodemo, vestito di lana bianca — perché, per fare più presto, si è levato sul Golgota il manto oscuro — fa dare un urlo di terrore ad un fariseo fuggente. Poi si accorge che è Nicodemo e gli si attacca al collo con una espansione strana, urlando: «Non mi maledire! Mia madre m’è apparsa e mi ha detto: “Sii maledetto in eterno!”», e poi si accascia al suolo gemendo: «Ho paura! Ho paura!».
   «Ma sono tutti folli!», dicono i due.
   È raggiunto il Pretorio. E solo qui, mentre attendono di essere ricevuti dal Proconsole, Giuseppe e Nicodemo riescono a sapere il perché di tanti terrori. Molti sepolcri si erano aperti sotto la scossa tellurica, e c’era chi giurava averne visto uscire gli scheletri, che per un attimo si ricomponevano con parvenza umana e andavano accusando i colpevoli del deicidio e maledicendoli.
 30Li lascio nell’atrio del Pretorio, dove i due amici di Gesù entrano senza tante storie di stupidi ribrezzi e paure di contaminazioni, e torno sul Calvario, raggiungendo Gamaliele che sale, ormai sfinito, gli ultimi metri. Procede battendosi il petto e, quando giunge sulla prima delle due piazzuole, si butta bocconi, lunghezza bianca sul suolo giallastro, e geme: «Il segno! Il segno! Dimmi che mi perdoni! Un gemito, anche un gemito solo, per dirmi che mi odi e perdoni».
   Comprendo che lo crede ancora vivo. Né si ricrede altro che quando un soldato, urtandolo con l’asta, dice: «Alzati e taci. Non serve! Dovevi pensarci prima. È morto. E io, pagano, te lo dico: Costui, che voi avete crocifisso, era realmente il Figlio di Dio!».
   «Morto? Morto sei? Oh!…». Gamaliele alza il volto terrorizzato, cerca vedere fin lassù in cima, nella luce crepuscolare. Poco vede, ma quel tanto da capire che Gesù è morto lo vede. E vede il gruppo pietoso che conforta Maria, e Giovanni ritto alla sinistra della croce che piange, e Longino ritto a destra, solenne nella sua rispettosa postura.
   Si pone in ginocchio, tende le braccia e piange: «Eri Tu! Eri Tu! Non possiamo più avere perdono. Abbiamo chiesto il tuo Sangue su noi. Ed Esso grida al Cielo, e il Cielo ci maledice… Oh! Ma Tu eri la Misericordia!… Io ti dico, io, l’annientato rabbi di Giuda: “Il tuo Sangue su noi, per pietà“. Aspergici con Esso! Perché solo Esso può impetrarci perdono…», piange. E poi, più piano, confessa la sua segreta tortura: «Ho il segno richiesto… Ma secoli e secoli di cecità spirituale stanno sulla mia vista interiore, e contro il mio volere di ora si drizza la voce del mio superbo pensiero di ieri… Pietà di me! Luce del mondo, nelle tenebre che non ti hanno compreso fa’ scendere un tuo raggio! Sono il vecchio giudeo fedele a ciò che credevo giustizia ed era errore. Adesso sono una landa brulla, senza più alcuno degli antichi alberi della Fede antica, senza alcun seme o stelo della Fede nuova. Sono un arido deserto. Opera Tu il miracolo di far sorgere un fiore che abbia il tuo nome in questo povero cuore di vecchio israelita pervicace. In questo mio povero pensiero, prigioniero delle formule, penetra Tu, Liberatore. Isaia lo dic: “… pagò per i peccatori e prese su Sé i peccati di molti”. Oh! anche il mio, Gesù Nazareno…».
   Si alza. Guarda la croce che si fa sempre più nitida nella luce che rischiara e poi se ne va curvo, invecchiato, annichilito.
   E sul Calvario torna il silenzio, appena rotto dal pianto di Maria. I due ladroni, esausti dalla paura, non parlano più.
 31Tornano in corsa Nicodemo e Giuseppe, dicendo che hanno il permesso di Pilato. Ma Longino, che non si fida troppo, manda un soldato a cavallo dal Proconsole per sapere come deve fare anche coi due ladroni. Il soldato va e torna al galoppo con l’ordine di consegnare Gesù e di compiere il crucifragio sugli altri, per volere dei giudei.
   Longino chiama i quattro boia, che sono vigliaccamente accoccolati sotto la rupe, ancora terrorizzati dell’accaduto, e ordina che i due ladroni siano finiti a colpi di clava. Cosa che avviene senza proteste per Disma, al quale il colpo di clava, sferrato al cuore dopo aver già percosso i ginocchi, spezza a metà fra le labbra, in un rantolo, il nome di Gesù. E con maledizioni orrende da parte dell’altro ladrone. Il loro rantolo è lugubre.
 32I quattro carnefici vorrebbero anche occuparsi di Gesù, staccandolo dalla croce. Ma Giuseppe e Nicodemo non lo permettono. Anche Giuseppe si leva il mantello e dice a Giovanni di imitarlo e di tenere le scale mentre loro salgono con leve e tenaglie.
   Maria si alza tremante, sorretta dalle donne, e si accosta alla croce.
   Intanto i soldati, finito il loro compito, se ne vanno. E Longino, prima di scendere oltre la piazzuola inferiore, si volta dal­l’alto del suo morello a guardare Maria e il Crocifisso. Poi il rumore degli zoccoli suona sulle pietre e quello delle armi contro le corazze, e si allontana sempre più.
   Il palmo sinistro è schiodato. Il braccio cade lungo il Corpo, che ora pende semistaccato.
   Dicono a Giovanni di salire lui pure, lasciando le scale alle donne. E Giovanni, montato sulla scala dove prima era Nicodemo, si passa il braccio di Gesù intorno al collo e lo tiene così, tutto abbandonato sul suo òmero, abbracciato dal suo braccio alla vita e tenuto per la punta delle dita per non urtare l’orrendo squarcio della mano sinistra, che è quasi aperta. Quando i piedi sono schiodati, Giovanni fatica non poco a tenere e sostenere il Corpo del suo Maestro fra la croce e il suo corpo.
   Maria si pone già ai piedi della croce, seduta con le spalle alla stessa, pronta a ricevere il suo Gesù nel grembo.
   Ma schiodare il braccio destro è l’operazione più difficile. Nonostante ogni sforzo di Giovanni, il Corpo pende tutto in avanti e la testa del chiodo sprofonda nella carne. E, poiché non vorrebbero ferirlo di più, i due pietosi faticano molto. Finalmente il chiodo è afferrato dalla tenaglia e estratto piano piano.
   Giovanni tiene sempre Gesù per le ascelle, con la testa rovesciata sulla sua spalla, mentre Nicodemo e Giuseppe lo afferrano uno alle cosce, l’altro ai ginocchi, e cautamente scendono così dalle scale.
 33Giunti a terra, vorrebbero adagiarlo sul lenzuolo che hanno steso sui loro mantelli. Ma Maria lo vuole. Si è aperta il manto, lasciandolo pendere da una parte, e sta con le ginocchia piuttosto aperte per fare cuna al suo Gesù.
   Mentre i discepoli girano per darle il Figlio, la testa coronata ricade all’indietro e le braccia pendono verso terra, e struscerebbero al suolo con le mani ferite se la pietà delle pie donne non le tenessero per impedirlo.
   Ora è in grembo alla Madre… E sembra uno stanco e grande bambino che dorma tutto raccolto sul seno materno. Maria lo tiene col braccio destro passato dietro le spalle del Figlio e il sinistro passato al disopra dell’addome per sorreggerlo alle anche.
   La testa è sulla spalla materna. E Lei lo chiama… lo chiama con voce di strazio. Poi se lo stacca dalla spalla e lo carezza con la sinistra, ne raccoglie e stende le mani e, prima di incrociarle sul grembo spento, le bacia, e piange sulle ferite. Poi carezza le guance, specie là dove è il livido e il gonfiore, bacia gli occhi infossati, la bocca rimasta lievemente storta a destra e socchiusa.
   Vorrebbe ravviargli i capelli, come gli ha ravviato la barba ingrommata di sangue. Ma nel farlo incontra le spine. Si punge per levare quella corona e non vuole farlo che Lei, con l’unica mano che ha libera, e respinge tutti dicendo: «No, no! Io! Io!», e pare abbia fra le dita il capo tenerello di un neonato, tanto va con delicatezza nel farlo. E quando può levare questa torturante corona, si curva a medicare tutti gli sgraffi delle spine con i baci.
   Con la mano tremante divide i capelli scomposti, li ravvia e piange, e parla piano piano, e asciuga con le dita le lacrime che cadono sulle povere carni gelide e sanguinose, e pensa di pulirle col pianto e col suo velo, che è ancora ai lombi di Gesù. E ne tira a sé una estremità, e con quella si dà a detergere ed asciugare le membra sante. E sempre torna in carezze sul volto, e poi sulle mani, e poi carezza le ginocchia contuse, e poi risale ad asciugare il Corpo, su cui cadono lacrime e lacrime.
   È nel fare questo che la sua mano incontra lo squarcio del costato. La piccola mano, coperta dal lino sottile, entra quasi tutta nell’ampia bocca della ferita. Maria si curva per vedere, nella semiluce che si è formata, e vede. Vede il petto aperto e il cuore di suo Figlio. Urla, allora. Sembra che una spada apra a Lei il cuore. Urla, e poi si rovescia sul Figlio e pare morta Lei pure.
 34La soccorrono, la confortano. Le vogliono levare il Morto divino e, poiché Ella grida: «Dove, dove ti metterò, che sia sicuro e degno di Te?», Giuseppe, tutto curvo in un inchino riverente, la mano aperta appoggiata sul petto, dice: «Confortati, o Donna! Il mio sepolcro è nuovo e degno di un grande. Lo dono a Lui. E questo, Nicodemo, amico, già nel sepolcro ha portato gli aromi, ché egli questo vuole offrire di suo. Ma, te ne prego, poiché la sera si avvicina, lasciaci fare… È Parasceve. Sii buona, o Donna santa!».
   Anche Giovanni e le donne pregano in tal senso, e Maria si lascia levare dal grembo la sua Creatura, e si alza, affannosa, mentre lo avvolgono nel lenzuolo, pregando: «Oh! fate piano!».
   Nicodemo e Giovanni alle spalle, Giuseppe ai piedi, sollevano la Salma avvolta non solo nel lenzuolo, ma appoggiata anche sui mantelli che fanno da portantina, e si avviano giù per la via.
   Maria, sorretta dalla cognata e dalla Maddalena, seguita da Marta, Maria di Zebedeo e Susanna, che hanno raccolto i chiodi, le tenaglie, la corona, la spugna e la canna, scende verso il sepolcro.
   Sul Calvario restano le tre croci, di cui quella di centro è nuda e le due altre hanno il loro vivo trofeo che muore.

   35«Ed ora», dice Gesù, «fate bene attenzione. Ti risparmio la descrizione della sepoltura, che è fatta bene dallo scorso anno: 19 febbraio 1944. Userete perciò quella, e P. M. metterà al termine della stessa il lamento di Maria che ho dato a suo tempo: 4 ottobre 1944. Poi metterai quanto vedrai tu di nuovo. Sono parti nuove della Passione e vanno messe a posto molto bene, per non fare confusione o lasciare lacune».



Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Gv 3, 13-17: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito».

Vangelo Novus Ordo Gv 3, 13-17
Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
«Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui»

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo

   Cap. CXVI. Al Getsemani con Gesù, i discepoli parlano dei pagani e della “velata”. Il colloquio con Nicodemo.

24 febbraio 1945 

 1 Gesù è nella cucina della casetta dell’Uliveto, a cena fra i suoi discepoli. Parlano dei fatti della giornata, che però non è quella precedentemente descritta, perché sento parlare di altri avvenimenti, fra cui la guarigione di un lebbroso avvenuta presso i sepolcri lungo la via di Betfage.
“Vi era anche un centurione romano ad osservare” dice Bartolomeo. E aggiunge: “Mi ha chiesto, dall’alto del suo cavallo: ‘L’uomo che tu segui, fa spesso simili cose?’ e alla mia risposta affermativa ha esclamato: ‘Allora è più grande di Esculapio e diventerà più ricco di Creso’. Ho risposto: ‘Sarà sempre povero secondo il mondo, perché non riceve ma dà e non vuole che anime da portare al Dio vero’. Il centurione mi ha guardato stupito e poi ha spronato il cavallo andandosene al galoppo.”
“C’era anche una donna romana nella sua lettiga. Non poteva essere che una donna. Aveva le tende calate, ma occhieggiava da esse. Ho visto” dice Tommaso.
“Sì. Era presso la curva alta della via. Aveva dato ordine di fermarsi quando il lebbroso aveva gridato: ‘Figlio di Davide, abbi pietà di me!’ Allora aveva una tenda scostata ed io ho visto che ti ha guardato con una lente preziosa, e poi ha riso ironica. Ma quando ha visto che Tu, solo col comando, lo hai guarito! Allora mi ha chiamato e mi ha chiesto: ‘Ma è quello che dicono il vero Messia?’ Ho risposto di sì e lei mi ha detto: ‘E tu sei con Lui?’ E poi ha chiesto: ‘E’ proprio buono?’” dice Giovanni.
“Allora l’hai vista! Come era?” chiedono Pietro e Giuda.
“Mah! una donna…”
“Che scoperta!” ride Pietro. E l’Iscariota incalza: “Ma era bella, giovane, ricca?”
“Si. Mi pare fosse giovane e anche bella. Ma guardavo più verso Gesù che verso lei. Volevo vedere se il Maestro si metteva di nuovo per via…”
“Sciocco!” mormora fra i denti l’Iscariota.
“Perché?” lo difende Giacomo di Zebedeo. “Mio fratello non era un ganimde in cerca d’avventure. Ha risposto per educazione. Ma non ha mancato alla sua prima qualità”
“Quale?” chiede l’Iscariota.
“Quella del discepolo che ha per suo unico amore il Maestro.”
Giuda china il capo stizzito.

 2 “E poi… non è molto bene farsi vedere parlare coi romani” dice Filippo. “Già ci accusano di essere galilei e perciò meno ‘puri’ dei giudei. E ciò per nascita. Poi ci accusano di sostare sovente a Tiberiade, luogo di ritrovo dei gentili, dei romani, fenici, siri… E poi… oh! di quante cose ci accusano!…”
   “Sei buono, Filippo, e metti un velo sulla durezza della verità che dici. Ma essa è, senza il velo, questa: di quante cose mi accusano” dice Gesù, che fino allora ha taciuto.
   “In fondo non hanno del tutto torto. Troppi contatti coi pagani” dice l’Iscariota.
   “Credi tu pagani solo coloro che non hanno legge mosaica? ” chiede Gesù.
   “E quali altri allora?”
   “Giuda!… Puoi giurare sul nostro Dio di non avere paganesimo in cuore? E puoi giurare non lo abbiano gli israeliti più in vista?”
   “Ma, Maestro… degli altri non so… ma io… io di me posso giurare.”
   “Cosa è per te, secondo il tuo pensiero, il paganesimo?” chiede Gesù ancora.
   “Ma è il seguire una religione non vera, adorare gli dèi” ribatte veemente Giuda.
   “I quali sono?”
   “Gli dèi di Grecia e Roma, quelli dell’Egitto… insomma gli dèi dai mille nomi e dalle inesistenti persone che secondo i pagani empiono i loro Olimpi.”
   “Nessun altro Dio esiste? Solo questi olimpici?”
   “E quale altro? Non sono fin troppi?”
   “Troppi. Sì, troppi. Ma ve ne sono altri e ai loro altari vengono bruciati incensi da ogni uomo, anche dai sacerdoti, scribi, rabbi, farisei, sadducei, erodiani, tutte persone d’Israele, non è vero? Non solo, ma ne  vengono bruciati anche dai miei discepoli.”
   “Ah! questo poi no!” dicono tutti.
   “No? Amici… Chi non ha fra voi un culto o più culti segreti? Uno ha la bellezza e l’eleganza. L’altro l’orgoglio del suo sapere. Un altro incensa la speranza di divenire un grande, umanamente. Un altro ancora adora la femmina. Un altro il denaro… Un altro si prostra davanti al suo sapere… e così via. In verità vi dico che non vi è uomo che non sia intinto di idolatria. Come allora sdegnare i pagani che per sventura, quando, pur essendo col Dio vero, pagani si resta per volontà?”
   “Ma siamo uomini, Maestro” esclamano in molti.
   “E’ vero. Ma allora… abbiate carità per tutti, perché Io sono venuto per tutti e voi non siete da più di Me.”
   “Ma intanto ci fanno accuse e la tua missione viene inceppata.”
   “Andrà avanti lo stesso.”

 3 “A proposito di donne” dice Pietro che, forse perché è seduto presso Gesù, è talmente in sollucchero che è buono buono. “E’ un poco di giorni, e anzi da quando hai parlato a Betania la prima volta dopo il ritorno in Giudea, che una donna, tutta velata, ci segue sempre. Non so come faccia a sapere le nostre intenzioni. So che, o in fondo alle ultime file di popolo che ascolta se Tu parli, o dietro al popolo che ti segue se cammini, o anche dietro a noi se andiamo ad annunciarti per le campagne, c’è quasi sempre. A Betania la prima volta mi ha sussurrato dietro al velo: ‘Quell’uomo che dici parlerà è proprio Gesù di Nazaret?’. Le ho risposto di sì, e la sera era dietro il tronco di un albero per udirti. Poi l’avevo persa di vista. Ma ora, qui a Gerusalemme, l’ho già vista due o tre volte. Oggi le ho chiesto: ‘Hai bisogno di Lui? Sei malata? Vuoi l’obolo?’ Ha risposto sempre di no col capo, perché non parla mai con nessuno.”
   “A me ha detto un giorno: ‘Dove abita Gesù?’ e le ho detto: ‘Al Get Semnì’ ” dice Giovanni.
   “Bravo stolto! Non dovevi. Dovevi dirle: ‘Scopriti. Fatti conoscere e te lo dirò’ ” dice l’Iscariota iracondo.
   “Ma quando mai chiediamo queste cose?!” esclama Giovanni semplice e innocente.
   “Gli altri si vedono. Questa sta tutta velata. O è una spia o è una lebbrosa. Non deve seguirci e sapere. Se è spia è per fare del male. Forse è pagata dal Sinedrio per questo…”
   “Ah! usa questi sistemi il Sinedrio?” chiede Pietro. “Ne sei sicuro?”
   “Sicurissimo. Sono stato del Tempio e so.”
   “Bella roba! A questa si adatta come un cappuccio la ragione detta dal Maestro poco fa…” commenta Pietro.
   “Quale ragione?” Giuda è già rosso di stizza.
   “Quella che anche fra i sacerdoti ci sono dei pagani.”
   “Che c’entra questo col pagare una spia?”
   “C’entra, c’entra! E’ già dentro anzi! Perché pagano? Per abbattere il Messia e trionfare loro. Dunque si mettono sull’altare loro con le loro sudicie anime sotto le vesti monde” risponde, con il suo buon giudizio popolano Pietro.
   “Bene, insomma” abbrevia Giuda. “Quella donna è un pericolo per noi o per la folla. Per la folla se è lebbrosa, per noi se spia.”
   “Cioè: per Lui, se mai” ribatte Pietro.
   “Ma cadendo Lui si cade anche noi…”
   “Ah! Ah!” ride Pietro e termina: “E se si cade, l’idolo va in pezzi e ci si rimette tempo, stima e forse la pelle, e allora, ah! ah!… e allora è meglio cercare che non cada o… scansarsi in tempo, vero? Io, invece, guarda. Lo abbraccio più stretto. Se cade, abbattuto dai traditori di Dio, voglio cadere con Lui” e Pietro abbraccia stretto, con le sue corte braccia, Gesù.
   “Non credevo di aver fatto tanto male, Maestro” dice tutto triste Giovanni che è di fronte a Gesù. “Picchiami, maltrattami, ma salvati. Guai se fossi io la causa del tuo morire!… Oh! non me ne darei pace. Sento che il volto mi si scaverebbe per il continuo pianto e se ne brucerebbe la vista. Che ho fatto mai! Ha ragione Giuda: sono uno stolto!”
   “No, Giovanni. Non lo sei e hai fatto bene. Lasciatela venire. Sempre. E rispettate il suo velo. Può essere messo a difesa di una lotta fra il peccato e la sete di redimersi. Sapete voi che ferite si incidono su un essere quando questa lotta avviene? Sapete che pianto e che rossore? Tu hai detto, Giovanni, caro figlio dal cuore di fanciullo buono, che il tuo volto si scaverebbe per il continuo pianto se mi fossi causa di  male. Ma sappi che, quando una coscienza  ridestata incomincia a rodere una carne, che fu peccato, per distruggerla e trionfare con lo spirito, essa deve per forza consumare tutto quanto fu attrazione della carne, e la creatura invecchia, appassisce sotto la vampa di questo fuoco trivellatore. Solo dopo, a redenzione completa, si ricompone una seconda, santa e più perfetta bellezza, perché è il bello dell’anima che affiora dallo sguardo, dal sorriso, dalla voce, dall’onesta alterezza della fronte sulla quale è sceso e splende come diadema il perdono di Dio.”
   “Allora non ho fatto male?…”
   “No. E male non ha fatto Pietro. Laciatela fare.

 4 Ed ora ognuno vada al suo riposo. Io resto con Giovanni e Simone ai quali devo parlare. Andate.”
   I discepoli si ritirano. Forse dormono nel frantoio. Non so. Vanno via e certo non rientrano in Gerusalemme, perché le porte sono chiuse da ore.
   “Hai detto, Simone, che Lazzaro ti ha mandato Isacco con Massimino, oggi, mentre Io ero presso la torre di Davide. Che voleva?”
   “Voleva dirti che Nicodemo è da lui e che voleva parlarti in segreto. Mi sono permesso di dire: ‘Che venga. Il Maestro lo attenderà nella notte’. Non hai che la notte per essere solo. Per questo ti ho detto: ‘Congeda tutti, meno Giovanni e me’. Giovanni serve per andare al ponte del Cedron ad attendere Nicodemo, che è in una delle case di Lazzaro, fuori le mura. Io servivo a spiegare. Ho fatto male?”
   “Hai fatto bene. Vai, Giovanni, al tuo posto.”
   Restano soli Simone e Gesù. Gesù è pensieroso. Simone rispetta il suo silenzio. Ma Gesù lo rompe d’improvviso e, come terminando ad alta voce un interno discorso, dice: “Sì. E’ bene fare così. Isacco, Elia, gli altri, bastano per tenere viva l’idea che già si afferma fra i buoni e negli umili. Per i potenti… vi sono altre leve. Vi è Lazzaro, Cusa, Giuseppe, altri ancora… Ma i potenti… non mi vogliono. Temono e tremano per il loro potere. Io andrò lontano da questo cuore giudeo, sempre più ostile al Cristo.”
   “Torniamo in Galilea?”
   “No. Ma lontano da Gerusalemme. La Giudea va evangelizzata. E’ Israele essa pure. Ma qui, lo vedi… Tutto serve ad accusarmi. Mi ritiro. E per la seconda volta…”

 5 “Maestro, ecco Nicodemo” dice Giovanni entrando per primo.
   Si salutano e poi Simone prende Giovanni ed esce dalla cucina, lasciando soli i due.
   “Maestro, perdona se ti ho voluto parlare in segreto. Diffido per Te e per me di molti. Non tutta viltà la mia.    Anche prudenza e desiderio di giovarti più che se ti appartenessi apertamente. Tu hai molti nemici. Io sono uno dei pochi che qui ti ammirano. Mi sono consigliato con Lazzaro. Lazzaro è potente per nascita, temuto perché in favore presso Roma, giusto agli occhi di Dio, saggio per maturazione di ingegno e cultura, tuo vero amico e mio vero amico. Per tutto questo ho voluto parlare con lui. E’ sono felice che egli abbia giudicato nel mio stesso modo.    Gli ho detto le ultime… discussioni del Sinedrio su Te.”
   “Le ultime accuse. Di’ pure le verità nude come sono.”
   “Le ultime accuse. Sì, Maestro. Io ero in procinto di dire, ‘Ebbene: io pure sono dei suoi’. Tanto perché in quell’assemblea ci fosse almeno uno che fosse in tuo favore. Ma Giuseppe, che mi era venuto vicino, mi ha sussurrato: ‘Taci. Teniamo occulto il nostro pensiero. Ti dirò poi’. E uscito di là ha detto; sì, ha detto: ‘Giova di più così. Se ci sanno discepoli, ci tengono all’oscuro di quanto pensano e decidono, e possono nuocergli e nuocerci. Come semplici studiosi di Lui, non ci faranno sotterfugi’. Ho capito che aveva ragione. Sono tanto… cattivi! Anche io ho i miei interessi e i miei doveri… e così Giuseppe… Capisci, Maestro.”
   “Non vi dico nessuna rampogna. Prima che tu venissi, dicevo questo a Simone.

 6 E ho deciso anche di allontanarmi da Gerusalemme.”
   “Ci odi perché non ti amiamo!”
   “No. Non odio neppure i nemici.”
   “Tu lo dici. Ma così è. Hai ragione. Ma che dolore per me e Giuseppe! E Lazzaro? Che dirà Lazzaro, che proprio oggi ha deciso di farti dire di lasciare questo luogo per andare in una delle sue proprietà di Sionne. Tu sai? Lazzaro è potente in ricchezza. Buona parte della città è sua e così molte terre di Palestina. Il padre, al suo censo ed a quello di Eucheria della sua tribù e famiglia, aveva unito quanto era ricompensa dei romani al servitore fedele, ed ai figli ha lasciato ben grande eredità. E, quel che più conta, una velata ma potente amicizia con Roma. Senza quella, chi avrebbe salvato dall’improperio tutta la casa dopo l’infamante condotta di Maria, il suo divorzio, solo avuto perché era ‘lei’, la sua vita di licenza in quella città che è suo feudo e in Tiberiade che è l’elegante lupanare dove Roma e Atene hanno fatto letto di prostituzione per tanti del popolo eletto? Veramente, se Teofilo siro fosse stato un proselite più convinto, non avrebbe dato ai figli quella educazione ellenicizzante che uccide tanta virtù e semina tanta voluttà e che, bevuta ed espulsa senza conseguenze da Lazzaro, e specie da Marta, ha contagiato e proliferato nella sfrenata Maria, ed ha fatto di lei il fango della famiglia e della Palestina. No, senza la potente ombra del favore di Roma, più che ai lebbrosi, sarebbe stato mandato il loro anatema. Ma posto che così è, approfittane.”
   “No. Mi ritiro. Chi mi vuole verrà con Me.”
   “Ho fatto male a parlare!” Nicodemo è accasciato.
   “No. Attendi e persuaditi.” e Gesù apre una porta e chiama: “Simone! Giovanni! Venite da Me.”
   Accorrono i due.
   “Simone, di’ a Nicodemo quanto ti dicevo quando entrò lui.”
   “Che per gli umili bastano i pastori, per i potenti Lazzaro, Nicodemo e Giuseppe con Cusa, e che Tu ti ritiri lontano da Gerusalemme pur senza lasciare la Giudea. Questo dicevi. Perché me lo fai ripetere? Che è avvenuto?”
   “Nulla. Nicodemo temeva che Io me ne andassi per le sue parole.”
   “Ho detto al Maestro che il Sinedrio è sempre più nemico, e che era bene si mettesse sotto la protezione di Lazzaro. Ha protetto i tuoi beni perché ha dalla sua Roma. Proteggerebbe anche Gesù.”
   “E’ vero. E’ un buon consiglio. Per quanto la mia casta sia invisa anche a Roma, pure una parola di Teofilo mi ha conservato l’avere durante la proscrizione e la lebbra. E Lazzaro ti è molto amico, Maestro.”
   “Lo so. Ma ho detto. E quello che ho detto, faccio.”
   “Noi ti perdiamo, allora!”
   “No, Nicodemo. Dal Batttista vanno uomini di tutte le sètte. Da Me potranno venire uomini di tutte le sètte e di tutte le cariche.”
   “Noi venivamo da Te sapendoti da più di Giovanni.”
   “Potete venirci ancora. Sarò un rabbi solitario Io pure come Giovanni, e parlerò alle turbe vogliose di sentire la voce di Dio e capaci di credere che Io sono quella Voce. E gli altri mi dimenticheranno. Se almeno saranno capaci di tanto.”

 7 “Maestro, Tu sei triste e deluso. Ne hai ragione. Tutti ti ascoltano. E credono in Te tanto da ottenere dei miracoli. Persino uno di Erode, uno che deve per forza avere corrotta la bontà naturale in quella corte incestuosa.    Persino dei soldati romani. Solo noi di Sionne siamo così duri… Ma non tutti. Lo vedi… Maestro, noi sappiamo che sei venuto da parte di Dio, suo dottore che più alto non c’è. Lo dice anche Gamaliele. Nessuno può fare i miracoli che Tu fai se non ha seco Iddio. Questo credono anche i dotti come Gamaliele. Come allora avviene che non possiamo avere la fede che hanno i piccoli d’Israele? Oh! dimmelo proprio. Io non ti tradirò anche se mi dicessi: ‘Ho mentito per avvalorare le mie sapienti parole sotto un sigillo che nessuno può deridere’. Sei Tu il Messia del Signore? l’Atteso? la Parola del Padre, incarnata per istruire e redimere Israele secondo il Patto?”
   “Da te lo domandi, o altri ti mandano a chiederlo?”
   “Da me, da me, Signore. Ho un tormento qui. Ho una burrasca. Venti contrari e contrarie voci. Perché non in me, uomo maturo, quella pacifica certezza che ha costui, quasi analfabeta e fanciullo, e che gli mette quel sorriso beato sul volto, quella luce negli occhi, quel sole nel cuore? Come credi tu, Giovanni, per essere così sicuro? Insegnami o figlio, il tuo segreto, il segreto per cui sapesti vedere e capire il Messia in Gesù Nazareno!”
Giovanni si fa rosso come una fragola e poi china il capo come si scusasse di dire una cosa così grande, e risponde semplicemente: “Amando.”
   “Amando! E tu, Simone, uomo probo e sulle soglie della vecchiezza, tu dotto e tanto provato da essere indotto a temere inganno dovunque?”
   “Meditando.”
   “Amando! Meditando! Io pure amo e medito, e non sono certo ancora!”

 8 Interloquisce Gesù dicendo: “Io te lo dico il segreto vero. Costoro seppero nascere nuovamente, con uno spirito nuovo, libero da ogni catena, vergine da ogni idea. E compresero perciò Dio. Se uno non nasce di nuovo, non può vedere il Regno di Dio, né credere nel suo Re.”
   “Come può un uomo rinascere essendo già adulto? Espulso dal seno materno, l’uomo non può mai più rientrarvi. Alludi forse alla reincarnazione come la credono tanti pagani? Ma no, non è possibile in Te questo. E poi non sarebbe un rientrare nel seno, ma un rincarnare oltre il tempo. Perciò non più ora. Come? Come?”
   “Non vi è che una esistenza della carne sulla terra e una eterna vita dello spirito oltre la terra. Ora Io non parlo della carne e del sangue. Ma dello spirito immortale, il quale per due cose rinasce a nuova vita. Per l’acqua e per lo Spirito. Ma il più grande è lo Spirito, senza il quale l’acqua non è che un simbolo. Chi si è mondato con l’acqua deve purificarsi poi con lo Spirito e con Esso accendersi e splendere, se vuole vivere in seno a Dio qui e nell’eterno Regno. Perché ciò che è generato dalla carne è e resta carne, e con essa muore dopo averla servita nei suoi appetiti e peccati. Ma ciò che è generato dallo Spirito è spirito, e vive tornando allo Spirito Generatore dopo aver allevato sino all’età perfetta il proprio spirito. Il Regno dei Cieli non sarà abitato che da esseri giunti all’età spirituale perfetta. Non meravigliarti dunque se dico: ‘Bisogna che voi nasciate di nuovo’. Costoro hanno saputo rinascere. Il giovane ha ucciso la carne e fatto rinascere lo spirito mettendo il suo io sul rogo dell’amore. Tutto fu arso di ciò che era la materia. Dalle ceneri ecco sorgere il nuovo fiore spirituale, meraviglioso elianto che sa volgersi al Sole eterno. Il vecchio ha messo la scure della meditazione onesta ai piedi del suo vecchio pensiero ed ha sradicato la vecchia pianta lasciando solo il pollone della buona volontà, dal quale ha fatto nascere il suo nuovo pensiero. Ora ama Dio con spirito nuovo e lo vede. 

 9 Ognuno ha il suo metodo per giungere al suo porto. Ogni vento è buono purché si sappia usare la vela. Voi sentite soffiare il vento e dalla sua corrente potete regolarvi e dirigere la manovra. Ma non potete dire da dove esso viene né chiamare quello che vi occorre. Anche lo Spirito chiama e viene chiamato e passa. Ma solo chi è attento lo può seguire. Conosce la voce del padre il figlio, conosce la voce dello Spirito lo spirito da Lui generato.”
   “Come può avvenire questo?”
   “Tu maestro in Israele me lo chiedi? Tu ignori queste cose? Si parla e si testifica di ciò che sappiamo e abbiamo visto. Or dunque Io parlo e testifico di ciò che so. Come potrai mai accettare le cose non viste se non accetti la testimonianza che Io ti porto? Come potrai credere allo Spirito se non credi all’incarnata Parola? Io sono disceso per risalire e meco trarre coloro che sono quaggiù. Uno solo è disceso dal Cielo: il Figlio dell’uomo. E uno solo salirà col potere di aprire il Cielo: Io, Figlio dell’uomo. Ricorda Mosè. Egli alzò un serpente nel deserto per guarire i morbi d’Israele. Quando Io sarò innalzato, coloro che la febbre della colpa fa ciechi, sordi, muti, folli, lebbrosi, malati, saranno guariti e chiunque crederà in Me avrà vita eterna. Anche coloro che in Me avranno creduto, avranno questa beata vita. Non chinare la fronte, Nicodemo. Io sono venuto a salvare, non a perdere. Dio non ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo perché chi è nel mondo sia condannato, ma perché il mondo sia salvo per mezzo di Lui. Nel mondo Io ho trovato tutte le colpe, tutte le eresie, tutte le idolatrie. Ma può la rondine che vola ratta sulla polvere sporcarsene la piuma? No. Porta solo per le tristi vie della terra una virgola d’azzurro, un odore di cielo, getta un richiamo per scuotere gli uomini e far loro alzare lo sguardo dal fango e seguire il suo volo che al cielo ritorna. Così Io. Vengo per portarvi meco. Venite!… Chi crede nel Figlio Unigenito non è giudicato. E’ già salvo, perché questo Figlio perora al Padre e dice ‘Costui mi amò’. Ma chi non crede è inutile faccia opere sante. E’ già giudicato perché non ha creduto nel nome del Figlio Unico di Dio. 

10 Quale è il mio Nome, Nicodemo?”
   “Gesù.”
   “No. Salvatore. Io sono la Salvazione. Chi non mi crede, rifiuta la sua salute ed è giudicato dalla Giustizia eterna. E il giudizio è questo: ‘La Luce ti era stata mandata, a te e al mondo, per esservi di salvezza, e tu e gli uomini avete preferito le tenebre alla Luce perché preferivate le opere malvagie, che ormai erano la consuetudine vostra, alle opere buone che Egli vi additava da seguire per essere santi’. Voi avete odiato la Luce perché i malfattori amano le tenebre per i loro delitti, e avete sfuggito la Luce perché non vi illuminasse nelle vostre piaghe nascoste. Non per te, Nicodemo. Ma la verità è questa. E la punizione sarà in rapporto alla condanna, nel singolo e nella collettività. Riguardo a coloro che mi amano e mettono in pratica la verità che insegno, nascendo perciò nello spirito per una seconda volta, che è la più vera, ecco Io dico che essi non temono la Luce, ma anzi ad essa si accostano, perché la loro luce aumenta quella da cui furono illuminati, reciproca gloria che fa beato Dio nei suoi figli e i figli nel Padre. No, che i figli della Luce non temono d’essere illuminati. Ma anzi col cuore e con le opere dicono: ‘Non io; Egli il Padre, Egli il Figlio, Egli lo Spirito hanno compiuto in me il Bene. Ad essi gloria in eterno’. E dal Cielo risponde l’eterno canto dei Tre che si amano nella loro perfetta Unità: ‘A te benedizione in eterno, figlio vero del nostro volere’. Giovanni, ricorda queste parole per quando sarà l’ora di scriverle. Nicodemo, sei persuaso?”
   “Maestro… sì.

11 Quando potrò parlarti ancora?”
   “Lazzaro saprà dove condurti. Andrò da lui prima di allontanarmi da qui.”
   “Io vado, Maestro. Benedici il tuo servo.”
   “La mia pace sia teco.”
   Nicodemo esce con Giovanni.
   Gesù si volge a Simone: “Vedi l’opera della potestà delle tenebre? Come un ragno, tende la sua insidia e invischia e imprigiona chi non sa morire per rinascere farfalla, tanto forte da lacerare la tela tenebrosa e passare oltre, portando a ricordo della sua vittoria brandelli di lucente rete sulle ali d’oro, come orifiamme e labari vinti al nemico. Morire per vivere. Morire per darvi la forza di morire. Vieni, Simone, al riposo. E Dio sia con te.”
   Tutto ha fine.

Eterno Signore nostro, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra, noi ci affidiamo per sempre a Voi!