Preghiera
Gesù mio, scrivete il vostro nome sul mio povero cuore e sulla mia lingua, acciocché, tentato a peccare, io resista con invocarvi; tentato a disperarmi, io confidi nei vostri meriti. Fate che il vostro nome mi infiammi d’amore, e sia sempre la mia speranza, la mia difesa e l’unico mio conforto.
Tag: Gesù
Preghiera a Gesù Crocifisso
Inno alla Santa Croce
Ci siamo affidati alla tua croce, o creatore dell’ eternità. Tu ce l’hai data come protezione contro il nemico:
proteggici con essa , o salvatore, ti supplichiamo. Sommo re, per noi sei salito sulla croce e con essa hai
tolto il delitto di Adamo, prima creatura: Tu che ti sei rivelato legno della vita degli uomini, alla tua vista il demonio è distrutto senza potersi rialzare : proteggici con essa, o salvatore, ti supplichiamo. Con la tua croce il nemico trema e per il terrore di fronte alla tua gloria è precipitato negli inferi: proteggici con essa, o salvatore. Ti supplichiamo. Esultano i cieli e si rallegra la terra , poiché la santa croce è apparsa come salvatrice dell’ universo: proteggici con essa, o salvatore, ti supplichiamo.
Le preghiere da recitare ai pasti
Una raccolte delle preghiere da recitare in famiglia prima e dopo i pasti per ringraziare il Signore Gesù.
Preghiere da recitare prima dei pasti
Signore, benedici il cibo che stiamo per prendere
e fa che non manchi a nessun bambino del mondo. Amen.
O Dio amante della vita,
che nutri gli uccelli del cielo
e vesti i gigli dei campo,
ti benediciamo per tutte le creature
e per il cibo che stiamo per prendere.
Ti preghiamo di non permettere
che ad alcuno manchi il necessario alimento. Amen
Benedici, Signore, noi e questi doni
che stiamo per ricevere dalla tua bontà.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
Benedici, Padre, noi e questi doni
che stiamo per ricevere come segno della tua bontà.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
Benedetto sii tu, Dio dell’universo,
per il pane della terra e il frutto della vite.
Benedetto per il cibo che provvedi ad ogni creatura.
A te lode e gloria in Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Ti ringraziamo, Signore,
di essere riuniti attorno a questa tavola:
dà a ogni famiglia la gioia
di essere unita nella pace.
Signore, che ci doni la gioia
di stare attorno a questa tavola,
radunaci tutti insieme, un giorno,
al Banchetto del Cielo.
Preghiere da recitare dopo i pasti
Ti ringraziamo, Dio nostro,
per il nutrimento che ci hai elargito:
mediante questo pane,
che insieme abbiamo diviso,
si ravvivi in noi la comunione con te,
con i fratelli e con tutte le creature.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
Ti rendiamo grazie, o Signore, per i doni
che la tua bontà ci ha elargito.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
Gloria al Padre…
Vangelo Mc 8, 1-10: “Sento compassione per la folla; ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare”.
Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
“Come riuscire a sfamarli di pane qui, in un deserto?”.
Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Vetus Ordo
Cap. DLXXVI. Verso Doco l’incontro con il giovane ricco.
7 marzo 1947
1 È un’altra mattina bellissima d’aprile. La terra e il firmamento spiegano tutte le loro primaverili bellezze. Si respira luce, canto, profumo, tanto l’aria è satura di luminosità, di voci di festa e d’amore, di fragranze. Deve esser scesa nella notte una breve pioggia che ha reso scure e senza polvere le strade, senza con ciò farle fangose, ed ha pulito steli e foglie che ora tremolano, tutte scintillanti e monde, ad una dolce brezza che scende dai monti verso questa fertile piana, che preannuncia Gerico.
Dalle rive del Giordano salgono continuamente persone che hanno traghettato dall’altra sponda, oppure hanno seguito la strada che costeggia il fiume, venendo su questa che punta direttamente su Gerico e su Doco, come indicano i segnali stradali. E ai molti ebrei, che si dirigono da ogni parte a Gerusalemme per il rito, si mescolano mercanti di altri luoghi, e pastori e pastori con gli agnelli dei sacrifici, belanti ignari. Molti riconoscono e salutano Gesù. Sono, questi, ebrei della Perea e Decapoli e di luoghi anche più lontani. Ve ne è un gruppo di Cesarea Paneade. E sono pastori che, per essere piuttosto nomadi dietro i greggi, hanno conoscenza del Maestro, incontrato o annunciato a loro dai discepoli.
2 Uno si prostra e gli dice: «Posso offrirti l’agnello?».
«Non te lo levare, uomo. È il tuo guadagno questo».
«Oh! è la mia riconoscenza. Tu non ti ricordi di me. Io sì. Sono uno che Tu hai guarito guarendo tanti. Mi hai rinsaldato l’osso della coscia che nessuno guariva e mi teneva infermo. Te lo do volentieri l’agnello. Il più bello. Questo. Per il banchetto di letizia. Lo so che per l’olocausto sei tenuto alla spesa. Ma per la letizia! Tanta ne hai data a me. Prendilo, Maestro».
«Ma sì, prendilo. Saranno denari che risparmieremo. O meglio, sarà possibilità di mangiare, perché con tutte le prodigalità che si fanno io non ho più denaro», dice l’Iscariota.
«Prodigalità? Ma se da Sichem non si è più speso uno spicciolo!», dice Matteo.
«Insomma, io non ho più denaro. Gli ultimi li detti a Merode».
«Uomo, ascolta», dice Gesù al pastore per porre fine alle parole di Giuda. «Io non vado per ora a Gerusa-
lemme e non posso portare con Me l’agnello. Altrimenti lo accetterei per mostrarti che gradisco il tuo dono».
«Ma poi andrai in città. Ti fermerai per le feste. Avrai un ricovero. Dimmi dove ed io consegnerò ai tuoi amici…».
«Non ho nulla di questo… Ma a Nobe ho un vecchio e povero amico. Ascoltami bene: il dì dopo il sabato pasquale tu andrai all’alba a Nobe e dirai a Giovanni, l’anziano di Nobe (tutti te lo indicheranno): “Questo agnello te lo manda Gesù di Nazaret, tuo amico, perché tu festeggi questo giorno con banchetto di letizia, perché più grande letizia di oggi non c’è per i veri amici del Cristo”. Lo farai?».
«Se così vuoi, lo farò».
«E mi farai felice. Non prima del dì dopo il sabato. Ricorda bene. E ricorda le parole che ti ho detto. Ora va’ e la pace sia con te. E serba il tuo cuore stabile in essa pace nei giorni futuri. Ricorda anche questo e continua a credere nella mia Verità. Addio» .
3 Della gente si è accostata ad ascoltare il dialogo e si dirada solo quando il pastore, rimettendo in moto il suo gregge, la obbliga a sparpagliarsi. Gesù segue il gregge, approfittando della scia aperta da esso.
La gente bisbiglia: «Ma allora va proprio a Gerusalemme? Ma non sa che c’è il bando per Lui?».
«Eh! ma nessuno può vietare ad un figlio della Legge di presentarsi al Signore per la Pasqua. È colpevole forse di pubblico reato? No. Perché, se lo fosse, il Preside lo avrebbe fatto imprigionare come Barabba».
E altri: «Hai sentito? Non ha ricovero né amici a Gerusalemme. Che tutti lo abbiano abbandonato? Anche il risorto? Bella riconoscenza!».
«Taci là! Quelle due sono le sorelle di Lazzaro. Io sono delle campagne di Magdala e le conosco bene. Se le sorelle sono con Lui, segno è che la famiglia di Lazzaro gli è fedele».
«Forse non osa entrare in città».
«Ha ragione».
«Dio lo perdonerà se sta fuori di essa».
«Non è colpa sua se non può salire al Tempio».
«La sua prudenza è saggia. Se venisse preso, tutto sarebbe finito prima della sua ora».
«Certo non è ancor pronto per la sua proclamazione a re nostro, ed Egli non vuole essere preso».
«Si dice che, mentre lo si sapeva ad Efraim, Egli sia andato in ogni luogo, sin presso le tribù nomadi, per prepararsi i seguaci e le milizie e cercare protezioni».
«Chi te lo ha detto?».
«Sono le solite menzogne. Egli è il Re santo e non il re da milizie».
«Forse farà la Pasqua supplementare. Allora è più facile passare inosservato. Il Sinedrio è sciolto dopo le feste, e tutti i sinedristi vanno alle loro case per la mietitura. Sino a Pentecoste non si raduna di nuovo».
«E, via che siano i sinedristi, chi volete che gli faccia del male? Sono loro gli sciacalli!».
«Uhm! che Egli si usi tanta prudenza? Cosa troppo da uomo! Egli è da più che un uomo e non avrà prudenza vile».
«Vile? Perché? Nessuno può dir vile chi si risparmia per la sua missione».
«Vile sempre, perché ogni missione è sempre inferiore a Dio. Perciò il culto a Dio deve avere la precedenza su ogni altra cosa».
Queste le parole che vanno da bocca a bocca. Gesù mostra di non sentire.
4 Giuda d’Alfeo si ferma per attendere le donne e, sopraggiunte che siano – esse erano col ragazzo, indietro una trentina di passi – dice a Elisa: «Avete dato molto a Sichem dopo che partimmo!».
«Perché?».
«Perché Giuda non ha più un picciolo. I tuoi sandali, o Beniamino, non verranno. È destino così. A Tersa non si poté entrare e, anche avessimo potuto, il non aver denaro avrebbe impedito ogni acquisto… Dovrai entrare a Gerusalemme così…».
«Prima c’è Betania», dice Marta con un sorriso.
«E prima c’è Gerico e la mia casa», dice Niche pure sorridendo.
«E prima di tutto ci sono io. Io ho promesso e io farò. Viaggio di esperienze questo! Ho provato cosa è non avere una didramma. E ora proverò cosa è dover vendere un oggetto per bisogno», dice Maria di Magdala.
«E che vuoi vendere, Maria, se non porti più gioielli?», chiede Marta alla sorella.
«Le mie grosse forcine d’argento. Sono tante. Ma per tenere a posto questo inutile peso possono bastare quelle di ferro. Le venderò. Gerico è piena di gente che compra queste cose. E oggi è giorno di mercato, e così domani e sempre per queste ricorrenze».
«Ma sorella!».
«Che? Ti scandalizzi pensando che mi si possa credere povera tanto da dover vendere le forcine d’argento? Oh! vorrei averti dato sempre di questi scandali! Peggio era quando, senza bisogno, vendevo me stessa al vizio altrui e mio».
«Ma taci! C’è il ragazzo, che non sa!».
«Non sa ancora. Forse non sa ancora che io ero la peccatrice. Domani lo saprebbe da chi mi odia perché non sono più tale, e certo con particolari quali il mio peccato non ebbe pur essendo tanto grande. Meglio dunque che lo sappia da me e veda quanto può il Signore che lo ha accolto: fare di una peccatrice una pentita, di un morto un risorto, di me morta nello spirito, di Lazzaro morto nel corpo, due viventi. Perché questo ha fatto a noi il Rabbi, o Beniamino. Ricordalo sempre e amalo con tutto il tuo cuore, perché Egli è veramente il Figlio di Dio».
5 Un inpo lungo la via ha fermato Gesù e gli apostoli, e le donne li raggiungono. Gesù dice: «Andate avanti voi, verso Gerico, ed anche entrateci, se volete. Io vado a Doco con questi. Al tramonto sarò con voi».
«Oh! perché ci allontani? Non siamo stanche», protestano tutte.
«Perché vorrei che voi intanto, almeno alcune, avvisaste i discepoli che Io sarò da Niche domani».
«Se è così, Signore, noi andiamo. Vieni Elisa, e tu Giovanna, e tu Susanna e Marta. Prepareremo ogni cosa», dice Niche.
«E io e il ragazzo. Faremo i nostri acquisti. Benedicici, Maestro. E vieni presto. Tu, Madre, resti?», dice Maria di Magdala.
«Sì. Col Figlio mio».
Si separano. Con Gesù restano soltanto le tre Marie: la Madre, sua cognata Maria Cleofe e Maria Salome. E Gesù lascia la via di Gerico per una via secondaria che va a Doco.
6 E da poco è per essa quando, da una carovana che viene non so da dove – una ricca carovana che certo viene da lontano perché ha le donne montate sui cammelli, chiuse nelle tremolanti berline o palanchini legati sulle schiene gibbute, e gli uomini a cavallo di focosi cavalli o di altri cammelli – si stacca un giovane e facendo inginocchiare il suo cammello scivola giù di sella, andando verso Gesù. Un servo, accorso, gli tiene la bestia per le briglie.
Il giovane si prostra davanti a Gesù e, dopo il profondo saluto, gli dice: «Filippo di Canata, figlio di veri israeliti e rimasto tale, io sono. Discepolo di Gamaliele sinché la morte del padre mio non mi fece capo dei suoi commerci. Ti ho sentito più di una volta. So le tue azioni. Aspiro ad una vita migliore per avere quella vita eterna che Tu assicuri possesso di chi crea il tuo Regno in sé. Dimmi dunque, Maestro buono, che dovrò fare per avere la vita eterna?».
«Perché mi chiami buono? Solo Dio è buono».
«Tu sei il Figlio di Dio, buono come il Padre tuo. Oh! dimmi, che devo fare?».
«Per entrare nella vita eterna osserva i comandamenti».
«Quali, mio Signore? Gli antichi o i tuoi?».
«Negli antichi sono già i miei, i miei non mutano gli antichi. Essi sono sempre: adorare di amor vero l’unico vero Dio e rispettare le leggi del culto, non uccidere, non rubare, non commettere adulterio, non attestare il falso, onorare padre e madre, non danneggiare il prossimo ma anzi amarlo come ami te stesso. Facendo così, avrai la vita eterna».
«Maestro, tutte queste cose le ho osservate dalla mia fanciullezza».
Gesù lo guarda con occhio d’amore e dolcemente gli chiede: «E non ti paiono sufficienti ancora?».
«No, Maestro. Cosa grande è il Regno di Dio in noi e nell’altra vita. Infinito dono è Dio che a noi si dona. Io sento che tutto è poco, di ciò che è dovere, rispetto al Tutto, all’Infinito perfetto che si dona e che penso si debba ottenere con cose più grandi di quelle che sono comandate per non dannarsi ed essergli graditi».
«Tu dici bene. Per essere perfetto ti manca ancora una cosa. Se vuoi essere perfetto come vuole il Padre nostro dei Cieli, va’, vendi quanto hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in Cielo che ti farà diletto al Padre, che ha dato il suo Tesoro per i poveri della Terra. Poi vieni e seguimi».
Il giovane si rattrista, si fa pensieroso. Poi si alza in piedi dicendo: «Ricorderò il tuo consiglio…», e si allontana tristemente.
7 Giuda ha un sorrisetto ironico e mormora: «Non sono io solo ad amare il denaro!».
Gesù si volge e lo guarda… e poi guarda gli altri undici visi che gli sono intorno, poi sospira: «Come difficilmente un ricco entrerà nel Regno dei Cieli, la cui porta è stretta, ed erta è la via, e non possono percorrerla ed entrare coloro che sono caricati dei pesi voluminosi delle ricchezze! Per entrare lassù non ci vogliono che tesori di virtù, immateriali, e sapersi separare da tutto quanto è attaccamento alle cose del mondo e vanità». Gesù è molto triste…
Gli apostoli si sogguardano fra loro…
Gesù riprende, guardando la carovana del giovane ricco che si allontana: «In verità vi dico che è più facile che un cammello passi per una cruna d’ago che non per un ricco di entrare nel Regno di Dio».
«Ma allora chi mai potrà salvarsi? La miseria fa sovente peccatori, per invidie e poco rispetto a ciò che è d’altri, e per sfiducia verso la Provvidenza… La ricchezza è di ostacolo alla perfezione… E allora? Chi potrà
salvarsi?».
Gesù li guarda e dice loro: «Quello che è impossibile agli uomini è possibile a Dio, perché a Dio tutto è possibile. Basta che l’uomo lo aiuti, il suo Signore, con la sua buona volontà. È buona volontà accettare il consiglio avuto e sforzarsi di giungere alla libertà dalle ricchezze. Ad ogni libertà, per seguire Dio. Perché la vera libertà dell’uomo è questa: seguire le voci che Dio gli sussurra al cuore e i suoi comandi, non essere schiavo né di se stesso, né del mondo, né del rispetto umano, e perciò non schiavi di Satana. Usare della splendida libertà di arbitrio che Dio ha dato all’uomo per volere liberamente e solamente il Bene, e conseguire così la vita eterna luminosissima, libera, beata. Neppur della propria vita bisogna essere schiavi, se per secondare la stessa noi si deve fare resistenza a Dio. Ve l’ho detto: (Vedi Vol 4 Cap 265) “Colui che perderà la sua vita per amor mio e per servire Iddio, costui la salverà in eterno”».
8 «Ecco! Noi abbiamo lasciato ogni cosa per seguirti, anche le più lecite. Che ce ne verrà dunque? Entreremo allora nel tuo Regno?», chiede Pietro.
«In verità, in verità vi dico che coloro che mi avranno seguito in tal modo e che mi seguiranno – perché c’è sempre tempo a riparare alle accidie e alle colpe sin qui fatte, sempre tempo sinché si è sulla Terra e si hanno davanti dei giorni nei quali poter riparare al mal fatto – costoro saranno con Me nel Regno mio. In verità vi dico che voi, che mi avete seguito nella rigenerazione, siederete sopra i troni a giudicare le tribù della Terra insieme al Figlio dell’uomo seduto sul trono della sua gloria. In verità ancora vi dico che non vi sarà nessuno che, avendo per amor del mio Nome lasciato casa, campi, padre, madre, fratelli, sposa, figli e sorelle, per spargere la Buona Novella e continuarmi, non riceva il centuplo in questo tempo e la vita eterna nel secolo futuro».
«Ma se perdiamo tutto, come possiamo centuplicare il nostro avere?», chiede Giuda di Keriot.
«Torno a dire: ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio. E Dio darà il centuplo di gaudio spirituale a coloro che da uomini del mondo seppero farsi figli di Dio, ossia uomini spirituali. Essi godranno il vero gaudio, qui e oltre la Terra. E ancor vi dico che non tutti quelli che sembrano i primi, e primi dovrebbero essere avendo più di tutti ricevuto, saranno tali. E non tutti quelli che sembrano ultimi, e men che ultimi, non essendo in apparenza miei discepoli e neppur del Popolo eletto, saranno gli ultimi. In verità molti da primi diverranno ultimi, e molti ultimi, infimi, diverranno primi…
9 Ma ecco là Doco. Andate avanti tutti, meno Giuda di Keriot e Simone Zelote. Andate ad annunciarmi a quelli che possono aver bisogno di Me».
E Gesù attende con i due trattenuti di unirsi alle tre Marie, che li seguono a qualche metro di distanza.
Liturgia Novus Ordo: Mc 8, 1-10.
Vangelo Novus Ordo Mc 8, 1-10
Dal Vangelo secondo Marco
In quei giorni, poiché vi era di nuovo molta folla e non avevano da mangiare, Gesù chiamò a sé i discepoli e disse loro: “Sento compassione per la folla; ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. Se li rimando digiuni alle loro case, verranno meno lungo il cammino; e alcuni di loro sono venuti da lontano”.
Gli risposero i suoi discepoli: “Come riuscire a sfamarli di pane qui, in un deserto?”. Domandò loro: “Quanti pani avete?”. Dissero: “Sette”.
Ordinò alla folla di sedersi per terra. Prese i sette pani, rese grazie, li spezzò e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero; ed essi li distribuirono alla folla. Avevano anche pochi pesciolini; recitò la benedizione su di essi e fece distribuire anche quelli.
Mangiarono a sazietà e portarono via i pezzi avanzati: sette sporte. Erano circa quattromila. E li congedò.
Poi salì sulla barca con i suoi discepoli e subito andò dalle parti di Dalmanutà.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo
Cap. CCCLIII. La seconda moltiplicazione dei pani e il miracolo della moltiplicazione della Parola.
24 Maggio 1944, ore 2 ant.ne della Pentecoste.
1 Una serena visione.
Vedo un posto che non è certo pianura. Non è neppure montagna. Dei monti sono ad oriente ma lontani alquanto. Poi c’è una valletta ed altre elevazioni più basse e piatte. Dei pianori erbosi. Sembra che siano le prime pendici di un gruppo collinoso. Il terreno è piuttosto arsiccio e nudo d’alberi. Vi è della corta e rada erba sparsa fra un terreno ciottoloso. Qua e là qualche ciuffetto molto basso di cespugli spinosi. Ad occidente l’orizzonte si allarga ampio e luminoso. Non vedo altro, come natura. È ancora giorno, ma direi che comincia la sera, perché l’occidente è rosso per il tramonto mentre i monti a oriente sono già violacei nella luce che diviene crepuscolare. Un principio di crepuscolo che fa più nere le spaccature profonde e appena violette le parti più elevate.
Gesù è ritto su un grosso pietrone e parla a molta, ma molta folla sparsa sul pianoro. I discepoli lo circondano. Egli, ancor più alto perché il suo rustico piedestallo lo eleva, domina la folla di tutte le età e condizioni sociali che gli sta intorno.
Deve aver compito dei miracoli, perché sento che dice: «Non a Me ma a Chi mi ha mandato dovete offrire lode e riconoscenza. E la lode non è quella che esce come suono di vento da labbra distratte. Ma è quella che sale dal cuore ed è il sentimento vero del vostro cuore. Questa è gradita a Dio. I guariti amino il Signore di un amore di fedeltà. E lo amino i parenti dei guariti. Del dono della salute riconquistata non fatene cattivo uso. Più che delle malattie del corpo, abbiate paura di quelle del cuore. E non vogliate peccare. Perché ogni peccato è una malattia. E ve ne sono tali che possono dare la morte. Ora dunque, o voi tutti che ora giubilate non distruggete la benedizione di Dio col peccato. Cesserebbe il giubilo vostro perché le maleazioni levano la pace, e dove non è pace non è giubilo. Ma siate santi. Siate perfetti come il Padre vostro vuole. Lo vuole perché vi ama, e a coloro che ama vuol dare un Regno. Ma nel suo Regno santo non entrano che coloro che la fedeltà alla Legge rende perfetti. La pace di Dio sia con voi».
2 E Gesù tace. Incrocia le braccia sul petto e con le braccia così conserte osserva la turba che gli sta intorno. Poi guarda in giro. Alza gli occhi al cielo sereno e che si fa sempre più scuro per la luce che decresce. Pensa. Scende dal suo masso. Parla ai discepoli. «Ho pietà di questa gente. Mi segue da tre giorni. Non ha più provviste seco. Siamo lontani da ogni paese. Temo che i più deboli soffrano troppo se Io li rimando senza nutrirli».
«E come vuoi fare, Maestro? Tu lo dici: siamo lontani da ogni paese. In questo luogo deserto dove trovare pane? E chi ci darebbe tanto denaro da comperarlo per tutti?».
«Non avete nulla con voi?».
«Abbiamo pochi pesci e qualche pezzo di pane. L’avanzo del nostro cibo. Ma non basta a nessuno. Se Tu lo dai ai vicini succede una sommossa. Privi noi e non fai del bene a nessuno». E’ Pietro che parla.
«Portatemi quanto avete».
Portano una cestella con dentro sette tozzi di pane. Non sono neppure pani interi. Paiono grosse fette tagliate da grandi pagnotte. I pesciolini, poi, sono una manciata di povere bestioline abbruciacchiate dalla fiamma.
«Fate sedere questa folla a cerchi di cinquanta e che stia ferma e zitta se vuol mangiare».
I discepoli, parte salendo su delle pietre e parte circolando fra la gente, si dànno un gran da fare per mettere l’ordine chiesto da Gesù. Dài e dài, ci riescono. Qualche bambino piagnucola perché ha fame e sonno, qualche altro frigna perché, per farlo ubbidire, la mamma, o qualche altro parente, gli ha amministrato uno schiaffo.
3 Gesù prende i pani, non tutti, naturalmente: due, uno per mano, e li offre, poi li posa e benedice. Prende i pesciolini, sono così pochi che stanno quasi tutti nel cavo delle sue lunghe mani. Offre essi pure e li posa e benedice essi pure.
«E ora prendete, girate fra la folla e date ad ognuno, con abbondanza».
I discepoli ubbidiscono.
Gesù, ritto in piedi, bianca figura dominante questo popolo di seduti in larghi circoli che coprono tutto il pianoro, osserva e sorride.
I discepoli vanno e vanno, sempre più lontano. Dànno e dànno. E sempre la cesta è piena di cibo. La gente mangia mentre la sera cala, e vi è un grande silenzio e una grande pace.
4 Dice Gesù:
«Ecco un’altra cosa che darà noia ai dottori difficili. L’applicazione che Io faccio a questa visione evangelica. Non ti faccio meditare sulla mia potenza e bontà. Non sulla fede e ubbidienza dei discepoli. Nulla di questo. Ti voglio far vedere l’analogia dell’episodio con l’opera dello Spirito Santo.
Vedi: Io do la mia parola. Do tutto quanto potete capire e perciò assimilare per farne cibo all’anima. Ma voi siete tanto resi tardi dalla fatica e dall’inedia che non potete assimilare tutto il nutrimento che è nella mia parola. Ve ne occorrerebbe molta, molta, molta. Ma non sapete riceverne molta. Siete tanto poveri di di forze spirituali! Vi fa peso senza darvi sangue e forza. Ed ecco che allora lo Spirito opera il miracolo per voi. Il miracolo spirituale della moltiplicazione della Parola. Ve ne illumina, e perciò la moltiplica, tutti i più riposti significati, di modo che voi, senza gravarvi di un peso che vi schiaccerebbe senza corroborarvi, ve ne nutrite e non cadete più affranti lungo il deserto della vita.
Sette pani e pochi pesci!
Ho predicato tre anni e, come dice il mio diletto Giovanni (Giovanni 21, 25), “se si dovessero scrivere tutte le parole e i miracoli che ho detto e compiuto per dare a voi un cibo abbondante, capace di portarvi senza debolezze sino al Regno, non basterebbe la Terra a contenere i volumi”. Ma se anche ciò fosse stato fatto, non avreste potuto leggere tale mole di libri. Non leggete neppure, come dovreste, il poco che di Me è stato scritto. L’unica cosa che dovreste conoscere, come conoscete le parole più necessarie sin dalla più tenera età.
E allora l’Amore viene e moltiplica. Anche Egli, Uno con Me e col Padre, ha “pietà di voi che morite di fame” e, come un miracolo che si ripete da secoli, raddoppia, decuplica, centuplica i significati, le luci, il nutrimento di ogni mia parola. Ecco così un tesoro senza fondo di celeste cibo. Esso vi è offerto dalla Carità. Attingetene senza paura. Più il vostro amore attingerà in esso e più esso, frutto dell’Amore, aumenterà la sua onda.
5 Dio non conosce limiti nelle sue ricchezze e nelle sue possibilità. Voi siete relativi. Egli no. È infinito. In tutte le sue opere. Anche in questa di potervi dare in ogni ora, in ogni evento, quelle luci che vi abbisognano in quel dato istante. E come nel giorno di Pentecoste lo spirito effuso sugli apostoli rese la loro parola comprensibile a Parti, Medi, Sciti, Cappadoci, Pontici e Frigi, e simile a lingua natìa ad Egizi e Romani, Grici e Libici, così ugualmente Esso vi darà conforto se piangete, consiglio se credete, compartecipazione di gioia se gioite, con la stessa Parola.
Oh! che realmente se lo Spirito vi illustra: “Và in pace e non voler peccare”, questa frase è premio per chi non ha peccato, incoraggiamento all’ancora debole che non vuole peccare, perdono al colpevole che si pente, rimprovero temperato di misericordia a colui che non ha che una larva di pentimento. E non è che una frase. Delle più semplici. Ma quante ce ne sono nel mio Vangelo! Quante che sono come bocci in fiore, che dopo un’acquata e un sole d’aprile si aprono fitti sul ramo, dove prima ve ne era solo uno fiorito, e lo coprono tutto con gioia di chi li mira!
Riposa, ora. La pace dell’Amore sia con te».
Vangelo Lc 12, 8-12: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio”.
Vangelo Novus Ordo Lc 12, 8-12
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Io vi dico: chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio.
Chiunque parlerà contro il Figlio dell’uomo, gli sarà perdonato; ma a chi bestemmierà lo Spirito Santo, non sarà perdonato.
Quando vi porteranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi di come o di che cosa discolparvi, o di che cosa dire, perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo
Cap. CCCXLVI. Primo annuncio della Passione e il rimprovero a Simon Pietro.
30 Novembre 1945
1 Gesù deve aver lasciato la città di Cesarea di Filippo alle prime luci del mattino, perché ora essa è già lontana coi suoi monti e la pianura è di nuovo giorno intorno a Gesù, che si dirige verso il lago di Meron per poi andare verso quello di Gennezaret. Sono con Lui gli apostoli e tutti i discepoli che erano a Cesarea. Ma che una carovana così numerosa sia per la via non fa stupore a nessuno, perché altre carovane si incontrano già, dirette a Gerusalemme, di israeliti o proseliti che vengono da tutti i luoghi della Diaspora e che desiderano sostare per qualche tempo nella Città Santa per sentire i Rabbi e respirare a lungo l’aria del Tempio.
Vanno lesti sotto un sole ormai alto ma che non dà ancora noia, perché è un sole di primavera che scherza con le fronde novelle e con le ramaglie fiorite e suscita fiori, fiori, fiori da ogni parte. La pianura che precede il lago è tutta un tappeto fiorito e l’occhio, volgendosi ai colli che la circondano, li vede pezzati dei ciuffi candidi, tenuemente rosei, o rosa deciso, o rosa quasi rosso, degli svariati alberi da frutto, e, passando presso le rare case dei contadini o presso le mascalcie seminate per la via, la vista si rallegra sui primi rosai fioriti negli orti, lungo le siepi o contro i muri delle case.
«I giardini di Giovanna devono essere tutti in fiore», osserva Simone Zelote.
«Anche l’orto di Nazaret deve parere un cesto di fiori. Maria ne è la dolce ape che va da roseto a roseto e da questi ai gelsomini che presto fioriranno, ai gigli che già hanno i bocci sullo stelo, e coglierà il ramo del mandorlo come sempre fa, anzi ora coglierà quello del pero o del melograno per metterlo nell’anfora nella sua stanzetta. Quando eravamo bambini le chiedevamo ogni anno: “Perché tieni sempre lì un ramo di albero in fiore e non ci metti invece le prime rose?”; e Lei rispondeva: “Perché su quei petali io vedo scritto un ordine che mi venne da Dio e sento l’odore puro dell’aura celeste”. Te lo ricordi Giuda?», chiede Giacomo d’Alfeo al fratello.
«Si. Me lo ricordo. E ricordo che, divenuto uomo, io attendevo con ansia la primavera per vedere Maria camminare per il suo orto sotto le nuvole dei suoi alberi in fiore e fra le siepi delle prime rose. Non vedevo mai spettacolo più bello di quella eterna fanciulla trasvolante fra i fiori, fra voli di colombi…»
2 «Oh! andiamoci presto a vederla, Signore! Che veda anche io tutto questo!», supplica Tommaso.
«Non abbiamo che affrettare la marcia e sostare ben poco, nelle notti, per giungere a Nazaret in tempo», risponde Gesù.
«Mi accontenti proprio, Signore?».
«Si, Tommaso. Andremo a Betsaida tutti, e poi a Cafarnao, e lì ci separeremo, noi andando con la barca a Tiberiade e poi a Nazaret. Così ognuno, meno voi giudei, prenderemo le vesti più leggere. L’inverno è finito».
«Si. E noi andiamo a dire alla Colomba: “Alzati, affrettati, o mia diletta, e vieni perché l’inverno è passato, la pioggia è finita, i fiori sono sulla terra… Sorgi, o mia amica, e vieni, colomba che stai nascosta, mostrami il tuo viso e fammi sentire la tua voce”».
«E bravo Giovanni! Sembri un innamorato che canti la sua canzone alla sua bella!», dice Pietro.
«Lo sono. Di Maria lo sono. Non vedrò altre donne che sveglino il mio amore. Solo Maria, l’amata da tutto me stesso».
«Lo dicevo anche io un mese fa. Vero, Signore?», dice Tommaso.
«Io credo che siamo tutti innamorati di Lei. Un amore così alto, così celestiale!… Quale solo quella Donna può ispirarlo. E l’anima ama completamente la sua anima, la mente ama e ammira il suo intelletto, l’occhio mira e si bea della sua grazia pura che dà diletto senza dare fremito, così come quando si guarda un fiore… Maria, la bellezza della Terra e, credo, la bellezza del Cielo…», dice Matteo.
«È vero! È vero! Tutti vediamo in Maria quanto è più dolce nella donna. E la fanciulla pura, e la madre dolcissima. E non si sa se la si ama più per l’una o l’altra grazia…», dice Filippo.
«La si ama perché è “Maria”. Ecco!», sentenzia Pietro.
3 Gesù li ha ascoltati parlare e dice: «Avete detto tutti bene. Benissimo ha detto Simon Pietro. Maria si ama perché è “Maria”. Vi ho detto, andando a Cesarea, che solo coloro che uniranno fede perfetta ad amore perfetto giungeranno a sapere il vero significato delle parole: “Gesù, il Cristo, il Verbo, il figlio di Dio e il Figlio dell’Uomo”. Ma ora anche vi dico che c’è un altro nome denso di significati. Ed è quello di mia Madre. Solo coloro che uniranno perfetta fede a perfetto amore giungeranno a sapere il vero significato del nome “Maria”, della Madre del Figlio di Dio. E il vero significato comincerà ad apparire chiaro ai veri credenti e ai veri amorosi in un ora tremenda di strazio, quando la Genitrice sarà suppliziata col suo Nato, quando la Redentrice redimerà col Redentore, agli occhi di tutto il mondo e per tutti i secoli dei secoli».
«Quando?», chiede Bartolomeo, mentre si sono fermati sulle sponde di un grosso ruscello nel quale bevono molti discepoli.
«Fermiamoci qui a spartire il pane. Il sole è a mezzogiorno. A sera saremo al lago di Merom e potremo abbreviare la via con delle barchette», risponde Gesù evasivamente.
Si siedono tutti sulla erbetta tenera e tiepida di sole delle rive del ruscello, e Giovanni dice: «E’ un dolore sciupare questi fiorellini così gentili. Sembrano pezzettini di cielo caduti qui sui prati». Sono centinaia e centinaia di miosotis.
«Rinasceranno più belli domani. Sono fioriti per fare, delle zolle, una sala di convito al loro Signore», lo consola Giacomo suo fratello.
Gesù offre e benedice il cibo e tutti si danno a mangiare allegramente. I discepoli, come tanti girasoli, guardano tutti in direzione di Gesù, che è seduto al centro della fila dei suoi apostoli.
4 Il pasto è presto finito, condito di serenità e di acqua pura. Ma, posto che Gesù resta seduto, nessuno si muove. Anzi i discepoli si spostano per venire più vicino, per sentire ciò che dice Gesù, che gli apostoli interrogano. E interrogano ancora su quanto ha detto prima di sua Madre.
«Si. Perché essermi madre per la carne sarebbe già grande cosa. Pensate che è ricordata Anna di Elcana come madre di Samuele. Ma egli non era che un Profeta. Eppure la madre è ricordata per averlo generato. Perciò ricordata, e con lodi altissime, lo sarebbe Maria per aver dato al mondo Gesù il Salvatore. Ma sarebbe poco, rispetto al tanto che Dio esige da Lei per completare la misura richiesta per la redenzione del mondo. Maria non deluderà il desiderio di Dio. Non lo ha mai deluso. Dalle richieste di amore totale a quelle di sacrificio, Ella si è data e si darà. E quando avrà consumato il massimo sacrificio, con Me, per Me, e per il mondo, allora i veri fedeli e i veri amorosi capiranno il vero significato del suo nome. E nei secoli dei secoli, ad ogni vero fedele, ad ogni vero amoroso, sarà concesso di saperlo. Il Nome della Grande Madre, della Santa Nutrice, che allatterà nei secoli dei secoli i pueri di Cristo col suo pianto per crescerli alla Vita dei Cieli».
«Pianto, Signore? Deve piangere tua Madre?», chiede l’Iscariota.
«Ogni madre piange. E la mia piangerà più di ogni altra».
«Ma perché? Io ho fatto piangere la mia qualche volta, perché non sono sempre un buon figlio. Ma Tu! Tu non dài mai dolore a tua Madre».
«No. Io non le do infatti dolore come Figlio suo. Ma gliene darò tanto come Redentore. Due saranno quelli che faranno piangere di un pianto senza fine la Madre mia: Io per salvare l’Umanità, e l’Umanità col suo continuo peccare. Ogni uomo vissuto, vivente o che vivrà, costa lacrime a Maria».
«Ma perché?», chiede stupito Giacomo di Zebedeo.
«Perché ogni uomo costa torture a Me per redimerlo».
«Ma come puoi dire questo di quelli già morti o non ancora nati? Ti faranno soffrire quelli viventi, gli scribi, i farisei, i sadducei, con le loro accuse, le loro gelosie, le loro malignità. Ma non più di così», asserisce sicuro Bartolomeo.
«Giovanni Battista fu anche ucciso… e non è il solo profeta che Israele abbia ucciso e il solo sacerdote, del Volere eterno, ucciso perché inviso ai disubbidienti di Dio».
«Ma Tu sei da più di un profeta e dello stesso Battista, tuo Precursore. Tu sei il Verbo di Dio. La mano d’Israele non si alzerà su di Te», dice Giuda Taddeo.
«Lo credi fratello? Sei in errore», gli risponde Gesù.
«No. Non può essere! Non può avvenire! Dio non lo permetterà! Sarebbe un avvilire per sempre il suo Cristo!». Giuda Taddeo è tanto agitato che si alza in piedi.
Anche Gesù lo imita e lo guarda fisso nel volto impallidito, negli occhi sinceri. Dice lentamente: «Eppure sarà», e abbassa il braccio destro, che aveva alto, come se giurasse.
5 Tutti si alzano e si stringono più ancora intorno a Lui – una corona di visi addolorati ma più ancora increduli – e mormorii vanno per il gruppo:
«Certo… se così fosse… il Taddeo avrebbe ragione».
«Quello che avvenne del Battista è male. Ma ha esaltato l’uomo, eroico fino alla fine. Se ciò avvenisse al Cristo sarebbe uno sminuirlo».
«Cristo può essere perseguitato ma non avvilito».
«L’unzione di Dio è su di Lui».
«Chi ti potrebbe più credere se ti vedessero in balìa degli uomini?».
«Noi non lo permetteremo».
L’unico che tace è Giacomo di Alfeo. Suo fratello lo investe: «Tu non parli? Non ti muovi? Non senti? Difendi il Cristo contro Se stesso!». Giacomo, per tutta risposta, si porta le mani al viso e si scosta alquanto, piangendo.
«E’ uno stolto!», sentenzia suo fratello.
«Forse meno di quanto lo credi», gli risponde Ermasteo. E continua: «Ieri, spiegando la profezia, il Maestro ha parlato di un corpo disfatto che si reintegra e di uno che da sé si resuscita. Io penso che uno non può risorgere se prima non è morto».
«Ma può essere morto di morte naturale, di vecchiaia. Ed è già molto ciò per il Cristo!», ribatte il Taddeo e molti gli dànno ragione.
«Si, ma allora non sarebbe un segno dato a questa generazione che è molto più vecchia di Lui», osserva Simone Zelote.
«Già. Ma non è detto che parli di Se stesso», ribatte il Taddeo, ostinato nel suo amore e nel suo rispetto.
«Nessuno che non sia il Figlio di Dio può da Se stesso risuscitarsi, così come nessuno che non sia il Figlio di Dio può essere nato come Egli è nato. Io lo dico. Io che ho visto la sua gloria natale», dice Isacco con sicura testimonianza.
Gesù, con le braccia conserte, li ha ascoltati parlare guardandoli a turno. Ora fa Lui cenno di parlare e dice: «Il Figlio dell’uomo sarà dato in mano degli uomini perché Egli è il Figlio di Dio ma è anche il Redentore dell’uomo. E non c’è redenzione senza sofferenza. La mia sofferenza sarà del corpo, della carne e del sangue, per riparare i peccati della carne e del sangue. Sarà morale per riparare ai peccati della mente e delle passioni. Sarà spirituale per riparare alle colpe dello spirito. Completa sarà. Perciò all’ora fissata Io sarò preso, in Gerusalemme, e dopo avere già sofferto per colpa degli Anziani e dei sommi sacerdoti, degli scribi e dei farisei, sarò condannato a morte infamante. E Dio lascerà fare perché così deve essere, essendo Io l’Agnello di espiazione per i peccati di tutto il mondo. E in un mare di angoscia, condivisa da mia Madre e da poche altre persone, morirò sul patibolo, e tre giorni dopo, per mio solo volere divino, risusciterò a vita eterna e gloriosa come Uomo e tornerò ad essere Dio in Cielo col Padre e con lo Spirito. Ma prima dovrò patire ogni obbrobrio ed avere il cuore trafitto dalla Menzogna e dall’Odio».
6 Un coro di grida scandalizzate si leva per l’aria tiepida e profumata di primavera.
Pietro, con un viso sgomento, e scandalizzato lui pure, prende Gesù per un braccio e lo tira un poco da parte dicendogli piano all’orecchio: «Ohibò, Signore! Non dire questo. Non sta bene. Tu vedi? Essi si scandalizzano. Tu decadi dal loro concetto. Per nessuna cosa al mondo Tu devi permettere questo; ma già una simile cosa non ti avverrà mai. Perché dunque prospettarla come vera? Tu devi salire sempre più nel concetto degli uomini, se ti vuoi affermare, e devi terminare magari con un ultimo miracolo, quale quello di incenerire i tuoi nemici. Ma mai avvilirti a renderti uguale a un malfattore punito». E Pietro pare un maestro o un padre afflitto che rimproveri, amorevolmente affannato, un figlio che ha detto una stoltezza.
Gesù che era un poco curvo per ascoltare il bisbiglio di Pietro, si alza severo, con dei raggi negli occhi, ma raggi di corruccio, e grida forte, che tutti sentano e la lezione serva a tutti: «Và lontano da Me, tu che in questo momento sei un satana che mi consigli a venir meno all’ubbidienza del Padre mio! Per questo Io sono venuto! Non per gli onori! Tu, col consigliarmi alla superbia, alla disubbidienza e al rigore senza carità, tenti sedurmi al Male. Và! Mi sei scandalo! Tu non capisci che la grandezza sta non negli onori ma nel sacrificio e che nulla è apparire un verme agli uomini se Dio ci giudica angeli? Tu, uomo stolto, non capisci ciò che è grandezza di Dio e ragione di Dio e vedi, giudichi, senti, parli, con quel che è dell’uomo».
Il povero Pietro resta annichilito sotto il rimprovero severo; si scansa mortificato e piange… E non è il pianto gioioso di pochi giorni prima. Ma un pianto desolato di chi capisce di avere peccato e di avere addolorato chi ama.
E Gesù lo lascia piangere. Si scalza, rialza le vesti e passa a guado il ruscello. Gli altri lo imitano in silenzio. Nessuno osa dire una parola. In coda a tutti è il povero Pietro, invano consolato da Isacco e dallo Zelote.
7 Andrea si volge più di una volta a guardarlo e poi mormora qualcosa a Giovanni, che è tutto afflitto. Ma Giovanni scuote il capo con cenni di diniego. Allora Andrea si decide. Corre avanti. Raggiunge Gesù . chiama piano, con apparente tremore: « Maestro! Maestro!…».
Gesù lo lascia chiamare più volte. Infine si volge severo e chiede: «Che vuoi?».
«Maestro, mio fratello è afflitto… piange…».
«Se lo è meritato».
«E’ vero, Signore. Ma egli è sempre un uomo… Non può sempre parlare bene».
«Infatti oggi ha parlato molto male», risponde Gesù. Ma è già meno severo e una scintilla di sorriso gli molce l’occhio divino.
Andrea si rinfranca e aumenta la sua perorazione a pro del fratello. «Ma Tu sei giusto e sai che amore di Te lo fece errare…».
«L’amore deve essere la luce, non tenebre. Egli lo ha fatto tenebre e se ne è fasciato lo spirito».
«E’ vero, Signore. Ma le fasce si possono levare quando si voglia. Non è come avere lo spirito stesso tenebroso. Le fasce sono l’esterno. Lo spirito è l’interno, il nucleo vivo. L’interno di mio fratello è buono».
«Si levi allora le fasce che vi ha messo».
«Certamente che lo farà, Signore! Lo sta già facendo. Volgiti a guardarlo come è sfigurato dal pianto che Tu non consoli. Perché severo così con lui?».
«Perché egli ha il dovere di essere “il primo” così come Io gli ho dato l’onore di esserlo. Chi molto riceve molto deve dare…».
«Oh! Signore! È vero, si. Ma non ti ricordi di Maria di Lazzaro? Di Giovanni di Endor? Di Aglae? Della Bella di Corozim? Di Levi? A questi Tu hai tutto dato… ed essi non ti avevano dato ancora che l’intenzione di redimersi… Signore!… Tu mi hai ascoltato per la Bella di Corozim e per Aglae… Non mi scolteresti per il tuo e mio Simone, che peccò per amore di Te?».
Gesù abbassa gli occhi sul mite che si fa audace e pressante in favore del fratello come lo fu, silenziosa-mente, per Aglae e la Bella di Corozim, e il suo viso splende di luce: «Và a chiamarmi tuo fratello», dice «e portamelo qui».
«Oh! grazie, mio Signore! Vado…», e corre via, lesto come una rondine.
8 «Vieni, Simone. Il Maestro non è più in collera con te. Vieni, che te lo vuole dire».
«No, no. Io mi vergogno… Da troppo poco tempo mi ha rimproverato… Deve volermi per rimproverarmi ancora…».
«Come lo conosci male! Su vieni! Ti pare che io ti porterei ad un’altra sofferenza? Se non fossi certo che ti attende là una gioia, non insisterei. Vieni».
«Ma che gli dirò mai?», dice Pietro avviandosi un poco recalcitrante, frenato dalla sua umanità, spronato dal suo spirito che non può stare senza la condiscendenza di Gesù e senza il suo amore. «Che gli dirò?», continua a chiedere.
«Ma nulla! Mostragli il tuo volto e basterà», lo rincuora il fratello.
Tutti i discepoli, man mano che i due li sorpassano, guardano i due fratelli e sorridono, comprendendo ciò che avviene.
Gesù è raggiunto. Ma Pietro si arresta all’ultimo momento. Andrea non fa storie. Con una energica spinta, uso quelle che dà alla barca per spingerla al largo, lo butta avanti. Gesù si ferma… Pietro alza il viso… Gesù abbassa il viso… Si guardano… Due lacrimosi rotolano giù per le guance arrossate di Pietro…
«Qui, grande bambino riflessivo, che ti faccia da padre asciugando questo pianto», dice Gesù e alza la mano, sulla quale è ancora ben visibile il segno della sassata di Giocala, e asciuga con le sue dita quelle lacrime.
«Oh! Signore! Mi hai perdonato?», chiede Pietro tremebondo, afferrando la mano di Gesù fra le sue e guardandolo con due occhi di cane fedele che vuole farsi perdonare dal padrone inquieto.
«Non ti ho mai colpito di condanna…».
«Ma prima…».
«Ti ho amato. È amore non permettere che in te prendano radice deviazioni di sentimento e di sapienza. Devi essere il primo in tutto, Simon Pietro».
«Allora… allora Tu mi vuoi bene ancora? Tu mi vuoi ancora? Non che io voglia il primo posto, sai? Mi basta anche l’ultimo, ma essere con Te, al tuo servizio… e morirci al tuo servizio, Signore, mio Dio!».
Gesù gli passa il braccio sulle spalle e se lo stringe al fianco.
Allora Simone, che non ha mai lasciato andare l’altra mano di Gesù, la copre di baci… felice. E mormora: «Quanto ho sofferto!… Grazie, Gesù».
«Ringrazia tuo fratello, piuttosto. E sappi in futuro portare il tuo peso con giustizia ed eroismo.
9 Attendiamo gli altri. Dove sono?».
Sono fermi dove erano quando Pietro aveva raggiunto Gesù, per lasciare libero il Maestro di parlare al suo apostolo mortificato. Gesù accenna loro di venire avanti. E con loro sono un branchetto di contadini che avevano lasciato di lavorare nei campi per venire ad interrogare i discepoli.
Gesù, tenendo sempre la mano sulla spalla di Pietro dice:
«Da quanto è avvenuto voi avete compreso che è cosa severa essere al mio servizio. L’ho dato a lui il rimprovero. Ma era per tutti. Perché gli stessi pensieri erano nella maggioranza dei cuori, o ben formati o solo in seme. Così Io ve li ho stroncati, e chi ancora li coltiva mostra di non capire la mia Dottrina, la mia Missione, la mia Persona.
Io sono venuto per essere Via, Verità e Vita. Vi do la Verità con ciò che insegno. Vi spiano la Via col mio sacrificio, , ve la traccio, ve la indico. Ma la Vita ve la do con la mia Morte. E ricordate che chiunque risponde alla mia chiamata e si mette nelle mie file per cooperare alla redenzione del mondo deve essere pronto a morire per dare agli altri la Vita. Perciò chiunque voglia venire dietro a Me deve essere pronto a rinnegare se stesso, il vecchio se stesso con le sue passioni, tendenze, usi, tradizioni, pensieri, e seguirmi col suo nuovo se stesso.
Prenda ognuno la sua croce come Io la prenderò. La prenda se anche gli sembra troppo infamante. Lasci che il peso della sua croce stritoli il suo se stesso umano per liberare il se stesso spirituale, al quale la croce non fa orrore ma anzi è oggetto di appoggio e di venerazione perché lo spirito sa e ricorda. E con la sua croce mi segua. Lo attenderà alla fine della via la morte ignominiosa come Me attende? Non importa. Non si affligga, ma anzi giubili, perché l’ignominia della Terra si muterà in grande gloria in Cielo, mentre sarà disonore l’essere vili di fronte agli eroismi spirituali. Voi sempre dite di volermi seguire fino alla morte. Seguitemi allora, e vi condurrò al Regno per una via aspra ma santa e gloriosa, al termine della quale conquisterete la Vita senza mutazione in eterno. Questo sarà “vivere”. Seguire, invece, le vie del mondo e della carne è “morire”. Di modo che se uno vorrà salvare la sua vita sulla Terra la perderà, mentre colui che perderà la vita sulla Terra per causa mia e per amore al mio Vangelo la salverà. Ma considerate: che gioverà all’uomo guadagnare tutto il mondo se poi perde la sua anima?
10 E ancora guardatevi bene, ora e in futuro, di vergognarvi delle mie parole e delle mie azioni. Anche questo sarebbe “morire”. Perché chi si vergognerà di Me e delle mie parole in mezzo alla generazione stolta, adultera e peccatrice, di cui ho parlato, e sperando averne protezione e vantaggio la adulerà rinnegando Me e la mia Dottrina e gettando le perle avute nelle gole immonde dei porci e dei cani per averne in compenso escrementi al posto di monete, sarà giudicato dal Figlio dell’uomo quando verrà nella gloria del Padre suo e cogli angeli e i santi a giudicare il mondo. Egli allora si vergognerà di questi adulteri e fornicatori, di questi vili e di questi usurai e li caccerà dal suo regno, perché non c’è posto nella Gerusalemme celeste per gli adulteri, i vili, i fornicatori, bestemmiatori e ladri. E in verità vi dico che ci sono alcuni dei presenti fra i miei discepoli e discepole che non gusteranno la morte prima di avere veduto il Regno di Dio fondarsi (il Regno di Dio ebbe inizio il Venerdì Santo, per i meriti del Cristo, e si affermò poi con la Chiesa costituita. Ma non tutti videro questo affermarsi sempre più), col suo Re incoronato e unto».
Riprendono ad andare parlando animatamente, mentre il sole cala lentamente nel cielo…
Cap. CDXXI. L’indemoniato guarito, i farisei e la bestemmia contro lo Spirito Santo.
22 aprile 1946.
1 Passata la Settimana Santa e conseguente penitenza del non vedere, ritorna stamane la vista spirituale del Vangelo. E ogni mio affanno si oblìa in questa gioia, che si annuncia sempre con un’indescrivibile sensazione di giubilo sovrumano…
…Ed ecco che vedo Gesù, ancora camminante lungo i boschetti che costeggiano il fiume, fermarsi ordinando una sosta in queste ore troppo calde per permettere il cammino. Perché, se è vero che l’intrico folto dei rami fa riparo al sole, esso produce però anche come una cappa di ostacolo allo scorrere delle brezze appena sensibili, e perciò l’aria, là sotto, è calda, ferma, pesante, di un umidore che trasuda dal suolo prossimo al fiume, un umidore che non è ristoro, ma tormento appiccicoso che si mescola e aumenta al già tormentoso sudore che scorre sui corpi.
«Sostiamo fino a sera. Poi scenderemo al greto biancheggiante, visibile anche al lume delle stelle, e proseguiremo nella notte. Ora prendiamo cibo e riposo».
«Ah! prima del cibo prenderò ristoro nelle acque. Saranno tiepide anche esse come un decotto per la tosse, ma serviranno a levarmi il sudore. Chi viene con me?», chiede Pietro.
Tutti vanno con lui. Tutti, anche Gesù che è come tutti sudato e colla veste pesante di polvere e sudore. Si prendono ognuno una veste pulita dalla sacca e scendono al fiume. Sull’erba, a segnale della loro sosta, non restano che le tredici sacche e le fiaschette dell’acqua, vegliate dagli alberi annosi e da innumerevoli uccelli, che guardano curiosi coi loro occhietti di giaietto le tredici gonfie sacche multicolori sparse sull’erba. Le voci dei bagnanti si allontanano e si confondono nel fruscio del fiume. Solo ogni tanto qualche risata squillante dei più giovani risuona come una nota alta sugli accordi bassi e monotoni del fiume.
2 Ma il silenzio è presto rotto da uno scalpiccio di passi. Delle teste si affacciano da un intrico, sbirciano, dicono con espressione contenta: «Sono qui. Si sono fermati. Andiamo a dirlo agli altri», e scompaiono allontanandosi dietro i cespugli…
…Intanto, rinfrescati, con i capelli ancora umidi per quanto rudimentalmente asciugati, scalzi e coi sandali lavati e gocciolanti tenuti per i cingolini, con le vesti fresche indosso e le altre deposte forse sui canneti dopo una sciacquata nelle acque azzurre del Giordano, tornano gli apostoli col Maestro. Palesemente ristorati da quel lungo bagno.
Ignorando di essere stati scoperti, si siedono, dopo che Gesù ha offerto e distribuito il cibo. E dopo il cibo, assonnati, si sdraierebbero e dormirebbero. Ma ecco venire un uomo, e dopo il primo il secondo, e il terzo…
«Che volete?», interroga Giacomo di Zebedeo che li vede venire e arrestarsi presso un macchione, incerti se farsi avanti o meno. Gli altri, Gesù compreso, si voltano a vedere con chi parla Giacomo.
«Ah! sono quelli del paese… Ci hanno seguiti!», dice senza entusiasmo Tommaso che si apprestava a dormire un poco.
Intanto gli interrogati rispondono, un poco intimoriti vedendo la palese ripugnanza degli apostoli a riceverli: «Volevamo parlare al Maestro… Dire che… Vero, Samuele?…», e si arrestano, non osando dire di più.
Ma Gesù, benigno, li incoraggia: «Dite, dite. Avete altri malati?…», e intanto si alza dirigendosi verso di loro.
«Maestro, sei stanco anche più di noi. Riposati un poco e loro aspettino…», dicono in più d’un apostolo.
«Qui vi sono creature che mi desiderano. Perciò essi pure non hanno riposo di pace nel cuore. E la stanchezza del cuore è da più di quella delle membra. Lasciate che Io li ascolti».
«E va bene! Addio riposo nostro!…», borbottano gli apostoli, abbrutiti dalla stanchezza e dal caldo al punto di rimproverare in presenza di estranei il loro Maestro, tanto che dicono: «E quando, senza prudenza, ci avrai fatti tutti malati, troppo tardi capirai che ti eravamo necessari».
Gesù li guarda… con pietà. Non c’è altro nei suoi dolci occhi stanchi… Ma risponde: «No, amici. Io non pretendo che voi mi imitiate. Guardate, voi rimanete qui, in riposo. Io mi dilungo con questi, li ascolto e poi vengo a mettermi a riposo fra voi».
Così dolce la risposta, che ottiene più di un rimprovero. Il buon cuore, l’affetto dei dodici si risveglia e prende il sopravvento: «Non già, Signore! Resta dove sei e parla ad essi. Noi andremo a voltare le nostre vesti per farle asciugare dall’altro lato. Così vinceremo il sonno, e poi verremo e riposeremo insieme». E i più assonnati vanno verso il fiume… Restano Matteo, Giovanni e Bartolomeo.
3 Ma intanto i tre cittadini sono divenuti più di dieci e sempre crescono…
«Dunque? Venite avanti e parlate senza timore».
«Maestro, partito Te, si sono fatti ancor più violenti i farisei… Hanno assalito l’uomo da Te liberato e… se non diverrà pazzo sarà un nuovo miracolo… perché… gli hanno detto che… che Tu lo hai levato da un demonio che non impediva che la ragione, ma che gli hai dato un demone più forte, forte tanto che ha vinto il primo, forte più del primo, perché questo danna e possiede il suo spirito, e perciò mentre della prima possessione non avrebbe avuto a portare le conseguenze nell’altra vita, perché le sue azioni non erano… come hanno detto, Abramo?…».
«Hanno detto… oh! un nome strano… Insomma di quelle azioni Dio non gli avrebbe chiesto conto, perché fatte senza libertà di mente, mentre ora egli, adorando per imposizione del demonio che ha in cuore, messo da Te — oh! ci perdona se te lo diciamo! — da Te, principe dei demoni, adorando Te con mente non più folle, è sacrilego e maledetto, e dannato sarà. Onde il povero infelice rimpiange lo stato di prima e… quasi impreca a Te… Più folle di prima perciò… e la madre si dispera per il figlio che dispera di salvarsi… e ogni gioia in strazio si è mutata. Noi, a dar pace, ti abbiamo cercato, e l’angelo certo qui ci ha guidati… Signore, noi crediamo che Tu sei il Messia. E crediamo che il Messia ha in Sé lo Spirito di Dio. Perciò è Verità e Sapienza. E ti chiediamo di darci pace e spiegazione…».
«Voi siete nella giustizia e nella carità. Siate benedetti. Ma dove è l’infelice?».
«Ci segue con la madre, piangendo la sua disperazione. Vedi? Tutto il paese, meno essi, i crudeli farisei, viene a questa volta, incurante delle minacce loro. Perché ci hanno minacciato punizioni per il nostro credere in Te. Ma Dio ci proteggerà».
«Dio vi proteggerà. Conducetemi al graziato».
«No. Te lo condurremo. Attendi», e in molti se ne vanno verso il nucleo più numeroso, che viene avanti gestendo mentre due pianti acuti dominano il brusio della folla. Gli altri, i rimasti, sono tanti già e, quando a questi si riuniscono gli altri con al centro l’indemoniato guarito e la madre sua, è veramente una grande folla quella che si pigia fra gli alberi intorno a Gesù, salendo anche sugli alberi per trovare posto per sentire e vedere.
4 Gesù va incontro al suo miracolato che, come lo vede, strappandosi i capelli e inginocchiandosi dice: «Rendimi il primo demonio! Per pietà di me, della mia anima! Che ti ho fatto perché Tu mi nuocessi tanto?».
E sua madre, pure in ginocchio: «Egli delira di paura, Signore! Non accogliere le sue bestemmiatrici parole, ma liberalo dalla paura che quei crudeli gli hanno infusa, onde non perda la vita dell’anima. Tu l’hai liberato una volta!… Oh! per pietà di una madre, liberalo ancora!».
«Sì, donna. Non temere! Figlio di Dio, ascolta!». E Gesù appoggia le sue mani sul capo spettinato del delirante di paura soprannaturale. «Ascolta. E giudica. Da te giudica, perché ora il tuo giudizio è libero e puoi giudicare con giustizia. Vi è un modo sicuro per comprendere se un prodigio viene da Dio o da un demonio. Ed è ciò che l’anima prova. Se il fatto straordinario viene da Dio, pace si infonde nell’anima, pace e gaudio maestoso. Se da un demonio, viene, con esso prodigio, turbamento e dolore. E anche dalle parole di Dio pace e gaudio vengono, mentre da quelle di un demonio, sia demonio spirito o demonio uomo, viene turbamento e dolore. E anche dalla vicinanza di Dio viene pace e gaudio, mentre dalla vicinanza di spiriti o uomini malvagi viene turbamento e dolore. Ora rifletti, figlio di Dio. Quando, cedendo al demone della lussuria, tu cominciasti ad accogliere in te il tuo oppressore, godevi gaudio e pace?».
L’uomo riflette e arrossendo risponde: «No, Signore».
«E quando il perpetuo Avversario ti prese del tutto, avesti pace e gaudio?».
«No, Signore. Mai. Finché ho compreso, finché fui con un lembo di mente libera, ebbi turbamento e dolore dalla prepotenza dell’Avversario. Poi… non so… Non avevo più l’intelletto capace di capire ciò che soffrivo… Ero più di una bestia… Ma anche in quello stato in cui parevo meno intelligente di un animale… oh! quanto ancora potevo soffrire! Non so dire di che… L’inferno è tremendo! È un tutto orrendo… e non si può dire ciò che è…».
L’uomo trema davanti al rudimentale ricordo delle sue sofferenze di posseduto. Trema, sbianca, suda… La madre lo abbraccia baciandolo sulla guancia per sviarlo da quell’incubo… La gente sussurra commentando.
«E quando ti risvegliasti con la mano nella mia mano? Che provasti?».
«Oh! uno stupore così dolce… e poi una gioia, una pace più grande ancora… Pareva che io uscissi da una carcere oscura dove erano state catene serpenti senza numero, e aria fetori di putrida fogna, ed entrassi in un giardino in fiore, pieno di sole, di canti… Ho conosciuto il Paradiso… ma anche questo non si può descrivere…». L’uomo sorride come rapito nel ricordo della sua breve e recente ora di gaudio. Poi sospira e termina: «Ma è presto finito…».
«Ne sei sicuro? Dimmi, ora che sei a Me vicino e lontano sei da quelli che ti hanno turbato, che provi?».
«La pace ancora. Qui con Te io non posso credere di esser dannato e le loro parole mi sembrano bestemmia… Ma io le ho credute… Non ho dunque peccato verso di Te?».
«Non tu hai peccato. Ma essi. Sorgi, figlio di Dio, e credi alla pace che è in te. Pace viene da Dio. Tu sei con Dio. Non peccare e non temere», e leva le mani dal capo dell’uomo facendolo alzare.
5 «Veramente così è, Signore?», chiedono molti.
«Veramente così è. Il dubbio suscitato dalle parole pensatamente dannose fu l’ultima vendetta di Satana uscito da costui, vinto, desideroso di riprendere la preda perduta».
Con molto buon senso un popolano dice: «Ma allora… i farisei… hanno servito Satana!», e molti applaudono alla giusta osservazione.
«Non giudicate. C’è chi giudica».
«Ma almeno noi siamo schietti nel giudicare… e Dio vede che giudichiamo su colpe palesi. Essi si fingono ciò che non sono. Agiscono con menzogna e con mire non buone. Eppure trionfano più di noi che siamo onesti e sinceri. Sono il nostro terrore. Estendono la loro potenza persino sulla libertà di fede. Si deve credere e praticare come a loro piace. E ci minacciano perché ti amiamo. Tentano ridurre i tuoi miracoli a stregonerie, a mettere paura di Te. Cospirano, opprimono, nuocciono…».
6 La folla parla tumultuosamente. Gesù fa un gesto imponendo silenzio e dice:
«Non accogliete nel cuore ciò che è loro. Non le loro insinuazioni e non i loro sistemi. E neppure l’idea: “essi sono cattivi eppure trionfano”. Non ricordate le parole della Sapienza: “Breve è il trionfo dello scellerato”, e l’altra dei Proverbi: “Non seguire, o figlio, gli esempi dei peccatori e non ascoltare le parole degli empi, perché essi rimarranno impigliati nelle catene delle colpe loro e ingannati dalla loro grande stoltezza”? Non mettete in voi ciò che è di coloro che voi stessi, benché imperfetti, giudicate ingiusti. Mettereste in voi lo stesso lievito che corrompe loro. Il lievito dei farisei è l’ipocrisia. Essa non sia mai in voi, né rispetto alle forme del culto verso Dio, né rispetto al modo di usare coi fratelli. Guardatevi dal lievito dei farisei. Pensate che non c’è nulla d’occulto che non possa essere scoperto, nulla di nascosto che non finisca ad esser noto.
Voi vedete. Essi mi avevano lasciato partire e poi avevano seminato zizzania dove il Signore aveva gettato seme eletto. Credevano di aver fatto sottilmente e vittoriosamente. E sarebbe bastato che voi non mi aveste trovato, che Io avessi passato il fiume non lasciando traccia di Me sull’acqua che si ricompone dopo che la prua l’ha aperta, perché il loro mal fare, sotto aspetto di ben fare, trionfasse. Ma presto è stato scoperto il giuoco e la loro mala opera è annullata. E così di tutte le azioni dell’uomo. Uno almeno, Dio, le conosce e provvede. Quanto viene detto all’oscuro finisce ad esser svelato dalla Luce, e quello che viene tramato in segreto in una camera può esser disvelato come fosse stato preparato su una piazza. Perché ogni uomo può avere il suo delatore. E perché ogni uomo è visto da Dio, il quale può intervenire a smascherare i colpevoli.
7 Perciò occorre agire sempre con onestà per vivere con pace. E chi così vive non abbia paura. Non paura in questa vita, non paura per l’altra vita. No, amici miei, Io ve lo dico: chi agisce da giusto non abbia paura. Non paura di coloro che uccidono, sì, di coloro che possono uccidere il corpo, ma che dopo di ciò non possono fare altro. Io vi dico di che avete a temere. Temete di quelli che, dopo avervi fatto morire, vi possono mandare all’inferno, ossia dei vizi, dei cattivi compagni, dei falsi maestri, di tutti coloro che vi insinuano il peccato o il dubbio nel cuore, di quelli che tentano di corrompere l’anima più del corpo e portarvi al distacco da Dio e a pensieri di disperazione nella divina Misericordia. Di questo avete a temere, Io ve lo ripeto. Perché allora sarete morti in eterno. Ma per il resto, per la vostra esistenza, non temete. Il Padre vostro non perde d’occhio neppure uno di questi minimi uccelli che nidificano fra le fronde degli alberi. Non uno di essi cade nella rete senza che il suo Creatore lo sappia. Eppure è ben piccolo il loro valore materiale: cinque passeri per due assi. E nullo è il loro valore spirituale. Ciononostante, Dio se ne cura. Come dunque non avrà cura di voi? Della vostra vita? Del vostro bene? Anche i capelli del capo vostro sono noti al Padre, né alcuna ingiuria che viene fatta ai suoi figli gli passa inosservata, perché voi siete i suoi figli, ossia molto più dei passeri che nidificano sui tetti e fra il fogliame.
8 E figli rimanete finché da voi non rinunciate ad esserlo, di vostra libera volontà. E si rinuncia a questa figliolanza quando si rinnega Iddio e il Verbo che Dio ha mandato fra gli uomini per portare gli uomini a Dio. Allora, quando uno non mi vuole riconoscere davanti agli uomini, perché teme da questo riconoscimento del danno, allora anche Dio non lo riconoscerà per suo figlio, e il Figlio di Dio e dell’uomo non lo riconoscerà davanti agli angeli del Cielo, e chi mi avrà rinnegato davanti agli uomini sarà rinnegato per figlio davanti agli angeli di Dio. E chi avrà parlato male e contro il Figlio dell’uomo sarà ancora perdonato, perché Io perorerò il suo perdono presso il Padre, ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato. Questo perché? Perché non tutti possono conoscere l’estensione dell’Amore, la sua perfetta infinità, e vedere Dio in una carne simile ad ogni carne d’uomo. I gentili, i pagani non possono credere questo per fede, perché la loro religione non è amore. Anche fra noi il rispetto pauroso che ha Israele per Jeové può impedire che si creda che Dio si sia fatto uomo e il più umile degli uomini. Una colpa il non credermi. Ma quando si appoggia su un eccessivo timore di Dio è ancora perdonata. Ma perdonato non può essere chi non si arrende alla verità che traluce dai miei atti e nega allo Spirito d’Amore di aver potuto mantenere la parola data di mandare il Salvatore al tempo stabilito, il Salvatore preceduto e accompagnato dai segni predetti.
9 Essi, coloro che mi perseguitano, conoscono i profeti. Le profezie sono piene di Me. Essi conoscono le profezie e conoscono ciò che Io faccio. La verità è palese. Ma essi la negano per volontà di negarla. Sistematicamente negano che Io sia non solo il Figlio dell’uomo, ma il Figlio di Dio predetto dai profeti, il Nato da una Vergine non per voler dell’uomo ma dell’Amore eterno, dell’eterno Spirito che mi ha annunciato perché gli uomini mi potessero riconoscere. Essi, per poter dire che il buio dell’attesa del Cristo dura, si ostinano a tener chiusi gli occhi per non vedere la Luce che è nel mondo, e perciò rinnegano lo Spirito Santo, la sua Verità, la sua Luce. E per costoro sarà giudizio più severo che per coloro che non sanno. E dirmi “satana” non sarà loro perdonato, perché lo Spirito per Me fa opere divine e non sataniche. E portare altri a disperazione quando l’Amore li ha portati alla pace non sarà perdonato. Perché queste sono tutte offese allo Spirito Santo. A questo Spirito Paraclito che è Amore e dona amore e chiede amore, e che attende il mio olocausto d’amore per effondersi in amore sapiente, illuminante nei cuori dei miei fedeli. E quando ciò sarà avvenuto e ancora vi perseguiteranno accusandovi davanti ai magistrati e ai principi nelle sinagoghe e nei tribunali, non vi preoccupate pensando a come vi scagionerete. Lo stesso Spirito vi dirà ciò che avete a rispondere per servire la Verità e conquistarvi la Vita, così come il Verbo vi sta dando quanto occorre per poter entrare nel Regno della Vita eterna.
10Andate in pace. Nella mia pace. In quella pace che è Dio e che Dio emana per saturarne i suoi figli. Andate e non temete. Io non sono venuto per ingannarvi ma per istruirvi, non a perdervi ma a redimervi. Beati quelli che sapranno credere alle mie parole. E tu, uomo, due volte salvato, sii forte e ricorda la pace mia per dire ai tentatori: “Non tentate di sedurmi. La mia fede è che Egli è il Cristo”. Va’, o donna. Va’ con lui e state in pace. Addio. Tornate alle case e lasciate il Figlio dell’uomo all’umile riposo sull’erba prima di riprendere il perseguitato suo cammino alla ricerca di altri da salvare, fino alla fine. La mia pace stia con voi».
Li benedice e torna là dove hanno mangiato. E gli apostoli con Lui. E, sfollata la gente, si stendono col capo sulle sacche e presto il sonno li prende, nel calore afoso del pomeriggio e nel silenzio pesante di queste ore torride.
Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!
Vangelo Gv 15, 1-8 : “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.”.
Vangelo Gv 15,1-8
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo: Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.
Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Cap. DC. L’ultima Cena pasquale.
9 marzo 1945
1 Comincia la sofferenza del Giovedì Santo.
Gli apostoli, e sono dieci, si dànno un gran da fare a preparare il Cenacolo.
Giuda, arrampicato sul tavolo, osserva se l’olio è in tutti i palloncini del grande lampadario, che pare una corolla di fucsia doppia, perché ha uno stelo circondato da cinque lumi in ampolle simili a petali, poi un secondo giro, più in basso, che è tutta una coroncina di fiammelle, poi ha, per ultimo, tre esili lampadine sospese a catenelle che sembrano i pistilli del luminoso fiore. Poi scende con un salto e aiuta Andrea a disporre con arte le stoviglie sulla tavola, su cui viene stesa una finissima tovaglia.
Sento Andrea che dice: «Che splendido lino !».
E l’Iscariota: «Uno dei migliori di Lazzaro. Marta l’ha voluta portare per forza».
«E questi calici? e queste anfore, allora?», osserva Tommaso che ha messo il vino nelle anfore preziose e le rimira, specchiandosi nelle loro pance snelle, e ne carezza i manici a cesello con occhio d’intenditore.
«Chissà che valore, eh?», chiede Giuda Iscariota.
«È lavorato a martello. Mio padre ne andrebbe pazzo. L’argento e l’oro in foglia si piega, quando è caldo, con facilità. Ma trattato così… È un momento rovinare tutto. Basta un colpo mal dato. Ci vuole forza e leggerezza insieme. Vedi i manici? Tratti dal blocco. Non saldati. Cose da ricchi… Pensa che tutta la limatura e lo sbozzato si perdono. Non so se mi capisci».
«Eh! se capisco! Insomma è come uno che fa scoltura».
«Proprio così».
Tutti ammirano. Poi tornano al loro lavoro. Chi dispone i sedili e chi fa pronte le credenze.
2 Entrano insieme Pietro e Simone.
«Oh! siete venuti finalmente! Dove siete andati di nuovo? Dopo essere giunti col Maestro e noi, siete da capo fuggiti», dice l’Iscariota.
«Ancora un’incombenza prima dell’ora», risponde breve Simone.
«Hai delle malinconie?».
«Credo che, con quello che si è udito in questi giorni, e da quelle labbra che mai trovammo menzognere, ce ne sia ben ragione».
«E con quel puzzo di… Bene, sta’ zitto, Pietro», borbotta Pietro fra i denti.
«Anche tu! … Mi sembri folle da qualche giorno. Hai la faccia di un coniglio selvatico che si sente dietro lo sciacallo», risponde Giuda Iscariota.
«E tu hai il muso della faina. Anche tu non sei molto bello da qualche giorno. Guardi in un modo… Hai persino l’occhio storto… Chi aspetti, o che speri vedere? Sembri sicuro, vuoi farlo parere, ma assomigli a chi ha paura», rimbecca Pietro.
«Oh! Quanto a paura!… Non sei certo un eroe neppure tu!».
«Nessuno lo siamo, Giuda. Tu porti il nome del Maccabeo, ma non lo sei. Io dico, col mio, “Dio fa grazie”, ma ti giuro che ho in me il tremito di chi sa di portare disgrazia e di essere soprattutto in disgrazia di Dio. Simone di Giona, ribattezzato “la pietra”, è ora molle come cera al fuoco. Non si agguanta più col suo volere. E sì che mai lo vidi pauroso nelle più fiere tempeste! Matteo, Bartolmai e Filippo sembrano sonnambuli. Mio fratello e Andrea non fanno che sospirare. I due cugini, in cui è il dolore del sangue con quello dell’amore al Maestro, guardali. Sembrano uomini già vecchi. Tommaso ha perduto la sua giocondità. E Simone sembra tornato il lebbroso sfinito di or sono tre anni, tanto è scavato da un dolore, direi corroso, livido, avvilito», gli risponde Giovanni.
3 «Sì. Ci ha suggestionati tutti con la sua melanconia», osserva l’Iscariota.
«Mio cugino Gesù, il mio e vostro Maestro e Signore, è e non è melanconico. Se vuoi dire, con questo nome, che è triste per il troppo dolore che tutto Israele gli sta dando, e che noi vediamo, e per l’altro occulto dolore che Egli solo vede, ti dico: “Hai ragione”. Ma se usi quel termine per dirlo folle, te lo proibisco», dice Giacomo di Alfeo.
«E non è follia un’idea fissa di malinconia? Io ho studiato anche il profano. E so. Egli troppo ha dato di Sé.
Ora è uno stanco di mente».
«Il che significa demente. Non è vero?», chiede l’altro cugino Giuda, in apparenza calmo.
«Proprio così! Aveva visto bene tuo padre (in una sua invettiva contro Gesù al Vol 2 Cap 100 che l’Iscariota aveva accolto con perfidia alcune righe più avanti), giusto di santa memoria, al quale tanto tu somigli in giustizia e sapienza! Gesù, triste destino di una illustre casa troppo vecchia e colpita da senilità psichica, ha sempre avuto una tendenza a questa malattia. Dolce dapprima, poi sempre più aggressiva. Tu hai visto come ha attaccato farisei e scribi, sadducei ed erodiani. Si è resa impossibile la vita come un cammino sparso di schegge di quarzo. E da Sé se le è sparse. Noi… lo amammo tanto che l’amore ci fu velo. Ma quelli che l’amarono non idolatramente – tuo padre, tuo fratello Giuseppe, e Simone dapprima – videro giusto… Dovevamo aprire gli occhi alle loro parole. Invece siamo stati tutti sedotti dal suo dolce fascino di malato. Ed ora… Mah! ».
Giuda Taddeo, che, alto come l’Iscariota, gli è proprio di fronte e pare udirlo con pace, ha uno scatto violento e, con un manrovescio potente, getta Giuda supino su uno dei sedili, e con una collera contenuta nella voce gli fischia, curvandosi sul volto del vigliacco, che non reagisce forse temendo che il Taddeo sia a conoscenza del suo crimine: «Questo per la demenza, rettile! E solo perché Egli è di là, ed è sera di Pasqua, non ti strozzo. Ma pensa, pensalo bene! Se gli avviene del male, e non c’è più Lui a fermare la mia forza, nessuno ti salva. È come tu già avessi il capestro al collo, e saranno queste mie mani oneste e forti, di artiere galileo e di discendente del frombolatore di Golia, che te lo faranno. Alzati, smidollato libertino! E regolati!».
Giuda si alza, livido, senza la minima reazione. E, ciò che mi stupisce, nessuno ha una reazione al gesto nuovo del Taddeo. Anzi! … È chiaro che tutti approvano.
4 È appena ricomposto l’ambiente che entra Gesù. Si affaccia sulla soglia della porticina, dalla quale la sua alta persona appena passa, mette piede sul ballatoio di così poco spazio e col suo mite, mesto sorriso dice, aprendo le braccia: «La pace sia con voi». La sua voce è stanca, come quella di uno che languisce nel fisico o nel morale.
Scende. Carezza sul capo biondo Giovanni che gli è corso vicino. Sorride, come ignaro, al cugino Giuda e dice all’altro cugino: «Tua madre ti prega di essere dolce con Giuseppe. Ha chiesto di Me e di te poco fa alle donne. Mi spiace non averlo salutato».
«Lo farai domani».
«Domani?… Ma avrò sempre tempo di vederlo… Oh! Pietro! Staremo un poco insieme, finalmente! Da ieri mi sembri un fuoco fatuo. Ti vedo, poi non ti vedo più. Oggi quasi posso dire che ti ho perso. Anche tu, Simone».
«I nostri capelli più bianchi che neri ti possono fare sicuro che non fummo assenti per fame di carne», dice serio Simone.
«Per quanto… a tutte le età si possa avere quella fame… I vecchi! Peggio dei giovani…», dice l’Iscariota offensivo.
Simone lo guarda e sta per ribattere. Ma lo guarda anche Gesù e dice: «Ti duole un dente? Hai la guancia destra gonfia e rossa».
«Sì. Ho male. Ma non merita occuparsene».
Gli altri non dicono nulla e la cosa muore così.
5 «Avete fatto tutto quanto era da fare? Tu, Matteo? Andrea? E tu, Giuda, hai pensato all’offerta al Tempio?».
Tanto i due primi come l’Iscariota dicono: «Tutto fatto di quello che avevi detto da farsi per oggi. Sta’ quieto».
«Io ho portato le primizie di Lazzaro a Giovanna di Cusa. Per i bambini. Mi hanno detto: “Erano più buone quelle mele!”. Avevano il sapore della fame, quelle! Ed erano le tue mele», dice sorridente e sognante Giovanni.
Anche Gesù sorride ad un ricordo…
«Io ho visto Nicodemo e Giuseppe», dice Tommaso.
«Li hai visti? Hai parlato con loro?», chiede l’Iscariota con interesse esagerato.
«Sì. Che c’è di strano? Giuseppe è un buon cliente del padre mio».
«Non lo avevi detto prima… Mi sono stupito per questo!…». Giuda cerca rimediare all’impressione, data prima, di affanno per l’incontro di Giuseppe e Nicodemo con Tommaso.
«Mi fa strano che non siano venuti qui a venerarti. Non loro, non Cusa, non Mannanen… Nessuno dei…».
Ma l’Iscariota ride con una falsa risata, interrompendo Bartolomeo, e dice: «Il coccodrillo si rintana nell’ora buona».
«Che vuoi dire? Che insinui?», interroga Simone, aggressivo quanto non fu mai.
«Pace, pace! Ma che avete? È sera pasquale! Mai avemmo sì degno apparato alla consumazione dell’agnello. Consumiamo dunque la cena con spirito di pace. Vedo che vi ho molto turbato con le mie istruzioni di queste ultime sere. Ma, vedete? Ho finito! Ora non vi turberò più. Non tutto è detto di quanto a Me si riferisce. Solo l’essenziale. Il resto… lo capirete poi. Vi sarà detto… Sì. Verrà Chi ve lo dirà.
6 Giovanni, vai con Giuda e qualche altro a prendere le coppe per la purificazione. E poi sediamo alla mensa». Gesù è di una dolcezza straziante.
Giovanni con Andrea, Giuda Taddeo con Giacomo, portano l’ampia coppa, vi mescono acqua e offrono l’asciugamani a Gesù e ai compagni, i quali poi fanno lo stesso con loro. La coppa (che è un bacile di metallo) viene messa in un angolo.
«Ed ora ai propri posti. Io qui, e qui (alla destra) Giovanni, e dall’altro lato il mio fedele Giacomo. I due primi discepoli.
Dopo Giovanni la mia Pietra forte, e dopo Giacomo colui che è come l’aria. Non si avverte. Ma è sempre presente e dà conforto: Andrea. Vicino a lui, mio cugino Giacomo. Tu non ti rammarichi, dolce fratello, se do il primo posto ai primi? Sei il nipote del Giusto, il cui spirito palpita e aleggia su Me, in questa sera, più che mai. Abbi pace, padre della mia debolezza di fanciullino, quercia alla cui ombra ebbero ristoro la Madre e il Figlio! Abbi pace!… Dopo Pietro, Simone… Simone, vieni un momento qui. Voglio fissare il tuo volto leale. Dopo non ti vedrò che male, perché altri mi copriranno la tua onesta faccia. Grazie, Simone. Di tutto», e lo bacia.
Simone, quando è lasciato, va al suo posto portandosi per un attimo le mani al volto con atto di afflizione.
«Di fronte a Simone, il mio Bartolmai. Due onestà e due sapienze che si rispecchiano. Stanno bene insieme. E vicino, tu, Giuda, fratello mio. Così ti vedo,… e mi sembra di essere a Nazaret… quando qualche festa ci riuniva tutti ad una mensa… Anche a Cana… Ricordi? Eravamo insieme. Una festa… una festa di nozze… il primo miracolo… l’acqua mutata in vino… Anche oggi una festa… e anche oggi vi sarà un miracolo… il vino cambierà natura… e sarà… ». Gesù si immerge nel suo pensiero. A capo chino, è come isolato nel suo mondo segreto. Gli altri lo guardano e non parlano.
Rialza il capo e fissa Giuda Iscariota, al quale dice: «Tu mi starai di fronte».
«Tanto mi ami? Più di Simone, che mi vuoi avere sempre di fronte?».
«Tanto. Lo hai detto».
«Perché, Maestro?».
«Perché tu sei quello che hai fatto più di tutti per quest’ora».
Giuda guarda con un mutevolissimo sguardo il Maestro e i compagni. Il primo con un che di ironica compassione, gli altri con aria di trionfo.
«E vicino a te, da una parte Matteo, dall’altra Tommaso».
«Allora Matteo alla mia sinistra e Toma a destra».
«Come vuoi, come vuoi», dice Matteo. «Mi basta aver bene di fronte il mio Salvatore».
«Ultimo, Filippo. Ecco, vedete? Chi non è al mio fianco nel lato d’onore, ha l’onore di essermi di fronte».
7 Gesù, ritto al suo posto, mesce nell’ampio calice collocato a Lui davanti (tutti hanno alti calici, ma Lui ne ha uno molto più ampio, oltre quello che hanno tutti. Deve essere il calice di rito). Mesce in esso il vino. Lo alza, lo offre. Lo posa.
Poi tutti insieme chiedono con tono di salmo: «Perché questa cerimonia?». Domanda formale, si capisce. Di rito.
Alla quale Gesù, come capo famiglia, risponde: «Questo giorno ricorda la nostra liberazione dall’Egitto. Sia benedetto Geové che ha creato il frutto della vigna».
Beve un sorso di questo vino offerto e passa il calice agli altri. Poi offre il pane, lo spezza, lo distribuisce, indi le erbe intinte nella salsa rossastra che è in quattro salsiere.
Finita questa parte di pasto, cantano dei salmi, tutti in coro.
Viene portato dalla credenza sulla mensa, e posto di fronte a Gesù, il capace vassoio dell’agnello arrostito.
Pietro, che ha il ruolo di… prima parte, di coro, se più le piace, chiede: «Perché quest’agnello, così?».
«A ricordo di quando Israele fu salvo per l’agnello immolato. Non morì primogenito dove il sangue splendeva sugli stipiti e l’architrave. E dopo, mentre tutto l’Egitto piangeva sui primogeniti maschi morti, dalla reggia ai tuguri, gli ebrei, capitanati da Mosè, si mossero verso la terra della liberazione e della promessa. Coi fianchi già cinti, i calzari al piede, in mano il bordone, fu sollecito il popolo di Abramo a porsi in marcia cantando gli inni della gioia».
Tutti si alzano in piedi e intonano: «Quando Israele uscì dall’Egitto e la casa di Giacobbe di mezzo ad un popolo barbaro, la Giudea divenne il suo santuario», ecc. ecc. (se trovo giusto, è il salmo 114. Quello che viene detto subito dopo è il Salmo 113).
Ora Gesù taglia l’agnello, mesce un nuovo calice, lo passa dopo averne bevuto. Poi cantano ancora: «Fanciulli, lodate il Signore, sia benedetto il nome dell’Eterno ora e sempre nei secoli. Dall’oriente all’occidente deve essere lodato», ecc.
Gesù dà le parti, badando che ognuno sia bon servito, proprio come un padre di famiglia fra figli a lui tutti cari. È solenne, un po’ triste, mentre dice: «Ho ardentemente desiderato di mangiare con voi questa Pasqua. È stato il mio desiderio dei desideri da quando, in eterno, Io fui “il Salvatore”. Sapevo che quest’ora precede quella. E la gioia di darmi metteva in anticipo questo sollievo al mio patire… Ho ardentemente desiderato di mangiare con voi questa Pasqua, perché mai più gusterò del frutto della vite finché sia venuto il Regno di Dio. Allora mi assiderò nuovamente cogli eletti al Banchetto dell’Agnello, per le nozze dei viventi col Vivente. Ma ad esso verranno soltanto coloro che sono stati umili e mondi di cuore come Io sono».
8 «Maestro, poco fa Tu hai detto che chi non ha l’onore del posto ha quello d’esserti di fronte. Come allora possiamo sapere chi è il primo fra noi?», chiede Bartolomeo.
«Tutti e nessuno. Una volta… tornavamo stanchi… nauseati per l’astio farisaico. (Vol 5 Cap 352). Ma stanchi non eravate per disputare fra di voi chi fosse il più grande… Un bambino mi corse vicino… un mio piccolo amico… E la sua innocenza temperò il mio disgusto di tante cose. Non ultima la vostra umanità pervicace. Dove sei ora, piccolo Beniamino dalla sapiente risposta, a te venuta dal Cielo perché, angelo come eri, lo Spirito ti parlava? Io vi ho detto allora: “Se uno vuole essere il primo sia l’ultimo e servo di tutti”. E vi ho dato ad esempio il fanciullo saggio. Ora vi dico: “I re delle nazioni le signoreggiano. E i popoli oppressi, pur odiandoli, li acclamano e i re vengono detti ‘Benefattori’, ‘Padri della Patria’. Ma l’odio cova sotto il bugiardo ossequio”. Ma fra voi così non sia. Il maggiore sia come il minore, il capo come colui che serve. Chi infatti è più grande? Chi sta a mensa, o chi serve? È colui che sta a mensa. Eppure Io vi servo. E fra poco più vi servirò. Voi siete quelli che siete stati con Me nelle prove. Ed Io dispongo per voi un posto nel mio Regno, così come Io sarò in esso Re secondo il volere del Padre, acciocché mangiate e beviate alla mia mensa eterna e siate assisi sui troni giudicando le dodici tribù di Israele. Siete rimasti con Me nelle mie prove… Solo questo è quello che vi dà grandezza agli occhi del Padre».
«E quelli che verranno? Non avranno posto nel Regno? Noi soli?».
«Oh! quanti principi nella mia Casa! Tutti coloro che saranno stati fedeli al Cristo nelle prove della vita saranno principi nel Regno mio. Perché coloro che avranno perseverato sino alla fine nel martirio dell’esistenza saranno pari a voi, che con Me siete rimasti nelle mie prove. Io mi identifico nei miei credenti. Il Dolore che Io abbraccio per voi e per tutti gli uomini Io lo do come insegna ai più eletti. Chi nel Dolore mi sarà fedele sarà un mio beato pari a voi, o miei diletti».
9 «Noi abbiamo perseverato fino alla fine».
«Lo credi, Pietro? Ed Io ti dico che l’ora della prova ha ancora da venire. Simone, Simone di Giona, ecco che Satana ha chiesto di vagliarvi come il grano. Io ho pregato per te, perché la tua fede non vacilli. Tu, quando sarai ravveduto, conferma i tuoi fratelli».
«Lo so di essere un peccatore. Ma fedele a Te lo sarò fino alla morte. Non ho questo peccato. Mai l’avrò».
«Non essere superbo, Pietro mio. Quest’ora muterà infinite cose, che prima erano così ed ora saranno diverse. Quante! … Esse portano e importano necessità nuove. Voi lo sapete. Io vi ho sempre detto, anche quando andavamo per luoghi remoti percorsi dai banditi: “Non temete. Nulla ci accadrà di male perché gli angeli del Signore sono con noi. Non preoccupatevi di nulla”. Vi ricordate quando vi dicevo: “Non abbiate sollecitudini per ciò che dovete mangiare e per le vesti. Il Padre sa di che abbiamo bisogno”? Vi dicevo anche: “L’uomo è molto più di un passero e del fiore che oggi è erba e domani è fieno. Eppure il Padre ha cura anche del fiore e dell’uccellino. Potete allora dubitare che non abbia cura di voi?”. Vi dicevo ancora: “Date a chiunque vi chiede, a chi vi offende presentate l’altra guancia”. Vi dicevo: “Non abbiate borsa né bastone”. Perché Io ho insegnato amore e fiducia. Ma ora… Ora non è più quel tempo. Ora Io vi dico: “Vi è mai mancato nulla fino ad ora? Foste mai offesi?”».
«Nulla, Maestro. E solo Tu fosti offeso».
«Vedete dunque che la mia parola era verità. Ma ora gli angeli sono tutti richiamati dal loro Signore. È ora di demoni… Con le ali d’oro essi, gli angeli del Signore, si coprono gli occhi, si fasciano e si dolgono che non siano ali di colore cruccioso, perché è ora di lutto, e lutto crudele, sacrilego… Non ci sono angeli sulla Terra questa sera. Sono presso il trono di Dio per coprire col loro canto le bestemmie del mondo deicida e il pianto dell’Innocente. E noi siamo soli… Io e voi: soli. E i demoni sono i padroni dell’ora. Perciò ora prenderemo le apparenze e le misure dei poveri uomini che diffidano e non amano. Ora, chi ha una borsa prenda anche una bisaccia, chi non ha spada venda il suo mantello e ne comperi una. Perché anche questo è detto di Me nella Scrittura e si deve compiere: (Isaia 53, 12) “Egli è stato annoverato fra i malfattori”. In verità tutto ciò che mi riguarda ha il suo fine».
10 Simone, che si è alzato andando alla cassapanca dove ha deposto il suo ricco mantello – perché questa sera
sono tutti con gli abiti migliori e perciò hanno pugnali, damaschinati ma molto corti, più coltelli che pugnali, alle ricche cinture – prende due spade, due vere spade, lunghe, lievemente ricurve, e le porta a Gesù: «Io e Pietro ci siamo armati questa sera. Queste abbiamo. Ma gli altri non hanno che il corto pugnale».
Gesù prende le spade, le osserva, ne snuda una e ne prova il taglio sull’unghia. È una strana vista e fa una ancora più strana impressione vedere quell’arnese feroce nelle mani di Gesù.
«Chi ve le ha date?», chiede l’Iscariota mentre Gesù osserva e tace. E pare sulle spine Giuda…
«Chi? Ti ricordo che mio padre era nobile e potente».
«Ma Pietro…».
«Ebbene? Da quando devo rendere conto dei doni che voglio fare ai miei amici?».
Gesù alza il capo dopo avere ringuainato l’arma. Le rende allo Zelote.
«Va bene. Bastano. Hai fatto bene a prenderle.
11 “Ma ora, avanti la bevuta al terzo calice, attendete un momento. Vi ho detto che il più grande è pari al più piccolo e che Io ho veste di servo a questa tavola, e più vi servirò. Finora vi ho dato cibo. Servizio per il corpo. Ora vi voglio dare un cibo per lo spirito. Non è un piatto del rito antico. È del nuovo rito. Io mi sono voluto battezzare prima di essere il “Maestro”. Per spargere la Parola bastava quel battesimo. Ora verrà sparso il Sangue. Ci vuole un altro lavacro anche su voi, che pure vi siete purificati dal Battista, a suo tempo, e anche oggi nel Tempio. Ma non basta ancora. Venite, che Io vi purifichi. Sospendete il pasto. Vi è qualcosa di più alto e necessario del cibo dato al ventre perché si empia, anche se è cibo santo come questo del rito pasquale. Ed è uno spirito puro, pronto a ricevere il dono del Cielo, che già scende per farsi trono in voi e darvi la Vita. Dare la Vita a chi è mondo».
Gesù si alza in piedi, fa alzare Giovanni per uscire meglio dal suo posto, va ad una cassapanca e si leva la veste rossa deponendola piegata sul già piegato mantello, si cinge alla vita un ampio asciugamani, poi va ad un altro bacile, ancora vuoto e mondo. Vi versa dell’acqua, lo porta in mezzo alla stanza, presso la tavola, e lo mette su uno sgabello. Gli apostoli lo guardano stupefatti.
«Non mi chiedete che faccio?».
«Non sappiamo. Ti dico che siamo già purificati», risponde Pietro.
«Ed Io ti ripeto che non importa. La mia purificazione servirà a chi è già puro ad essere più puro».
Si inginocchia. Slaccia i sandali all’Iscariota ed uno per volta gli lava i piedi. È facile farlo, perché i letti-sedili sono fatti in modo che i piedi sono verso l’esterno. Giuda è sbalordito e non dice niente. Solo quando Gesù, prima di calzare il piede sinistro e alzarsi, fa l’atto di baciargli il piede destro già calzato, Giuda ritrae violentemente il piede e colpisce con la suola la bocca divina. Lo fa senza volere. Non è un colpo forte. Ma mi dà tanto dolore. Gesù sorride, e all’apostolo che gli chiede: «Ti ho fatto male? Non volevo… Perdona», dice: «No, amico. L’hai fatto senza malizia e non fa male». Giuda lo guarda… Uno sguardo turbato, sfuggente…
Gesù passa a Tommaso, poi a Filippo… Gira il lato stretto della tavola e viene al cugino Giacomo. Lo lava e lo bacia, nell’alzarsi, in fronte. Passa ad Andrea, che è rosso di vergogna e fa sforzi per non piangere, lo lava, lo carezza come un bambino. Poi c’è Giacomo di Zebedeo, che non fa che mormorare: «Oh! Maestro! Maestro! Maestro! Annichilito, sublime Maestro mio!». Giovanni si è già slacciato i sandali e, mentre Gesù sta curvo ad asciugargli i piedi, si china e lo bacia sui capelli.
Ma Pietro!… Non è facile persuaderlo a quel rito! «Tu lavare i piedi a me? Non te lo pensare! Sinché sono vivo, non te lo permetterò. Io sono il verme, Tu sei Dio. Ognuno a suo posto».
«Ciò che Io faccio tu non lo puoi comprendere per ora. Ma poi lo comprenderai. Lasciami fare».
«Tutto quello che vuoi, Maestro. Vuoi tagliarmi il collo? Fàllo. Ma lavarmi i piedi non lo farai».
«Oh! mio Simone! Tu non sai che, se non ti lavo, non avrai parte nel mio Regno? Simone, Simone! Tu hai bisogno di quest’acqua per la tua anima e per il tanto cammino che devi fare. Non vuoi venire con Me? Se non ti lavo, non vieni nel mio Regno».
«Oh! Signor mio benedetto! Ma allora lavami tutto! Piedi, mani e capo!».
«Chi ha fatto come voi un bagno non ha bisogno che di lavarsi i piedi, giacché è interamente puro. I piedi… L’uomo coi piedi va nelle lordure. E poco ancora sarebbe perché, ve l’ho detto, non è ciò che entra ed esce col cibo quello che sporca, e non è quello che si posa sui piedi per via ciò che contamina l’uomo. (Vedi Vol 5 Capp 300 e 301, e il capitolo 567). Ma è quanto incuba e matura nel suo cuore e di lì esce a contaminare le sue azioni e le sue membra. E i piedi dell’uomo dall’animo impuro vanno alle crapule, alle lussurie, agli illeciti commerci, ai delitti… Perciò sono, fra le membra del corpo, quelle che hanno molta parte da purificare… con gli occhi, con la bocca… Oh! uomo! uomo! Perfetta creatura un giorno: il primo! E poi così corrotto dal Seduttore! E non c’era in te malizia, o uomo, e non peccato!… Ed ora? Sei tutto malizia e peccato, e non c’è parte di te che non pecchi!».
Gesù ha lavato i piedi a Pietro, li bacia, e Pietro piange e prende con le sue grosse mani le due mani di Gesù, se le passa sugli occhi e le bacia poi.
Anche Simone si è levato i sandali e senza parola si lascia lavare. Ma poi, quando Gesù sta per passare da Bartolomeo, Simone si inginocchia e gli bacia i piedi dicendo: «Mondami dalla lebbra del peccato come mi mondasti dalla lebbra del corpo, acciocché io non sia confuso nell’ora del giudizio, mio Salvatore! ».
«Non temere, Simone. Verrai nella Città celeste bianco come neve alpina».
«Ed io, Signore? Al tuo vecchio Bartolmai che dici? Tu mi hai visto sotto l’ombra del fico e mi hai letto nel cuore. Ed ora che vedi, e dove mi vedi? Rassicura un povero vecchio, che teme non avere forza e tempo per giungere a come Tu vuoi che si sia». Bartolomeo è molto commosso.
«Anche tu non temere. Ho detto allora: “Ecco un vero israelita in cui non è frode”. Ora dico: “Ecco un vero cristiano degno del Cristo”. Dove ti vedo? Su un trono eterno, vestito di porpora. Io sarò sempre con te».
È la volta di Giuda Taddeo. Questo, quando si vede ai piedi Gesù, non sa trattenersi, curva il capo sul braccio appoggiato sulla tavola e piange.
«Non piangere, dolce fratello. Ora sei come uno che deve sopportare lo strappo di un nervo e ti pare di non poterlo sopportare. Ma sarà un breve dolore. Poi… oh! tu sarai felice, perché mi ami, tu. Ti chiami Giuda. E sei come il nostro grande Giuda: (cioè Giuda Maccabeo, celebrato in 1 Maccabei 3, 1-9) come un gigante. Sei colui che protegge. Le tue azioni sono da leone e lioncello che rugge. Tu scoverai gli empi che davanti a te indietreggeranno, e saranno atterriti gli iniqui. Io so. Sii forte. Un’eterna unione stringerà e renderà perfetta la nostra parentela in Cielo». Bacia anche lui sulla fronte come l’altro cugino.
«Io sono peccatore, Maestro. Non a me…».
«Tu eri peccatore, Matteo. Ora sei l’Apostolo. Sei una mia “voce”. Ti benedico. Questi piedi quanta strada hanno fatto per venire sempre avanti, verso Dio… L’anima li spronava ed essi hanno lasciato ogni via che non fosse la mia via. Procedi. Sai dove finisce il sentiero? Sul seno del Padre mio e tuo».
Gesù ha finito. Si leva il telo, si lava in acqua pulita le mani, si riveste, torna al suo posto e dice, mentre si siede al suo posto: «Ora siete puri, ma non tutti. Solo coloro che ebbero volontà di esserlo».
Fissa Giuda di Keriot che mostra di non udire, intento a spiegare al compagno Matteo come suo padre si decise a mandarlo a Gerusalemme. Un discorso inutile, che ha l’unico scopo di dare un contegno a Giuda che, per quanto audace, si deve sentire a disagio.
12 Gesù mesce per la terza volta nel calice comune. Beve, fa bere. Poi intona, e gli altri fanno coro: «Amo perché il Signore ascolta la voce della mia preghiera, perché piega il suo orecchio verso di me. Io lo invocherò per tutta la vita. Mi avevano circondato dolori di morte», ecc. (Vengono recitati, nell’ordine: Salmo 116, Salmo 117, Salmo 118 [lungo inno], Salmo 119 [quello che non finisce mai]).
Un attimo di sosta. Poi riprende a cantare: «Ebbi fede, per questo ho parlato. Ma ero fortemente umiliato. E dicevo nel mio smarrimento: “Ogni uomo è menzognero”». Guarda fisso Giuda.
La voce, stanca questa sera, del mio Gesù riprende lena quando esclama: «È preziosa al cospetto di Dio la morte dei santi», e «Tu hai spezzato le mie catene. A Te sacrificherò ostia di lode invocando il nome del Signore», ecc. ecc.
Un’altra breve sosta nel canto e poi riprende: «Lodate tutte il Signore, o nazioni, tutti i popoli lodatelo. Perché si è affermata su noi la sua misericordia e la verità del Signore dura in eterno».
Altra breve sosta e poi un lungo inno: «Celebrate il Signore, perché Egli è buono, perché la sua misericordia dura in eterno…».
Giuda di Keriot canta stonato tanto che per due volte Tommaso lo rimette in tono col suo potente vocione baritonale e lo guarda fisso. Anche altri lo guardano, perché generalmente è sempre ben intonato, e della sua voce ho capito che se ne tiene come del resto. Ma questa sera! Certe frasi lo turbano al punto che stecca, e così certi sguardi di Gesù che sottolineano le frasi. Una è: «Meglio confidare nel Signore che confidare nell’uomo». Un’altra è: «Urtato, vacillavo e stavo per cadere. Ma il Signore mi ha sorretto». Un’altra è: «Io non morrò ma vivrò e narrerò le opere del Signore». E infine queste due, che dico ora, fanno strozzare la voce in gola al Traditore: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra angolare», e «Benedetto colui che viene nel nome del Signore! ».
Finito il salmo, mentre Gesù taglia e porge di nuovo dell’agnello, Matteo chiede a Giuda di Keriot: «Ma ti senti male?».
«No. Lasciami stare. Non ti occupare di me».
Matteo si stringe nelle spalle.
Giovanni, che ha udito, dice: «Anche il Maestro non sta bene. Che hai, Gesù mio? La tua voce è fioca. Come di malato o di chi ha molto pianto», e lo abbraccia stando col capo sul petto di Gesù.
«Non ha che molto parlato, come io non ho che molto camminato e preso fresco», dice Giuda nervoso.
E Gesù, senza rispondere a lui, dice a Giovanni: «Tu mi conosci ormai… e sai cosa è che mi stanca…».
13 L’agnello è quasi consumato.
Gesù, che ha mangiato pochissimo, bevendo solo un sorso di vino ad ogni calice e bevendo in compenso
molt’acqua come fosse febbrile, riprende a parlare: «Voglio che voi comprendiate il mio gesto di dianzi. Vi ho detto che il primo è come l’ultimo e che vi darò un cibo non corporale. Un cibo di umiltà vi ho dato. Per lo spirito vostro. Voi chiamate Me: Maestro e Signore. Dite bene, perché tale Io sono. Se dunque Io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete farvelo l’un l’altro. Io vi ho dato l’esempio affinché, come Io ho fatto, voi facciate. In verità vi dico: il servo non è da più del padrone, né l’apostolo è più di Colui che tale lo ha fatto. Cercate di comprendere queste cose. Se poi, comprendendole, le metterete in pratica, sarete beati. Ma non sarete tutti beati. Io vi conosco. So chi ho scelto. Non parlo di tutti ad un modo. Ma dico ciò che è vero. D’altra parte, deve compiersi ciò che è scritto a mio riguardo: (Salmo 41, 10) “Colui che mangia il pane con Me ha levato il suo calcagno su Me”. Tutto Io vi dico prima che avvenga, perché non abbiate dubbi su Me. Quando tutto sarà compiuto, voi crederete ancor più che Io sono Io. Chi accoglie Me accoglie Colui che mi ha mandato: il Padre santo che è nei Cieli; e chi accoglierà coloro che Io manderò, accoglierà Me stesso. Perché Io sono col Padre e voi siete con Me… Ma ora compiamo il rito».
Versa di nuovo vino nel calice comune e, prima di berne e di farne bere, si alza, e con Lui si alzano tutti, e canta di nuovo uno dei salmi di prima: «Ebbi fede e per questo parlai…», e poi uno che non finisce mai. Bello… ma eterno! Credo di ritrovarlo per l’inizio e la lunghezza, nel salmo 119. Lo cantano così. Un pezzo tutti insieme. Poi, a turno, uno ne dice un distico e gli altri insieme un pezzo, e così via sino alla fine. Lo credo che alla fine abbiano sete!
14 Gesù si siede. Non si mette sdraiato. Resta seduto, come noi. E parla: «Ora che l’antico rito è compiuto, Io celebro il nuovo rito. Vi ho promesso un miracolo d’amore. È l’ora di farlo. Per questo ho desiderato questa Pasqua. Da ora in poi questo è l’ostia che sarà consumata in perpetuo rito d’amore. Vi ho amato per tutta la vita della Terra, amici diletti. Vi ho amato per tutta l’eternità, figli miei. E amare vi voglio sino alla fine. Non vi è cosa più grande di questa. Ricordatevelo. Io me ne vado. Ma resteremo per sempre uniti mediante il miracolo che ora Io compio».
Gesù prende un pane ancora intiero, lo pone sul calice colmo. Benedice e offre questo e quello, poi spezza il pane e ne prende tredici pezzi e ne dà uno per uno agli apostoli dicendo: «Prendete e mangiate. Questo è il mio Corpo. Fate questo in memoria di Me che me ne vado». Dà il calice e dice: «Prendete e bevete. Questo è il mio Sangue. Questo è il calice del nuovo patto nel Sangue e per il Sangue mio, che sarà sparso per voi per la remissione dei vostri peccati e per darvi la Vita. Fate questo in memoria di Me».
Gesù è tristissimo. Ogni sorriso, ogni traccia di luce, di colore lo hanno abbandonato. Ha già un volto d’agonia. Gli apostoli lo guardano angosciati.
15 Gesù si alza dicendo: «Non vi muovete. Torno subito». Prende il tredicesimo pezzetto di pane, prende il calice ed esce dal Cenacolo.
«Va dalla Madre», sussurra Giovanni.
E Giuda Taddeo sospira: «Misera donna! ».
Pietro chiede in un soffio: «Credi che sappia?».
«Tutto sa. Tutto ha sempre saputo».
Parlano tutti a voce bassissima, come davanti ad un morto.
«Ma credete che proprio…», chiede Tommaso che non vuole ancora credere.
«E ne hai dubbi? È la sua ora», risponde Giacomo di Zebedeo.
«Dio ci dia la forza di essere fedeli», dice lo Zelote.
«Oh! io…» , sta per parlare Pietro.
Ma Giovanni, che è all’erta, dice: «Sss. È qui».
Gesù rientra. Ha in mano il calice vuoto. Appena sul fondo vi è un’ombra di vino, e sotto la luce del lampadario pare proprio sangue.
Giuda Iscariota, che ha davanti il calice, lo guarda come affascinato e poi ne torce lo sguardo.
Gesù l’osserva ed ha un brivido che Giovanni, appoggiato come è al suo petto, sente. «Ma dillo! Tu tremi…», esclama.
«No. Non tremo per febbre…
16 Io tutto vi ho detto e tutto vi ho dato. Di più non potevo darvi. Me stesso vi ho dato». Ha il suo dolce gesto delle mani che, prima congiunte, ora si disgiungono e si allargano, mentre la testa si china come per dire: «Scusate se non posso di più. Così è».
«Tutto vi ho detto e tutto vi ho dato. E ripeto. Il nuovo rito è compiuto. Fate questo in memoria di Me. Io vi ho lavato i piedi per insegnarvi ad essere umili e puri come il Maestro vostro. Perché in verità vi dico che, come è il Maestro, così devono essere i discepoli. Ricordatelo, ricordatelo. Anche quando sarete in alto, ricordatelo. Non vi è discepolo da più del Maestro. Come Io vi ho lavato, voi fatelo fra voi. Ossia amatevi come fratelli, aiutandovi l’un l’altro, venerandovi a vicenda, essendo l’un coll’altro d’esempio. E siate puri. Per essere degni di mangiare il Pane vivo disceso dal Cielo ed avere in voi e per Esso la forza d’essere i miei discepoli nel mondo nemico, che vi odierà per il mio Nome. Ma uno di voi non è puro. Uno di voi mi tradirà. Di questo sono fortemente conturbato nello spirito… La mano di colui che mi tradisce è meco su questa tavola, e non il mio amore, non il mio Corpo e il mio Sangue, non la mia parola lo ravvedono e lo fanno pentito. Io lo perdonerei, andando alla morte anche per lui».
I discepoli si guardano esterrefatti. Si scrutano, in sospetto l’un dell’altro. Pietro fissa l’Iscariota in un risveglio di tutti i suoi dubbi. Giuda Taddeo scatta in piedi per guardare a sua volta l’Iscariota al disopra del corpo di Matteo.
Ma l’Iscariota è così sicuro! A sua volta guarda fisso Matteo come sospettasse di lui. Poi fissa Gesù e sorride chiedendo: «Son forse io quello?». Pare il più sicuro della sua onestà e che dica così, tanto per non lasciare cadere la conversazione.
Gesù ripete il suo gesto dicendo: «Tu lo dici, Giuda di Simone. Non Io. Tu lo dici. Io non ti ho nominato. Perché ti accusi? Interroga il tuo interno ammonitore, la tua coscienza di uomo, la coscienza che Dio Padre ti ha data per condurti da uomo, e senti se ti accusa. Tu lo saprai prima di tutti. Ma se essa ti rassicura, perché dici una parola e pensi un fatto che è anatema anche a dirlo o a pensarlo per gioco?».
Gesù parla con calma. Sembra sostenga la tesi proposta come lo può fare un dotto alla sua scolaresca. Il subbuglio è forte. Ma la calma di Gesù lo placa.
17 Però Pietro, che è il più sospettoso di Giuda – forse lo è anche il Taddeo, ma lo pare meno, disarmato come è dalla disinvoltura dell’Iscariota – tira Giovanni per la manica e quando Giovanni, che si è tutto stretto a Gesù udendo parlare di tradimento, si volge, gli sussurra: «Chiedigli chi è».
Giovanni riprende la sua posizione, solo alza lievemente il capo come per baciare Gesù, e intanto gli mormora all’orecchio: «Maestro, chi è?».
E Gesù pianissimo, rendendogli il bacio fra i capelli: «Colui a cui darò un pezzo di pane intinto».
E preso un pane ancora intero, non il resto di quello usato per l’Eucarestia, ne stacca un grosso boccone, lo intinge nel succo lasciato dall’agnello nel vassoio, allunga al disopra della tavola il braccio e dice: «Prendi, Giuda. Questo a te piace».
«Grazie, Maestro. Mi piace, sì», e ignaro di ciò che è quel boccone se lo mangia, mentre Giovanni, inorridito, chiude persino gli occhi per non vedere l’orrido riso dell’Iscariota mentre coi denti forti morde il pane accusatore.
«Bene. Ora che ti ho fatto felice, va’», dice Gesù a Giuda. «Tutto è compiuto qui (marca molto la parola). Quello che resta ancora da fare altrove fàllo presto, Giuda di Simone».
«Ti ubbidisco subito, Maestro. Poi ti raggiungerò al Getsemani. Vai là, vero? Come sempre?».
«Vado là… come sempre… sì».
«Che ha da fare?», chiede Pietro. «Va solo?».
«Non sono un pargolo», motteggia Giuda che si sta mettendo il mantello.
«Lascialo andare. Io e lui sappiamo ciò che si deve fare», dice Gesù.
«Sì, Maestro». Pietro tace. Forse pensa di avere peccato di sospetto verso il compagno. Con la mano sulla fronte, pensa. Gesù si stringe al cuore Giovanni e torna a sussurrargli fra i capelli: «Non dire nulla a Pietro, per ora. Sarebbe un inutile scandalo».
«Addio, Maestro. Addio, amici». Giuda saluta. «Addio», dice Gesù.
E Pietro: «Ti saluto, ragazzo».
Giovanni, col capo quasi nel grembo di Gesù, mormora: «Satana! ». Solo Gesù l’ode e sospira.
Qui mi cessa tutto, ma Gesù dice: «Sospendo per pietà di te.
Ti darò la fine della Cena in altro momento».
18 (continua la Cena)
Vi è qualche minuto di assoluto silenzio. Gesù sta a capo chino, carezzando macchinalmente i capelli biondi di Giovanni.
Poi si scuote. Alza la testa, gira lo sguardo, ha un sorriso che conforta i discepoli. Dice: «Lasciamo la tavola. E sediamo tutti ben vicini, come tanti figli intorno al padre».
Prendono i letti-sedili che erano dietro la tavola (quelli di Gesù, Giovanni, Giacomo, Pietro, Simone, Andrea
ed il cugino Giacomo) e li portano dall’altro lato.
Gesù prende posto sul suo, sempre fra Giacomo e Giovanni. Ma, quando vede che Andrea sta per sedersi al posto lasciato dall’Iscariota, grida: «No, là no». Un grido impulsivo, che la sua somma prudenza non riesce a impedire. Poi modifica dicendo così: «Non occorre tanto spazio. Stando seduti, si può stare su questi soli. Bastano. Vi voglio molto vicini».
Ora, rispetto alla tavola, sono messi in forma ad U con Gesù al centro e avendo di fronte la tavola, spoglia di vivande ormai, e il posto di Giuda.
Giacomo di Zebedeo chiama Pietro: «Siediti qui. Io mi siedo su questo sgabelletto, ai piedi di Gesù».
«Che Dio ti benedica, Giacomo! Ne avevo tanta voglia!», dice Pietro e si serra al suo Maestro, che è così fra la stretta di Giovanni e Pietro, avendo ai piedi Giacomo.
Gesù sorride:
«Vedo che comincia ad operare la parola detta prima. I buoni fratelli si amano. Anche Io ti dico, Giacomo: “Che Dio ti benedica”. Anche questo tuo atto non sarà dimenticato dall’Eterno e lo troverai lassù.
19 “Tutto Io posso di quanto Io chiedo. Voi lo avete visto. È bastato un mio desiderio perché il Padre concedesse al Figlio di darsi in Cibo all’uomo. Con quanto è accaduto adesso è stato glorificato il Figlio dell’uomo, perché è testimonianza di potere il miracolo che non è che possibile agli amici di Dio. Più è grande il miracolo e più è sicura e profonda questa divina amicizia. Questo è un miracolo che, per la sua forma, durata e natura, per gli estremi di esso ed i limiti che tocca, più forte non ce ne può essere. Io ve lo dico: tanto è potente, soprannaturale, inconcepibile all’uomo superbo, che ben pochi lo comprenderanno come va compreso, e molti lo negheranno. Che dirò allora? Condanna per loro? No. Dirò: pietà!
Ma più grande è il miracolo, più grande è la gloria che all’autore dello stesso viene. È Dio stesso che dice: “Ecco, questo mio diletto ciò che ha voluto ha avuto, ed Io l’ho concesso perché egli ha grande grazia agli occhi miei”. E qui dice: “Ha una grazia senza limiti così come è infinito il miracolo da Lui compiuto”. Parimenti alla gloria che si riversa sull’autore del miracolo da parte di Dio è la gloria che da esso autore si riversa sul Padre. Perché ogni gloria soprannaturale, essendo veniente da Dio, alla sua sorgente ritorna. E la gloria di Dio, per quanto già infinita, sempre più si aumenta e sfavilla perla gloria dei suoi santi. Onde Io dico: come è stato glorificato il Figlio dell’uomo da Dio, così Dio è stato glorificato dal Figlio dell’uomo. Io ho glorificato Dio in Me stesso. A sua volta, Dio glorificherà il suo Figlio in Lui. Ben presto lo glorificherà.
20 Esulta, Tu che torni alla tua Sede, o Essenza spirituale della Seconda Persona! Esulta, o Carne che torni ad ascendere dopo tanto esilio nel fango! E non già il Paradiso d’Adamo, ma l’eccelso Paradiso del Padre sta per esserti dato a dimora. Ché, se è stato detto che per lo stupore di un comando di Dio (Giosuè 10, 12-14), dato per bocca di un uomo, si arrestò il sole, che non avverrà negli astri quando vedranno il prodigio della Carne dell’Uomo ascendere e sedersi alla destra del Padre nella sua Perfezione di materia glorificata?
Figliolini miei, per poco ancora Io resto con voi. E voi, dopo, mi cercherete come gli orfani cercano il morto genitore. E piangendo andrete parlando di Lui e picchierete invano al muto sepolcro, e poi ancora picchierete alle porte azzurre dei Cieli, con l’anima vostra lanciata in supplice ricerca d’amore, dicendo: “Dove il nostro Gesù? Lo vogliamo. Senza Lui non è più luce nel mondo, non letizia, né amore. O ce lo rendete, oppure lasciateci entrare. Noi vogliamo essere dove Egli è”. Ma non potete per ora venire dove Io vado. L’ho detto anche ai giudei: (Vedi Vol 7 Cap 488) “Poi mi cercherete, ma dove Io vado voi non potete venire”. Lo dico anche a voi.
21 Pensate alla Madre… Neppure Lei potrà venire dove Io vado. Eppure Io ho lasciato il Padre per venire a Lei e farmi Gesù nel suo seno senza macchia. Eppure dall’Inviolata Io sono venuto, nell’estasi luminosa del mio Natale. E del suo amore, divenuto latte, mi sono nutrito. Io sono fatto di purità e di amore perché Maria mi ha nutrito della sua verginità fecondata dall’Amore perfetto che vive in Cielo. Eppure per Lei Io sono cresciuto, costandole fatiche e lacrime… Eppure Io le chiedo un eroismo quale mai fu compito, e rispetto al quale quello di Giuditta e Giaele sono eroismi di povere femmine contrastanti colla rivale presso la fonte del paese. Eppure nessuno pari a Lei è nell’amarmi. E, ciononostate, Io la lascio e vado dove Lei non verrà che fra molto tempo. Per Lei non è il comando che do a voi: “Santificatevi anno per anno, mese per mese, giorno per giorno, ora per ora, per potere venire a Me quando sarà la vostra ora”. In Lei è ogni grazia e santità. È la creatura che ha tutto avuto e che tutto ha dato. Nulla vi è da aggiungere o da levare. È la santissima testimonianza di ciò che può Iddio.
22 Ma per essere certo che in voi sia capacità di potermi raggiungere e di dimenticare il dolore del lutto della separazione daI vostro Gesù, Io vi do un comandamento nuovo. Ed è che vi amiate gli uni con gli altri. Così come Io ho amato voi, ugualmente voi amatevi l’uno con l’altro. Da questo si conoscerà che siete miei discepoli. Quando un padre ha molti figli, da che si conosce che tali sono? Non tanto per l’aspetto fisico – perché vi sono uomini che sono in tutto simili ad un altro uomo, col quale non vi è nessun rapporto di sangue e neppure di nazione – quanto per il comune amore alla famiglia, al padre loro, e fra loro. Ed anche morto il padre non si disgrega la buona famiglia, perché il sangue è uno ed è sempre quello avuto dal seme del padre, e annoda legami che neppure la morte scioglie, perché più forte della morte è l’amore. Ora, se voi vi amerete anche dopo che Io vi avrò lasciati, tutti riconosceranno che voi siete miei figli, e perciò miei discepoli, e fra voi fratelli avendo avuto un unico padre».
23 «Signore Gesù, ma dove vai?», chiede Pietro.
«Vado dove tu per ora non mi puoi seguire. Ma più tardi mi seguirai».
«E perché non adesso? Ti ho seguito sempre da quando Tu mi hai detto: “Seguimi”. Ho tutto lasciato senza rimpianto… Ora, andartene senza il tuo povero Simone, lasciandomi privo di Te, mio Tutto, dopo che per Te ho lasciato il mio poco bene di prima, non è giusto né bello da parte tua. Vai alla morte? Sta bene. Ma io pu-re vengo. Andremo insieme nell’altro mondo. Ma prima ti avrò difeso. Io sono pronto a dare la vita per Te».
«Tu darai la tua vita per Me? Ora? Ora no. In verità – oh! che in verità te lo dico – non avrà ancora cantato il gallo che tu mi avrai rinnegato tre volte. Ora è ancora la prima vigilia. Poi verrà la seconda… e poi la terza. Prima che scocchi il gallicinio, tu avrai per tre volte rinnegato il tuo Signore».
«Impossibile, Maestro! Credo a tutto ciò che dici. Ma non a questo. Sono sicuro di me».
«Ora, per ora sei sicuro. Ma perché ora hai ancora Me. Hai con te Iddio. Fra poco l’incarnato Iddio sarà preso e non l’avrete più. E Satana, dopo avervi già appesantiti – la tua stessa sicurezza è una astuzia di Satana, zavorra per appesantirti – vi spaurirà. Vi insinuerà: “Dio non è. Io sono”. E siccome, per quanto ottusi dallo spavento, ancora ragionerete, voi capirete che quando è Satana il padrone dell’ora è morto il Bene ed è operante il Male, abbattuto lo spirito e trionfante l’umano. Allora resterete come guerrieri senza duce, inseguiti dal nemico, e nello sbigottimento dei vinti curverete le schiene al vincitore, e per non essere uccisi rinnegherete il caduto eroe.
24 Ma, ve ne prego. Il vostro cuore non si turbi. Credete in Dio. E credete anche in Me. Contro tutte le apparenze, credete in Me. Creda nella mia misericordia e in quella del Padre tanto colui che resta come colui che fugge. Tanto colui che tace come colui che aprirà la bocca per dire: “Io non lo conosco”. Ugualmente credete nel mio perdono. E credete che, quali che siano in futuro le vostre azioni, nel Bene e nella mia Dottrina, nella mia Chiesa perciò, esse vi daranno un uguale posto in Cielo.
Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se così non fosse, Io ve lo avrei detto. Perché Io vado avanti. A preparare un posto per voi. Non fanno forse così i buoni padri quando devono portare altrove la loro piccola prole? Vanno avanti, preparano la casa, le suppellettili, le provviste. E poi tornano a prendere le loro creature più care. Così fanno per amore. Perché ai piccoli nulla manchi, e non provino disagio nel nuovo paese. Ugualmente così Io faccio. E per lo stesso motivo. Ora vado. E quando avrò preparato ad ognuno il posto nella Gerusalemme celeste, verrò di nuovo, vi prenderò con Me perché siate con Me dove Io sono, dove non ci sarà più né morte, né lutti, né lacrime, né grida, né fame, né dolore, né tenebre, né arsione, ma solo luce, pace, beatitudine e canto.
Oh! canto dei Cieli altissimi quando i dodici eletti saranno sui troni coi dodici patriarchi delle tribù d’Israele, e nell’ardenza del fuoco dell’amore spirituale canteranno, eretti sul mare della beatitudine, il cantico eterno che avrà ad arpeggio l’eterno alleluia dell’esercito angelico…
25 Io voglio che dove Io sarò voi siate. E voi sapete dove Io vado e ne conoscete la via».
«Ma Signore! Noi non sappiamo nulla. Tu non ci dici dove vai. Come possiamo noi sapere la via da prendere per venire verso Te e abbreviare l’attesa?», chiede Tommaso.
«Io sono la Via, la Verità, la Vita. Me lo avete sentito dire e spiegare più volte, ed in verità alcuni, che neppure sapevano esservi un Dio, si sono incamminati avanti, per la mia via, e sono già avanti di voi. Oh! dove sei tu, pecora spersa di Dio che Io ho ricondotta all’ovile? E dove tu, risorta d’anima?».
«Chi? Di chi parli? Di Maria di Lazzaro? È di là, con tua Madre. La vuoi? O vuoi Giovanna? Certo è nel suo palazzo. Ma, se vuoi, te l’andiamo a chiamare…».
«No. Non loro… Penso a quella che sarà disvelata solo in Cielo… e a Fotinai…. Esse mi hanno trovato. E non hanno più lasciato la mia via. Ad una ho indicato il Padre come Dio vero e lo spirito come levita in questa individuale adorazione. All’altra, che neppur sapeva di avere uno spirito, ho detto: “Il mio nome è Salvatore, salvo chi ha buona volontà di salvarsi. Io sono Colui che cerca i perduti, che dà la Vita, la Verità e la Purezza. Chi mi cerca mi trova”. E ambedue hanno trovato Iddio… Vi benedico, deboli Eve divenute più forti di Giuditta… Vengo, dove voi siete vengo… Voi mi consolate… Siate benedette!… ».
26 «Mostraci il Padre, Signore, e saremo pari a queste», dice Filippo.
«Da tanto tempo Io sono con voi, e tu, Filippo, non mi hai ancora conosciuto? Chi vede Me vede il Padre mio. Come puoi dunque dire: “Mostraci il Padre”? Non riesci a credere che Io sono nel Padre e il Padre è in Me? Le parole che Io vi dico non le dico da Me. Ma il Padre che dimora in Me compie ogni mia opera. E voi non credete che Io sono nel Padre e Lui è in Me? Che devo dire per farvi credere? Ma se non credete alle parole, credete almeno alle opere.
Io vi dico, e ve lo dico con verità: chi crede in Me farà le opere che Io faccio, e ancor di maggiori ne farà, perché Io vado al Padre. E tutto quanto domanderete al Padre in mio nome Io lo farò, perché il Padre sia glorificato nel suo Figlio. E farò quanto mi domanderete in nome del mio Nome. Il mio Nome è noto, per quello che realmente è, a Me solo, al Padre che mi ha generato e allo Spirito che dal nostro amore procede. E per quel Nome tutto è possibile. Chi pensa al mio Nome con amore mi ama e ottiene.
Ma non basta amare Me, occorre osservare i miei comandamenti per avere il vero amore. Sono le opere
quelle che testificano dei sentimenti. E per questo amore Io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro Consolatore che resti per sempre con voi, Uno su cui Satana e il mondo non può infierire, lo Spirito di Verità che il mondo non può ricevere e non può colpire, perché non lo vede e non lo conosce. Lo deriderà. Ma Egli è tanto eccelso che lo scherno non lo potrà ferire, mentre, pietosissimo sopra ogni misura, sarà sempre con chi lo ama, anche se povero e debole. Voi lo conoscerete, perché già dimora con voi e presto sarà in voi.
27 Io non vi lascerò orfani. Già ve l’ho detto: “Ritornerò a voi”. Ma, prima che sia l’ora di venirvi a prendere per andare nel mio Regno, Io verrò. A voi verrò. Fra poco il mondo non mi vedrà più. Ma voi mi vedete e mi vedrete. Perché Io vivo e voi vivete. Perché Io vivrò e voi pure vivrete. In quel giorno voi conoscerete che Io sono nel Padre mio, e voi in Me ed Io in voi. Perché chi accoglie i miei precetti e li osserva, quello è colui che mi ama, e colui che mi ama sarà amato dal Padre mio e possederà Iddio, perché Dio è carità e chi ama ha in sé Dio. Ed Io lo amerò, perché in lui vedrò Iddio, e mi manifesterò a lui facendomi conoscere nei segreti del mio amore, della mia sapienza, della mia Divinità incarnata. Saranno i miei ritorni fra i figli dell’uomo, che Io amo nonostante siano deboli e anche nemici. Ma costoro saranno solo deboli. Ed Io li fortificherò; dirò loro: “Sorgi!”, dirò: “Vieni fuori!”, dirò: “Seguimi”, dirò: “Odi”, dirò: “Scrivi”… e voi siete fra questi».
«Perché, Signore, Tu ti manifesti a noi e non al mondo?», chiede Giuda Taddeo.
«Perché mi amate e osservate le mie parole. Chi così farà, sarà amato dal Padre e Noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui, in lui. Mentre chi non mi ama non osserva le mie parole e fa secondo la carne e il mondo. Ora sappiate che ciò che Io vi ho detto non è parola di Gesù Nazareno ma parola del Padre, perché Io sono il Verbo del Padre che mi ha mandato. Io vi ho detto queste cose parlando così, con voi, perché voglio lo stesso prepararvi al possesso completo della Verità e Sapienza. Ma ancora non potete capire né ricordare. Però, quando verrà a voi il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà in mio Nome, allora voi potrete capire, ed Egli tutto vi insegnerà, e vi ricorderà quanto Io vi ho detto.
28 Io vi lascio la mia pace. Io vi do la mia pace. Ve la do non come la dà il mondo. E neppure come fino ad ora ve l’ho data: saluto benedetto del Benedetto ai benedetti. Più profonda è la pace che ora vi do. In questo addio. Io vi comunico Me stesso, il mio Spirito di pace, così come vi ho comunicato il mio Corpo e il mio Sangue, perché in voi resti una forza nella imminente battaglia. Satana e il mondo sferrano guerra al vostro Gesù. È la loro ora. Abbiate in voi la Pace, il mio Spirito che è spirito di pace, perché Io sono il Re della pace. Abbiatela per non essere troppo derelitti. Chi soffre con la pace di Dio in sé soffre, ma non bestemmia e dispera.
Non piangete. Avete pure sentito che ho detto: “Vado al Padre e poi tornerò”. Se mi amaste sopra la carne, vi rallegrereste, perché Io vado dal Padre dopo tanto esilio… Vado da Colui che è maggiore di Me e che mi ama. Io ve l’ho detto ora, prima che ciò si compia, così come vi ho detto tutte le sofferenze del Redentore prima di andare ad esse, affinché, quando tutto si compia, voi crediate sempre più in Me. Non turbatevi così! Non sgomentatevi. Il vostro cuore ha bisogno di equilibrio…
29 Poco più ho da parlarvi… e ancora tanto ho da dire! Giunto al termine di questa mia evangelizzazione, mi pare di non avere ancora nulla detto e che tanto, tanto, tanto ancora resti da fare. Il vostro stato aumenta questa mia sensazione. E che dirò allora? Che Io ho mancato al mio ufficio? O che voi siete così duri di cuore che a nulla esso è valso? Dubiterò? No. Mi affido a Dio, e a Lui affido voi, miei diletti. Egli compirà l’opera del suo Verbo. Non sono come un padre che muore e non ha altra luce che l’umana. Io spero in Dio. E pure sentendo in Me urgere tutti i consigli di cui vi vedo bisognosi e sentendo fuggire il tempo, vado tranquillo alla mia sorte. So che sui semi caduti in voi sta per scendere una rugiada che li farà tutti germogliare, e poi verrà il sole del Paraclito, ed essi diverranno albero potente. Sta per venire il principe di questo mondo, colui col quale Io non ho nulla a che fare. E, se non fosse per fine di redenzione, non avrebbe potuto nulla su Me. Ma ciò avviene affinché il mondo conosca che Io amo il Padre e lo amo fino alla ubbidienza di morte, e perciò faccio ciò che mi ha ordinato.
30 È l’ora di andare. Alzatevi. E udite le ultime parole.
Io sono la vera Vite. Il Padre ne è il Coltivatore. Ogni tralcio che non porta frutto Egli lo recide e quello che porta frutto lo pota perché ne porti più ancora. Voi siete già purificati per la mia parola. Rimanete in Me ed Io in voi per continuare ad essere tali. Il tralcio staccato dalla vite non può fare frutto. Così voi se non rimanete in Me. Io sono la Vite e voi i tralci. Colui che resta unito a Me porta abbondanti frutti. Ma se uno si stacca diviene ramo secco e viene buttato nel fuoco e là brucia. Perché, senza l’unione con Me, voi nulla potete fare. Rimanete dunque in Me e le mie parole restino in voi, poi domandate quanto volete e vi sarà fatto. Il Padre mio sarà sempre più glorificato quanto più voi porterete frutto e sarete miei discepoli.
31 Come il Padre mi ha amato, così Io con voi. Rimanete nel mio amore che salva. Amandomi sarete ubbidienti, e l’ubbidienza aumenta il reciproco amore. Non dite che Io mi ripeto. So la vostra debolezza. E voglio che vi salviate. Io vi dico queste cose perché la gioia che vi ho voluto dare sia in voi e sia completa. Amatevi, amatevi! Questo è il mio comandamento nuovo. Amatevi scambievolmente più di quanto ognuno ami se stesso. Non vi è maggior amore di quello di colui che dà la sua vita per i suoi amici. Voi siete i miei amici ed Io do la vita per voi. Fate ciò che Io vi insegno e comando.
Non vi chiamo più servi. Perché il servo non sa ciò che fa il suo padrone, mentre voi sapete ciò che Io faccio. Tutto di Me sapete. Vi ho manifestato non solo Me stesso, ma anche il Padre ed il Paraclito e tutto quanto ho sentito da Dio.
Non siete stati voi che vi siete scelti. Ma Io vi ho scelti e vi ho eletti, perché andiate fra i popoli, e facciate frutto in voi e nei cuori degli evangelizzati, e il vostro frutto rimanga e il Padre vi dia tutto ciò che gli chiederete in mio Nome.
32 Non dite: “E allora, se Tu ci hai scelti, perché hai scelto un traditore? Se tutto Tu sai, perché hai fatto questo?”. Non chiedetevi neppure chi è costui. Non è un uomo. È Satana. L’ho detto all’amico fedele e l’ho lasciato dire dal figlio diletto. È Satana. Se Satana non si fosse incarnato, l’eterno scimmiottatore di Dio, in una carne mortale, questo posseduto non avrebbe potuto sfuggire al mio potere di Gesù. Ho detto: “posseduto”. No. È molto di più: è un annullato in Satana».
«Perché, Tu che hai cacciato i demoni, non lo hai liberato?», chiede Giacomo d’Alfeo.
«Lo chiedi per amore di te, temendo essere tu quello? Non lo temere».
«Io, allora?».
«Io?».
«Io?».
«Tacete. Non dico quel nome. Uso misericordia e voi fate ugualmente».
«Ma perché non lo hai vinto? Non potevi?».
«Potevo. Ma, per impedire a Satana di incarnarsi per uccidermi, avrei dovuto sterminare la razza dell’uomo avanti la Redenzione. Che avrei allora redento?».
«Dimmelo, Signore, dimmelo! ». Pietro è scivolato in ginocchio e scuote freneticamente Gesù come fosse in preda a delirio. «Sono io? Sono io? Mi esamino? Non mi pare. Ma Tu… Tu hai detto che ti rinnegherò… Ed io tremo… Oh! che orrore essere io!…».
«No, Simone di Giona. Non tu».
«Perché mi hai levato il mio nome di “Pietra”? Sono dunque tornato Simone? Lo vedi? Tu lo dici! … Sono io! Ma come ho potuto? Ditelo… ditelo voi… Quando è che ho potuto divenire traditore?… Simone?… Giovanni?… Ma parlate!…».
«Pietro, Pietro, Pietro! Ti chiamo Simone perché penso al primo incontro, quando eri Simone. E penso come sei sempre stato leale dal primo momento. Non sei tu. Lo dico Io: Verità».
«Chi, allora?».
«Ma è Giuda di Keriot! Non lo hai ancora capito?», urla il Taddeo che non riesce più a contenersi.
«Perché non me lo hai detto prima? Perché?», urla anche Pietro.
«Silenzio. È Satana. Non ha altro nome. Dove vai, Pietro?».
«A cercarlo».
«Posa subito quel mantello e quell’arma. O ti devo scacciare e maledire?».
«No, no! Oh! Signor mio! Ma io… ma io… Sono forse malato di delirio, io? Oh! Oh!». Pietro piange, gettato per terra ai piedi di Gesù.
33 «Io vi do comando di amarvi. E di perdonare. Avete capito? Se anche nel mondo è l’odio, in voi sia solo l’amore. Per tutti. Quanti traditori troverete sulla vostra via! Ma non li dovete odiare e rendere loro male per male. Altrimenti il Padre odierà voi. Prima di voi fui odiato e tradito Io. Eppure, voi lo vedete, Io non odio. Il mondo non può amare ciò che non è come esso. Perciò non vi amerà. Se foste suoi, vi amerebbe; ma non siete del mondo, avendovi Io presi da mezzo al mondo. E per questo siete odiati.
Vi ho detto: il servo non è da più del padrone. Se hanno perseguitato Me, perseguiteranno voi pure. Se avranno ascoltato Me, ascolteranno pure voi. Ma tutto faranno per causa del mio Nome, perché non conoscono, non vogliono conoscere Colui che mi ha mandato. Se non fossi venuto e non avessi parlato, non sarebbero colpevoli. Ma ora il loro peccato è senza scusa. Hanno visto le mie opere, udito le mie parole, eppure mi hanno odiato, e con Me il Padre. Perché Io e il Padre siamo una sola Unità con l’Amore. Ma era scritto: (Salmi 35, 19; 69, 5) “Mi odiasti senza ragione”. Però, quando sarà venuto il Consolatore, lo Spirito di verità che dal Padre procede, sarà da Lui resa testimonianza di Me, e voi pure mi testimonierete, perché dal principio foste con Me.
Questo vi dico perché, quando sarà l’ora, non rimaniate accasciati e scandalizzati. Sta per venire il tempo in cui vi cacceranno dalle sinagoghe e in cui chi vi ucciderà penserà di fare culto a Dio con ciò. Non hanno conosciuto né il Padre né Me. In ciò è la loro scusante. Non ve le ho dette così ampie prima di ora, queste cose, perché eravate come bambini pur mo’ nati. Ma ora la madre vi lascia. Io vado. Dovete assuefarvi ad altro cibo. Voglio lo conosciate.
34 Nessuno più mi chiede: “Dove vai?”. La tristezza vi fa muti. Eppure è bene anche per voi che Io me ne vada. Altrimenti non verrà il Consolatore. Io ve lo manderò. E quando sarà venuto, attraverso la sapienza e la parola, le opere e l’eroismo che infonderà in voi, convincerà il mondo del suo peccato deicida e di giustizia sulla mia santità. E il mondo sarà nettamente diviso nei reprobi, nemici di Dio, e nei credenti. Questi saranno più o meno santi, a seconda del loro volere. Ma il giudizio del principe del mondo e dei suoi servi sarà fatto. Di più non posso dirvi, perché ancora non potete intendere. Ma Egli, il divino Paraclito, vi darà la Verità intera, perché non parlerà di Se stesso. Ma dirà tutto quello che avrà udito dalla Mente di Dio e vi annunzierà il futuro. Prenderà ciò che da Me viene, ossia ciò che ancora è del Padre, e ve lo dirà.
Ancora un poco da vedersi. Poi non mi vedrete più. E poi ancora un poco, e poi mi vedrete.
35 Voi mormorate fra voi ed in cuor vostro. Udite una parabola. L’ultima del vostro Maestro.
Quando una donna ha concepito e giunge all’ora del parto, è in grande afflizione perché soffre e geme. Ma quando il piccolo figlio è dato alla luce ed ella lo stringe sul cuore, ogni pena cessa e la tristezza si muta in gioia, perché un uomo è venuto al mondo.
Così voi. Voi piangerete e il mondo riderà di voi. Ma poi la vostra tristezza si muterà in gioia. Una gioia che il mondo mai conoscerà. Voi ora siete tristi. Ma, quando mi rivedrete, il vostro cuore diverrà pieno di un gaudio che nessuno avrà più potere di rapirvi. Una gioia così piena che vi offuscherà ogni bisogno di chiedere e per la mente e per il cuore e per la carne. Solo vi pascerete di rivedermi, dimenticando ogni altra cosa. Ma proprio da allora potrete tutto chiedere in mio Nome, e vi sarà dato dal Padre perché abbiate sempre più gioia. Domandate, domandate. E riceverete.
Viene l’ora in cui potrò parlarvi apertamente del Padre. Sarà perché sarete stati fedeli nella prova e tutto sarà superato. Perfetto quindi il vostro amore, perché vi avrà dato forza nella prova. E quanto a voi mancherà Io ve lo aggiungerò prendendolo dal mio immenso tesoro e dicendo: “Padre, lo vedi. Essi mi hanno amato credendo che Io venni da Te”. Sceso nel mondo, ora lo lascio e vado al Padre, e pregherò per voi».
36 «Oh! ora Tu ti spieghi. Ora sappiamo ciò che vuoi dire e che Tu sai tutto e rispondi senza che nessuno ti interroghi. Veramente Tu vieni da Dio! ».
«Adesso credete? All’ultima ora? È tre anni che vi parlo! Ma già in voi opera il Pane che è Dio e il Vino che è Sangue non venuto da uomo, e vi dà il primo brivido di deificazione. Voi diverrete dèi se sarete perseveranti nel mio amore e nel mio possesso. Non come lo disse Satana ad Adamo ed Eva, ma come Io ve lo dico. È il vero frutto dell’albero del Bene e della Vita. Il Male è vinto in chi se ne pasce, ed è morta la Morte. Chi ne mangia vivrà in eterno e diverrà “dio” nel Regno di Dio. Voi sarete dèi se permarrete in Me. Eppure ecco… pur avendo in voi questo Pane e questo Sangue, poiché sta venendo l’ora in cui sarete dispersi, voi ve ne andrete per vostro conto e mi lascerete solo… Ma non sono solo. Ho il Padre con Me. Padre, Padre! Non mi abbandonare! Tutto vi ho detto… Per darvi pace. La mia pace. Ancora sarete oppressi. Ma abbiate fede. Io ho vinto il mondo».
37 Gesù si alza, apre le braccia in croce e dice con volto luminoso la sublime preghiera al Padre. Giovanni la riporta integralmente. (Nel suo Vangelo: Giovanni 17).
Gli apostoli lacrimano più o meno palesemente e rumorosamente. Per ultimo cantano un inno.
38 Gesù li benedice. Poi ordina: «Mettiamoci i mantelli, ora. E andiamo. Andrea, di’ al capo di casa di lasciare tutto così, per mio volere. Domani… vi farà piacere rivedere questo luogo». Gesù lo guarda. Pare benedire le pareti, i mobili, tutto. Poi si ammantella e si avvia, seguito dai discepoli.
Al suo fianco è Giovanni, al quale si appoggia. «Non saluti la Madre?», gli chiede il figlio di Zebedeo.
«No. È tutto già fatto. Fate, anzi, piano».
Simone, che ha acceso una torcia alla lumiera, illumina l’ampio corridoio che va alla porta. Pietro apre cauto il portone ed escono tutti nella via e poi, facendo giocare un ordigno, chiudono dal di fuori. E si pongono in cammino.
39 Dice Gesù:
«Dall’episodio della Cena, oltre la considerazione della carità di un Dio che si fa Cibo agli uomini, risaltano quattro ammaestramenti principali.
Primo: la necessità per tutti i figli di Dio di ubbidire alla Legge.
La Legge diceva che si doveva per Pasqua consumare l’agnello secondo il rituale dato dall’Altissimo a Mosè, ed Io, Figlio vero del Dio vero, non mi sono riputato, per la mia qualità divina, esente dalla Legge. Ero sulla Terra: Uomo fra gli uomini e Maestro degli uomini. Dovevo perciò fare il mio dovere di uomo verso Dio come e meglio degli altri. I favori divini non esimono dall’ubbidienza e dallo sforzo verso una sempre maggiore santità. Se paragonate la santità più eccelsa alla perfezione divina, la trovate sempre piena di mende, e perciò obbligata a sforzare se stessa per eliminarle e raggiungere un grado di perfezione per quanto più è possibile simile a quello di Dio.
40 Secondo: la potenza della preghiera di Maria.
Io ero Dio fatto Carne. Una Carne che, per essere senza macchia, possedeva la forza spirituale per signoreggiare la carne. Eppure non ricuso, anzi invoco l’aiuto della Piena di Grazia, la quale anche in quell’ora di espiazione avrebbe trovato, è vero, sul suo capo il Cielo chiuso, ma non tanto che non riuscisse a strapparne un angelo, Lei, Regina degli angeli, per il conforto del suo Figlio. Oh! non per Lei, povera Mamma! Anche Lei ha assaporato l’amaro dell’abbandono del Padre, ma per questo suo dolore offerto alla Redenzione m’ha ottenuto di potere superare l’angoscia dell’orto degli Ulivi e di portare a termine la Passione in tutta la sua multiforme asprezza, di cui ognuna era volta a lavare una forma e un mezzo di peccato.
41 Terzo: il dominio su se stessi e la sopportazione dell’offesa, carità sublime su tutte, la possono avere unicamente quelli che fanno vita della loro vita la legge di carità che Io avevo bandita. E non bandita solo, ma praticata realmente.
Cosa sia stato per Me aver meco alla mia tavola il mio Traditore, il dovere darmi ad esso, il dovere umiliarmi ad esso, il dovere dividere con esso il calice di rito e posare le labbra là dove egli le aveva posate, e farle posare a mia Madre, voi non potete pensare. I vostri medici hanno discusso e discutono sulla mia rapida fine e le dànno origine in una lesione cardiaca dovuta alle percosse della flagellazione. Sì, anche per queste il mio cuore divenne malato. Ma lo era già dalla Cena. Spezzato, spezzato nello sforzo di dover subire al mio fianco il mio Traditore. Ho cominciato a morire allora, fisicamente. Il resto non è stato che aumento della già esistente agonia.
Quanto ho potuto fare l’ho fatto perché ero uno con la Carità. Anche nell’ora in cui Dio-Carità si ritirava da Me, ho saputo esser carità, perché ero vissuto, nei miei trentatré anni, di carità. Non si può giungere ad una perfezione, quale si richiede per perdonare e sopportare il nostro offensore, se non si ha l’abito della carità. Io l’avevo, e ho potuto perdonare e sopportare questo capolavoro di Offensore che fu Giuda.
42 Quarto: il Sacramento opera quanto più uno è degno di riceverlo. Se ne è fatto degno con una costante volontà, che spezza la carne e fa signore lo spirito, vincendo le concupiscenze, piegando l’essere alle virtù, tendendolo come arco verso la perfezione delle virtù e soprattutto della carità.
Perché, quando uno ama, tende a far lieto chi ama. Giovanni, che mi amava come nessuno e che era puro, ebbe dal Sacramento il massimo della trasformazione. Cominciò da quel momento ad essere l’aquila, a cui è familiare e facile l’altezza nel Cielo di Dio e l’affissare il Sole eterno. Ma guai a chi riceve il Sacramento senza esserne affatto degno, ma anzi avendo accresciuto la sua sempre umana indegnità con le colpe mortali. Allora esso diviene non germe di preservazione e di vita ma di corruzione e di morte. Morte dello spirito e putrefazione della carne, per cui essa “crepa”, come dice Pietro di quella di Giuda. (Atti 1, 18). Non sparge il sangue, liquido sempre vitale e bello nella sua porpora, ma le sue interiora, nere di tutte le libidini, marciume che si riversa fuori dalla carne marcita come da carogna di animale immondo, oggetto di ribrezzo per i passanti.
La morte del profanatore del Sacramento è sempre la morte di un disperato, e perciò non conosce il placido trapasso proprio di chi è in grazia, né l’eroico trapasso della vittima che soffre acutamente ma con lo sguardo fisso al Cielo e l’anima sicura della pace. La morte del disperato è atroce di contorsioni e di terrori, è una convulsione orrenda dell’anima già ghermita dalla mano di Satana, che la strozza per svellerla dalla carne e che la soffoca col suo nauseabondo fiato.
Questa la differenza fra chi trapassa all’altra vita dopo essersi nutrito in essa di carità, fede, speranza e d’ogni altra virtù e dottrina celeste e del Pane angelico che l’accompagna coi suoi frutti – meglio se con la sua reale presenza – nel viaggio estremo, e chi trapassa dopo una vita di bruto con morte da bruto che la Grazia e il Sacramento non confortano. La prima è la serena fine del santo, a cui la morte apre il Regno eterno. La seconda è la spaventosa caduta del dannato, che si sente precipitare nella morte eterna e conosce in un attimo ciò che ha voluto perdere, né più può riparare. Per uno acquisto, per l’altro spogliamento. Per uno gioia, per l’altro terrore.
Questo è quanto vi date a seconda del vostro credere ed amare, o non credere e deridere il dono mio. E questo è l’insegnamento di questa contemplazione».
Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, noi ci affidiamo a Te!
Il Venerdì Santo possiamo liberare 33 anime dal Purgatorio, ogni venerdì possiamo liberarne 5
Ti adoro o Croce Santa
Ti adoro, o Croce Santa, che fosti ornata del Corpo Sacratissimo del mio Signore, coperta e tinta del suo Preziosissimo Sangue. Ti adoro, mio Dio, posto in croce per me. Ti adoro, o Croce Santa, per amore di Colui che è il mio Signore. Amen.
(Recitata 33 volte il Venerdì Santo, libera 33 Anime del Purgatorio. Recitata 50 volte ogni venerdì, ne libera 5)
Venne confermata dai Papi Adriano VI, Gregorio XIII e Paolo VI).
Scarica il nostro libricino sulla liberazione delle Anime. Scopri tutti i nostri libricini.


Film: La Passione di Cristo
I retroscena, le interviste a Jim Caviezel, le curiosità raccontate da Mel Gibson.
Vangelo Gv 18, 1 -19, 42: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Giovanni
– Catturarono Gesù e lo legarono
In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi. Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
– Lo condussero prima da Anna
Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno. Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».
Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote. Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro. E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono». Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.
Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento. Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto». Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?». Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?». Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.
– Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono!
Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?». Egli lo negò e disse: «Non lo sono». Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?». Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.
– Il mio regno non è di questo mondo
Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?». Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato». Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno». Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?».
E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.
– Salve, re dei Giudei!
Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi.
Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna». Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».
Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».
All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».
– Via! Via! Crocifiggilo!
Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà. Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare». Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.
– Lo crocifissero e con lui altri due
Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».
– Si sono divisi tra loro le mie vesti
I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte». E i soldati fecero così.
– Ecco tuo figlio! Ecco tua madre!
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.
Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.
(Qui si genuflette e di fa una breve pausa)
– E subito ne uscì sangue e acqua
Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».
– Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi
Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato
PASSIONE E MORTE DI GESU’
Cap. DCI. Passione e Morte di Gesù. Introduzione
10 febbraio 1944
1 Dice Gesù:
«Ed ora vieni. Per quanto tu sia questa sera come uno prossimo a spirare, vieni, ché Io ti conduca verso le mie sofferenze. Lungo sarà il cammino che dovremo fare insieme, perché nessun dolore mi fu risparmiato. Non dolore della carne, non della mente, non del cuore, non dello spirito. Tutti li ho assaggiati, di tutti mi sono nutrito, di tutti dissetato, fino a morirne.
Se tu appoggiassi sul mio labbro la tua bocca, sentiresti che essa ancora conserva l’amarezza di tanto dolore. Se tu potessi vedere la mia Umanità nella sua veste, ora fulgida, vedresti che quel fulgore emana dalle mille e mille ferite che coprirono con una veste di porpora viva le mie membra lacerate, dissanguate, percosse, trafitte per amore di voi.
Ora è fulgida la mia Umanità. Ma fu un giorno che fu simile a quella d’un lebbroso, tanto era percossa ed umiliata. L’Uomo-Dio, che aveva in Sé la perfezione della bellezza fisica, perché Figlio di Dio e della Donna senza macchia, apparve allora, agli occhi di chi lo guardava con amore, con curiosità o con occhio sprezzante, brutto: un “verme”, come dice Davide, l’obbrobrio degli uomini, il rifiuto della plebe.
L’amore per il Padre e per le creature del Padre mio mi ha portato ad abbandonare il mio corpo a chi mi percoteva, ad offrire il mio volto a chi mi schiaffeggiava e sputacchiava, a chi credeva fare opera meritoria strappandomi le chiome, svellendomi la barba, trapassandomi la testa con le spine, rendendo complice anche la terra e i suoi frutti dei tormenti inflitti al suo Salvatore, slogandomi le membra, scoprendo le mie ossa, strappandomi le vesti e dando così alla mia purezza la più grande delle torture, configgendomi ad un legno e innalzandomi come agnello sgozzato sugli uncini di un beccaio, e abbaiando, intorno alla mia agonia, come torma di lupi famelici che l’odore del sangue fa ancora più feroci.
Accusato, condannato, ucciso. Tradito, rinnegato, venduto. Abbandonato anche da Dio perché su Me erano i delitti che m’ero addossato. Reso più povero del mendico derubato da briganti, perché non mi fu lasciata neppur la veste per coprire la mia livida nudità di martire. Non risparmiato neppur oltre la morte dall’insulto di una ferita e dalle calunnie dei nemici. Sommerso sotto il fango di tutti i vostri peccati, precipitato sino in fondo al buio del dolore, senza più luce del Cielo che rispondesse al mio sguardo morente, né voce divina che rispondesse al mio invocare estremo.
2 Isaia la dice la ragione di tanto dolore: “Veramente Egli ha preso su di Sé i nostri mali ed ha portato i nostri dolori”.
I nostri dolori! Sì, per voi li ho portati! Per sollevare i vostri, per addolcirli, per annullarli, se mi foste stati fedeli. Ma non avete voluto esserlo. E che ne ho avuto? Mi avete “guardato come un lebbroso, un percosso da Dio”. Sì, era su Me la lebbra dei vostri peccati infiniti, era su Me come una veste di penitenza, come un cilicio; ma come non avete visto tralucere Dio, nella sua infinita carità, da quella veste indossata per voi sulla sua santità?
“Piagato per le nostre iniquità, trafitto per le nostre scelleratezze” dice Isaia, che coi suoi occhi profetici vedeva il Figlio dell’uomo divenuto tutta una lividura per sanare quelle degli uomini. E fossero state unicamente ferite alla mia carne!
Ma ciò che più m’avete ferito fu il sentimento e lo spirito. Dell’uno e dell’altro avete fatto zimbello e bersaglio; e mi avete colpito nell’amicizia, che avevo posto in voi, attraverso Giuda; nella fedeltà, che speravo da voi, attraverso Pietro che rinnega; nella riconoscenza per i miei benefici, attraverso coloro che mi gridavano: “Muori!”, dopo che Io li avevo risorti da tante malattie; attraverso l’amore, per lo strazio inflitto a mia Madre; attraverso alla religione, dichiarandomi bestemmiatore di Dio, Io che per lo zelo della causa di Dio m’ero messo nelle mani dell’uomo incarnandomi, patendo per tutta la vita e abbandonandomi alla ferocia umana senza dire parola o lamento.
Sarebbe bastato un volgere di occhi per incenerire accusatori, giudici e carnefici. Ma ero venuto volontariamente per compiere il sacrificio, e come agnello, perché ero l’Agnello di Dio e lo sono in eterno, mi sono lasciato condurre per essere spogliato e ucciso e per fare della mia Carne la vostra Vita.
Quando fui innalzato ero già consumato da patimenti senza nome, con tutti i nomi. Ho cominciato a morire a Betlemme nel vedere la luce della Terra, così angosciosamente diversa per Me che ero il Vivente del Cielo. Ho continuato a morire nella povertà, nell’esilio, nella fuga, nel lavoro, nell’incomprensione, nella fatica, nel tradimento, negli affetti strappati, nelle torture, nelle menzogne, nelle bestemmie. Questo ha dato l’uomo a Me che venivo a riunirlo con Dio!
3 Maria, guarda il tuo Salvatore. Non è bianco nella veste e biondo nel capo. Non ha lo sguardo di zaffiro che tu gli conosci. Il suo vestito è rosso di sangue, è lacero e coperto di immondezze e di sputi. Il suo volto è tumefatto e stravolto, il suo sguardo velato dal sangue e dal pianto, e ti guarda attraverso la crosta di questi e della polvere che appesantiscono le palpebre. Le mie mani — lo vedi? — sono già tutte una piaga e attendono la piaga ultima.
Guarda, piccolo Giovanni, come mi guardò tuo fratello Giovanni. Dietro il mio andare restano impronte sanguigne. Il sudore dilava il sangue che geme dalle lacerazioni dei flagelli, che ancor resta dall’agonia dell’Orto. La parola esce, nell’anelito dell’affanno di un cuore già morente per tortura d’ogni nome, dalle labbra arse e contuse.
D’ora in poi mi vedrai sovente così. Sono il Re del Dolore e verrò a parlarti del dolore mio con la mia veste regale. Seguimi, nonostante la tua agonia. Saprò, poiché sono il Pietoso, mettere davanti alle tue labbra, attossicate dal mio dolore, anche il miele profumato di più serene contemplazioni. Ma devi ancor più preferire queste di sangue, perché per esse tu hai la Vita e con esse porterai altri alla Vita. Bacia la mia mano sanguinosa e vigila meditando su Me Redentore».
4 Vedo Gesù così come Egli si descrive. Questa sera, dalle 19 in poi (sono le 1,15 dell’11, ormai) sono proprio in agonia.
5 Mi dice Gesù questa mattina, 11 febbraio, alle 7,30:
«Ieri sera non ho voluto che parlarti di Me penante, perché ho iniziato la descrizione e visione dei miei dolori. Ieri sera è stata l’introduzione. Ed eri così sfinita, amica mia! Ma, prima che l’agonia torni, ti devo fare un dolce rimprovero.
Ieri mattina sei stata egoista. Hai detto al Padre: “Speriamo che io duri, perché la mia fatica è la più grande”. No. La sua è la più grande, perché è faticosa e non compensata dalla beatitudine del vedere e dall’avere Gesù presente, come tu hai, anche con la sua santa Umanità. Non essere mai egoista, neppure nelle cose minime. Una discepola, un piccolo Giovanni, deve essere umilissimo e caritatevolissimo come il suo Gesù.
Ed ora vieni a stare con Me. “I fiori sono apparsi… il tempo di potare è venuto… si è sentita nelle campagne la voce della tortorella…”. E sono i fiori nati nelle pozze del Sangue del tuo Cristo. E Colui che sarà reciso come ramo potato è il Redentore. E la voce della tortora, che chiama la sposa al suo convito di nozze dolorose e sante, è la mia che ti ama.
Sorgi e vieni, come dice la Messa d’oggi. Vieni a contemplare ed a soffrire. È il dono che concedo ai prediletti
Cap. DCII. Verso il Getsemani con undici apostoli. L’agonia spirituale e la cattura.
16 marzo 1945
1 La via è tutta silenziosa. Solo una fontanella che ricade in un bacino di pietra mette un suono in tanto silenzio. Lungo i muri delle case, dal lato d’oriente, vi è ancora oscurità, mentre dall’altro lato la luna comincia a fare bianco il sommo delle case e, dove la via allarga in una piazzetta, ecco che il latteo argenteo della luna scende a far belli anche i ciottoli e la terra della via. Ma sotto i frequenti archivolti che vanno da casa a casa, simili a ponti levatoi od a puntelli a queste vecchie case dalle scarsissime aperture sulle vie, e che in quest’ora sono tutte chiuse e buie come fossero case abbandonate, vi è l’oscurità perfetta, e il rossastro della torcia portata da Simone acquista una singolare vivezza e un’ancora più grande utilità. I visi, in quella luce rossa e mobile, si mostrano con un rilievo netto e, tanti quanti sono, rivelano altrettanti e diversi stati d’animo.
Il più solenne e calmo è quello di Gesù. Per quanto una stanchezza lo invecchi marcandolo di linee che solitamente non ha e che fanno già apparire la futura effigie del suo volto ricomposto nella morte.
Giovanni, che gli è al fianco, gira uno sguardo stupefatto, dolente, su tutto quanto vede. Sembra un fanciullo terrorizzato da qualche racconto udito o da qualche promessa paurosa e che invochi aiuto da chi sa di più di lui. Ma chi gli può dare aiuto?
Simone, che è all’altro fianco di Gesù, ha il viso chiuso, cupo, di chi rimugina in sé pensieri atroci. Ed è ancora l’unico che, dopo Gesù, mostri un aspetto dignitoso.
2 Gli altri, in due gruppi che continuamente si alternano nella loro formazione, sono tutto un fermento. E ogni tanto la voce rauca di Pietro o quella baritonale di Tommaso si elevano con risonanza strana. Poi si riabbassano, come paurosi di quello che dicono. Discutono sul da farsi, e chi propone l’una e chi l’altra cosa. Ma cadono tutte le proposte, perché realmente sta per iniziarsi “l’ora delle tenebre” e i giudizi umani restano oscurati e confusi.
«Bisognava dirmelo prima», arrangola Pietro.
«Ma non uno ha parlato. Non il Maestro…», dice Andrea.
«Sì! Proprio Lui te lo diceva. Ma fratello! Sembra che tu non lo conosca!…», gli risponde Pietro.
«Io sentivo qualche cosa di turbato. E l’ho detto: “Andiamo a morire con Lui”. Ve lo ricordate? Ma, per il nostro santissimo Iddio, se avessi saputo che era Giuda di Simone!…», tuona Tommaso minaccioso.
«E che volevi fare?», chiede Bartolomeo.
«Io? Io farei anche ora se mi aiutaste!».
«Cosa? Partiresti per ucciderlo? E dove?».
«No. Porterei via il Maestro. È più semplice».
«Non verrebbe!».
«Non gli chiederei se verrebbe. Lo rapirei come si rapisce una donna».
«Non sarebbe una malvagia idea!», dice Pietro. E impulsivo torna indietro, si mette nel gruppo dei due figli di Alfeo che con Matteo e Giacomo bisbigliano piano come congiurati. «Sentite, dice Tommaso di portare via Gesù. Tutti insieme. Si potrebbe… dal Get-Samnì per Betfage a Betania e di là… vela per qualche posto. Lo facciamo? Messo in salvo Lui, si torna e si stermina Giuda».
«È inutile. Israele è tutta una trappola», dice Giacomo d’Alfeo.
«Ed ora è prossima a chiudersi. Lo si capiva. Troppo odio!».
«Ma, Matteo! Mi fai rabbia! Avevi più coraggio quando eri peccatore! Di’ tu, Filippo».
Filippo, che viene solo solo e pare monologare fra sé, alza il viso e si ferma. Pietro lo raggiunge e bisbigliano fra loro. Poi raggiungono il gruppo di prima: «Io direi che il posto migliore è nel Tempio», dice Filippo.
«Sei matto?», urlano i cugini, Matteo e Giacomo. «Ma se là lo vogliono morto!».
«Sss! Quanto baccano! So quello che mi dico. Lo cercheranno da per tutto. Ma non lì. Tu e Giovanni avete buone amicizie fra i servi di Anna. Si dà un bel boccone d’oro… e tutto è fatto. Credete! Il posto migliore per nascondere uno ricercato è in casa dei carcerieri».
«Io non lo faccio», dice Giacomo di Zebedeo. «Però, senti anche gli altri. Giovanni per primo. E se poi lo arrestano? Non voglio che si dica che sono io il traditore…».
«Non ci avevo pensato. E allora?». Pietro è annichilito.
«E allora io direi che è pietoso fare una cosa. L’unica che possiamo. Portare via la Madre…», dice Giuda d’Alfeo.
«Già!… Ma… Chi ci va? Che le si dice? Va’ tu, parente».
«Io resto con Gesù. È mio diritto. Va’ tu».
«Io?! Mi sono armato di spada per morire come Eleazaro di Saura. Traverserò legioni per difendere il mio Gesù e colpirò senza ritegno. Se la forza dei più mi ucciderà, non importa. Lo avrò difeso», proclama Pietro.
«Ma sei proprio sicuro che è l’Iscariota?», chiede Filippo al Taddeo.
«Ne sono sicuro. Nessuno di noi ha cuore di serpe. Solo lui… Va’ tu, Matteo, da Maria e dille…».
«Io? Ingannarla? Vederla al mio fianco ignara, e poi?… Ah! no. Sono pronto alla morte, ma non a tradire quella colomba…».
Le voci si mischiano in un sussurro.
3 «Odi? Maestro, noi ti amiamo», dice Simone.
«Lo so. Non ho bisogno di quelle parole per saperlo. E se danno pace al cuore del Cristo esse feriscono la sua anima».
«Perché, Signor mio? Sono parole d’amore».
«Di tutto umano amore. In verità, in questi tre anni non ho fatto nulla, perché voi siete ancora più umani della prima ora. Lievitano in voi tutti i fermenti più fangosi, questa sera. Ma non è colpa vostra…».
«Salvati, Gesù!», geme Giovanni.
«Mi salvo».
«Sì? Oh! Mio Dio, grazie!». Giovanni pare un fiore piegato da arsione e che torni fresco sullo stelo. «Lo dico agli altri. Dove andiamo?».
«Io alla morte. Voi alla Fede».
«Ma non avevi detto ora che ti salvavi?». Il prediletto si accascia di nuovo.
«Mi salvo, infatti, mi salvo. Se non ubbidissi al Padre mi perderei. Ubbidisco. Perciò mi salvo. Ma non piangere così! Sei meno bravo dei discepoli di quel filosofo greco di cui ti parlai un giorno. Essi rimasero presso il maestro morente per cicuta, confortandolo col loro virile dolore. Tu… tu sembri un pargolo che abbia perduto suo padre».
«E non è forse così? Più che se perdessi il padre, io perdo! Perdo Te…».
«Non mi perdi poiché continui a volermi bene. È perduto uno che è da noi separato dalla dimenticanza sulla Terra e dal giudizio di Dio nell’al di là. Ma noi non saremo separati. Mai. Né da questo, né da quello».
Ma Giovanni non intende ragioni.
4 Simone si fa ancora più vicino a Gesù e gli confida sottovoce: «Maestro… io… io e Simon Pietro speravamo di fare qualche cosa di buono… Ma… Tu che sai tutto, dimmi: fra quante ore pensi essere catturato?».
«Non appena la luna è al colmo del suo arco».
Simone ha un atto di dolore e di impazienza, per non dire di stizza. «Allora tutto fu inutile… Maestro, ora ti spiego. Tu hai quasi rimproverato me e Simon Pietro per averti lasciato tanto solo in questi ultimi giorni… Ma eravamo lontani per Te… per amore di Te. Pietro, nella notte del lunedì, impressionato dalle tue parole, è venuto da me mentre dormivo e mi ha detto: “Io e te, di te mi fido, dobbiamo fare qualche cosa per Gesù. Anche Giuda ha detto di volersene occupare”. Oh! perché non abbiamo capito allora? Perché non ci hai detto nulla Tu? Ma, dimmi, a nessuno lo hai detto? Proprio a nessuno? Forse lo hai compreso solo poche ore fa?».
«L’ho sempre saputo. Prima ancora che egli fosse nei discepoli. E perché il suo delitto non fosse perfetto, e nel divino e nell’umano, ho cercato in tutti i modi di allontanarlo da Me. Coloro che vogliono che Io muoia sono i carnefici di Dio. Questo, mio discepolo e amico, è anche il traditore, il carnefice dell’Uomo. Il mio primo carnefice, perché mi ha già fatto morto con lo sforzo di averlo al fianco, alla mensa, e di doverlo proteggere con Me stesso contro voi».
«E nessuno lo sa?».
«Giovanni. Gliel’ho detto alla fine della Cena. Ma che avete fatto?».
«E Lazzaro? Non sa proprio nulla Lazzaro? Oggi fummo da lui, perché egli è venuto di prima mattina, ha sacrificato ed è ripartito senza neppure fermarsi al suo palazzo né andare al Pretorio. Perché lui ci va sempre, per consuetudine presa dal padre. E Pilato, lo sai, c’è in città, in questi giorni…».
«Sì. Tutti ci sono. C’è Roma, la nuova Sionne, con Pilato. C’è Israele con Caifa ed Erode. C’è tutto Israele, perché la Pasqua ha raccolto i figli di questo popolo ai piedi dell’altare di Dio…
5 Hai visto Gamaliele?».
«Sì. Perché questa domanda? Lo devo rivedere anche domani…».
«Gamaliele questa sera è a Betfage. Lo so. Quando saremo giunti al Getsemani tu andrai da Gamaliele e gli dirai: “Fra poco avrai il segno che attendi da ventun’anni”. Null’altro. Poi tornerai coi compagni».
«Ma come lo sai? Oh! Maestro mio, povero Maestro che non hai neppure il conforto di ignorare le opere altrui!».
«Dici bene! Il conforto di ignorare! Povero Maestro! Perché sono più le opere malvagie delle buone. Ma vedo anche quelle buone e ne giubilo».
«Allora Tu sai che…».
«Simone, è la mia ora di passione. Per renderla più completa il Padre mi ritira la luce man mano che si approssima. Fra poco non avrò che tenebre e la contemplazione di ciò che è tenebre: ossia tutti i peccati degli uomini. Non puoi, non potete capire. Nessuno, meno chi sarà a ciò chiamato da Dio per speciale missione, comprenderà questa passione nella grande Passione e, poi che l’uomo è materiale anche nell’amare e nel meditare, ci sarà chi piangerà e soffrirà per le mie battiture, per le torture del Redentore, ma non si misurerà questa spirituale tortura che, credetelo voi che mi udite, sarà la più atroce… Parla, perciò, Simone. Guidami sui sentieri dove la tua amicizia andò per Me, perché Io sono un povero che accieca e che vede fantasmi, non cose reali…».
Giovanni lo stringe e chiede: «Che? Non vedi più il tuo Giovanni?».
«Ti vedo. Ma i fantasmi sorgono dalle nebbie di Satana. Visioni d’incubo e dolore. Tutti siamo avvolti in questo miasma d’inferno, questa sera. In Me cerca di creare viltà, disubbidienza e dolore. In voi creerà delusione e paura. In altri, che pure non sono né paurosi né delinquenti, darà delinquenza e pavidità. In altri, che già sono di Satana, darà il pervertimento soprannaturale. Dico così perché la loro perfezione nel male sarà tale da superare le umane possibilità e raggiungere il perfetto che è sempre nel sopraumano.
6 Parla, Simone».
«Sì. Da martedì non facciamo che andare per sapere, per prevenire, per cercare aiuti».
«E che avete potuto fare?».
«Nulla. O ben poco».
«E il poco sarà “nulla” quando la paura paralizzerà i cuori».
«Mi sono anche urtato con Lazzaro… La prima volta che mi avviene… Urtato, perché mi parve inerte… Lui potrebbe fare. È amico del Governatore. È sempre il figlio di Teofilo! Ma Lazzaro ha respinto ogni mia proposta. L’ho lasciato urlando: “Io penso che l’amico di cui parla il Maestro sia tu. Mi fai orrore!”, e non volevo più tornare da lui… Ma questa mattina egli mi ha chiamato e detto: “Puoi ancora pensare che sia io il suo traditore?”. Io avevo già visto Gamaliele e Giuseppe e Cusa, e Nicodemo e Mannaen, ed infine tuo fratello Giuseppe… e non potevo più credere questo. Gli ho detto: “Perdona, Lazzaro. Ma mi sento la mente sconvolta più di quando ero io stesso un condannato”. Ed è così, Maestro… Io non sono più io… Ma perché sorridi?».
«Perché ciò conferma quanto Io ti ho detto prima. La nebbia di Satana ti avvolge e turba. Che ha risposto Lazzaro?».
«Ha detto: “Ti capisco. Vieni oggi, con Nicodemo. Ho bisogno di vederti”. E sono andato, mentre Simon Pietro è andato dai galilei. Perché tuo fratello, lui, da tanto lontano, ne sa più di noi. Dice che lo ha saputo per caso parlando con un vecchio galileo, amico di Alfeo e Giuseppe, che abita vicino ai mercati».
«Ah!… sì… Un grande amico della casa…».
«Egli è là con Simone e le donne. Vi è anche la famiglia di Cana».
«Ho visto Simone».
«Ebbene, Giuseppe da questo suo amico e amico di uno del Tempio, che è divenuto suo parente per donne, ha saputo che è decisa la tua cattura e ha detto a Pietro: “Io l’ho sempre combattuto. Ma per amore. E finché Egli era ancora forte. Ma, ora che diventa come un bambino in preda dei suoi nemici, io, parente che sempre l’ho amato, sono con Lui. È dovere di sangue e di cuore”».
Gesù sorride, riavendo per un attimo il viso sereno delle ore di gioia.
«E Giuseppe ha detto a Pietro: “I farisei di Galilea sono aspidi come tutti i farisei. Ma la Galilea non è tutta farisei. E qui sono molti galilei che lo amano. Andiamo a dire loro di radunarsi per difenderlo. Non abbiamo che i coltelli. Ma anche i bastoni sono armi, se ben maneggiati. E, se non vengono le milizie romane, avremo presto ragione di quella canaglia vile che sono gli sgherri del Tempio”. E Pietro è andato con lui.
7 Io intanto andavo da Lazzaro. Con Nicodemo. Avevamo deciso di persuadere Lazzaro a venire con noi e ad aprire la sua casa per stare con Te. Ci ha detto: “Devo ubbidire a Gesù e stare qui. A soffrire il doppio…”. È vero?».
«È vero. Io gli ho dato questo ordine».
«Però mi ha dato le spade. Sono sue. Una per me, una per Pietro. Anche Cusa voleva darmi le spade. Ma… Che sono due pezzi di ferro contro tutto un mondo? Cusa non può credere che sia vero quanto Tu dici. Giura che egli non sa nulla e che nella corte non c’è che il pensiero di godere della festa… Un bagordo come al solito. Tanto che egli ha detto a Giovanna di ritirarsi in una loro casa in Giudea. Ma Giovanna vuole rimanere qui. Chiusa nel suo palazzo, come se non ci fosse. Ma non si allontana. È con lei Plautina, Anna, Niche e due dame romane della casa di Claudia. Piangono, pregano e fanno pregare gli innocenti. Ma non è tempo di preghiere. Di sangue è tempo. Io sento tornare vivo lo “zelote” e ardo di uccidere per fare vendetta!…».
«Simone! Se volevo farti morire maledetto, non ti levavo alla desolazione!…». Gesù è severissimo.
«Oh! perdono, Maestro… Perdono! Sono come un ebbro, un delirante».
«E Mannaen che dice?».
«Mannaen dice che non può essere vero e che, se lo fosse, egli ti seguirà anche nel supplizio».
«Come tutti fidate di voi!… Quanta superbia è nell’uomo! E Nicodemo e Giuseppe? Che sanno?».
«Nulla più di me. Tempo fa in una assemblea Giuseppe si prese col Sinedrio, perché li chiamò assassini volendo uccidere un innocente, e disse: “Tutto è illegale qui dentro. Lui dice bene. L’abbominio è nella casa del Signore. Questo altare va distrutto perché profanato”. Non lo lapidarono perché è lui. Ma da allora lo hanno tenuto all’oscuro di tutto. Solo Gamaliele e Nicodemo gli si sono conservati amici. Ma il primo non parla. E il secondo… Né lui né Giuseppe furono più chiamati al Sinedrio per le decisioni più vere. Esso si aduna illegalmente qua e là, ad ore diverse, per paura di loro e di Roma. Ah! dimenticavo!… I pastori. Anche loro sono coi galilei. Ma pochi siamo! Se Lazzaro avesse voluto ascoltarci e venire dal Pretore! Ma non ci ascoltò… Questo abbiamo fatto… Molto… e nulla… e io sono tanto accasciato che vorrei andare per la campagna urlando come uno sciacallo, abbrutendomi in un’orgia, uccidendo come un brigante, pur di levarmi questo pensiero che è “tutto inutile”, come ha detto Lazzaro, come ha detto Giuseppe e Cusa e Mannaen e Gamaliele…». Lo Zelote non sembra più lui…
«Che ha detto il rabbi?».
«Ha detto: “Io non so esattamente i propositi di Caifa. Ma vi dico che solo per il Cristo è profetizzato quanto dite. E siccome io non ammetto in questo profeta il Cristo, non trovo ci sia da agitarsi. Verrà ucciso un uomo, buono, amico di Dio. Ma di quanti suoi simili ha bevuto il sangue Sionne?!”. E poiché noi insistevamo sulla tua divina Natura, ha ripetuto cocciuto: “Quando vedrò il segno, crederò”. Ed ha promesso di astenersi dal votare la tua morte, e anzi, se sarà possibile, di persuadere gli altri a non condannarti. Questo, non più. Non crede! Non crede! Se si potesse giungere a domani… Ma Tu dici di no.
8 Oh! che faremo noi?!».
«Tu andrai da Lazzaro e cercherai di portare con te quanti più puoi. Non solo degli apostoli. Ma anche dei discepoli che troverai vaganti per le vie della campagna. Cerca di vedere i pastori e da’ loro questo ordine. La casa di Betania è più che mai la casa di Betania, la casa della buona ospitalità. Quelli che non hanno coraggio di affrontare l’odio di tutto un popolo si rifugino là. Ad attendere…».
«Ma noi non ti lasceremo».
«Non vi separate… Divisi, sareste un nulla. Uniti, sarete ancora una forza. Simone, promettimi questo. Tu sei pacato, fedele, hai parola e impero anche su Pietro. E hai un grande obbligo con Me. Te lo ricordo per la prima volta, per importi l’ubbidienza. Guarda, siamo al Cedron. Di lì sei salito a Me lebbroso e di lì sei partito mondato. Per quello che ti ho dato, dammi. Dàllo all’Uomo ciò che Io ho dato all’uomo. Ora il lebbroso sono Io…».
«Nooo! Non lo dire!», gemono insieme i due discepoli.
«Così è! Pietro, i fratelli miei saranno i più accasciati. Come un delinquente si sentirà l’onesto mio Pietro e non avrà pace. E i fratelli… Non avranno cuore di guardare la loro e la mia Madre… Te li raccomando…».
«Ed io, Signore, di chi sarò? A me non pensi?».
«O mio fanciullo! Tu sei affidato al tuo amore. È tanto forte che ti guiderà come una madre. Non ti do ordine né guida. Ti lascio sulle acque dell’amore. Sono in te un fiume tanto calmo e profondo che non mi mettono dubbio sul tuo domani. Simone, hai inteso? Promettimi, promettimi!». È penoso vedere Gesù tanto angosciato… Riprende: «Prima che vengano gli altri! Oh! grazie! Sii benedetto!».
9 Tutto il gruppo si riunisce.
«Ora dividiamoci. Io salgo in alto, a pregare. Con Me voglio Pietro, Giovanni e Giacomo. Voi rimanete qui. E, se foste sopraffatti, chiamate. E non temete. Non vi sarà torto un capello. Pregate per Me. Deponete odio e paura. Non sarà che un attimo… e poi la gioia sarà piena. Sorridete. Che Io abbia nel cuore i vostri sorrisi. E ancora grazie di tutto, amici. Addio. Il Signore non vi abbandoni…».
Gesù si separa dagli apostoli e va avanti, mentre Pietro si fa dare da Simone la torcia dopo che questo ha acceso con essa degli sterpi resinosi, che bruciano scoppiettando sul limite dell’uliveto e spandendo un odore di ginepro. Mi fa pena vedere il Taddeo che guarda con uno sguardo talmente intenso e doloroso Gesù che questo si volge e cerca chi lo ha guardato. Ma il Taddeo si nasconde dietro a Bartolomeo e si morde le labbra per frenarsi.
Gesù fa un gesto con la mano, fra la benedizione e l’addio, e poi prosegue il suo cammino. La luna, ormai ben alta, circonda della sua luce la sua alta figura e pare renderla anche più alta, spiritualizzandola, facendone più chiara la veste rossa e più pallido l’oro dei capelli. Dietro a Lui affrettano il passo Pietro con la torcia e i due figli di Zebedeo.
10 Proseguono sino a raggiungere il limite della prima balza del rustico anfiteatro dell’uliveto, a cui fa da entrata la piazzuola irregolare e da gradinate le diverse balze che ascendono a scaglioni di ulivi sul monte, poi Gesù dice: «Fermatevi, attendetemi qui, mentre Io prego. Ma non dormite. Potrei avere bisogno di voi. E, ve lo chiedo per carità, pregate! Il vostro Maestro è molto accasciato».

È infatti di un accasciamento già profondo. Pare già aggravato da un peso. Dove è più il virile Gesù che parlava alle folle, bello, forte, dall’occhio dominatore, il pacato sorriso, la voce sonora e bellissima? Pare già preso da un affanno. È come uno che ha corso o che ha pianto. Ha una voce stanca e affannata. Triste, triste, triste…
Pietro risponde per tutti: «Sta’ tranquillo, Maestro. Vigileremo e pregheremo. Non hai che chiamarci, che verremo».
E Gesù li lascia, mentre i tre si curvano a radunare foglie e sterpi per fare un fuocherello che serva a tenerli desti e anche a combattere la guazza che comincia a scendere abbondante.
11Cammina, volgendo loro le spalle, da occidente a oriente, avendo perciò in faccia la luce lunare. Vedo che un grande dolore fa ancor più dilatato l’occhio, forse è un bistro di stanchezza che lo allarga, forse è l’ombra dell’arco sopraccigliare. Non so. So che ha l’occhio più aperto e incavato. Sale a testa china, solo ogni tanto la alza con un sospiro, come facesse fatica e anelasse, e allora gira il suo occhio tanto triste sul placido uliveto. Fa qualche metro in salita, poi gira intorno ad uno scaglione, che rimane così fra Lui e i tre lasciati più in basso.
Lo scaglione, alto pochi decimetri all’inizio, sale sempre più e dopo poco è alto più di due metri, di modo che ripara completamente Gesù da ogni sguardo più o meno discreto e amico. Gesù prosegue sino ad un grosso masso che ad un certo punto sbarra il sentieruolo, forse messo a sostegno alla costa che in giù scoscende più ripida e nuda sino ad una desolata macia, che precede le mura oltre le quali è Gerusalemme, e in su continua a salire con altri balzi e altri ulivi. Proprio sopra al grosso sasso si spenzola un ulivo tutto nodoso e contorto. Pare un bizzarro punto interrogativo messo dalla natura a chiedere qualche perché. I rami folti sulla cima danno risposta alla domanda del tronco, dicendo ora di sì col piegarsi verso terra, ora di no dimenandosi da destra a manca, sotto un vento lieve che passa a ondate fra le fronde e che a volte sa soltanto di terra, a volte di quell’odore amarognolo dell’ulivo, alle volte di un misto profumo di rose e mughetti che non si sa da dove possa venire. Oltre il sentieruolo, in basso, sono altri ulivi, ed uno, proprio sotto al masso, fenduto da qualche fulmine eppure sopravvissuto, o scosciato per non so che causa, ha del tronco iniziale fatto due tronchi che salgono come le due aste di un grande V in stampatello, e le due chiome si affacciano al di qua e al di là del masso, come volessero vedere e velare nello stesso tempo, o fare ad esso masso una base di un grigio argento tutto pace.
12Gesù si ferma lì. Non guarda la città che appare là in basso, tutta bianca nella luce lunare. Anzi le volge le spalle e prega a braccia aperte a croce, col volto alzato verso il cielo. E non vedo il volto suo perché è nell’ombra, avendo la luna quasi a perpendicolo sul capo, è vero, ma anche la folta ramaglia dell’ulivo fra Lui e la luna, che appena filtra fra foglia e foglia con occhiellini ed aghi di luce in perpetuo movimento.
Una lunga, ardente preghiera. Ogni tanto ha un sospiro e qualche parola più netta. Non è un salmo, non è il Pater. È una preghiera fatta dallo sgorgare del suo amore e del suo bisogno. Un vero discorso fatto al Padre suo. Lo comprendo per le poche parole che afferro: «Tu lo sai… Sono il tuo Figlio… Tutto, ma aiutami… L’ora è venuta… Io non sono più della Terra. Cessa ogni bisogno di aiuto al tuo Verbo… Fa’ che l’Uomo ti soddisfi come Redentore come ti fu ubbidiente la Parola… Ciò che Tu vuoi… Per loro ti chiedo pietà… Li farò salvi? Questo ti chiedo. Voglio così: dal mondo salvi, dalla carne, dal demonio… Posso chiedere ancora? È giusta domanda, Padre mio. Non per Me. Per l’uomo, che è tua creazione e che volle rendere fango anche la sua anima. Io getto nel mio dolore e nel mio Sangue questo fango, perché torni l’incorruttibile essenza dello spirito a Te gradito… Ed è dovunque. Egli è il re questa sera. Nella reggia e nelle case. Fra le milizie e nel Tempio… La città ne è colma, e domani sarà un inferno…».
Gesù si volge, si appoggia con la schiena al masso e incrocia le braccia. Guarda Gerusalemme. Il viso di Gesù si fa sempre più mesto. Mormora: «Pare di neve… ed è tutta un peccato. Anche in essa quanti ho guarito! Quanto ho parlato!… Dove sono quelli che mi parevano fedeli?»…
Gesù curva il capo e guarda fisso il terreno coperto di una erbetta corta e lucida di guazza. Ma, per quanto abbia il capo chino, comprendo che piange, perché delle gocce lucono nel cadere dal volto al suolo. Poi alza il capo, disserra le braccia, le congiunge tenendole al disopra del capo e agitandole così unite.
13Poi si incammina. Torna verso i tre apostoli seduti intorno al loro fuocherello di sterpi. E li trova mezzo addormentati. Pietro si è addossato ad un tronco con le spalle e, con le braccia conserte sul petto, ciondola con la testa nelle prime caligini di un robusto sonno. Giacomo è seduto, con il fratello, su un radicone che affiora e sul quale hanno messo i mantelli per sentirne meno le gobbe, ma, nonostante siano scomodi più di Pietro, sono anche loro sonnecchianti. Giacomo ha abbandonato la testa sulla spalla di Giovanni e questo ha piegato la sua su quella del fratello, come se il dormiveglia li avesse immobilizzati in quella posa.
«Dormite? Non avete saputo vegliare un’ora sola? Ed Io ho tanto bisogno del vostro conforto e delle vostre preghiere!».
I tre sobbalzano confusi. Si sfregano gli occhi. Mormorano una scusa, accusando lo sforzo del digerire come causa prima di questo loro sonnecchiare: «È il vino… il cibo… Ma ora passa. Un momento è stato. Non avevamo voglia di parlare e questo ci ha portati al sonno. Ma ora pregheremo a voce alta e non succederà più».
«Sì. Pregate e vigilate. Anche per voi ne avete bisogno».
«Sì, Maestro. Ti ubbidiremo».
14Gesù torna via. La luna che gli batte in volto, così forte nel suo chiarore d’argento che rende sempre più pallida la veste rossa come la velasse di una polvere bianco lucente, mi fa vedere il suo volto sconfortato, addolorato, invecchiato. Lo sguardo è sempre dilatato, ma pare appannato. La bocca ha una piega di stanchezza.
Torna al suo masso ancor più lento e curvo. Si inginocchia appoggiando le braccia al masso, che non è liscio ma a mezza altezza ha come un seno, quasi fosse stato lavorato apposta così, e su questo breve seno è nata una pianticina, che mi pare di quei fioretti simili a piccoli gigli che ho visto anche in Italia, dalle fogliette piccole, tonde ma dentellate agli orli e polpute e i fiorellini minuti sugli esilissimi steli. Sembrano piccoli fiocchi nevosi spruzzanti il grigio del masso e le fogliette verde scuro. Gesù appoggia le mani lì presso e i fiorellini gli vellicano la guancia, perché Egli appoggia il capo sulle mani giunte e prega. Dopo un poco sente il fresco delle piccole corolle, alza il capo. Le guarda. Le carezza. Parla loro: «Voi siete pure!… Voi mi date ristoro! C’erano anche nella grotticella della Mamma questi fiorellini… e Lei li amava perché diceva: “Quando ero piccina, diceva mio padre: ‘Tu sei un giglio così piccino e tutto pieno di rugiada celeste'”… La Mamma! Oh! Mamma mia!». Ha uno scoppio di pianto. Col capo sulle mani congiunte, ricaduto un poco sui calcagni, lo vedo e l’odo piangere, mentre le mani stringono le dita e le tormentano l’una all’altra. Sento che dice: «Anche a Betlemme… e te li ho portati, Mamma. Ma questi, chi te li porterà più?…».
15Poi riprende a pregare e a meditare. Deve essere ben triste la sua meditazione, angosciosa più che triste, perché per sfuggirla Egli si alza, va avanti e indietro mormorando parole che non afferro, alzando il volto, abbassandolo, gestendo, passandosi sugli occhi, sulle gote, sui capelli, le mani con mosse macchinali e agitate, proprie di chi è in grande angoscia. Dirlo non è niente. Descriverlo è impossibile. Vederlo è andare nella sua angoscia. Gestisce verso Gerusalemme. Poi torna ad alzare le braccia verso il cielo come per invocare aiuto.
Si leva il mantello come avesse caldo. Lo guarda… Ma che vede? I suoi occhi non guardano altro che la sua tortura, e tutto serve a questa tortura, ad aumentarla. Anche il mantello tessuto dalla Madre. Lo bacia e dice: «Perdono, Mamma! Perdono!». Pare lo chieda alla stoffa filata e tessuta dall’amore di mamma… Se lo rimette. È in uno strazio. Vuole pregare per superarlo. Ma con la preghiera tornano i ricordi, le apprensioni, i dubbi, i rimpianti… È una valanga di nomi… città… persone… fatti… Non posso seguirlo perché è veloce e saltuario. È la sua vita evangelica che gli sfila davanti… e gli riporta Giuda traditore.
16È tanto l’affanno che urla, per vincerlo, il nome di Pietro e Giovanni. E dice: «Ora verranno. Sono ben fedeli loro!». Ma “loro” non vengono. Chiama di nuovo. Pare terrorizzato come vedesse chissà che.
Fugge veloce verso il luogo dove è Pietro e i due fratelli. E li trova più comodamente e pesantemente addormentati intorno a poche bragie che, ormai morenti, hanno solo dei zig e zag di rosso fra il grigio della cenere.
«Pietro! Vi ho chiamati tre volte! Ma che fate? Dormite ancora? Ma non sentite quanto soffro? Pregate. Che la carne non vinca, non vi vinca. In nessuno. Se lo spirito è pronto, la carne è debole. Aiutatemi…».
I tre sono più lenti a svegliarsi. Ma infine lo fanno e, con occhi imbambolati, si scusano. Si alzano, prima mettendosi seduti, poi mettendosi proprio ritti.
«Ma guarda!», mormora Pietro. «Non ci è mai accaduto! Deve essere proprio stato quel vino. Era forte. E anche questo fresco. Ci si è coperti per non sentirlo (infatti si erano coperti coi mantelli anche sul capo) e non si è più visto il fuoco, non si è avuto più freddo, ed ecco che il sonno è venuto. Dici che hai chiamato? Eppure non mi pareva di dormire tanto forte… Su, Giovanni, cerchiamo dei rametti, muoviamoci. Ci passerà. Sta’ sicuro, Maestro, che ora poi!… Resteremo in piedi…», e getta una manata di fogliette secche sulle bragie, e soffia finché la fiamma risuscita, e la alimenta con i rami di rovo portati da Giovanni, mentre Giacomo porta un grosso ramo di ginepro, o simile pianta, che ha tagliato da un macchione poco discosto, e lo unisce al resto.
La fiamma si alza alta e gioconda illuminando il povero viso di Gesù. Un viso veramente di una tristezza che non si può guardare senza piangere. Ogni fulgore di quel volto è annullato in una stanchezza mortale. Dice: «Sono in un’angoscia che mi uccide! Oh! sì! L’anima mia è triste sino a morirne. Amici!… Amici! Amici!». Ma, se anche così non dicesse, il suo aspetto direbbe che Egli è proprio come uno che muore, e nel più angoscioso e desolato abbandono. Pare che ogni parola sia un singhiozzo…
Ma i tre sono troppo carichi di sonno. Sembrano quasi ebbri tanto vanno traballando ad occhi semichiusi… Gesù li guarda… Non li mortifica con rimproveri. Scuote il capo, sospira e torna via. Al posto di prima.
17Prega di nuovo in piedi, con le braccia in croce. Poi in ginocchio come prima, col volto curvo sui piccoli fiori. Pensa. Tace… Poi si dà a gemere e singhiozzare forte, quasi prostrato tanto è rilassato sui calcagni. Chiama il Padre. Sempre più affannosamente…
«Oh!», dice. «È troppo amaro questo calice! Non posso! Non posso! È al di sopra di quanto Io posso. Tutto ho potuto! Ma non questo… Allontanalo, Padre, dal tuo Figlio! Pietà di Me!… Che ho fatto per meritarlo?». Poi si riprende e dice: «Però, Padre mio, non ascoltare la mia voce se essa chiede ciò che è contrario alla tua volontà. Non ricordarti che ti sono Figlio, ma solo servo tuo. Non la mia, ma la tua volontà sia fatta».
Rimane così qualche tempo. Poi ha un grido soffocato e alza un viso sconvolto. Un attimo solo, poi piomba al suolo, proprio volto a terra, e resta così. Uno straccio d’uomo su cui preme tutto il peccato del mondo, su cui si abbatte tutta la Giustizia del Padre, su cui scende la tenebra, la cenere, il fiele, quella tremenda, tremenda, tremendissima cosa che è l’abbandono di Dio mentre Satana ci tortura… È l’asfissia dell’anima, è l’essere sepolti vivi in questa carcere che è il mondo, quando non si può più sentire che fra noi e Dio vi è un legame, è l’essere incatenati, imbavagliati, lapidati dalle nostre preghiere stesse che ci ricadono addosso irte di punte e sparse di fuoco, è il dare di cozzo contro un Cielo chiuso in cui non penetrano né voce né sguardi della nostra angoscia, è l’essere “orfani di Dio”, è la pazzia, l’agonia, il dubbio d’essersi sino allora ingannati, è la persuasione di essere scacciati da Dio, di esser dannati. È l’inferno!…
Oh! lo so! e non posso, non posso vedere lo spasimo del mio Cristo, e sapere che esso è un milione di volte più atroce di quello che mi ha consumata lo scorso anno e che, quando mi torna alla mente, mi sconvolge ancora…
Gesù geme, fra rantoli e sospiri proprio d’agonia: «Niente!… Niente!… Via!… La volontà del Padre! Quella! Quella sola!… La tua volontà, Padre. La tua, non la mia… Inutile. Non ho che un Signore: Iddio santissimo. Una legge: l’ubbidienza. Un amore: la redenzione… No. Non ho più Madre. Non ho più vita. Non ho più divinità. Non ho più missione. Inutilmente mi tenti, demonio, con la Madre, la vita, la mia divinità, la mia missione. Ho per madre l’Umanità e l’amo sino a morire per lei. La vita la rendo a Chi me l’ha data e me la chiede, supremo Padrone di ogni vivente. La divinità l’affermo essendo capace di questa espiazione. La missione la compio con la mia morte. Nulla ho più. Fuorché fare la volontà del Signore, mio Dio. Va’ indietro, Satana! L’ho detto la prima e la seconda volta. Lo ridico per la terza: “Padre, se è possibile passi da Me questo calice. Ma però non la mia, la tua volontà sia fatta”. Va’ indietro, Satana. Io sono di Dio».
Poi non parla più altro che per dire fra gli ansiti: «Dio! Dio! Dio!». Lo chiama ad ogni battito di cuore, e pare che ad ogni battito il sangue trabocchi. La stoffa tesa sulle spalle se ne imbibisce e torna scura, nonostante il grande chiarore lunare che lo fascia tutto.
18Pure un chiarore più vivo si forma sul suo capo, sospeso a circa un metro da Lui, un chiarore così vivo che anche il Prostrato lo vede filtrare fra le onde dei capelli, già pesanti di sangue, e il velo che il sangue fa agli occhi. Alza il capo… Splende la luna sul povero volto, e ancora più splende la luce angelica simile a quella del diamante bianco azzurro della stella Venere. E appare tutta la tremenda agonia nel sangue che trasuda dai pori. Le ciglia, i capelli, i baffi, la barba sono aspersi e cospersi di sangue. Sangue cola dalle tempie, sangue sgorga dalle vene del collo, sangue gocciano le mani, e quando Egli tende le mani verso la luce angelica e le ampie maniche scorrono in su, verso i gomiti, appaiono tutti sudanti sangue gli avambracci di Cristo. Nel viso, solo le lacrime fanno due righe nette fra la maschera rossa.
Si torna a levare il mantello e si asciuga le mani, il volto, il collo, gli avambracci. Ma il sudore continua. Egli si preme più e più volte la stoffa sul volto tenendola premuta con le mani, ed ogni volta che cambia posto, sulla stoffa rosso scura appaiono nette le impronte che, umide come sono, sembrano essere nere. L’erba del suolo è rossa di sangue.
Gesù pare prossimo a mancare. Si slaccia la veste al collo come si sentisse soffocare. Si porta la mano al cuore e poi al capo e se l’agita davanti al volto come per farsi vento, tenendo la bocca dischiusa. Si trascina contro il masso, ma più verso lo scrimolo del balzo, e si appoggia con la schiena ad esso, stando con le braccia pendenti lungo il corpo come fosse già morto, la testa penzoloni sul petto. Non si muove più.
La luce angelica decresce piano piano. Poi viene come assorbita nel chiarore lunare.
Gesù riapre gli occhi. Alza a fatica il capo. Guarda. È solo. Ma è meno angosciato. Allunga una mano. Tira a Sé il mantello, lasciato abbandonato sull’erba, e torna ad asciugarsi il volto, le mani, il collo, la barba, i capelli. Prende una larga foglia, nata proprio in riva al ciglio, tutta bagnata di guazza, e con quella finisce di pulirsi, bagnandosi volto e mani e poi asciugandosi da capo. E ripete, ripete con altre foglie, finché ha cancellato le tracce del suo tremendo sudore. Solo la veste, e specie sulle spalle e alle pieghe dei gomiti, al collo e alla cintura, ai ginocchi, è macchiata. Se la guarda e scuote il capo. Guarda anche il mantello. Ma lo vede troppo macchiato. Lo piega e lo pone sul masso, là dove esso fa cuna, presso i fioretti.
Con fatica, come per debolezza, si rigira mettendosi in ginocchio. Prega appoggiando il capo sul mantello, su cui sono già le mani.
19Poi si puntella al masso, si alza e, ancora lievemente barcollando, va dai discepoli. Il suo viso è pallidissimo. Ma non è più turbato. È un viso pieno di divina bellezza, pure essendo esangue e mesto oltre il solito.
I tre dormono saporitamente. Tutti avvolti nei mantelli, sdraiati affatto, presso il fuoco spento, si sentono respirare profondamente in un principio di sonoro russare.
Gesù li chiama. Inutile. Deve chinarsi e scuotere generosamente Pietro.
«Cosa è? Chi mi arresta?», dice questo emergendo, sbalordito e spaventato, dal suo mantello verde scuro.
«Nessuno. Sono Io che ti chiamo».
«È mattina?».
«No. È quasi terminata la seconda vigilia».
Pietro è tutto ingranchito.
Gesù scuote Giovanni, che ha un grido di terrore vedendo su di lui curvo un volto di fantasma tanto è marmoreo. «Oh!… Mi parevi morto!».
Scuote Giacomo, e questo, che crede che sia il fratello che lo chiama, dice: «Hanno preso il Maestro?».
«Non ancora, Giacomo», risponde Gesù. «Ma alzatevi ormai e andiamo. Chi mi tradisce è vicino».
I tre, ancora imbambolati, si alzano. Si guardano intorno… Ulivi, luna, usignoli, venticello, pace… Null’altro. Seguono però Gesù senza parlare. Anche gli altri otto sono più o meno addormentati intorno al fuoco spento.
«Sorgete!», tuona Gesù. «Mentre Satana viene, mostrate all’insonne e ai suoi figli che i figli di Dio non dormono!».
«Sì, Maestro».
«Dove è, Maestro?».
«Gesù, io…».
«Ma che è stato?».
E fra arruffate domande e risposte si rimettono i mantelli…
Cap. DCIII. Riflessioni sull’agonia nel Getsemani e premessa agli altri dolori della Passione.
15 febbraio 1944.
1 Dice Gesù:
«La sofferenza della mia agonia spirituale tu l’hai contemplata nella sera del Giovedì. Hai visto il tuo Gesù accasciarsi come uomo colpito a morte che sente fuggire la vita attraverso le ferite che lo svenano, o come creatura soverchiata da un trauma psichico superiore alle sue forze. Ne hai visto le fasi crescenti, di questo trauma, culminate nell’effusione sanguigna, provocata dallo squilibrio circolatorio causato dallo sforzo di vincermi e di resistere al peso che mi si era abbattuto sopra.
Io ero, sono, il Figlio del Dio altissimo. Ma ero anche il Figlio dell’uomo. Da queste pagine voglio che sgorghi nitida questa mia duplice natura, ugualmente totale e perfetta.
Della mia Divinità vi fa fede la mia parola, la quale ha accenti che solo un Dio può avere. Della mia Umanità i bisogni, le passioni, le sofferenze che vi presento e che patii nella mia carne di vero Uomo, proposta a modello della vostra umanità, così come vi istruisco lo spirito con la mia dottrina di vero Dio.
Tanto la mia santissima Divinità come la mia perfettissima Umanità, nel corso dei secoli e per l’azione disgregante della “vostra” umanità imperfetta, sono risultate menomate, svisate nella loro illustrazione. Avete resa irreale la mia Umanità, l’avete resa inumana, così come avete resa piccola la mia figura divina, negandola in tante parti che non vi faceva comodo riconoscere o che non potevate più riconoscere con i vostri spiriti, menomati dalle tabi del vizio e dell’ateismo, dell’umanismo, del razionalismo.
Io vengo, in quest’ora tragica, prodromo di universali sventure, vengo a rinfrescarvi nella mente la mia duplice figura di Dio e di Uomo, perché voi la conosciate quale Essa è, perché voi la riconosciate dopo tanto oscurantismo con cui l’avete coperta ai vostri spiriti, perché voi la amiate e torniate ad Essa e vi salviate per mezzo di Essa. È la figura del vostro Salvatore, e chi la conoscerà e l’amerà sarà salvo.
2 In questi giorni ti ho fatto conoscere le mie sofferenze fisiche. Esse hanno torturato la mia Umanità. Ti ho fatto conoscere le mie sofferenze morali, connesse, intrecciate, fuse a quelle della Madre mia, così come sono le inestricabili liane delle foreste equatoriali, che non si possono separare per reciderne una sola, ma che si deve spezzarle con un unico colpo d’accetta per aprirsi il varco, uccidendole insieme; così come sono le vene di un corpo, che non se ne può privare di sangue una perché un unico umore le empie; così, meglio ancora, così come non si può impedire che nella creatura, che si forma nel seno della madre, entri la morte se la madre muore, perché è la vita, il calore, il nutrimento, il sangue della madre quello che, con ritmo sonante sul moto del materno cuore, penetra, attraverso le interne membrane, sino al nascituro e lo completa alla vita.
Ella, oh! Ella, la pura Madre mia, mi ha portato non solo per i nove mesi con cui ogni femmina d’uomo porta il frutto dell’uomo, ma per tutta la vita. I nostri cuori erano uniti da spirituali fibre e hanno palpitato insieme sempre, e non c’era lacrima materna che cadesse senza rigarmi il cuore del suo salso, e non c’era mio interno lamento che non risuonasse in Lei svegliando il suo dolore.
Vi fa pena la madre di un figlio destinato alla morte per morbo insanabile, la madre di un condannato al supplizio dal rigore dell’umana giustizia. Ma pensate a questa Madre mia, che dal momento in cui mi ha concepito ha tremato pensando che ero il Condannato, a questa Madre che quando m’ha dato il primo bacio sulle carni morbide e rosee di neonato ha sentito le future piaghe della sua Creatura, a questa Madre che avrebbe dato dieci, cento, mille volte la sua vita per impedirmi di divenire Uomo e di giungere al momento dell’Immolazione, a questa Madre che sapeva e che doveva desiderare quell’ora tremenda per accettare la volontà del Signore, per la gloria del Signore, per bontà verso l’Umanità. No, non vi è stata agonia più lunga, e finita in un dolore più grande, di quella della Madre mia.
3 E non vi è stato un dolore più grande, più completo del mio. Ero Uno col Padre. Egli mi aveva dall’eternità amato come solo Dio può amare. Si era compiaciuto di Me ed aveva trovato in Me la sua divina gioia. Ed Io l’avevo amato come solo un Dio può amare, e trovato nell’unione con Lui la mia gioia divina. Gli ineffabili rapporti che legano ab eterno il Padre col Figlio non possono esservi spiegati neppure dalla mia parola, perché, se essa è perfetta, la vostra intelligenza non lo è, e non potete comprendere e conoscere ciò che è Dio finché non siete seco Lui nel Cielo. Ebbene, Io sentivo, come acqua che monta e preme contro una diga, crescere, ora per ora, il rigore del Padre verso di Me.
A testimonianza contro gli uomini-bruti, che non volevano comprendere chi ero, Egli aveva aperto, durante il tempo della mia vita pubblica, tre volte il Cielo: al Giordano, al Tabor e in Gerusalemme nella vigilia della Passione. Ma l’aveva fatto per gli uomini, non per dare sollievo a Me. Io ormai ero l’Espiatore.
Molte volte, Maria, Dio fa conoscere agli uomini un suo servo perché essi ne siano scossi e trascinati, attraverso esso, a Lui, ma ciò avviene anche attraverso il dolore di quel servo. È desso che paga in proprio, mangiando il pane amaro del rigore di Dio, i conforti e la salvezza dei fratelli. Non è vero? Le vittime d’espiazione conoscono il rigore di Dio. Poi viene la gloria. Ma dopo che la Giustizia è placata. Non è come per il mio Amore, che alle sue vittime dà i suoi baci. Io sono Gesù, Io sono il Redentore, Colui che ha sofferto e sa, per personale esperienza, cosa sia il dolore d’esser guardato con severità da Dio ed essere abbandonato da Lui, e non sono mai severo, e non abbandono mai. Consumo ugualmente, ma in un incendio d’amore.
4 Più l’ora dell’espiazione si avvicinava e più Io sentivo allontanarsi il Padre. Sempre più separato dal Padre, la mia Umanità si sentiva sempre meno sorretta dalla Divinità di Dio. E ne soffrivo in tutte le maniere. La separazione da Dio porta seco paura, porta seco attaccamento alla vita, porta seco languore, stanchezza, tedio. Più è profonda e più sono forti queste sue conseguenze. Quando è totale, porta disperazione. E quanto più chi, per un decreto di Dio, la prova senza averla meritata, più ne soffre, perché lo spirito vivo sente la recisione da Dio così come una carne viva sente la recisione di un arto. È uno stupore doloroso, accasciante, che chi non l’ha provato non intende.
Io l’ho provato. Tutto ho dovuto conoscere per potere di tutto perorare presso il Padre in vostro favore. Anche le vostre disperazioni. Oh, Io l’ho provato cosa vuol dire: “Sono solo. Tutti mi hanno tradito, abbandonato. Anche il Padre, anche Dio non m’aiuta più”. Ed è per questo che opero misteriosi prodigi di grazia presso i poveri cuori che la disperazione soverchia, e che chiedo ai miei prediletti di bere il mio calice così amaro di esperienza, perché essi, coloro che naufragano nel mare della disperazione, non ricusino la croce che offro per àncora e per salvezza, ma vi si afferrino ed Io li possa portare alla beata riva dove non vive che pace.
5 Nella sera del Giovedì, Io solo so se avrei avuto bisogno del Padre! Ero uno spirito già agonizzante per lo sforzo di aver dovuto superare i due più grandi dolori di un uomo: l’addio ad una madre amatissima, la vicinanza dell’amico infedele. Erano due piaghe che mi bruciavano il cuore. Una col suo pianto, l’altra col suo odio.
Avevo dovuto spezzare il mio pane col mio Caino. Avevo dovuto parlargli da amico per non accusarlo agli altri, della cui violenza non ero sicuro, e per impedire un delitto, inutile d’altronde poiché tutto era già segnato nel gran libro della vita: e la mia Morte santa, ed il suicidio di Giuda. Inutili altre morti riprovate da Dio. Nessuno altro sangue che non fosse il mio doveva esser sparso, e sparso non fu. Il capestro strozzò quella vita chiudendo nel sacco immondo del corpo del traditore il suo sangue impuro venduto a Satana, sangue che non doveva mescolarsi, cadendo sulla Terra, al Sangue purissimo dell’Innocente.
Sarebbero bastate quelle due piaghe a fare di Me un agonizzante nel mio Io. Ma ero l’Espiatore, la Vittima, l’Agnello. L’agnello, prima d’esser immolato, conosce il marchio rovente, conosce le percosse, conosce lo spogliamento, conosce la vendita al beccaio. Solo per ultimo conosce il gelo del coltello che penetra nella gola e svena e uccide. Prima deve lasciare tutto: il pascolo dove è cresciuto, la madre al cui petto si è nutrito e scaldato, i compagni con cui ha vissuto. Tutto. Io ho conosciuto tutto: Io, Agnello di Dio.
6 Perciò è venuto Satana, mentre il Padre si ritirava nei Cieli. Era già venuto all’inizio della mia missione, a tentarmi per sviarmi da essa. Ora tornava. Era la sua ora. L’ora della tregenda satanica.
Torme e torme di demoni erano quella notte sulla Terra, per portare a termine la seduzione nei cuori e farli pronti a volere il domani l’uccisione del Cristo. Ogni sinedrista aveva il suo, e il suo Erode, e il suo Pilato, e il suo ogni singolo giudeo che avrebbe invocato su lui il mio Sangue. Anche gli apostoli avevano il loro tentatore al fianco, che li assopiva mentre Io languivo, che li preparava alla viltà. Osserva il potere della purezza. Giovanni, il puro, si liberò primo fra tutti della grinfia demoniaca e tornò subito presso il suo Gesù e lo comprese nel suo inespresso desiderio, e mi condusse Maria.
Ma Giuda aveva Lucifero, ed Io avevo Lucifero. Egli nel cuore, Io al fianco. Eravamo i due principali personaggi della tragedia, e Satana si occupava personalmente di noi. Dopo aver condotto Giuda al punto di non potere più retrocedere, si volse a Me.
Con la sua astuzia perfetta, mi presentò le torture della carne con un verismo insuperabile. Anche nel deserto aveva cominciato dalla carne. Lo vinsi pregando. Lo spirito signoreggiò le paure della carne.
Mi presentò allora l’inutilità del mio morire, l’utilità di vivere per Me stesso senza occuparmi degli uomini ingrati. Vivere ricco, felice, amato. Vivere per la Madre mia, per non farla soffrire. Vivere per portare a Dio con un lungo apostolato tanti uomini, i quali, una volta Io morto, m’avrebbero dimenticato, mentre se fossi stato Maestro non per tre anni ma per lustri e lustri avrebbero finito ad immedesimarsi della mia dottrina. I suoi angeli mi avrebbero aiutato a sedurre gli uomini. Non vedevo che gli angeli di Dio non intervenivano nell’aiutarmi? Dopo, Dio mi avrebbe perdonato vedendo la messe di credenti che gli avrei portato. Anche nel deserto m’aveva indotto a tentare Iddio con l’imprudenza. Lo vinsi con la preghiera. Lo spirito signoreggiò la tentazione morale.
7 Mi presentò l’abbandono di Dio. Egli, il Padre, non mi amava più. Ero carico dei peccati del mondo. Gli facevo ribrezzo. Era assente, mi lasciava solo. Mi abbandonava al ludibrio di una folla feroce. E non mi concedeva neppure il suo divino conforto. Solo, solo, solo. In quell’ora non c’era che Satana presso il Cristo. Dio e gli uomini erano assenti, perché non mi amavano. Mi odiavano o erano indifferenti. Io pregavo per coprire col mio orare le parole sataniche. Ma la preghiera non saliva più a Dio. Ricadeva su Me come le pietre della lapidazione e mi schiacciava sotto la sua macia. La preghiera, che per Me era sempre carezza data al Padre, voce che saliva, ed alla quale rispondeva carezza e parola paterna, ora era morta, pesante, invano lanciata contro i Cieli chiusi.
Allora sentii l’amaro del fondo del calice. Il sapore della disperazione. Era questo che voleva Satana. Portarmi a disperare per fare di Me un suo schiavo. Ho vinto la disperazione e l’ho vinta con le sole mie forze, perché ho voluto vincerla. Con le sole mie forze di Uomo. Non ero più che l’Uomo. E non ero più che un uomo non più aiutato da Dio. Quando Dio aiuta è facile sollevare anche il mondo e sostenerlo come giocattolo di bimbo. Ma quando Dio non aiuta più, anche il peso di un fiore ci è faticoso.
Ho vinto la disperazione, e Satana suo creatore, per servire Dio e voi dandovi la Vita. Ma ho conosciuto la Morte. Non la morte fisica del crocifisso — quella fu meno atroce — ma la Morte totale, cosciente, del lottatore che cade, dopo aver trionfato, col cuore spezzato e il sangue che si stravasa nel trauma di uno sforzo superiore al possibile. Ed ho sudato sangue. Ho sudato sangue per essere fedele alla volontà di Dio.
8 Ecco perché l’angelo del mio dolore mi ha prospettato la speranza di tutti i salvati per il mio sacrificio come medicina al mio morire.
I vostri nomi! Ognuno m’è stato una stilla di farmaco infuso nelle vene per ridare loro tono e funzione, ognuno m’è stato vita che torna, luce che torna, forza che torna. Nelle inumane torture, per non urlare il mio dolore di Uomo, e per non disperare di Dio e dire che Egli era troppo severo e ingiusto verso la sua Vittima, Io mi sono ripetuto i vostri nomi. Io vi ho visti. Io vi ho benedetti da allora. Da allora vi ho portati nel cuore. E quando è per voi venuta la vostra ora di essere sulla Terra, Io mi sono proteso dai Cieli ad accompagnare la vostra venuta, giubilando al pensiero che un nuovo fiore di amore era nato nel mondo e che avrebbe vissuto per Me.
Oh! miei benedetti! Conforto del Cristo morente! La Madre, il Discepolo, le Donne pietose erano intorno al mio morire, ma voi pure c’eravate. I miei occhi morenti vedevano, insieme al volto straziato della Mamma mia, i vostri visi amorosi, e si sono chiusi così, beati di chiudersi perché vi avevano salvati, o voi che meritate il Sacrificio di un Dio».
16 febbraio 1944.
9 Dice Gesù:
«Hai conosciuto ormai tutti i dolori che hanno preceduto la Passione propriamente detta. Ora ti farò conoscere i dolori della Passione in atto. Quei dolori che più colpiscono la vostra mente quando li meditate.
Ma li meditate molto poco. Troppo poco. Non riflettete a quanto mi siete costati e di quale tortura è fatta la vostra salvezza. Voi che vi lamentate di una scorticatura, di un urto contro uno spigolo, di un male di capo, non pensate che Io ero tutto una piaga, che quelle piaghe erano invelenite da molte cose, che le cose stesse servivano a tormento del loro Creatore, perché torturavano il già torturato Dio-Figlio senza rispetto a Colui che, Padre del creato, le aveva formate.
Ma le cose non erano colpevoli. Era ancora e sempre l’uomo il colpevole. Il colpevole dal giorno che ascoltò Satana nel Paradiso terrestre. Non spine, non tossico, non ferocia avevano sino a quel momento le cose del creato per l’uomo creatura eletta. Dio lo aveva fatto re, questo uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, e nel suo paterno amore non aveva voluto che le cose potessero essere insidiose all’uomo. Satana mise l’insidia. Nel cuore dell’uomo per prima. Poi essa partorì all’uomo, colla punizione del peccato, triboli e spine.
10Ed ecco che Io, l’Uomo, ho dovuto soffrire anche per le cose e dalle cose, oltre che dalle persone. Queste mi dettero insulti e sevizie; quelle ne furono arma.
La mano che Dio aveva fatto all’uomo per distinguerlo dai bruti, la mano che Dio aveva insegnato all’uomo ad usare, la mano che Dio aveva messo in rapporto con la mente rendendola esecutrice dei comandi della mente, questa parte di voi così perfetta e che avrebbe dovuto aver solo carezze per il Figlio di Dio, dal quale aveva avuto solo carezze e guarigione se era malata, si rivoltò contro il Figlio di Dio e lo colpì di guanciate, di pugni, si armò di flagelli, si fece tenaglia per strappare capelli e barba, e maglio per conficcare i chiodi.
I piedi dell’uomo, che avrebbero dovuto unicamente correre solerti ad adorare il Figlio di Dio, furono veloci per venire a catturarmi, a sospingermi e trascinarmi per le vie dai miei carnefici, e per colpirmi di calci come non è lecito fare con un mulo restio.
La bocca dell’uomo, che avrebbe dovuto usare della parola, la parola che è dote data unicamente all’uomo su tutti gli animali creati, per lodare e benedire il Figlio di Dio, si empì di bestemmie e menzogne e gettò queste, insieme con la sua bava, contro la mia persona.
La mente dell’uomo, quella che è la prova della sua origine celeste, stancò se stessa per escogitare tormenti di un raffinato rigore.
11L’uomo, tutto l’uomo usò di se stesso, nelle sue singole parti, per torturare il Figlio di Dio. E chiamò la terra, con le sue forme, ad aiuto nel torturare. Fece, delle pietre dei torrenti, proiettili per ferirmi; dei rami delle piante, randelli per percuotermi; della ritorta canapa, laccio per trascinarmi, segandomi le carni; delle spine, una corona di pungente fuoco al mio capo stanco; dei minerali, un esasperato flagello; della canna, uno strumento di tortura; delle pietre delle vie, un’insidia al piede vacillante di Colui che saliva, morendo, per morire crocifisso.
E alle cose della terra si unirono le cose del cielo. Il freddo dell’alba al mio corpo già esausto dell’agonia dell’orto, il vento che esaspera le ferite, il sole che aumenta arsione e febbre e porta mosche e polvere, che abbacina gli occhi stanchi a cui le mani prigioniere non possono far riparo.
E alle cose del cielo si uniscono le fibre concesse all’uomo per rivestire la sua nudità: nel cuoio che diviene flagello, nella lana della veste che si attacca alle aperte piaghe dei flagelli e dà tortura di confricamento e di lacerazione ad ogni mossa.
12Tutto, tutto, tutto ha servito per tormentare il Figlio di Dio. Egli, per cui tutte le cose sono state create, nell’ora in cui era l’Ostia offerta a Dio ebbe tutte le cose nemiche. Non ha avuto sollievo, Maria, il tuo Gesù da nessuna cosa. Come vipere inferocite, tutto quanto è si volse a mordermi le carni e ad accrescere il patire.
Questo occorrerebbe pensare quando soffrite e, paragonando le vostre imperfezioni alla mia perfezione e il mio dolore al vostro, riconoscere che il Padre ama voi come non amò Me in quell’ora, ed amarlo perciò con tutti voi stessi, come Io l’ho amato nonostante il suo rigore».
Cap. DCIV. I processi e il rinnegamento di Pietro. Considerazioni su Pilato.
22-25 marzo 1945.
1 Incomincia il doloroso cammino per la stradetta sassosa che conduce dalla piazzetta dove Gesù fu catturato al Cedron e da questo, per altra stradetta, alla città. E subito incominciano i lazzi e le sevizie.
Gesù, legato come è ai polsi e persino alla cintura come fosse un pazzo pericoloso, con i capi delle funi affidati a degli energumeni briachi di odio, è stiracchiato qua e là come un cencio abbandonato all’ira di una torma di cuccioli. Ma, fossero cani coloro che così agiscono, sarebbero ancora scusabili. Invece hanno nome di uomini, sebbene dell’uomo non abbiano altro che l’aspetto. Ed è per dare maggior dolore che hanno pensato a quella legatura di due funi opposte, di cui una si occupa soltanto di imprigionare i polsi, e li sgraffia e sega col suo ruvido attrito, e l’altra, quella della cintura, comprime i gomiti contro il torace, e sega e opprime l’alto dell’addome, torturando il fegato e le reni, dove è fatto un enorme nodo e dove, ogni tanto, chi tiene i capi delle funi dà, con gli stessi, delle sferzate dicendo: «Arri! Via! Trotta, somaro!», e unisce anche dei calci, menati al dietro dei ginocchi del Torturato, che ne barcolla e non cade del tutto solo perché le funi lo tengono in piedi. Ma non evitano però che, stiracchiato verso destra da quello che si occupa delle mani e verso sinistra da quello che tiene la fune della cintura, Gesù vada ad urtare contro muretti e tronchi, e cada duramente contro la spalletta del ponticello per un più crudele strattone, ricevuto quando sta per valicare il ponticello sul Cedron. La bocca contusa sanguina. Gesù alza le mani legate per tergersi il sangue che brutta la barba, e non parla. È veramente l’agnello che non morde chi lo tortura.
Della gente è scesa intanto a prendere selci e ciottoli nel greto, e dal basso inizia una sassaiola sul facile bersaglio. Perché l’andare è stentato sul ponticello stretto e insicuro, su cui la gente si accalca facendo ostacolo a se stessa, e le pietre colpiscono Gesù sul capo, sulle spalle, e non Gesù solo. Ma anche i suoi aguzzini, che reagiscono lanciando bastoni e le stesse pietre. E tutto serve per colpire di nuovo Gesù sul capo e sul collo. Ma il ponte ha ben fine, ed ora la viuzza stretta getta ombre sulla mischia, perché la luna, che inizia il tramonto, non scende in quel vicolo contorto, e molte torce nel parapiglia si sono spente. Ma l’odio fa da lume per vedere il povero Martire, al quale fa da torturatrice anche la sua alta statura. È il più alto di tutti. Facile quindi il percuoterlo, l’acciuffarlo per i capelli obbligandolo a rovesciare violentemente indietro il capo, sul quale viene lanciata una manata di immonda materia, che gli deve per forza andare in bocca e negli occhi dando nausea e dolore.
2 Si inizia la traversata del sobborgo di Ofel, del sobborgo in cui tanto bene e tante carezze Egli ha sparso. La turba vociante richiama i dormenti sulle soglie, e se le donne hanno gridi di dolore e fuggono terrorizzate vedendo l’avvenuto, gli uomini, gli uomini che pure da Lui hanno avuto guarigioni, soccorsi, parole d’Amico, o chinano il capo rimanendo indifferenti, affettando noncuranza per lo meno, o passano dalla curiosità all’astio, al ghigno, all’atto di minaccia, e anche si accodano al corteo per seviziare. Satana è già all’opera…
Un uomo, un marito che vuole seguirlo per offenderlo, viene abbrancato dalla moglie urlante che gli grida: «Vigliacco! Se sei vivo è per Lui, lurido uomo pieno di marciume. Ricordalo!». Ma la donna viene sopraffatta dall’uomo, che la picchia bestialmente gettandola al suolo e che poi corre a raggiungere il Martire, sulla cui testa scaglia un sasso.
Un’altra donna, vecchia, cerca di sbarrare la strada al figlio, che accorre con un volto di iena e con un bastone per colpire lui pure, e gli grida: «Assassino del tuo Salvatore tu non sarai finché io vivo!». Ma la misera, colpita dal figlio con un calcio brutale all’inguine, stramazza gridando: «Deicida e matricida! Per il seno che squarci una seconda volta e per il Messia che ferisci, che tu sia maledetto!».
3 La scena aumenta sempre più in violenza man mano che ci si avvicina alla città.
Prima di giungere alle mura — e già sono aperte le porte, ed i soldati romani con le armi al piede osservano dove e come si svolge il tumulto, pronti ad intervenire se il prestigio di Roma ne fosse leso — vi è Giovanni con Pietro. Io credo che siano giunti lì da una scorciatoia presa valicando il Cedron più su del ponte e precedendo velocemente la turba, che va lenta, tanto da sé si ostacola. Stanno nella penombra di un androne, presso una piazzetta che precede le mura. E hanno sul capo i mantelli a far velo al volto. Ma, quando Gesù giunge, Giovanni lascia cadere il suo mantello e mostra la sua faccia pallida e sconvolta al libero chiarore della luna, che lì ancora fa lume prima di scomparire dietro il colle, che è oltre le mura e che sento designare come Tofet dagli sgherri catturatori. Pietro non osa scoprirsi. Ma però viene avanti per essere visto…
Gesù li guarda… ed ha un sorriso di una bontà infinita. Pietro gira su se stesso e torna nel suo angolo buio, con le mani sugli occhi, curvo, invecchiato, già un cencio d’uomo. Giovanni resta coraggiosamente dove è, e solo quando la turba vociante è passata raggiunge Pietro, lo prende per un gomito, lo guida come fosse un ragazzo che guida il padre cieco, ed entrano ambedue in città dietro alla folla schiamazzante.
Sento le esclamazioni stupite, derisorie, addolorate dei soldati romani. Chi fra essi maledice per essere stato levato dal letto per quel «pecorone stolto»; chi deride i giudei capaci di «prendere una mezza femmina»; chi compassiona la Vittima che «ha sempre visto buona»; e chi dice: «Preferirei mi avessero ucciso che vedere Lui in quelle mani. È un grande. La mia devozione è per due nel mondo: Egli e Roma». «Per Giove!», esclama il più alto in grado. «Io non voglio noie. Ora vado dall’alfiere. Pensi lui a dirlo a chi deve. Non voglio essere mandato a combattere i Germani. Questi ebrei puzzano e sono serpi e rogne. Ma qui è sicura la vita. Ed io sto per finire il tempo, e presso Pompei ho una fanciulla!…».
4 Perdo il resto per seguire Gesù, che procede per la via che fa un arco in salita per andare al Tempio. Ma vedo e comprendo che la casa di Anna, dove lo vogliono portare, è e non è in quel labirintico agglomerato che è il Tempio e che occupa tutto il colle di Sion. Essa ne è agli estremi, presso una serie di muraglioni, che paiono delimitare qui la città e da questo luogo si estendono con portici e cortili per il fianco del monte sino a giungere nel recinto del Tempio vero e proprio, ossia di quello in cui vanno gli israeliti per le loro diverse manifestazioni di culto.
Un alto portone ferrato si apre nella muraglia. A questo accorrono delle iene volonterose e bussano forte. E non appena si apre uno spiraglio irrompono dentro, quasi atterrando e calpestando la serva venuta ad aprire, e lo spalancano tutto perché la turba vociante, con il Catturato al centro, possa entrare. Ed entrata che è, ecco che chiudono e sprangano, paurosi forse di Roma o dei partigiani del Nazareno. I suoi partigiani! Dove sono?…
Percorrono l’atrio di ingresso e poi traversano un ampio cortile, un corridoio, e un altro portico e un nuovo cortile, e trascinano Gesù su per tre scalini, facendogli percorrere quasi di corsa un porticato sopraelevato sul cortile per giungere più presto ad una ricca sala, dove è un uomo anziano vestito da sacerdote.
«Dio ti consoli, Anna», dice colui che pare l’ufficiale, se ufficiale può chiamarsi il manigoldo che ha comandato quei briganti. «Eccoti il colpevole. Alla tua santità l’affido perché Israele sia mondato dalla colpa».
«Dio ti benedica per la tua sagacia e la tua fede».
Bella sagacia! Era bastata la voce di Gesù a farli cadere per terra al Getsemani.
5 «Chi sei Tu?».
«Gesù di Nazaret, il Rabbi, il Cristo. E tu mi conosci. Non ho agito nelle tenebre».
«Nelle tenebre, no. Ma hai traviato le folle con dottrine tenebrose. E il Tempio ha il diritto e il dovere di tutelare l’anima dei figli di Abramo».
«L’anima! Sacerdote di Israele, puoi dire che per l’anima del più piccolo o del più grande di questo popolo tu hai sofferto?».
«E Tu allora? Che hai fatto che possa chiamarsi sofferenza?».
«Che ho fatto? Perché me lo chiedi? Tutto Israele parla. Dalla città santa al più misero borgo anche le pietre parlano per dire quanto ho fatto. Ho dato la vista ai ciechi: la vista degli occhi e del cuore. Ho aperto l’udito ai sordi: alle voci della Terra e alle voci del Cielo. Ho fatto camminare gli storpi e i paralitici, perché iniziassero la marcia verso Dio dalla carne e poi procedessero con lo spirito. Ho mondato i lebbrosi, dalle lebbre che la Legge mosaica segnala e da quelle che rendono infetti presso Dio: i peccati. Ho risuscitato i morti, né dico che grande è il richiamare alla vita una carne, ma grande è redimere un peccatore, e l’ho fatto. Ho soccorso i poveri insegnando agli avidi e ricchi ebrei il precetto santo dell’amore del prossimo e, rimanendo povero nonostante il rio d’oro che mi passò fra le mani, ho asciugato più lacrime Io solo che non tutti voi, possessori di ricchezze. Ho dato infine una ricchezza che non ha nome: la conoscenza della Legge, la conoscenza di Dio, la certezza che siamo tutti uguali e che agli occhi santi del Padre uguale è il pianto o il delitto, sia che siano fatti o versati dal Tetrarca e dal Pontefice, o dal mendicante e dal lebbroso che muore sulla carraia. Questo ho fatto. Nulla più».
6 «Sai che da Te stesso ti accusi? Tu dici: le lebbre che rendono infetti a Dio e non sono segnalate da Mosè. Tu insulti Mosè e insinui che vi sono lacune nella sua Legge…».
«Non sua: di Dio. Così è. Più della lebbra, sventura della carne e che ha un termine, Io dico grave, e tale è, la colpa che è sventura ed eterna dello spirito».
«Tu osi dire che puoi rimettere i peccati. Come lo fai?».
«Se con un poco di acqua lustrale e il sacrificio di un ariete è lecito e credibile annullare una colpa, espiarla ed esserne mondati, come non lo potrà il mio pianto, il mio Sangue e il mio volere?».
«Ma Tu non sei morto. Dove è allora il Sangue?».
«Non sono ancora morto. Ma lo sarò perché è scritto. In Cielo da quando Sionne non era, da quando non era Mosè, da quando non era Giacobbe, da quando non era Abramo, da quando il re del Male morse al cuore l’uomo e lo avvelenò in lui e nei suoi figli. È scritto in Terra nel Libro in cui sono le voci dei profeti. È scritto nei cuori. Nel tuo, in quello di Caifa e dei sinedristi che non mi perdonano, no, questi cuori non mi perdonano di essere buono. Io ho assolto, anticipando sul Sangue. Ora compio l’assoluzione col lavacro in esso».
«Tu ci dici avidi e ignoranti del precetto d’amore…».
«E non è forse vero? Perché mi uccidete? Perché avete paura che Io vi detronizzi. Oh! non temete. Il mio Regno non è di questo mondo. Vi lascio padroni di ogni potere. L’Eterno sa quando dire il “Basta” che vi farà cadere fulminati…».
«Come Doras, eh?».
«Egli morì d’ira. Non per fulmine celeste. Dio lo attendeva dall’altra parte per fulminarlo».
«E lo ripeti a me? Suo parente? Osi?».
«Io sono la Verità. E la Verità non è mai vile».
«Superbo e folle!».
«No: sincero. Mi accusi di farvi offesa. Ma non odiate forse voi tutti? L’un coll’altro vi odiate. Ora l’odio per Me vi unisce. Ma domani, quando mi avrete ucciso, tornerà l’odio fra voi, e più fiero, e vivrete con questa iena alle spalle e questo serpente nel cuore. Io ho insegnato l’amore. Per pietà del mondo. Ho insegnato ad essere non avidi, ad avere misericordia.
7 Di che mi accusi?».
«Di avere messo una dottrina nuova».
«O sacerdote! Israele pullula di nuove dottrine: gli esseni hanno la loro, i sadochiti la loro, i farisei la loro; ognuno ha la sua segreta, che per uno ha nome piacere, per l’altro oro, per l’altro potere; e ognuno ha il suo idolo. Non Io. Io ho ripreso la calpestata Legge del Padre mio, del Dio eterno, e sono tornato a dire semplicemente le dieci proposizioni del Decalogo, asciugandomi i polmoni per farle entrare nei cuori che non le conoscevano più».
«Orrore! Bestemmia! A me, sacerdote, dire questo? Non ha un Tempio, Israele? Siamo come i percossi di Babilonia? Rispondi».
«Questo siete. E più ancora. Vi è un Tempio. Sì. Un edificio. Dio non c’è. È fuggito davanti all’abominio che è nella sua casa. Ma a che mi interroghi tanto, se tanto è decisa la mia morte?».
«Non siamo assassini. Uccidiamo se ne abbiamo il diritto per colpa provata.
8 Ma io ti voglio salvare. Dimmi, e ti salverò. Dove sono i tuoi discepoli? Se Tu me li consegni, io ti lascio libero. Il nome di tutti, e più gli occulti che i palesi. Di’: Nicodemo è tuo? E tuo Giuseppe? E Gamaliele? E Eleazaro? E… Ma di questo lo so… Non occorre. Parla. Parla. Lo sai: ti posso uccidere e salvare. Sono potente».
«Sei fango. Lascio al fango il mestiere della spia. Io sono Luce».
Uno sgherro gli sferra un pugno.
«Io sono Luce. Luce e Verità. Ho parlato apertamente al mondo, ho insegnato nelle sinagoghe e nel Tempio, dove si radunano i giudei, e nulla ho detto in segreto. Lo ripeto. Perché interroghi Me? Interroga quelli che hanno sentito ciò che Io ho detto. Essi lo sanno».
Un altro sgherro gli lascia andare un ceffone urlando: «Così rispondi al Sommo Sacerdote?».
«Ad Anna Io parlo. Il Pontefice è Caifa. E parlo col rispetto dovuto per il vecchio. Ma se ti pare che abbia parlato male, dimostramelo. Se no, perché mi percuoti?».
«Lascialo fare.
9 Io vado da Caifa. Voi tenetelo qui fino a mio comando. E fate che non parli con nessuno». Anna esce.
Non parla, no, Gesù. Neppure con Giovanni, che osa stare sulla porta sfidando tutta la plebe sgherrana. Ma Gesù, senza parole, gli deve dare un comando, perché Giovanni, dopo uno sguardo accorato, esce di lì e lo perdo di vista.
Gesù resta fra gli aguzzini. Colpi di corda, sputi, lazzi, calci, stiracchiate ai capelli, sono quanto gli resta. Finché un servo viene a dire di portare il Prigioniero in casa di Caifa.
E Gesù, sempre legato e malmenato, esce di nuovo sotto il portico, lo percorre fino ad un androne e poi traversa un cortile in cui molta folla si scalda ad un fuoco, perché la notte si è fatta rigida e ventosa in queste prime ore del venerdì. Vi è anche Pietro con Giovanni, mescolati fra la folla ostile. E devono avere un bel coraggio a stare lì… Gesù li guarda e ha un’ombra di sorriso sulla bocca già enfiata dai colpi ricevuti.
Un lungo cammino fra portici e atri e cortili e corridoi. Ma che case avevano questa gente del Tempio?
Ma nel recinto ponteficale la folla non entra. Viene respinta nell’atrio di Anna. Gesù va solo, fra sgherri e sacerdoti.
10Entra in una vasta sala, che pare perdere la sua forma rettangolare per i molti scanni messi a ferro di cavallo su tre pareti, lasciando al centro uno spazio vuoto oltre il quale sono due o tre seggi alzati su predelle.
Mentre Gesù sta per entrare, rabbi Gamaliele lo raggiunge e le guardie danno uno strattone al Prigioniero perché ceda l’entrata al rabbi di Israele. Ma questo, rigido come una statua, ieratico, rallenta e, muovendo appena le labbra senza guardare nessuno, chiede: «Chi sei? Dimmelo». E Gesù dolcemente: «Leggi i profeti e ne avrai risposta. Il segno primo è in essi. L’altro verrà».
Gamaliele raccoglie il suo manto ed entra. E dietro a lui entra Gesù. Mentre Gamaliele va su uno scanno, Gesù viene trascinato al centro dell’aula, di fronte al Pontefice: una faccia da delinquente vera e propria. E si attende finché entrano tutti i membri del Sinedrio.
Poi ha inizio la seduta. Ma Caifa vede due o tre seggi vuoti e chiede: «Dove è Eleazaro? E dove Giovanni?».
Si alza un giovane scriba, credo, si inchina e dice: «Hanno ricusato di venire. Qui è lo scritto».
«Si conservi e si scriva. Ne risponderanno.
11Che hanno i santi membri di questo Consiglio da dire sopra costui?».
«Io parlo. Nella mia casa Egli violò il sabato. Me ne è testimonio Dio se io mento. Ismael ben Fabi non mente mai».
«È vero, accusato?».
Gesù tace.
«Io lo vidi convivere con meretrici note. Fingendosi profeta, aveva fatto del suo covo un lupanare e con donne pagane per colmo. Con me erano Sadoc, Callascebona e Nahum fiduciario di Anna. Dico il vero, Sadoc e Callascebona? Smentitemi, se lo merito».
«Vero è. Vero è».
«Che dici?».
Gesù tace.
«Non mancava occasione per deriderci e farci deridere. La plebe più non ci ama per Lui».
«Li odi? Hai profanato i membri santi».
Gesù tace.
«Quest’uomo è indemoniato. Reduce dall’Egitto, esercita la magia nera».
«Come lo provi?».
«Sulla mia fede e sulle tavole della Legge!».
«Grave accusa. Discolpati».
Gesù tace.
«Illegale è il tuo ministero, lo sai. E passibile di morte. Parla».
«Illegale è questa nostra seduta. Alzati, Simeone, e andiamo», dice Gamaliele.
«Ma rabbi, ammattisci?».
«Rispetto le formule. Lecito non è procedere come procediamo. E ne farò pubblica accusa». E rabbi Gamaliele esce, rigido come una statua, seguito da un uomo sui trentacinque anni che gli somiglia.
12Vi è un poco di tumulto, di cui approfittano Nicodemo e Giuseppe per parlare in favore del Martire.
«Gamaliele ha ragione. Illecita è l’ora e il luogo, e non consistenti le accuse. Può uno accusarlo di noto vilipendio alla Legge? Io gli sono amico e giuro che sempre lo trovai rispettoso alla Legge», dice Nicodemo.
«Ed io pure. E per non sottoscrivere ad un delitto mi copro il capo, non per Lui, ma per noi, ed esco». E Giuseppe fa per scendere dal suo posto e uscire.
Ma Caifa sbraita: «Ah! così dite? Vengano i testimoni giurati, allora. E udite. Poi ve ne andrete».
Entrano due tipi da galera. Sguardi sfuggenti, ghigni crudeli, subdole mosse.
«Parlate».
«Non è lecito udirli insieme», urla Giuseppe.
«Io sono il Sommo Sacerdote. Io ordino. E silenzio!».
Giuseppe dà un pugno su un tavolo e dice: «Si aprano su te le fiamme del Cielo! Da questo momento sappi che l’Anziano Giuseppe è nemico del Sinedrio e amico del Cristo. E con questo passo vado a dire al Pretore che qui si uccide senza ossequio a Roma», ed esce violentemente dando uno spintone ad un magro e giovane scriba che lo vorrebbe trattenere.
Nicodemo, più pacato, esce senza dire parola. E nell’uscire passa davanti a Gesù e lo guarda…
13Nuovo tumulto. Si teme Roma. E la vittima espiatoria è sempre e ancora Gesù.
«Per Te, vedi, tutto questo! Tu corruttore dei migliori giudei. Prostituiti li hai».
Gesù tace.
«Parlino i testimoni», urla Caifa.
«Sì, costui usava il… il… Lo sapevamo… Come si chiama quella cosa?».
«Il tetragramma forse?».
«Ecco! L’hai detto! Evocava i morti. Insegnava ribellione al sabato e profanazione all’altare. Lo giuriamo. Diceva che Egli voleva distruggere il Tempio per riedificarlo in tre giorni con l’aiuto dei demoni».
«No. Diceva: non sarà fabbricato dall’uomo».
Caifa scende dal suo seggio e viene presso Gesù. Piccolo, obeso, brutto, pare un enorme rospo vicino ad un fiore. Perché Gesù, nonostante sia ferito, contuso, sporco e spettinato, è ancora tanto bello e maestoso. «Non rispondi? Che accuse ti fanno! Orrende! Parla, per levare da Te la loro onta».
Ma Gesù tace. Lo guarda e tace.
14«Rispondi a me, allora. Sono il tuo Pontefice. In nome del Dio vivo io ti scongiuro. Dimmi: sei Tu il Cristo, il Figlio di Dio?».
«Tu lo hai detto. Io lo sono. E vedrete il Figliuolo dell’uomo, seduto alla destra della Potenza del Padre, venire sulle nubi del cielo. Del resto, a che mi interroghi? Ho parlato in pubblico per tre anni. Nulla ho detto di occulto. Interroga quelli che mi hanno udito. Essi ti diranno ciò che ho detto e ciò che ho fatto».
Uno dei soldati che lo tengono lo colpisce sulla bocca, facendola sanguinare di nuovo, e urla: «Così rispondi, o satana, al Sommo Pontefice?».
E Gesù, mite, risponde a questo come a quello di prima: «Se ho parlato bene, perché mi percuoti? Se male, perché non mi dici dove erro? Ripeto: Io sono il Cristo, Figlio di Dio. Non posso mentire. Il sommo Sacerdote, l’eterno Sacerdote Io sono. E Io solo porto il vero Razionale su cui è scritto: Dottrina e Verità. E a queste Io sono fedele. Sino alla morte, ignominiosa agli occhi del mondo, santa agli occhi di Dio, e sino alla beata Risurrezione. Io sono l’Unto. Pontefice e Re Io sono. E sto per prendere il mio scettro e con esso, come con ventilabro, mondare l’aia. Questo Tempio sarà distrutto e risorgerà, nuovo, santo. Perché questo è corrotto e Dio lo ha lasciato al suo destino».
«Bestemmiatore!», urlano tutti in coro. «In tre giorni lo farai, folle e posseduto?».
«Non questo. Ma il mio risorgerà, il Tempio del Dio vero, vivo, santo, tre volte santo».
«Anatema!», urlano di nuovo in coro.
Caifa alza la sua voce chioccia, e si strappa le vesti di lino con atti di studiato orrore, e dice: «Che altro abbiamo da udire dai testimoni? La bestemmia è detta. Che dunque facciamo?».
E tutti in coro: «Sia reo di morte».
E con atti di sdegno e di scandalo escono dalla sala, lasciando Gesù alla mercede degli sgherri e della plebaglia dei falsi testimoni, che con schiaffi, con pugni, con sputi, legandogli gli occhi con uno straccio e poi tirandogli violentemente i capelli, lo sbalestrano qua e là a mani legate, di modo che urta contro tavoli, scranni e muri, e intanto gli chiedono: «Chi ti ha percosso? Indovina». E più volte, facendogli sgambetto fra le gambe, lo fanno stramazzare bocconi, e ridono sgangheratamente vedendo come, a mani legate, Egli stenti a rialzarsi.
15Passano così le ore, e i carnefici, stanchi, pensano di prendere un poco di riposo. Portano Gesù in uno sgabuzzino, facendogli attraversare molte corti fra i lazzi della plebe, già folta nel recinto delle case ponteficali.
Gesù giunge nella corte dove è Pietro presso al suo fuoco. E lo guarda. Ma Pietro ne sfugge lo sguardo. Giovanni non c’è più. Io non lo vedo. Penso sia andato via con Nicodemo…
L’alba viene avanti stentata e verdolina. Un ordine è dato: riportare il Prigioniero nella sala del Consiglio per un più legale processo. È il momento che Pietro nega per la terza volta di conoscere il Cristo quando Questi passa, già segnato dai patimenti. E nella luce verdognola dell’alba le lividure sembrano ancor più atroci sul volto terreo, gli occhi più fondi e vitrei, un Gesù offuscato dal dolore del mondo…
Un gallo getta nell’aria appena mossa dell’alba il suo grido irridente, sarcastico, monello. E in questo momento di gran silenzio, che si è fatto all’apparizione del Cristo, non si sente che l’aspra voce di Pietro dire: «Lo giuro, donna. Non lo conosco»: affermazione recisa, sicura, alla quale, come una risata beffarda, subito risponde il birichino canto del galletto.
Pietro ha un sussulto. Gira su se stesso per fuggire e si trova di fronte a Gesù che lo guarda con infinita pietà, con un dolore così accorato e intenso che mi spezza il cuore, come se dopo quello dovessi vedere dissolversi, e per sempre, il mio Gesù. Pietro ha un singhiozzo ed esce barcollando come fosse ebbro. Fugge dietro a due servi che escono nella via e si perde giù per la strada ancora semibuia.
Gesù è riportato nell’aula. E gli ripetono in coro la domanda capziosa: «In nome del Dio vero, di’ a noi: sei il Cristo?».
E, avutane la risposta di prima, lo condannano a morte e dànno ordine di condurlo a Pilato.
16Gesù, scortato da tutti i suoi nemici meno Anna e Caifa, esce ripassando da quei cortili del Tempio in cui tante volte aveva parlato e beneficato e guarito, valica la cinta merlata, entra nelle vie cittadine e, più strascinato che condotto, scende verso la città che si fa rosa in un primo annuncio d’aurora.
Credo che, con l’unico scopo di tormentarlo più a lungo, gli facciano fare un lungo giro vizioso per Gerusalemme, passando ad arte dai mercati, davanti agli stallaggi e agli alberghi colmi di gente per la Pasqua. E tanto le verdure di scarto dei mercati, come gli escrementi degli animali degli stallaggi, divengono proiettili per l’Innocente, il cui volto appare con sempre maggiori lividi e piccole lacerazioni sanguinanti, e velato dalle sudicerie varie che su di esso si sono sparse. I capelli, già appesantiti e lievemente stesi dal sudore sanguigno e resi più opachi, ora pendono spettinati, sparsi di paglie e immondezze, cadenti sugli occhi perché glieli scompigliano per velargli la faccia.
La gente dei mercati, compratori e venditori, lasciano tutto in asso per seguire, e non con amore, l’Infelice. Gli stallieri e i servi degli alberghi escono in massa, sordi ai richiami e agli ordini delle padrone, le quali, a dire il vero, come quasi tutte le altre donne, sono, se non contrarie tutte alle offese, almeno indifferenti al tumulto, e si ritirano brontolando per essere lasciate sole con tanta gente che hanno da servire.
Il codazzo urlante ingrossa così di minuto in minuto e sembra che, per una improvvisa epidemia, animi e fisionomie cambino natura, divenendo, i primi, animi di delinquenti e, le seconde, maschere di ferocia in volti verdi di odio o rossi di ira; e le mani artigliano, e le bocche prendono forma e ululo di lupo, e gli occhi divengono biechi, rossi, strabici come quelli di folli. Solo Gesù è sempre quello, sebbene ormai velato dalle immondezze sparse sul suo corpo e alterato da lividure e gonfiori.
17Ad un archivolto che stringe la via come un anello, mentre tutto si ingorga e rallenta, un grido fende l’aria: «Gesù!». È Elia, il pastore, che cerca di farsi largo roteando un pesante randello. Vecchio, potente, minaccioso e forte, riesce a giungere quasi dal Maestro. Ma la folla, sgominata dall’improvviso assalto, restringe le sue file e separa, respinge, soverchia il solo contro tutta una plebe. «Maestro!», urla mentre il gorgo della folla lo assorbe e respinge.
«Vai!… La Madre… Ti benedico…».
E il corteo supera il punto ristretto. E, come acqua che ritrova il largo dopo una chiusa, si rovescia tumultuando in un ampio viale sopraelevato sopra una depressione fra due colli, ai cui termini sono splendidi palazzi di gran signori.
Torno a vedere il Tempio sull’alto del suo colle e comprendo che il cerchio ozioso fatto fare al Condannato, per darlo in berlina a tutta la città e permettere a tutti di insultarlo, aumentando passo per passo gli insultatori, sta per conchiudersi di nuovo tornando sui luoghi di prima.
18Da un palazzo esce al galoppo un cavaliere. La gualdrappa porpurea sopra il candore del cavallo arabo e l’imponenza del suo aspetto, la spada brandita nuda, e menata di piatto e di taglio su schiene e su teste che sanguinano, lo fanno parere un arcangelo. Quando in un caracollo, in un’impennata del cavallo che corvetta, facendo degli zoccoli un’arma di difesa per se stesso e per il padrone e il più valido degli strumenti di apertura per farsi largo fra la folla, gli cade[10] dal capo il velo di porpora e oro che lo copriva, tenuto stretto da una striscia in oro, riconosco Manaem.
«Indietro!», urla. «Come vi permettete turbare i riposi del Tetrarca?». Ma questo non è che una finta per giustificare il suo intervento e il suo tentativo di giungere a Gesù. «Quest’uomo… lasciatemelo vedere… Scostatevi, o chiamo le guardie…».
La gente, e per la grandine delle piattonate, e per i calci del cavallo, e per la minaccia del cavaliere, si apre, e Manaen raggiunge il gruppo di Gesù e delle guardie del Tempio che lo tengono.
«Via! Il Tetrarca è da più di voi, luridi servi. Indietro. Gli voglio parlare», e lo ottiene caricando con la sua spada il più accanito dei carcerieri.
«Maestro!…».
«Grazie. Ma vai! E Dio ti conforti!». E, come può con le mani legate, Gesù fa un cenno di benedizione.
La folla fischia da lontano e, non appena vede che Manaen si ritira, si vendica d’essere stata respinta con una grandine di pietre e di immondezze sul Condannato.
19Per il viale, che è in salita ed è già tutto tiepido di sole, ci si avvia verso la torre Antonia, la cui mole già appare lontano.
Un grido acuto di donna: «Oh! il mio Salvatore! La mia vita per la sua, o Eterno!», fende l’aria.
Gesù gira il capo e vede, dall’alto della loggia fiorita che incorona una casa molto bella, Giovanna di Cusa fra serve e servi, coi piccoli Maria e Mattia intorno, tendere le braccia al cielo. Ma il Cielo non sente preghiera oggi! Gesù solleva le mani e traccia un gesto di benedicente addio.
«A morte! A morte il bestemmiatore, il corruttore, il satanasso! A morte gli amici di esso», e fischi e sassi vengono frombolati verso l’alta terrazza. Non so se qualcuno sia ferito. Sento un grido acutissimo e poi vedo scomporsi il gruppo e scomparire.
E avanti, avanti, salendo… Gerusalemme mostra le sue case al sole, vuote, svuotate dall’odio che spinge tutta una città, coi suoi effettivi abitanti e coi posticci qui convenuti per la Pasqua, contro un inerme.
20Dei soldati romani, tutto un manipolo, esce di corsa dall’Antonia con le aste puntate contro la plebaglia, che urlando si sperde. Restano in mezzo alla via Gesù con le guardie e i capi dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani del popolo.
«Quest’uomo? Questa sedizione? Ne risponderete a Roma», dice altezzoso un centurione.
«È reo di morte secondo la nostra legge».
«E da quando vi è stato reso l’jus gladii et sanguinis ?», chiede sempre il più anziano dei centurioni, un volto severo, veramente romano, con una guancia divisa da una cicatrice profonda. E parla con lo sprezzo e il ribrezzo con cui avrebbe parlato a galeotti pidocchiosi.
«Lo sappiamo che non lo abbiamo questo diritto. Siamo i fedeli dipendenti di Roma…».
«Ah! Ah! Ah! Sentili, Longino! Fedeli! Dipendenti! Carogne! Le frecce dei miei arcieri vi darei per premio».
«Troppo nobile tal morte! Le schiene dei muli vogliono solo il flagrum!…», risponde con ironica flemma Longino.
I capi dei sacerdoti, scribi e anziani spumano veleno. Ma vogliono ottenere lo scopo loro e tacciono, inghiottono l’offesa senza mostrare di capirla e, inchinandosi ai due capi, chiedono che Gesù sia portato da Ponzio Pilato perché «giudichi e condanni con la ben nota e onesta giustizia di Roma».
«Ah! Ah! Odili! Siamo divenuti più saggi di Minerva… Qui! Date! E marciate avanti! Non si sa mai. Voi siete sciacalli e fetenti. Avervi alle spalle è un pericolo. Avanti!».
«Non possiamo».
«E perché? Quando uno accusa deve essere davanti al giudice coll’accusato. Questa è la regola di Roma».
«La casa di un pagano è immonda agli occhi nostri, e noi già siamo purificati per la Pasqua».
«Oh! miserini! Si contaminano a entrare!… E l’uccisione dell’unico ebreo che uomo sia, e non sciacallo e rettile vostro pari, non vi sporca? Va bene. State dove siete, allora. Non un passo avanti o sarete infilzati sulle aste. Una decuria intorno all’Accusato. Le altre contro questa marmaglia sitente di becco mal lavato».
21Gesù entra nel Pretorio in mezzo ai dieci astati, che fanno un quadrato di alabarde intorno alla sua persona. I due centurioni vanno avanti. Mentre Gesù sosta in un largo atrio, oltre il quale è un cortile che si intravvede dietro una tenda che il vento sommuove, essi scompaiono dietro una porta.
Rientrano col Governatore, vestito di una toga bianchissima sulla quale però è un manto scarlatto. Forse così erano quando rappresentavano ufficialmente Roma. Entra indolentemente, con un sorrisetto scettico sul volto sbarbato, stropiccia fra le mani delle fronde di erba cedrina e le fiuta con voluttà. Va ad una meridiana, si rivolge dopo averla guardata. Getta dei grani d’incenso nel braciere posto ai piedi di un nume. Si fa portare acqua cedrata e si gargarizza la gola. Si rimira la pettinatura tutta a onde in uno specchio di metallo tersissimo. Pare che abbia dimenticato il Condannato che aspetta la sua approvazione per essere ucciso. Farebbe venire l’ira anche alle pietre.
Gli ebrei, posto che l’atrio è tutto aperto sul davanti e sopraelevato di tre alti scalini anche sul vestibolo, che si apre sulla via già sopraelevato di altri tre sulla via stessa, vedono tutto benissimo e fremono. Ma non osano ribellarsi per paura delle aste e dei giavellotti.
Finalmente, dopo avere girato e rigirato per l’ampio luogo, Pilato va diritto incontro a Gesù, lo guarda e chiede ai due centurioni: «Questo?».
«Questo».
«Vengano i suoi accusatori», e va a sedersi sulla sedia posta sulla predella. Sul suo capo le insegne di Roma si incrociano con le loro aquile dorate e la loro sigla potente.
«Non possono venire. Si contaminano».
«Euè!!! Meglio. Eviteremo fiumi d’essenze per levare il caprino al luogo. Fateli avvicinare, almeno. Qui sotto. E badate non entrino, posto che non vogliono farlo. Può essere un pretesto, quest’uomo, per una sedizione».
Un soldato parte per portare l’ordine del Procuratore romano. Gli altri si schierano sul davanti dell’atrio a distanze regolari, belli come nove statue di eroi.
22Vengono avanti i capi dei sacerdoti, scribi e anziani, e salutano con servili inchini e si fermano sulla piazzetta che è al davanti del Pretorio, oltre i tre gradini del vestibolo.
«Parlate e siate brevi. Già in colpa siete per avere turbato la notte e ottenuto l’apertura delle porte con violenza. Ma verificherò. E mandanti e mandatari risponderanno della disubbidienza al decreto». Pilato è andato verso di loro, rimanendo nel vestibolo.
«Noi veniamo a sottoporre a Roma, di cui tu rappresenti il divino Imperatore, il nostro giudizio su costui».
«Quale accusa portate contro di lui? Mi sembra un innocuo…».
«Se non fosse malfattore non te lo avremmo portato». E nella smania di accusare si fanno avanti.
«Respingete questa plebe! Sei passi oltre i tre scalini della piazza. Le due centurie all’armi!».
I soldati ubbidiscono veloci, allineandosi cento sul gradino esterno più alto, con le spalle volte al vestibolo, e cento sulla piazzetta su cui si apre il portone d’ingresso alla dimora di Pilato. Ho detto portone: dovrei dire androne o arco trionfale, perché è una vastissima apertura limitata da un cancello, ora spalancato, che immette nell’atrio per il lungo corridoio del vestibolo largo almeno sei metri, di modo che ben si vede ciò che avviene nell’atrio sopraelevato. Oltre l’ampio vestibolo si vedono le facce bestiali dei giudei guardare minacciose e sataniche verso l’interno, guardare dall’al di là della barriera armata che, gomito a gomito, come per una parata, presenta duecento punte ai conigli assassini.
«Quale accusa portate verso costui, ripeto».
«Ha commesso delitto contro la Legge dei padri».
«E venite a seccare me per questo? Pigliatelo voi e giudicatelo secondo le vostre leggi».
«Noi non possiamo dar morte ad alcuno. Dotti non siamo. Il Diritto ebraico è un pargolo deficiente rispetto al perfetto Diritto di Roma. Come ignoranti e come soggetti di Roma, maestra, abbiamo bisogno…».
«Da quando siete miele e burro?… Ma avete detto una verità, o maestri del mendacio! Di Roma avete bisogno! Sì. Per sbarazzarvi di costui che vi dà noia. Ho compreso». E Pilato ride, guardando il cielo sereno che si inquadra come una rettangolare lastra di cupa turchese fra le marmoree e candide pareti dell’atrio. «Dite: in che ha commesso delitto contro le vostre leggi?».
«Noi abbiamo trovato che costui metteva il disordine nella nostra nazione e che impediva di pagare il tributo a Cesare, dicendosi il Cristo, re dei giudei».
23Pilato ritorna presso Gesù, che è al centro dell’atrio, lasciato là dai soldati, legato ma senza scorta tanto appare netta la sua mansuetudine. E gli chiede: «Sei Tu il re dei giudei?».
«Per te lo chiedi o per insinuazione d’altri?».
«E che vuoi che me ne importi del tuo regno? Son forse io giudeo? La tua nazione e i capi di essa mi ti hanno consegnato perché io giudichi. Che hai fatto? Ti so leale. Parla. È vero che aspiri al regno?».
«Il mio Regno non viene da questo mondo. Se fosse un regno del mondo, i miei ministri e i miei soldati avrebbero combattuto perché i giudei non mi pigliassero. Ma il mio Regno non è della Terra. E tu lo sai che al potere Io non tendo».
«Ciò è vero. Lo so. Mi fu detto. Ma però Tu non neghi d’essere re?».
«Tu lo dici. Io sono Re. Per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla Verità. Chi è amico della Verità ascolta la mia voce».
«E che cosa è la Verità? Sei filosofo? Non serve di fronte alla morte. Socrate morì lo stesso».
«Ma gli servì di fronte alla vita, a ben vivere. E anche a ben morire. E ad andare nella vita seconda senza nome di traditore delle civiche virtù».
«Per Giove!». Pilato lo guarda ammirato qualche momento. Poi lo riprende il sarcasmo scettico. Fa un atto di noia, gli volge le spalle, torna verso i giudei. «Io non trovo in Lui alcuna colpa».
La folla tumultua, presa dal panico di perdere la preda e lo spettacolo del supplizio. E urla: «È un ribelle!», «Un bestemmiatore», «Incoraggia il libertinaggio», «Eccita alla ribellione», «Nega rispetto a Cesare», «Si finge profeta senza esserlo», «Compie magie», «È un satana», «Solleva il popolo con le sue dottrine insegnando in tutta la Giudea, alla quale è venuto dalla Galilea insegnando», «A morte!», «A morte!».
«Galileo è? Galileo sei?». Pilato torna da Gesù: «Lo senti come ti accusano? Discolpati».
Ma Gesù tace.
24Pilato pensa… E decide. «Una centuria, e da Erode costui. Lo giudichi. È suo suddito. Riconosco il diritto del Tetrarca e al suo verdetto sottoscrivo in anticipo. Gli sia detto. Andate».
E Gesù, inquadrato come un manigoldo da cento soldati, riattraversa la città e torna ad incontrare Giuda Iscariota, che già aveva incontrato una volta presso un mercato. Prima mi ero dimenticata di dirlo, presa dal disgusto della zuffa popolana. Lo stesso sguardo di pietà sul traditore…
Ora è più difficile colpirlo con calci e bastoni, ma le pietre e le immondezze non mancano e, se i sassi cadono sonando senza ferire sugli elmi e le corazze romane, ben lasciano un segno colpendo Gesù, che procede col solo vestito, avendo lasciato il mantello nel Getsemani.
Nell’entrare nel fastoso palazzo di Erode, Egli vede Cusa… che non sa guardarlo e che fugge per non vederlo in quello stato, coprendosi il capo col mantello.
25Eccolo nella sala, davanti a Erode. E, dietro Lui, ecco gli scribi e i farisei, che qui si sentono a loro agio, entrare da accusatori mendaci. Solo il centurione con quattro militi lo scortano davanti al Tetrarca.
Questo scende dal suo seggio e gira intorno a Gesù, mentre ascolta le accuse dei nemici suoi. E sorride e beffeggia. Poi finge una pietà e un rispetto che non turbano il Martire come non lo hanno turbato i motteggi.
«Sei grande. Lo so. Ti ho seguito e ho avuto giubilo che Cusa ti fosse amico e Manaem discepolo. Io… le cure di Stato… Ma che desiderio di dirti: grande… di chiederti perdono… L’occhio di Giovanni… la sua voce mi accusano e sempre davanti a me sono. Tu sei il santo che annulla i peccati del mondo. Assolvimi, o Cristo».
Gesù tace.
«Ho sentito che ti accusano di esserti drizzato contro Roma. Ma non sei Tu la verga promessa per percuotere Assur?».
Gesù tace.
«Mi hanno detto che Tu profetizzi la fine del Tempio e di Gerusalemme. Ma non è eterno il Tempio come spirito, essendo voluto da Chi eterno è?».
Gesù tace.
«Sei folle? Hai perduto il potere? Satana ti inceppa la parola? Ti ha abbandonato?». Erode ride, ora.
26Ma poi dà un ordine. E dei servi accorrono portando un levriere dalla gamba spezzata, che guaisce lamentosamente, e uno stalliere ebete dalla testa acquosa, sbavante, un aborto d’uomo, trastullo dei servi. Gli scribi e i sacerdoti fuggono urlando al sacrilegio, quando vedono la barella del cane. Erode, falso e beffardo, spiega: «È il preferito di Erodiade. Dono di Roma. Si è spezzato ieri una zampa ed ella piange. Comanda che guarisca. Fa’ miracolo».
Gesù lo guarda severo. E tace.
«Ti ho offeso? Allora questo. È un uomo, benché di poco sia più che una belva. Dàgli l’intelligenza, Tu, Intelligenza del Padre… Non dici così?». E ride, offensivo.
Altro più severo sguardo di Gesù e silenzio.
«Quest’uomo è troppo astinente e ora è intontito dagli spregi. Vino e donne, qui. E sia slegato».
Lo slegano. E mentre servi, in gran numero, portano anfore e coppe, entrano danzatrici… coperte di niente: una frangia multicolore di lino cinge per unica veste la loro sottile persona, dalla cintura alle anche. Null’altro. Bronzee perché africane, snelle come gazzelle giovinette, iniziano una danza silenziosa e lasciva.
Gesù respinge le coppe e chiude gli occhi senza parlare. La corte di Erode ride davanti al suo sdegno.
«Prendi quella che vuoi. Vivi! Impara a vivere!…», insinua Erode.
Gesù pare una statua. A braccia conserte, occhi serrati, non si scuote neppure quando le impudiche danzatrici lo sfiorano coi loro corpi nudi.
«Basta. Ti ho trattato da Dio e non hai agito da Dio. Ti ho trattato da uomo e non hai agito da uomo. Sei folle. Una veste bianca. Rivestitelo di essa perché Ponzio Pilato sappia che il Tetrarca ha giudicato folle il suo suddito. Centurione, dirai al Proconsole che Erode gli umilia il suo rispetto e venera Roma. Andate».
E Gesù, legato di nuovo, esce, con una tunica di lino, che gli giunge al ginocchio, sopra la rossa veste di lana.
E tornano da Pilato.
27Ora, quando la centuria fende a fatica la folla, che non si è stancata di attendere davanti al palazzo proconsolare — ed è strano vedere tanta folla in quel luogo e nelle vicinanze, mentre il resto della città appare vuoto di popolo — Gesù vede in gruppo i pastori, e sono al completo, ossia Isacco, Gionata, Levi, Giuseppe, Elia, Mattia, Giovanni, Simeone, Beniamino e Daniele, insieme ad un gruppetto di galilei di cui riconosco Alfeo e Giuseppe di Alfeo, insieme a due altri che non conosco ma che direi giudei alla acconciatura. E più oltre, scivolato fin dentro al vestibolo, seminascosto dietro una colonna, insieme ad un romano che direi un servo, vede Giovanni. Sorride a questo e a quelli… I suoi amici… Ma che sono questi pochi, e Giovanna e Manaem e Cusa, in mezzo ad un oceano di odio che bolle?…
28Il centurione saluta Ponzio Pilato e riferisce.
«Qui ancora?! Auf! Maledetta questa razza! Fate avanzare la plebaglia e portate qui l’Accusato. Euè! che noia!».
Va verso la folla, sempre fermandosi a metà vestibolo.
«Ebrei, udite. Mi avete condotto quest’uomo come sobillatore del popolo. Davanti a voi l’ho esaminato e non ho trovato in Lui nessuno dei delitti di cui lo accusate. Erode non più di me ha trovato. E a noi lo ha rimandato. Non merita la morte. Roma ha parlato. Però, per non dispiacervi levandovi il sollazzo, vi darò in cambio Barabba[13]. E Lui lo farò colpire con quaranta colpi di fustigazione. Basta così».
«No, no! Non Barabba! Non Barabba! A Gesù la morte! E morte orrenda! Libera Barabba e condanna il Nazzareno».
«Ma udite! Ho detto fustigazione. Non basta? Lo farò flagellare, allora! È atroce, sapete? Può morire per essa. Che ha fatto di male? Io non trovo nessuna colpa in Lui. E lo libererò».
«Crocifiggi! Crocifiggi! A morte! Protettore dei delinquenti sei! Pagano! Satana tu pure!».
La folla si fa sotto e la prima schiera di soldati ondeggia nell’urto, non potendo usare le aste. Ma la seconda fila, scendendo d’un gradino, rotea le aste e libera i compagni.
«Sia flagellato», ordina Pilato a un centurione.
«Quanto?».
«Quanto ti pare… Tanto è affare finito. E io sono annoiato. Va’».
29Gesù viene tradotto da quattro soldati nel cortile oltre l’atrio. In esso, tutto selciato di marmi colorati, è al centro un’alta colonna simile a quella del porticato. A un tre metri dal suolo essa ha un braccio di ferro sporgente per almeno un metro e terminante in anello. A questa viene legato Gesù con le mani congiunte sull’alto del capo, dopo che fu fatto spogliare. Egli resta unicamente con delle piccole brache di lino e i sandali. Le mani legate ai polsi vengono alzate sino all’anello, di modo che Egli, per quanto sia alto, non poggia al suolo che la punta dei piedi… E deve essere tortura anche questa posizione.
Ho letto non so dove che la colonna era bassa e Gesù stava curvo. Sarà. Io vedo così e così dico.
Dietro a Lui si colloca uno dalla faccia di boia, dal netto profilo ebraico; davanti a Lui, un altro dalla faccia uguale. Sono armati del flagello, fatto di sette strisce di cuoio legate ad un manico e terminanti in un martelletto di piombo. Ritmicamente, come per un esercizio, si dànno a colpire. Uno davanti, l’altro di dietro, di modo che il tronco di Gesù è in una ruota di sferze e di flagelli.
I quattro soldati a cui è consegnato, indifferenti, si sono messi a giocare a dadi con altri tre soldati sopraggiunti. E le voci dei giuocatori si cadenzano sul suono dei flagelli, che fischiano come serpi e poi suonano come sassi gettati sulla pelle tesa di un tamburo, percuotendo il povero corpo così snello e di un bianco d’avorio vecchio, e che diviene prima zebrato di un rosa sempre più vivo, poi viola, poi si orna di rilievi d’indaco gonfi di sangue, e poi si crepa e rompe lasciando colare sangue da ogni parte. E infieriscono specie sul torace e l’addome, ma non mancano i colpi dati alle gambe e alle braccia e fin sul capo, perché non vi fosse brano di pelle senza dolore.
E non un lamento… Se non fosse sostenuto dalla fune, cadrebbe. Ma non cade e non geme. Solo la testa gli pende, dopo colpi e colpi ricevuti, sul petto, come per svenimento.
«Ohé! Fermati! Deve essere ucciso da vivo», urla e motteggia un soldato.
I due boia si fermano e si asciugano il sudore.
«Siamo sfiniti», dicono. «Dateci la paga, che si possa bere per ristorarsi…».
«La forca vi darei! Ma prendete…», e un decurione getta una larga moneta ad ognuno dei due boia.
«Avete lavorato a dovere. Pare un mosaico. Tito, dici che era proprio questo l’amore di Alessandro? Allora gliene daremo notizia perché faccia il lutto. Sleghiamolo un poco».
30Lo slegano e Gesù si accascia al suolo come morto. Lo lasciano là, urtandolo ogni tanto col piede calzato dalle calighe per vedere se geme. Ma Egli tace.
«Che sia morto? Possibile? È giovane e artiere, mi hanno detto… e pare una dama delicata».
«Ora ci penso io», dice un soldato. E lo mette seduto con la schiena alla colonna. Dove Egli era, sono grumi di sangue… Poi va ad una fontanella che chioccola sotto al portico, empie un mastello d’acqua e la rovescia sul capo e sul corpo di Gesù. «Così! Ai fiori fa bene l’acqua».
Gesù sospira profondamente e fa per alzarsi, ma ancora sta ad occhi chiusi.
«Oh! bene. Su, bellino! Che ti aspetta la dama!…».
Ma Gesù inutilmente punta al suolo i pugni nel tentativo di drizzarsi.
«Su! Svelto! Sei debole? Ecco il ristoro», ghigna un altro soldato. E con l’asta della sua alabarda mena una bastonata al viso e coglie Gesù fra lo zigomo destro e il naso, che si mette a sanguinare.
Gesù apre gli occhi, li gira. Uno sguardo velato… Fissa il soldato percuotitore, si asciuga il sangue con la mano, e poi, con molto sforzo, si pone in piedi.
«Vestiti. Non è decenza stare così. Impudico!». Ridono tutti in cerchio intorno a Lui.
Egli ubbidisce senza parlare. Ma mentre si china — e solo Lui sa quello che soffre nel piegarsi al suolo, così contuso come è, e con le piaghe che nel tendersi della pelle si aprono più ancora, e altre che se ne formano per vesciche che si rompono — un soldato dà un calcio alle vesti e le sparpaglia e, ogni volta che Gesù le raggiunge andando barcollante dove esse cadono, un soldato le spinge o le getta in altra direzione. E Gesù, soffrendo acutamente, le insegue senza una parola, mentre i soldati lo deridono oscenamente.
Può finalmente rivestirsi. E rimette anche la veste bianca, rimasta pulita in un angolo. Pare voglia nascondere la sua povera veste rossa, solo ieri tanto bella ed ora lurida di immondizie e macchiata del sangue sudato nel Getsemani. Anzi, prima di mettersi la tunichella corta sulla pelle, con essa si asciuga il volto bagnato e lo deterge così da polvere e sputi. Ed esso, il povero, santo volto, appare pulito, solo segnato da lividi e piccole ferite. E si ravvia i capelli caduti scomposti e la barba per un innato bisogno di essere ordinato nella persona.
E poi si accoccola al sole. Perché trema, il mio Gesù… La febbre comincia a serpeggiare in Lui con i suoi brividi. E anche la debolezza del sangue perduto, del digiuno, del molto cammino, si fa sentire.
31Gli legano di nuovo le mani. E la corda torna a segare là dove è già un rosso braccialetto di pelle scorticata.
«E ora? Che ne facciamo? Io mi annoio!».
«Aspetta. I giudei vogliono un re. Ora glielo diamo. Quello lì…», dice un soldato.
E corre fuori, in un retrostante cortile certo, dal quale torna con un fascio di rami di biancospino selvatico, ancora flessibili perché la primavera tiene relativamente morbidi i rami, ma ben duri nelle spine lunghe e acuminate. Con la daga levano foglie e fioretti, piegano a cerchio i rami e li calcano sul povero capo. Ma la barbara corona ricade sul collo.
«Non ci sta. Più stretta. Levala».
La levano e sgraffiano le guance, risicando di accecarlo, e strappano i capelli nel farlo. La stringono. Ora è troppo stretta e, per quanto la pigino conficcando gli aculei nel capo, essa minaccia di cadere. Via di nuovo strappando altri capelli. La modificano di nuovo. Ora va bene. Davanti è un triplice cordone spinoso. Dietro, dove gli estremi dei tre rami si incrociano, è un vero nodo di spini che entrano nella nuca.
«Vedi come stai bene? Bronzo naturale e rubini schietti. Specchiati, o re, nella mia corazza», motteggia l’ideatore del supplizio.
«Non basta la corona a fare un re. Ci vuole porpora e scettro. Nella stalla è una canna e nella cloaca è una clamide rossa. Prendile, Cornelio».
E, avutele, mettono il sudicio straccio rosso sulle spalle di Gesù e, prima di mettergli fra le mani la canna, gliela dànno sul capo inchinandosi e salutando: «Ave, re dei Giudei», e si sbellicano dalle risa.
Gesù li lascia fare. Si lascia mettere seduto sul «trono» — un mastello capovolto, certo usato per abbeverare i cavalli — si lascia colpire, schernire, senza mai parlare. Li guarda solo… ed è uno sguardo di una dolcezza e di un dolore così atroce che non lo posso sostenere senza sentirne ferita al cuore.
32I soldati smettono lo scherno solo alla voce aspra di un superiore che ordina la traduzione davanti a Pilato del reo. Reo! Di che?
Gesù è riportato nell’atrio, ora coperto da un prezioso velario per il sole. Ha ancora la corona, la clamide e la canna.
«Vieni avanti. Che io ti mostri al popolo».
Gesù, già franto, si raddrizza dignitoso. Oh! che è veramente re!
«Udite, ebrei. Qui è l’uomo. Io l’ho punito. Ma ora lasciatelo andare».
«No, no! Vogliamo vederlo! Fuori! Che si veda il bestemmiatore!».
«Conducetelo fuori. E guardate non sia preso».
E mentre Gesù esce nel vestibolo e si mostra nel quadrato dei soldati, Ponzio Pilato lo accenna colla mano dicendo: «Ecco l’Uomo. Il vostro re. Non basta ancora?».
Il sole di una giornata afosa, che ormai scende quasi diritto perché si è a metà tra terza e sesta, accende e dà risalto agli sguardi e ai volti: sono uomini quelli? No: iene idrofobe. Urlano, mostrano i pugni, chiedono morte…
Gesù sta eretto. E le assicuro che mai ebbe la nobiltà di ora. Neppure quando faceva i più potenti miracoli. Nobiltà di dolore. Ma talmente divino che basterebbe a segnarlo del nome di Dio. Ma per dire quel Nome bisogna essere almeno uomini. E Gerusalemme non ha uomini, oggi. Ma solo demoni.
Gesù gira lo sguardo sulla folla, cerca, trova, nel mare dei visi astiosi, i volti amici. Quanti? Meno di venti amici in migliaia di nemici… E curva il capo colpito da questo abbandono. Una lacrima cade… un’altra… un’altra… La vista del suo pianto non genera pietà, ma ancor più fiero odio.
33Viene riportato nell’atrio.
«Dunque? Lasciatelo andare. È giustizia».
«No. A morte. Crocifiggi».
«Vi do Barabba».
«No. Il Cristo!».
«E allora prendetelo voi. E da voi crocifiggetelo. Perché io non trovo alcuna colpa in Lui per farlo».
«Si è detto Figlio di Dio. La nostra legge commina la morte al reo di tale bestemmia».
Pilato si fa pensoso. Rientra. Si siede sul suo tronetto. Pone una mano alla fronte e il gomito sul ginocchio e scruta Gesù. «Avvicinati», dice.
Gesù va ai piedi della predella.
«È vero? Rispondi».
Gesù tace.
«Da dove vieni? Chi è Dio?».
«È il Tutto».
«E poi? Che vuol dire il Tutto? Che è il Tutto per chi muore? Sei folle… Dio non è. Io sono».
Gesù tace. Ha lasciato cadere la grande parola e poi torna a fasciarsi di silenzio.
34«Ponzio, la liberta di Claudia Procula chiede di entrare. Ha uno scritto per te».
«Domine! Anche le donne ora! Venga».
Entra una romana e si inginocch
34«Ponzio, la liberta di Claudia Procula chiede di entrare. Ha uno scritto per te».
«Domine! Anche le donne ora! Venga».
Entra una romana e si inginocchia porgendo una tavoletta cerata. Deve essere quella su cui Procula prega il marito di non condannare Gesù. La donna si ritira a ritroso mentre Pilato legge.
«Mi si consiglia evitare il tuo omicidio. È vero che sei più di un aruspice? Mi fai paura».
Gesù tace.
«Ma non sai che ho potere di liberarti o di crocifiggerti?».
«Nessun potere avresti, se non ti fosse dato dall’alto. Perciò, chi mi ha dato nelle tue mani è più colpevole di te».
«Chi è? Il tuo Dio? Ho paura…».
Gesù tace.
Pilato è sulle spine. Vorrebbe e non vorrebbe. Teme il castigo di Dio, teme quello di Roma, teme le vendette giudee. Vince un momento la paura di Dio. Va sul davanti dell’atrio e tuona: «Non è colpevole».
«Se lo dici, sei nemico di Cesare. Chi si fa re è suo nemico. Tu vuoi liberare il Nazzareno. Faremo sapere a Cesare questo».
Pilato viene preso dalla paura dell’uomo.
«Lo volete morto, insomma? E sia. Ma il sangue di questo giusto non sia sulle mie mani», e fattosi portare un catino si lava le mani alla presenza del popolo, che pare preso da frenesia mentre urla: «Su noi, su noi il suo sangue. Su noi ricada e sui nostri figli. Non lo temiamo. Alla croce! Alla croce!».
35Ponzio Pilato torna sul tronetto, chiama il centurione Longino e uno schiavo. Dallo schiavo si fa portare una tavola su cui appoggia un cartello e vi fa scrivere: «Gesù Nazareno, Re dei Giudei». E lo mostra al popolo.
«No. Non così. Non re dei Giudei. Ma che ha detto che sarebbe re dei Giudei», così urlano in molti.
«Ciò che ho scritto, ho scritto», dice duro Pilato e, dritto in piedi, stende la mano a palma in avanti e volta in basso e ordina: «Vada alla croce. Soldato, va’. Prepara la croce». (Ibis ad crucem! I, miles, expedi crucem). E scende senza neppure più voltarsi verso la folla in tumulto, né verso il pallido Condannato. Esce dall’atrio…
Gesù resta al centro di esso, sotto la guardia dei soldati, in attesa della croce.
10 marzo 1944. Venerdì.
36Dice Gesù:
«Ti voglio far meditare il punto che si riferisce ai miei incontri con Pilato.
Giovanni, che essendo stato quasi sempre presente, o per lo meno molto prossimo, è il testimone e narratore più esatto, racconta come, uscito dalla casa di Caifa, Io fui portato al Pretorio. E specifica “di mattina presto”. Infatti, lo hai visto, il giorno si iniziava appena. Specifica anche: “essi (i giudei) non entrarono per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua”.
Ipocriti come sempre, essi trovavano pericolo di contaminarsi nel calpestare la polvere della casa di un gentile, ma non trovavano peccato uccidere un Innocente e, coll’animo soddisfatto del delitto compiuto, poterono gustare meglio ancora la Pasqua. Hanno anche ora molti seguaci. Tutti quelli che nell’interno agiscono male e all’esterno professano rispetto alla religione e amore a Dio, sono simili a questi. Formule, formule e non religione vera! Mi fanno ripugnanza e sdegno.
Non entrando i giudei da Pilato, uscì Pilato per udire che avesse la turba vociferante e, esperto come era nel governo e nel giudizio, con un solo sguardo comprese che il reo non ero Io, ma quel popolo ubbriaco di odio. L’incontro dei nostri sguardi fu una reciproca lettura dei nostri cuori. Io giudicai l’uomo per quel che era. Egli giudicò Me per quel che ero. In Me venne per lui della pietà perché era un uomo debole. Ed in lui venne per Me della pietà perché ero un innocente. Cercò di salvarmi dal primo momento. E, dato che unicamente a Roma era deferito e riserbato il diritto di esercitare giustizia verso i malfattori, tentò di salvarmi dicendo: “Giudicatelo secondo la vostra legge”.
37Ipocriti per la seconda volta, i giudei non vollero dare condanna. Vero che Roma aveva diritto di giustizia, ma quando, ad esempio, Stefano venne lapidato, Roma imperava tuttora su Gerusalemme ed essi, ciononostante, definirono e consumarono giudizio e supplizio senza curarsi di Roma. Per Me, di cui avevano non amore ma odio e paura — non mi volevano credere Messia, ma non volevano uccidermi materialmente nel dubbio lo fossi — agirono in maniera diversa e mi accusarono come sobillatore contro la potenza di Roma (voi direste: “ribelle”) per ottenere che Roma mi giudicasse.
Nella loro aula infame, e più volte nei tre anni del mio ministero, mi avevano accusato d’esser bestemmiatore e falso profeta, e come tale avrei dovuto esser da essi lapidato o comunque ucciso. Ma ora, per non compiere materialmente il delitto di cui sentono per istinto che sarebbero puniti, lo fanno compiere a Roma accusandomi d’esser malfattore e ribelle.
Nulla di più facile, quando le folle sono pervertite ed i capi insatanassati, di accusare un innocente per sfogare la loro libidine di ferocia e di usurpazione, e levare di mezzo chi rappresenta un ostacolo e un giudizio. Siamo tornati ai tempi di allora. Il mondo ogni tanto, dopo una incubazione di idee perverse, esplode in queste manifestazioni di pervertimento. Come una immensa gestante, la folla, dopo aver nutrito nel suo seno con dottrine da fiera il suo mostro, lo partorisce perché divori. Divori per primi i migliori e poi divori se stessa.
38Pilato rientra nel Pretorio e mi chiama vicino. E mi interroga.
Egli aveva già sentito parlare di Me. Fra i suoi centurioni c’erano alcuni che ripetevano il mio Nome con amore riconoscente, con le lacrime agli occhi e il sorriso nel cuore, e parlavano di Me come di un benefattore. Nei loro rapporti al Pretore, interrogati su questo Profeta che attirava a Sé le folle e predicava una dottrina nuova in cui si parlava di un regno strano, inconcepibile a mente pagana, essi avevano sempre risposto che ero un mite, un buono che non cercavo onori di questa Terra e che inculcavo e praticavo il rispetto e l’ubbidienza verso coloro che sono le autorità. Più sinceri degli israeliti, essi vedevano e deponevano la verità.
La scorsa domenica egli, attratto dal clamore della folla, si era affacciato sulla via ed aveva visto passare su un’asinella un uomo disarmato, benedicente, circondato da bimbi e da donne. Aveva compreso che non poteva certo essere in quell’uomo un pericolo per Roma.
Vuol dunque sapere se Io sono re. Nel suo ironico scetticismo pagano, voleva ridere un poco su questa regalità che cavalca un asino, che ha per cortigiani dei bambini scalzi, delle donne sorridenti, degli uomini del popolo, di questa regalità che da tre anni predica di non avere attrazioni per le ricchezze ed il potere e che non parla di altre conquiste fuorché quelle dello spirito e di anima. Che è l’anima per un pagano? Neppure i suoi dèi hanno un’anima. E la può avere l’uomo? Anche ora questo re senza corona, senza reggia, senza corte, senza soldati, gli ripete che il suo regno non è di questo mondo. Tanto vero che nessun ministro e nessuna milizia insorge a difendere il suo re ed a strapparlo ai nemici.
Pilato, seduto sul suo seggio, mi scruta, perché Io sono un enigma per lui. Sgomberasse l’anima dalle sollecitudini umane, dalla superbia della carica, dall’errore del paganesimo, comprenderebbe subito Chi sono. Ma come può la luce penetrare dove troppe cose occludono le aperture perché la luce entri?
39Sempre così, figli. Anche ora. Come può entrare Dio e la sua luce là dove non c’è più spazio per loro, e le porte e finestre sono sbarrate e difese dalla superbia, dall’umanità, dal vizio, dall’usura, da tante, tante guardie al servizio di Satana contro Dio?
Pilato non può capire quale sia il mio regno. E, quel che è doloroso, non chiede che Io glielo spieghi. Al mio invito perché egli conosca la Verità, egli, l’indomabile pagano, risponde: «Che cosa è la verità?», e lascia cadere con una alzata di spalle la questione.
Oh! figli, figli miei! Oh! miei Pilati di ora! Anche voi, come Ponzio Pilato, lasciate cadere con una alzata di spalle le questioni più vitali. Vi sembrano cose inutili, sorpassate. Cosa è la Verità? Denaro? No. Donne? No. Potere? No. Salute fisica? No. Gloria umana? No. E allora si lasci perdere. Non merita che si corra dietro ad una chimera. Denaro, donne, potere, buona salute, comodi, onori, queste sono cose concrete, utili, da amarsi e raggiungersi a qualunque scopo. Voi ragionate così. E, peggio di Esaù, barattate i beni eterni per un cibo grossolano che vi nuoce nella salute fisica e che vi nuoce per la salute eterna. Perché non persistete a chiedere: “Cosa è la verità”? Essa, la Verità, non chiede che di farsi conoscere, per istruirvi su di essa. Vi sta davanti come a Pilato e vi guarda con occhi di amore supplicante, implorandovi: “Interrogami. Ti istruirò”.
Vedi come guardo Pilato? Ugualmente guardo voi tutti così. E, se ho sguardo di sereno amore per chi mi ama e chiede le mie parole, ho sguardi di accorato amore per chi non mi ama, non mi cerca, non mi ascolta. Ma amore, sempre amore, perché l’Amore è la mia natura.
40Pilato mi lascia dove sono, senza interrogare di più, e va dai malvagi che hanno la voce più grossa e che si impongono con la loro violenza. E li ascolta, questo sciagurato che non ha ascoltato Me e che ha respinto con una scrollata di spalle il mio invito a conoscere la Verità. Ascolta la Menzogna. L’idolatria, quale che sia la sua forma, è sempre portata a venerare ed accettare la Menzogna, quale che sia. E la Menzogna, accettata da un debole, porta il debole al delitto.
Pure Pilato, sulle soglie del delitto, mi vuole salvare ancora e una e due volte. È qui che mi manda a Erode. Sa bene che il re astuto, che barcamena fra Roma e il suo popolo, agirà in modo da non ledere Roma e da non urtare il popolo ebreo. Ma, come tutti i deboli, allontana di qualche ora la decisione che non si sente di prendere, sperando che la sommossa plebea si calmi.
Io ho detto: “Il vostro linguaggio sia: sì, sì; no, no”. Ma egli non l’ha sentito o, se qualcuno glielo ha ripetuto, ha fatto la solita alzata di spalle. Per vincere nel mondo, per avere onori e lucro, occorre saper fare del sì un no, o del no un sì, a seconda che il buon senso (leggi: senso umano) consigli.
Quanti, quanti Pilati che ha il ventesimo secolo! Dove sono gli eroi del cristianesimo che dicevano sì, costantemente sì alla Verità e per la Verità, e no, costantemente no per la Menzogna? Dove sono gli eroi che sanno affrontare il pericolo e gli eventi con fortezza d’acciaio e con serena prontezza e non dilazionano, perché il Bene va subito compiuto e il Male subito fuggito senza “ma” e senza “se”?
41Al mio ritorno da Erode, ecco la nuova transazione di Pilato: la flagellazione. E che sperava? Non sapeva che la folla è la belva che, quando comincia a vedere il sangue, inferocisce? Ma dovevo esser franto per espiare i vostri peccati di carne. E vengo franto. Non ho più un brano del mio corpo che non sia percosso. Sono l’Uomo di cui parla Isaia. E al supplizio ordinato si aggiunge quello non ordinato, ma creato dalla crudeltà umana, delle spine.
Lo vedete, uomini, il vostro Salvatore, il vostro Re, coronato di dolore per liberarvi il capo da tante colpe che vi fermentano? Non pensate quale dolore ha subito la mia testa innocente per pagare per voi, per i vostri sempre più atroci peccati di pensiero che si tramutano in azione? Voi, che vi offendete anche quando non c’è motivo di farlo, guardate al Re offeso, ed è Dio, col suo ironico manto di porpora lacera, con lo scettro di canna e la corona di spine. È già morente e lo schiaffeggiano ancora con le mani e con gli scherni. Né ve ne muovete a pietà. Come i giudei, continuate a mostrarmi i pugni, a gridare: “Via, via, non abbiamo altro dio che Cesare”, o idolatri che non adorate Dio, ma voi stessi e chi fra voi è più prepotente. Non volete il Figlio di Dio. Per i vostri delitti non vi dà aiuto. Più servizievole è Satana. Volete perciò Satana. Del Figlio di Dio avete paura. Come Pilato. E quando lo sentite incombere su voi con la sua potenza, agitarsi in voi con la voce della coscienza che vi rimprovera in suo nome, chiedete come Pilato: “Chi sei?”.
Chi sono lo sapete. Anche quelli che mi negano sanno che sono e Chi sono. Non mentite. Venti secoli stanno intorno a Me e vi illustrano Chi sono e vi istruiscono sui miei prodigi. È più perdonabile Pilato. Non voi, che avete un retaggio di venti secoli di cristianesimo per sorreggere la vostra fede o per inculcarvela, e non ne volete sapere. Eppure con Pilato fui più severo che con voi. Non risposi. Con voi parlo. E, ciononostante, non riesco a persuadervi che sono Io, che mi dovete adorazione e ubbidienza.
Anche ora mi accusate di esser Io stesso la rovina di Me in voi, perché non vi ascolto. Dite di perdere la fede per questo. Oh! mentitori! Dove l’avete la fede? Dove è il vostro amore? Quando mai pregate e vivete con amore e fede? Siete dei grandi? Ricordatevi che tali siete perché Io lo permetto. Siete degli anonimi fra la folla? Ricordatevi che non vi è altro Dio che Io. Niuno è da più di Me e avanti di Me. Datemi dunque quel culto d’amore che mi spetta ed Io vi ascolterò, perché non sarete più dei bastardi ma dei figli di Dio.
42Ed ecco l’ultimo tentativo di Pilato per salvarmi la vita, dato che la potessi salvare dopo la spietata e illimitata flagellazione. Mi presenta alla folla: “Ecco l’Uomo!”. A lui faccio umanamente pietà. Spera nella pietà collettiva. Ma, davanti alla durezza che resiste ed alla minaccia che avanza, non sa compiere un atto soprannaturalmente giusto, e perciò buono, e dire: “Io libero costui perché è innocente. Voi siete dei colpevoli e, se non vi disperdete, conoscerete il rigore di Roma”. Questo doveva dire se era un giusto, senza calcolare il futuro male che gliene sarebbe venuto.
Pilato è un falso buono. Buono è Longino che, meno potente del Pretore e meno difeso, in mezzo alla via, circondato da pochi soldati e da una moltitudine nemica, osa difendermi, aiutarmi, concedermi di riposare, di confortarmi con le donne pietose, di esser soccorso dal Cireneo e infine di avere la Mamma ai piedi della Croce. Quello fu un eroe della giustizia e divenne per questo un eroe di Cristo.
Sappiatelo, o uomini che vi preoccupate unicamente del vostro bene materiale, che anche ai sensi di questo il vostro Dio interviene quando vi vede fedeli alla giustizia che è emanazione di Dio. Io premio sempre chi agisce con rettezza. Io difendo chi mi difende. Io lo amo e soccorro. Sono sempre Quello che ha detto: “Chi darà un bicchier d’acqua in mio nome avrà ricompensa”. A chi mi dà amore, acqua che disseta il mio labbro di Martire divino, Io do Me stesso, ossia protezione e benedizione».
Cap. DCV. Disperazione e suicidio di Giuda Iscariota. Avrebbe ancora potuto salvarsi se si fosse pentito.
31 marzo 1944. Venerdì di Passione, ore 2 ant.ne
1 Ecco la mia penosissima visione di queste prime ore del Venerdì di Passione, presentatamisi mentre facevo l’Ora di Maria Desolata, perché avevo pensato che passare la notte, che precede la Professione, in compagnia della Vergine dei Sette Dolori fosse la più bella preparazione alla Professione.
2 Vedo Giuda. È solo. Vestito di giallo chiaro e con un cordone rosso alla vita. Il mio interno ammonitore mi avverte che da poco è stato catturato Gesù e che Giuda, fuggito subito dopo la cattura, è ora in preda ad un contrasto di pensieri. Infatti l’Iscariota pare una belva furente e braccata da una muta di mastini. Ogni sospiro di vento fra le fronde, il frusciare che fa un qualche che per le vie, il gemito di una fontanella, lo fanno sussultare e volgersi con sospetto e terrore, come si sentisse raggiunto da un giustiziere. Gira il capo tenendolo basso, a collo torto, gira gli occhi come chi vuol vedere e ha paura di vedere e, se un giuoco di luna crea un’ombra dalla parvenza umana, egli sbarra gli occhi, fa un salto indietro, diventa anche più livido di quanto non sia, si arresta un istante e poi fugge a precipizio, tornando sui suoi passi, scantonando per altre viuzze, sinché un altro rumore, un altro giuoco di luce, lo fa arretrare e fuggire in altra direzione.
Nel suo andare pazzo va così verso l’interno della città. Ma un clamore di popolo l’avverte che è presso alla casa di Caifa, e allora, portandosi le mani al capo e curvandosi come se quei gridi fossero altrettante pietre che lo lapidino, fugge, fugge. E nel fuggire prende una stradetta che lo porta diritto verso la casa dove fu consumata la Cena. Se ne accorge, quando è davanti ad essa, per una fontanella che geme a quel punto della via. Il piangere dell’acqua, che goccia e cade nel piccolo bacino di pietra, e un fischio debole di vento, che insinuandosi per la via stretta fa come un represso lamento, gli devono sembrare il pianto del Tradito e il lamento del Suppliziato. Si tappa gli orecchi per non udire e scappa ad occhi chiusi per non vedere quella porta, da cui poche ore avanti è passato col Maestro e dalla quale egli è uscito per andare a prendere gli armati per catturarlo.
3 Nel correre, così alla cieca, va a urtare contro un cane randagio, il primo cane che vedo da quando ho le visioni, un grosso cane grigio e irsuto, che con un ringhio si scansa, pronto a slanciarsi contro il suo disturbatore. Giuda apre gli occhi e incontra le due pupille fosforescenti che lo fissano e vede il biancore delle zanne scoperte che pare abbiano un riso diabolico. Dà un urlo di terrore. Il cane, che forse lo crede un urlo di minaccia, si avventa, e i due rotolano nella polvere: Giuda sotto, paralizzato dalla paura, il cane sopra. Quando la bestia lascia la preda, giudicata forse indegna di una lotta, Giuda sanguina per due o tre morsi e il suo mantello presenta dei vasti strappi.
Un morso lo ha proprio addentato alla guancia, nel preciso posto dove egli ha baciato Gesù. La guancia sanguina, e sangue brutta la veste giallognola di Giuda al collo. Gli fa come un collare di sangue, imbibendo di sé il cordone rosso che stringe al collo la veste, facendolo più rosso ancora. Giuda, portandosi la mano alla guancia e guardando il cane che si allontana, ma lo guata dall’insenatura di una porta, mormora: «Belzebù!», e con un nuovo urlo fugge inseguito dal cane per qualche tempo. Fugge sino al ponticello che è prossimo al Getsemani. Qui, sia perché stanco di inseguirlo, sia perché fosse idrofobo e l’acqua lo allontani, il cane lascia la preda e torna indietro ringhiando. Giuda, che si era gettato nel torrente per prendere pietre da scagliare al cane, quando lo vede allontanare si guarda intorno, si vede con l’acqua sino a metà polpaccio. Senza curarsi della veste, che sempre più si bagna, si curva sull’acqua e beve come fosse preso da arsione di febbre, e si lava la guancia che sanguina e deve dolere.
4 Al lume di un primo svegliarsi di alba risale il greto. Dall’altra parte, come avesse ancora paura del cane e non osasse tornare verso la città. Fa qualche metro e si trova nell’ingresso dell’orto degli Ulivi. Grida: «No! No!», riconoscendo il posto. Ma poi, non so per quale forza irresistibile o per quale sadismo satanico e criminale, avanza in quel luogo. Cerca il posto dove è avvenuta la cattura. La terra del sentiero scompigliata da molte pedate, l’erba calpestata in un dato punto e del sangue per terra, forse quello di Malco, lo avvisano che lì egli ha indicato ai carnefici l’Innocente.
Guarda, guarda… e poi ha un urlo roco e fa un balzo indietro. Grida: «Quel sangue, quel sangue!…», e lo indica… a chi? col braccio teso e l’indice puntato. Nella luce che aumenta il suo volto è terreo e spettrale. Pare un pazzo. Ha gli occhi sbarrati e lucidi come per delirio, i capelli scompigliati dalla corsa e dal terrore sembrano stare irti sul capo, la guancia che va enfiando gli torce la bocca in un ghigno. La veste strappata, insanguinata, bagnata, motosa, perché la polvere si è appiccicata al bagnato ed è divenuta fango, lo fa simile ad un accattone. Il manto, pure lacero e motoso, gli pende giù da una spalla come uno straccio, e in questo egli si impiglia quando, continuando a gridare: «Quel sangue, quel sangue!», arretra come se quel sangue divenisse un mare che monta e sommerge.
Giuda cade riverso e si ferisce al capo, dietro al capo, contro una pietra. Ha un gemito di dolore e di paura. «Chi è?», grida. Deve aver pensato che qualcuno l’abbia fatto cadere per colpirlo. Si volge con terrore. Nessuno! Si alza. Ora il sangue goccia anche sulla nuca. Il cerchio rosso si allarga sulla veste.
Non cade in terra, perché è poco. La veste lo beve. Ora il capestro rosso pare già al collo.
5 Cammina. Ritrova le tracce del fuocherello acceso da Pietro ai piedi di un ulivo. Ma egli non sa che è opera di Pietro e deve credere che lì fu Gesù. Grida: «Via! Via!», e con ambe le mani, tese avanti a sé, pare respingere un fantasma che lo tormenta. Scappa. E va a finire proprio contro il masso dell’Agonia.
Ormai l’alba è netta e permette vedere bene e subito. Giuda vede il mantello di Gesù rimasto piegato sul masso. Lo conosce. Vuole toccarlo. Ha paura. Stende e ritira la mano. Vuole. Disvuole. Ma quel manto lo affascina. Geme: «No. No». Poi dice: «Sì, per Satana! Sì. Voglio toccarlo. Non ho paura! Non ho paura!». Dice che non ha paura, ma batte i denti dal terrore, e il rumore che fa sul suo capo un ramo d’ulivo, mosso dal vento e urtante contro un tronco vicino, lo fa urlare di nuovo. Pure si sforza e afferra il mantello. E ride. Un riso da pazzo, da demonio. Un riso isterico, spezzato, lugubre, che non finisce mai, perché ha vinto la sua paura.
E lo dice: «Non mi fai paura, Cristo. Più paura. Avevo tanta paura di Te perché ti credevo un Dio e un forte. Ora non mi fai più paura perché non sei Dio. Sei un povero pazzo, un debole. Non ti sei saputo difendere. Non mi hai incenerito come non hai letto nel mio cuore il tradimento. Le mie paure!… Che stolto! Quando parlavi, anche ieri sera, io credevo Tu sapessi. Nulla sapevi. Era la mia paura che dava tono di profezia alle tue comuni parole. Sei un nulla. Ti sei lasciato vendere, indicare, prendere come un sorcio nella tana. Il tuo potere! La tua origine! Ah! Ah! Ah! Buffone! Il forte è Satana! Più forte di Te. Ti ha vinto! Ah! Ah! Ah! Il Profeta! Il Messia! Il Re d’Israele! E mi hai tenuto soggetto per tre anni! Con la paura sempre nel cuore! E dovevo mentire per ingannarti con finezza quando volevo godere la vita! Ma anche avessi rubato e fornicato senza tutta l’astuzia che usavo, Tu non mi avresti fatto nulla. Imbelle! Pazzo! Vigliacco! Toh! Toh! Toh! Ho avuto torto a non fare a Te quel che faccio al tuo manto per vendicarmi del tempo in cui mi hai tenuto schiavo della paura. Paura di un coniglio!… Toh! Toh! Toh!».
6 Ad ogni «toh!» Giuda morde e cerca strappare la stoffa del manto. Lo spiegazza fra le mani. Ma nel farlo lo apre e appaiono le macchie che lo bagnano. Giuda si ferma nella sua furia. Fissa quelle macchie. Le tocca. Le fiuta. Sono sangue…-Spiega tutto il mantello. È ben visibile l’impronta lasciata dalle due mani sanguinose quando si premevano la stoffa sul viso.
«Ah!… Sangue! Sangue! Il suo… No!». Giuda lascia cadere il mantello e guarda intorno. Anche contro il masso, là dove Gesù si è appoggiato con la schiena quando l’Angelo lo confortava, vi è uno scuro di sangue che secca. «Là!… Là!… Sangue! Sangue!…». Abbassa gli occhi per non vedere, e vede l’erba tutta rossa del sangue gocciato su essa. Questo, per la rugiada che lo ha tenuto sciolto, pare appena gocciato. È rosso e brilla al primo sole. «No! No! No! Non voglio vedere! Non posso vedere quel sangue! Aiuto!», e porta le mani alla gola e annaspa come se stesse affogando in un mare di sangue. «Indietro! Indietro! Lasciami! Lasciami! Maledetto! Ma questo sangue è un mare! Copre la Terra! La Terra! La Terra! E sulla Terra non c’è posto per me, perché io non posso vedere quel sangue che la copre. Sono il Caino dell’Innocente!».
L’idea del suicidio credo sia venuta in questo momento in quel cuore. Il volto di Giuda fa paura.
7 Si butta dal balzo e fugge per l’uliveto senza tornare per la via già fatta. Pare un inseguito dalle fiere. Torna in città. Si avvolge nel mantello come può e cerca coprirsi la ferita e il volto per quanto può.
Si dirige al Tempio. Ma, mentre va a quella volta, ad un incrocio di via si trova di fronte alle canaglie che trascinano Gesù da Pilato. Non può ritirarsi, perché altra folla lo preme alle spalle, accorrendo a vedere. E, alto come è, domina per forza e vede. E incontra lo sguardo di Cristo… I due sguardi si allacciano un momento. Poi Cristo passa, legato, percosso. E Giuda cade riverso come svenuto. La folla lo calpesta senza pietà, né egli reagisce. Deve preferire essere calpestato da tutto un mondo anziché incontrare quello sguardo.
8 Quando la canea deicida è passata col Martire e la via è vuota, si rialza e corre al Tempio. Urta e quasi rovescia una guardia messa alla porta del recinto. Altre guardie accorrono per interdire al forsennato di entrare. Ma egli, come un toro furente, sgomina tutti. Uno, che gli si aggrappa per impedirgli di penetrare nell’aula del Sinedrio, dove sono ancora tutti raccolti a discutere, viene afferrato per la gola, strozzato e gettato, se non morto certo moribondo, giù dai tre scalini.
«Il vostro denaro, maledetti, non lo voglio», egli urla, ritto in mezzo all’aula, al posto dove prima era Gesù. Pare un demone sbucato dall’inferno. Insanguinato, spettinato, acceso dal delirio, con la bava alla bocca, le mani ad artiglio, egli urla e pare che abbai tanto la sua voce è stridula, roca, ululante. «Il vostro denaro, maledetti, non lo voglio. Mi avete perduto. Mi avete fatto commettere il più grande peccato. Come voi, come voi sono maledetto! Ho tradito il Sangue innocente. Ricada su voi quel Sangue e la mia morte. Su voi… No! Ah!…». Giuda vede il pavimento bagnato di sangue. «Anche qui, anche qui è sangue? Da per tutto! Da per tutto è il suo Sangue! Ma quanto Sangue ha l’Agnello di Dio per coprirne così la Terra e non morirne? Ed io l’ho sparso! Per istigazione vostra. Maledetti! Maledetti! Maledetti in eterno! Maledizione a queste mura! Maledizione a questo Tempio profanato! Maledizione al Pontefice deicida! Maledizione ai sacerdoti indegni, ai dottori falsi, ai farisei ipocriti, ai giudei crudeli, agli scribi subdoli! Maledizione a me! A me maledizione! A me! Tenete il vostro denaro e vi strozzi l’anima nella gola come a me il capestro», e getta la borsa in faccia a Caifa e va con un urlo, mentre le monete suonano spargendosi al suolo dopo aver colpito a sangue la bocca di Caifa.
Nessuno osa trattenerlo.
9 Esce. Corre per le vie. E fatalmente torna ad incrociare altre due volte Gesù, che va e viene da Erode.
Abbandona il centro della città, prendendo a casaccio per le viette più misere, e va a finire da capo contro la casa del Cenacolo. È tutta chiusa. Come abbandonata. Si ferma. La guarda. «La Madre!», mormora. «La Madre!…». Resta in sospeso… «Ho anche io una madre! E ho ucciso un figlio a una madre! Pure… Voglio entrare… Rivedere quella stanza. Là non c’è sangue…».
Dà un picchio alla porta. Un altro… Un altro… La padrona di casa viene ad aprire e socchiude l’uscio. Una fessura… E vedendo quell’uomo stravolto, irriconoscibile, getta un urlo e tenta rinchiudere l’uscio. Ma Giuda con una spallata lo spalanca e, travolgendo la donna esterrefatta, passa oltre.
Corre verso la porticina che mette nel Cenacolo. L’apre. Entra. Un bel sole entra dalle finestre spalancate. Giuda tira un respiro di sollievo. Si inoltra. Qui tutto è calmo e silenzioso. Le stoviglie sono ancora come furono lasciate. Si capisce che per ora nessuno se ne è occupato. Si potrebbe credere che si sia per mettersi a tavola.
Giuda va verso la tavola. Guarda se vi è vino nelle anfore. Ce ne è. Beve avidamente dall’anfora stessa, che solleva a due mani. Poi si lascia cadere seduto e appoggia il capo sulle braccia conserte sulla tavola. Non si accorge che si è seduto proprio al posto di Gesù e che ha di fronte il calice usato per l’Eucarestia. Sta fermo qualche tempo. Finché l’ansito del gran correre si placa. Poi alza il capo. E vede il calice. E riconosce dove si è seduto.
Si alza come spiritato. Ma il calice lo affascina. Un poco di vino rosso è ancora nel fondo e il sole, percuotendo il metallo (pare argento), accende quel liquido. «Sangue! Sangue! Sangue anche qui! Il suo Sangue! Il suo Sangue!… “Fate questo in memoria di Me!… Prendete e bevete. Questo è il mio Sangue… Il Sangue del nuovo testamento che sarà sparso per voi…”. Ah! maledetto me! Per me non può più esser sparso per remissione del mio peccato. Non chiedo perdono perché Egli non mi può perdonare. Via, via! Non c’è più un posto dove il Caino di Dio possa conoscere quiete. A morte! A morte!…».
10Esce. Si trova di fronte Maria, ritta sulla porta della stanza dove Gesù l’ha lasciata. Ella, udendo un rumore, si è affacciata sperando forse vedere Giovanni, che manca da tante ore. È pallida come un svenata. Ha degli occhi che il dolore fa ancor più simili a quelli del Figlio. Giuda incontra quello sguardo che lo guarda con la stessa accorata e cosciente cognizione con cui Gesù lo ha guardato per via, e con un «Oh!» spaurito si addossa al muro.
«Giuda!», dice Maria. «Giuda, che sei venuto a fare?». Le stesse parole di Gesù. E dette con amore doloroso. Giuda le ricorda e urla.
«Giuda», ripete Maria, «che hai tu fatto? A tanto amore hai risposto tradendo?». La voce di Maria è carezza che trema.
Giuda fa per scappare. Maria lo chiama con una voce che avrebbe dovuto convertire un demonio: «Giuda! Giuda! Fermati! Fermati! Ascolta! Io te lo dico in suo Nome: pentiti, Giuda. Egli perdona…». Giuda è fuggito.
La voce di Maria, il suo aspetto è stato il colpo di grazia, ossia di disgrazia perché egli le resiste.
Va a precipizio. Incontra Giovanni che corre verso la casa a prendere Maria. La sentenza è pronunciata. Gesù sta per andare al Calvario. È ora che la Madre sia condotta dal Figlio.
Giovanni riconosce Giuda per quanto ben poco resti del bel Giuda di poco tempo prima. «Tu qui?», gli dice Giovanni con palese ribrezzo. «Tu qui? Maledizione a te, uccisore del Figlio di Dio! Il Maestro è condannato. Giubila, se puoi. Ma sgombra la via. Vado a prendere la Madre. Che Ella, l’altra tua Vittima, non ti incontri, rettile».
11Giuda fugge. Si è avvolto il capo nei brandelli del manto, lasciando unicamente uno spiraglio per gli occhi. La gente, la poca gente che non è verso il Pretorio, lo scansa come vedesse un pazzo. E tale sembra.
Vaga per la campagna. Il vento porta ogni tanto un’eco del clamore che proviene dalla turba che segue imprecando Gesù. Ogni volta che tale eco giunge a Giuda, egli urla come uno sciacallo.
Io credo che sia realmente impazzito, perché batte la testa ritmicamente contro i muretti di pietra. Oppure è divenuto idrofobo perché, quando vede un liquido purché sia — acqua, latte portato in un recipiente da un bambino, olio che geme da un otre — urla, urla e grida: «Sangue! Sangue! Il suo Sangue!». Vorrebbe bere ai ruscelli e alle fonti. Non può, perché l’acqua gli pare sangue, e lo dice: «È sangue! È sangue! Mi affoga! Mi brucia! Ho il fuoco! Il suo Sangue, che ieri mi ha dato, è divenuto fuoco in me! Maledizione a me e a Te!».
12Sale e scende per i colli che circondano Gerusalemme. E l’occhio, irresistibilmente, gli va al Golgota. E due volte vede da lungi il corteo snodarsi nella salita. Guarda e urla.
Eccolo alla cima. Anche Giuda è in cima di un piccolo colle coperto d’ulivi. Vi è penetrato aprendo una chiudenda rustica come ne fosse padrone o per lo meno molto pratico. Già ho l’impressione che Giuda non avesse molti riguardi per l’altrui proprietà. Ritto sotto un ulivo al limite di un balzo, guarda verso il Golgota. Vede drizzare le croci e comprende che Gesù è crocifisso. Non può vedere né udire. Ma il delirio o un malefizio di Satana gli fan vedere e udire come fosse sulla cima del Calvario.
Guarda, guarda come allucinato. Si dibatte: «No! No! Non mi guardare! Non mi parlare! Non lo sopporto. Muori, muori, maledetto! Ti chiuda la morte quegli occhi che mi fan paura, quella bocca che mi maledice. Ma anche io ti maledico. Perché non mi hai salvato».
Il volto è talmente stralunato che non si può più guardare. Due fili di bava scendono dalla bocca urlante. La guancia morsa è livida e enfiata, e il viso ne appare storto. I capelli appiccicati, la barba, molto scura, cresciuta sulle guance in quelle ore, mette un bavaglio lugubre sulle gote e sul mento. Gli occhi poi!… Roteano, si torcono, sono fosforescenti. Da vero demonio.
13Strappa dalla sua cintura il cordone di grossa lana rossa che lo cinge con tre giri. Ne prova la solidità avvinghiandolo intorno ad un ulivo e tirando con tutta la sua forza. Resiste. È forte.
Sceglie un ulivo atto alla bisogna. Ecco. Questo, proteso oltre la balza con la sua chioma spettinata, va bene. Monta sull’albero. Assicura solidamente un cappio al ramo più robusto e sporgente nel vuoto. Ha già fatto il nodo scorsoio. Guarda un’ultima volta al Golgota. Poi infila la testa nel nodo scorsoio. Ora pare avere due collane rosse alla radice del collo. Si siede sulla balza. Poi di colpo si lascia scivolare nel vuoto.
Il nodo lo stringe. Si dibatte qualche minuto. Strabuzza gli occhi, diviene nero d’asfissia, apre la bocca, le vene del collo si gonfiano e si fanno nere. Tira quattro o cinque calci per aria, nelle ultime convulsioni. Poi la bocca si apre e ne pende la lingua scura e bavosa, e i globi oculari restano scoperti, sporgenti, mostranti il bulbo bianchiccio iniettato di sangue. L’iride scompare in alto. È morto.
Il forte vento, che si è alzato per l’imminente bufera, ciondola il macabro pendolo e lo fa roteare come un orrido ragno appeso al filo della ragnatela.
La visione finisce così. E mi auguro a avermi a dimenticare presto tutto ciò, perché le assicuro che è visione orrenda.
14Dice Gesù:
«Orrenda, ma non inutile. Troppi credono che Giuda abbia commesso cosa da poco. Alcuni giungono anzi a dire che egli è un benemerito perché senza di lui la Redenzione non sarebbe venuta e che, perciò, egli è giustificato al cospetto di Dio.
In verità vi dico che, se l’Inferno non fosse già esistito, ed esistito perfetto nei suoi tormenti, sarebbe stato creato per Giuda ancor più orrendo e eterno, perché di tutti i peccatori e i dannati egli è il più dannato e peccatore, né per lui in eterno vi sarà ammolcimento di condanna.
Il rimorso l’avrebbe anche potuto salvare, se egli avesse fatto del rimorso un pentimento. Ma egli non volle pentirsi e, al primo delitto di tradimento, ancora compatibile per la grande misericordia che è la mia amorosa debolezza, ha unito bestemmie, resistenze alle voci della Grazia che ancora gli volevano parlare attraverso i ricordi, attraverso i terrori, attraverso il mio Sangue e il mio mantello, attraverso il mio sguardo, attraverso le tracce dell’istituita Eucarestia, attraverso le parole di mia Madre.
Ha resistito a tutto. Ha voluto resistere. Come aveva voluto tradire. Come volle maledire. Come si volle suicidare.
15È la volontà quella che conta nelle cose. Sia nel bene che nel male.
Quando uno cade senza volontà di cadere, Io perdono. Vedi Pietro. Ha negato. Perché? Non lo sapeva esattamente neppure lui. Vile Pietro? No. Il mio Pietro non era vile. Contro la coorte e le guardie del Tempio aveva osato ferire Malco per difendermi e rischiare d’essere ucciso per questo. Era poi fuggito. Senza averne volontà di farlo. Aveva poi negato. Senza averne volontà di farlo. Ha saputo poi ben restare e procedere sulla sanguinosa via della Croce, sulla mia Via, fino a giungere alla morte di croce. Ha saputo poi molto bene testimoniare di Me, sino ad esser ucciso per la sua fede intrepida. Io lo difendo il mio Pietro. Il suo è stato l’ultimo smarrimento della sua umanità. Ma la volontà spirituale non era presente in quel momento. Ottusa dal peso dell’umanità, dormiva. Quando si destò, non volle restare nel peccato e volle esser perfetta. Io l’ho perdonato subito.
16Giuda non volle. Tu dici che pareva pazzo e idrofobo. Lo era di rabbia satanica.
Il suo terrore nel vedere il cane, bestia rara, in Gerusalemme in specie, venne dal fatto che si attribuiva a Satana, da tempi immemorabili, quella forma per apparire ai mortali. Nei libri di magia è detto tuttora che una delle forme preferite da Satana per apparire è quella di un cane misterioso o di un gatto o di un capro. Giuda, già preda del terrore nato dal suo delitto, convinto d’esser di Satana per il suo delitto, vide Satana in quella bestia randagia.
Chi è colpevole, in tutto vede ombre di paura. È la coscienza che le crea. Satana poi aizza queste ombre, che potrebbero ancora dare pentimento ad un cuore, e ne fa larve orrende che portano alla disperazione. E la disperazione porta all’ultimo delitto: al suicidio.
A che pro gettare il prezzo del tradimento quando questo spogliamento è solo frutto dell’ira e non è corroborato da una retta volontà di pentimento? Allora spogliarsi dai frutti del male diviene meritorio. Ma così come egli fece, no. Inutile sacrificio.
17Mia Madre, ed era la Grazia che parlava e la mia Tesoriera che largiva perdono in mio Nome, glielo disse: “Pentiti, Giuda. Egli perdona…”.
Oh! se lo avrei perdonato! Se si fosse gettato ai piedi della Madre dicendo: “Pietà!”, Ella, la Pietosa, lo avrebbe raccolto come un ferito e sulle sue ferite sataniche, per le quali il Nemico gli aveva inoculato il Delitto, avrebbe sparso il suo pianto che salva e me lo avrebbe portato, ai piedi della Croce, tenendolo per mano perché Satana non lo potesse ghermire e i discepoli colpirlo, portato perché il mio Sangue cadesse per primo su lui, il più grande dei peccatori. E sarebbe stata, Ella, Sacerdotessa mirabile sul suo altare, fra la Purezza e la Colpa, perché è Madre dei vergini e dei santi, ma anche Madre dei peccatori.
Ma egli non volle.
18Meditate il potere della volontà di cui siete arbitri assoluti. Per essa potete avere il Cielo o l’Inferno. Meditate cosa vuol dire persistere nella colpa.
Il Crocifisso, Colui che sta con le braccia aperte e confitte per dirvi che vi ama, e che non vuole, non può colpirvi perché vi ama, e preferisce negarsi di potervi abbracciare, unico dolore del suo esser confitto, anziché aver libertà di punirvi, il Crocifisso, oggetto di divina speranza per coloro che si pentono e che vogliono lasciare la colpa, diviene per gli impenitenti oggetto di un tale orrore che li fa bestemmiare e usare violenza verso se stessi. Uccisori del loro spirito e del loro corpo per la loro persistenza nella colpa. E l’aspetto del Mite, che si è lasciato immolare nella speranza di salvarli, assume l’apparenza di uno spettro di orrore.
19Maria, ti sei lamentata di questa visione. Ma è il Venerdì di Passione, figlia. Devi soffrire. Alle sofferenze per le sofferenze mie e di Maria devi unire le tue per l’amarezza di vedere i peccatori rimanere peccatori. È stata sofferenza nostra, questa. Deve esser tua. Maria ha sofferto, e soffre ancora, di questo, come delle mie torture. Perciò tu devi soffrire questo. Ora riposa. Fra tre ore sarai tutta mia e di Maria. Ti benedico, violetta della mia Passione e passiflora di Maria».
Cap. DCVI. Gesù e Maria sono l’antitesi di Adamo ed Eva. Giuda Iscariota è il nuovo Caino. La vera evoluzione dell’uomo è quella del suo spirito.
2 aprile 1944. Domenica delle Palme.
1 Dice Gesù:
«La coppia Gesù-Maria è l’antitesi della coppia Adamo-Eva. È quella destinata ad annullare tutto l’operato di Adamo ed Eva e riportare l’Umanità al punto in cui era quando fu creata: ricca di grazia e di tutti i doni ad essa largiti dal Creatore. L’Umanità ha subìto una rigenerazione totale per l’opera della coppia Gesù-Maria, i quali sono così divenuti i nuovi Capostipiti dell’Umanità. Tutto il tempo precedente è annullato. Il tempo e la storia dell’uomo si conta da questo momento in cui la nuova Eva, per un capovolgimento di creazione, trae dal suo seno inviolato, per opera del Signore Iddio, il nuovo Adamo.
Ma per annullare le opere dei due Primi, causa di mortale infermità, di perpetua mutilazione, di impoverimento, più: di indigenza spirituale — perché dopo il peccato Adamo ed Eva si trovarono spogliati di tutto quanto aveva loro donato, ricchezza infinita, il Padre santo — hanno dovuto, questi due Secondi, operare in tutto e per tutto in maniera opposta al modo di operare dei due Primi. Perciò, spingere l’ubbidienza sino alla perfezione che si annichila e si immola nella carne, nel sentimento, nel pensiero, nella volontà, per accettare tutto quanto Dio vuole. Perciò, spingere la purezza ad una castità assoluta, per cui la carne… che fu la carne per Noi due puri? Velo d’acqua sullo spirito trionfante, carezza di vento sullo spirito re, cristallo che isola lo spirito-signore e non lo corrompe, impulso che solleva e non peso che opprime. Questo fu la carne per Noi. Meno pesante e sensibile di una veste di lino, lieve sostanza interposta fra il mondo e lo splendore dell’io soprumanato, mezzo per operare ciò che Dio voleva. Null’altro.
2 Fu nostro l’amore? Certo. Il “perfetto amore” fu nostro. Non è, uomini, amore la fame di senso che vi spinge bramosi a saziarvi di una carne. Quella è lussuria. Nulla più. Tanto vero che amandovi così — voi lo credete amore — non sapete compatirvi, aiutarvi, perdonarvi. Che è allora il vostro amore? È odio. È unicamente delirio paranoico, che vi spinge a preferire il sapore di putridi pasti al sano, corroborante cibo di eletti sentimenti.
Noi avemmo il “perfetto amore”, Noi, i casti perfetti. Questo amore abbracciava Dio in Cielo e, a Lui unito come lo sono i rami col tronco che li nutre, si espandeva e scendeva prodigandosi di riposo, di riparo, di nutrimento, di conforto sulla Terra e sui suoi abitanti. Nessuno escluso da questo amore. Non i nostri simili, non gli esseri inferiori, non la natura erborea, non le acque e gli astri. Neppure i malvagi esclusi da questo amore. Perché anche essi, benché membri morti, erano pur sempre membri del gran corpo del Creato, e perciò vedevamo in essi, per quanto deturpata e bruttata dalla loro malvagità, la santa effigie del Signore, che a sua immagine e somiglianza li aveva formati.
Gioiendo coi buoni, piangendo sui non buoni, pregando (amore fattivo che si estrinseca coll’impetrare e ottenere protezione a chi si ama) pregando per i buoni acciò fossero sempre più buoni per accostarsi sempre più alla perfezione del Buono che ci ama dai Cieli, pregando per i vacillanti fra la bontà e la malvagità perché si fortificassero e sapessero persistere sul cammino santo, pregando per i malvagi perché la Bontà parlasse al loro spirito, li atterrasse magari con una folgore del suo potere, ma li convertisse al Signore Iddio loro, Noi amammo. Come nessun altro amò. Spingemmo l’amore alle vette della perfezione per colmare, col nostro oceano d’amore, l’abisso scavato dal disamore dei Primi, che amarono sé più di Dio, volendo avere più che lecito non fosse per divenire superiori a Dio.
3 Perciò alla purezza, ubbidienza, carità, distacco da tutte le ricchezze della Terra (carne, potere, denaro: il trinomio di Satana opposto al trinomio di Dio: fede, speranza, carità); perciò all’odio, alla lussuria, all’ira, alla superbia (le quattro passioni perverse, antitesi delle quattro virtù sante: fortezza, temperanza, giustizia, prudenza) Noi dovemmo unire una costante pratica di tutto quanto era all’opposto del modo di agire della coppia Adamo-Eva. E se molto, per il nostro buon volere senza limite, ci fu ancor facile farlo, solo l’Eterno sa quanto fu eroico compiere questa pratica in certi momenti e in certi casi.
Non voglio qui che parlarne di uno solo. E di mia Madre. Non di Me. Della nuova Eva, la quale aveva già respinto dai più teneri anni le blandizie usate da Satana per sedurla a mordere il frutto e sentirne il sapore che aveva reso folle la compagna di Adamo; della nuova Eva, la quale non si era limitata a respingere Satana, ma l’aveva vinto schiacciandolo sotto una volontà di ubbidienza, di amore, di castità talmente vasta che esso, il Maledetto, ne era rimasto schiacciato e domo.
No! No, che non si alza Satana da sotto il calcagno della mia Madre Vergine! Sbava e spuma, rugge e bestemmia. Ma la sua bava cola in basso, ma il suo urlo non tocca l’atmosfera che circonda la mia Santa, la quale non ode fetore né cachinni demoniaci, non vede, neppur vede la schifosa bava del Rettile eterno, perché le armonie celesti ed i celesti aromi le danzano innamorati intorno alla bella e santa persona, e perché il suo occhio, più puro del giglio e più innamorato di quello di tortora tubante, fissa solo il suo Signore eterno, di cui è Figlia, Madre e Sposa.
4 Quando Caino uccise Abele, la bocca della madre proferì le maledizioni che il suo spirito, separato da Dio, suggeriva contro il suo prossimo più intimo: il figlio delle sue viscere, profanate da Satana e rese brute dall’incomposto desiderio. E quella maledizione fu la macchia nel regno del morale umano, come il delitto di Caino la macchia nel regno dell’animale umano. Sangue sulla Terra, sparso da mano fraterna. Il primo sangue, che attira come calamita millenaria tutto il sangue che mano d’uomo sparge traendolo da vene d’uomo. Maledizione sulla Terra, proferita da bocca d’uomo. Quasi che la Terra non fosse sufficientemente maledetta per causa dell’uomo ribelle al suo Dio e non avesse dovuto conoscere i triboli e le spine e la durezza delle glebe, le siccità, le grandini, i geli, i solleoni, essa che era stata creata perfetta e servita da elementi perfetti per esser dimora facile e bella all’uomo suo re.
Maria deve annullare Eva. Maria vede il secondo Caino: Giuda. Maria sa che egli è il Caino del suo Gesù, del secondo Abele. Sa che il sangue di questo secondo Abele è stato venduto da quel Caino e già viene sparso. Ma non maledice. Ama e perdona. Ama e richiama.
Oh! Maternità di Maria martire! Maternità sublime quanto la tua virginea e divina! Di quest’ultima ti ha fatto dono Iddio! Ma della prima tu, Madre santa, Corredentrice, ti sei fatta dono, perché tu, tu sola hai saputo, in quell’ora, col cuore franto dai flagelli che mi avevano franto le carni, dire a Giuda quelle parole; tu, tu sola hai saputo, in quell’ora, mentre sentivi già la croce spaccarti il cuore, amare e perdonare.
5 Maria: la nuova Eva. Essa vi insegna la nuova religione, che spinge l’amore a perdonare chi uccide un figlio. Non siate come Giuda, che a questa Maestra di Grazia chiude il cuore e dispera dicendo: “Egli non mi può perdonare”, mettendo in dubbio le parole della Madre della Verità e perciò le mie parole, che avevano sempre ripetuto che Io ero venuto per salvare e non perdere. Per perdonare a chi a Me veniva pentito.
Maria, nuova Eva, ha anche Ella avuto da Dio un nuovo figlio “in luogo di Abele ucciso da Caino”. Ma non lo ebbe con un’ora di gioia brutale, che rende assopito il dolore sotto i vapori del senso e le stanchezze dell’appagamento. Lo ebbe in un’ora di dolore totale, ai piedi di un patibolo, fra i rantoli del Morente che le era Figlio, gli improperi di una folla deicida e una desolazione immeritata e totale, poiché anche Dio non più la consolava.
La vita nuova incomincia per l’Umanità e per i singoli uomini da Maria. Nelle sue virtù e nel suo modo di vivere è la vostra scuola. E nel suo dolore, che ebbe tutti i volti, anche quello del perdono all’uccisore del suo Figlio, è la salvezza vostra».
6 Dice Gesù: «Un giorno ti parlerò ancora di Caino e dei Progenitori. Vi è molto da dire e da meditare».
5 aprile 1944.
7 Dice Gesù:
«Nella Genesi si legge: “Allora Adamo pose alla sua moglie il nome di Eva, essendo essa la madre di tutti i viventi”.
Oh! sì. La donna era nata dalla “Virago” che Dio aveva formata per compagna di Adamo, traendola dalla costola dell’uomo. Era nata col suo destino doloroso perché aveva voluto nascere. Perché aveva voluto conoscere ciò che Dio le aveva occultato riserbandosi la gioia di darle la gioia di posterità senza avvilimento di senso. La compagna di Adamo aveva voluto conoscere il bene che si cela nel male e, soprattutto, il male che si cela nel bene, nell’apparente bene. Poiché, sedotta come era da Lucifero, aveva appetito a conoscenze che solo Dio poteva conoscere senza pericolo, e si era fatta creatrice. Ma, usando questa forza di bene indegnamente, l’aveva corrotta in atto di male, perché disubbidienza a Dio e malizia e ingordigia della carne.
Ormai ella era la “madre”. Pianto infinito delle cose intorno all’innocenza della loro regina profanata! E pianto desolato della regina sulla sua profanazione, di cui comprende l’entità e l’impossibile annullamento! Se le tenebre e i cataclismi accompagnarono la morte dell’Innocente, anche tenebra e bufera accompagnarono la morte dell’Innocenza e della Grazia nei cuori dei Progenitori. Era nato il Dolore sulla Terra. E la Provvidenza di Dio non lo volle eterno, dandovi dopo anni di dolore la gioia di uscire dal dolore per entrare nella gioia, se sapete vivere con animo retto.
Guai all’uomo se avesse dovuto farsi umanamente padrone della vita! E vivere col ricordo dei suoi delitti e il continuo aumento degli stessi, poiché vivere senza peccare vi è più impossibile che vivere senza respirare, creature che eravate state create per conoscere la Luce, e che la Tenebra ha avvelenato di sé facendovi sue vittime. La Tenebra! Essa vi circuisce continuamente. Vi avviluppa ridestando quanto il Sacramento ha cancellato e, poiché voi ad essa non opponete volontà d’esser di Dio, riesce a riavvelenarvi del suo veleno, che il Battesimo aveva reso innocuo.
8 Dio Padre allontanò l’uomo, della cui disubbidienza erano palesi i segni, dal luogo delle paradisiache delizie, affinché non peccasse un’altra volta e più ancora alzando la mano ladra all’albero di Vita. Non si poteva più fidare il Padre dei suoi figli, né sentirsi sicuro nel suo terrestre Paradiso. Satana vi era penetrato una volta per insidiargli le creature predilette e, se aveva potuto indurli alla colpa quando erano innocenti, con agio maggiore l’avrebbe potuto rifare ora che innocenti non erano più.
L’uomo aveva tutto voluto possedere, non lasciando a Dio il tesoro d’esser il Generatore. Se ne andasse perciò con la sua ricchezza acquistata con violenza e se la portasse seco sulla terra d’esilio, a farlo sempre memore del suo peccato, re avvilito e spogliato dei suoi doni. La creatura paradisiaca era divenuta creatura terrestre. E dovevano passare secoli di dolore perché l’Unico che potesse stendere la mano al frutto di Vita venisse e cogliesse per tutta l’Umanità tal frutto. Lo cogliesse con le sue mani trafitte e lo desse agli uomini perché tornassero coeredi del Cielo e possessori della Vita che non muore in eterno.
9 Dice ancora la Genesi: “Adamo poi conobbe la sua moglie Eva”.
Avevano voluto conoscere i segreti del bene e del male. Giusto era che conoscessero ora anche il dolore di dover riprodurre se stessi nella carne avendo l’aiuto di Dio unicamente per ciò che l’uomo non può creare: lo spirito, scintilla che da Dio si parte, soffio che da Dio si infonde, sigillo che sulla carne appone il segno del Creatore eterno. Ed Eva partorì Caino.
Eva era carica della sua colpa. Richiamo qui la vostra attenzione su un fatto che sfugge ai più. Eva era carica della sua colpa. Né il dolore era ancora stato subìto in misura sufficiente a diminuire la sua colpa. Come organismo carico di tossine, ella aveva trasmesso al figlio quanto pullulava in lei. E Caino, primo figlio d’Eva, era nato duro, invidioso, iracondo, lussurioso, perverso, di poco dissimile alle belve rispetto all’istinto, di molto superiore rispetto al soprannaturale, perché nel suo io feroce egli negava rispetto a Dio che guardava come un nemico, credendosi lecito di non averne culto sincero. Satana lo aizzava a deridere Dio. E chi deride Dio non rispetta nessuno al mondo. Onde coloro che sono a contatto coi derisori dell’Eterno conoscono l’amaro del pianto, perché non vi è per loro speranza di amore riverente nella prole, non sicurezza di amore fedele nel consorte, non certezza di amicizia onesta nell’amico.
Lacrime e lacrime rigarono il volto di Eva e rigarono il suo cuore per la durezza del figlio, gettando nel suo cuore il germe del pentimento. Lacrime e lacrime che le ottennero una diminuzione di colpa, perché Dio al dolore di chi si pente perdona. E il secondogenito di Eva ebbe l’anima lavata nel pianto della madre, e fu dolce e rispettoso verso i genitori, e devoto al Signore suo, di cui sentiva l’onnipotenza raggiare dai Cieli. Era la gioia della decaduta.
Ma il cammino del dolore di Eva doveva esser lungo e doloroso, proporzionato al suo cammino nell’esperienza di peccato. In questo, fremito di sensi. In quello, fremito di spasimi. In questo, baci. In quello, sangue. Da questo, un figlio. Da quello, la morte di un figlio. Del prediletto per la sua bontà. Abele diviene strumento di purificazione per la colpevole. Ma quale dolorosa purificazione! Essa empì dei suoi ululi la Terra esterrefatta per il fratricidio e mescolò le lacrime di una madre al sangue di un figlio, mentre colui che l’aveva sparso, in odio a Dio e al fratello amato da Dio, fuggiva inseguito dal suo rimorso.
10Dice il Signore a Caino: “Perché sei irritato?”. Perché, se tu manchi verso di Me, ti irriti che Io non ti guardi benigno?
Quanti Caini sono sulla Terra! Essi mi danno un culto derisore e ipocrita o non me ne danno affatto, e vogliono che Io li guardi con amore e li colmi di felicità.
Dio è vostro Re. Non vostro servo. Dio è vostro Padre. Ma un padre non è mai un servo, se si giudica secondo giustizia. Dio è giusto. Voi non lo siete. Ma Egli lo è. E non può certo, poiché vi colma a dismisura dei suoi benefici sol che lo amiate un poco, non darvi i suoi castighi poiché tanto lo schernite. La Giustizia non conosce due vie. Una è la sua via. Tale fate e tale avete. Se siete buoni, avete bene. Se siete malvagi, avete male. E, credetelo, è sempre molto più il bene che avete rispetto al male che dovreste avere per la vostra maniera di vivere in ribellione alla Legge divina.
11È detto da Dio: “Non è vero che se farai bene avrai bene e se farai male il peccato sarà subito alla tua porta?”. Infatti il bene porta ad una costante elevazione spirituale e rende sempre più capaci di compiere un bene sempre più grande, sino ad attingere la perfezione e divenire santi. Mentre basta cedere al male per degradarsi e allontanarsi dalla perfezione, conoscere il dominio del peccato che entra nel cuore e lo fa scendere per gradi a sempre maggiore colpevolezza.
“Ma”, dice ancora Dio, “ma sotto di te sarà il desiderio di esso e tu lo devi dominare”. Sì. Dio non vi ha fatto schiavi del peccato. Le passioni sono sotto di voi. Non sopra di voi. Dio vi ha dato intelligenza e forza di dominarvi. Anche ai primi uomini, colpiti dal rigore di Dio, Egli ha lasciato intelligenza e forza morale. Ora, poi, da quando il Redentore ha consumato per voi il Sacrificio, voi avete ad aiuto dell’intelligenza e forza i fiumi della Grazia e potete, e dovete dominare il desiderio del male. Con la vostra volontà fortificata dalla Grazia lo dovete fare. Ecco perché gli angeli della mia Nascita cantarono alla Terra: “Pace agli uomini di buona volontà”. Io ero venuto per riportarvi la Grazia e, mediante il connubio di essa con la vostra buona volontà, sarebbe venuta agli uomini la Pace. La Pace: gloria del Cielo di Dio.
12“E Caino disse al fratello: ‘Andiamo fuori'”. Menzogna che cela sotto un sorriso il tradimento che uccide. La delinquenza è sempre menzognera. Verso le sue vittime e verso il mondo che cerca ingannare. E vorrebbe ingannare anche Dio. Ma Dio legge nei cuori.
“Andiamo fuori”. Tanti secoli dopo, uno disse: “Salve, Maestro”, e lo baciò. I due Caini nascosero il delitto sotto un’apparenza innocua e sfogarono l’invidia, l’ira, la prepotenza loro e tutti i malvagi istinti, sulla vittima, perché non avevano dominato se stessi, ma del proprio iocorrotto avevano fatto schiavo lo spirito.
Eva sale nell’espiazione. Caino scende verso l’inferno. La disperazione lo prende e ve lo sprofonda. E con la disperazione, ultimo colpo mortale allo spirito già languente per il suo delitto, viene la paura fisica, vile, della punizione umana. Non più essere memore del Cielo, l’uomo dall’anima morta è un animale che trema per la sua vita animale. La morte, il cui aspetto è sorriso per i giusti poiché per essa essi vanno alla gioia del possesso di Dio, è terrore a coloro che sanno che morire vuol dire passare dall’inferno del cuore all’Inferno di Satana in eterno. E come allucinati vedono dovunque vendetta pronta a colpirli.
13Ma sappiate — parlo ai giusti — sappiate che se il rimorso e le tenebre di un cuore colpevole permettono e fomentano le allucinazioni del peccatore, a nessuno è lecito erigersi a giudice del fratello e tanto meno a giustiziere. Uno solo è Giudice: Dio. E se la giustizia dell’uomo ha creato i suoi tribunali, ad essi occorre deferire il compito di amministrare giustizia, e guai a coloro che profanano tal nome e giudicano per aculeo di passione propria o per pressione di potenze umane.
Maledizione a chi si fa giustiziere privato di un suo simile! Ma maledizione ancor più grande a chi, senza coefficiente di impulsivo sdegno ma per freddo calcolo umano, manda a morte o a disonore di carcere senza giustizia. Ché, se a colui che uccide chi uccise sarà dato castigo sette volte più grande, come disse il Signore sarebbe avvenuto di chi colpiva Caino, colui che senza giustizia condanna, per asservimento a Satana in veste di Prepotere umano, sarà colpito settantasette volte dal rigore di Dio.
Questo occorrerebbe aver sempre presente, e specie in quest’ora, uomini che vi uccidete a vicenda per fare dei caduti la base del vostro trionfo, e non sapete che vi scavate sotto i piedi il trabocchetto in cui precipiterete maledetti da Dio e dagli uomini. Poiché Io ho detto: “Non ucciderai”.
14Eva sale sul suo cammino di espiazione. Il pentimento cresce in lei davanti alle prove del suo peccato. Volle conoscere il bene e il male. E il ricordo del bene perduto le è come il ricordo del sole ad uno subitamente acciecato; e il male le sta davanti nella spoglia del figlio ucciso e intorno per il vuoto lasciato dal figlio omicida e fuggiasco. E nasce Set. E, da Set, Enos. Il primo sacerdote.
Voi vi gonfiate la mente dei fumi della vostra scienza e parlate di evoluzione come di un segno della vostra formazione spontanea. L’uomo-animale evolvendosi raggiungerà il superuomo. Dite così. Sì. Così è. Ma a modo mio. Nel campo mio. Non nel vostro. Non passando dalla sorte di quadrumani a quella di uomini. Ma passando da quella di uomini a quella di spiriti. Tanto più crescerà lo spirito e tanto più vi evolverete.
Voi che parlate di glandole, e vi empite la bocca parlando di ipofisi o pineale, e mettete in essa la sede della vita, presa non nel tempo che la vivete ma nei tempi che hanno preceduto e che susseguiranno la vostra vita attuale, sappiate che la vera ghiandola vostra, quella che fa di voi i possessori eterni della Vita, è lo spirito vostro. Più questo sarà sviluppato e più possederete le luci divine e vi evolverete da uomini a dèi, immortali dèi, ottenendo così, senza contravvenire al desiderio di Dio, al suo comando circa l’albero di Vita, di possedere questa Vita proprio come Dio vuole la possediate, poiché Egli per voi l’ha creata eterna e fulgida, abbraccio beatifico con la sua eternità che vi assorbe in sé e vi comunica le sue proprietà.
Più lo spirito sarà evoluto e più conoscerete Dio.
15Conoscere Dio vuol dire amarlo e servirlo, e perciò esser capaci di invocarlo per sé e per gli altri. Divenire perciò i sacerdoti che dalla Terra pregano per i fratelli. Poiché è sacerdote il consacrato. Ma lo è anche il credente convinto, amoroso, fedele. Lo è soprattutto l’anima vittima che immola se stessa per impulso di carità.
Non è l’abito, ma l’animo quello che Dio osserva. E in verità vi dico che, agli occhi miei, appaiono molti tonsurati che di sacerdotale non hanno che la tonsura e molti laici nei quali la Carità, che li possiede e dalla quale si lasciano consumare, è Olio dell’ordinazione che fa di essi i miei sacerdoti, ignoti al mondo ma noti a Me che li benedico».
Cap. DCVII. Giovanni va a prendere la Madre.
1 Ore 10,30 del Venerdì Santo 1944 (7-4-44). Ora che il mio interno ammonitore mi dice esser quella in cui Giovanni andò da Maria.
Vedo il prediletto ancor più pallido di quando era nel cortile di Caifa insieme a Pietro. Forse perché là la luce del fuoco acceso gli dava un riflesso caldo alle guance. Ora appare scavato come da una grave malattia ed esangue. Il suo viso emerge dalla tunica lilla come quello di un annegato, tanto è di un pallore livido. Anche gli occhi sono offuscati, i capelli opachi e spettinati, la barba, spuntata in quelle ore, gli mette un velo chiaro sulle guance e il mento e le fa apparire, biondo-chiara come è, ancor più pallide. Non ha più nulla del dolce, ilare Giovanni, né dell’inquieto Giovanni che poco prima, con una vampa di sdegno sul volto, a fatica si è contenuto dal malmenare Giuda.
Bussa alla porta della casa e, come se dall’interno qualcuno, timoroso di ritrovarsi di fronte Giuda, chiedesse chi è che picchia, risponde: «Sono Giovanni». L’uscio si apre ed egli entra.
Va anche lui subito nel cenacolo, non rispondendo alla padrona che gli chiede: «Ma che avviene in città?».
Si chiude dentro e cade in ginocchio contro al sedile su cui era Gesù e piange chiamandolo con dolore. Bacia la tovaglia nel posto dove il Maestro tenne congiunte le mani, carezza il calice che fu tra le sue dita… Poi dice: «Oh! Dio altissimo, aiutami! Aiutami a dirlo alla Madre! Io non ho cuore!… Eppure devo dirlo. Io devo dirlo, poiché sono rimasto solo!».
Si alza e pensa. Tocca ancora il calice come per attingere forza da quell’oggetto toccato dal Maestro. Si guarda intorno… Vede, ancora nel suo angolo dove Gesù l’ha posto, il purificatoio usato dal Maestro per asciugarsi le mani dopo la lavanda e l’altro che si era cinto alla vita. Li prende, li piega e li carezza e bacia.
Resta ancora perplesso, ritto in mezzo alla stanza vuota. Dice: «Andiamo!», ma non si muove verso la porta. Anzi torna al tavolo e prende il calice e il pane spezzato in un angolo da Gesù per staccarne il boccone da dare a Giuda, intinto. Li bacia e, insieme ai due purificatoi, li prende e se li tiene stretti contro al cuore come una reliquia. Ripete: «Andiamo!», e sospira. Cammina verso la scaletta e la sale a spalle curve e a passi riluttanti e strascicati. Apre, esce.
2 «Giovanni, sei venuto?». Maria è riapparsa sulla porta della sua stanza, sorreggendosi allo stipite come se non avesse forza di star ritta da sola.
Giovanni alza il capo e la guarda. Vorrebbe parlare e apre la bocca. Ma non riesce. Due lacrimoni gli rotolano giù dalle guance. Curva il capo, vergognoso della sua debolezza.
«Vieni qui, Giovanni. Non piangere. Tu non devi piangere. Tu lo hai sempre amato e fatto felice. Ciò ti conforti».
Queste parole aprono le dighe al pianto di Giovanni, che diviene tanto alto e fragoroso da fare affacciare la padrona, Maria Maddalena, la moglie di Zebedeo e le altre…
«Vieni da me, Giovanni». Maria si stacca dallo stipite e prende per un polso il discepolo, e lo trascina dentro alla stanza come fosse un bambino, e chiude la porta piano, per isolarsi con lui.
Giovanni non reagisce. Ma, quando si sente posare sul capo la mano tremante di Maria, cade in ginocchio posando al suolo gli oggetti che aveva contro il cuore e, viso contro il suolo, tenendo un lembo della veste di Maria premuto sul suo viso convulso, singhiozza: «Perdono! Perdono! Madre, perdono!».
Maria, ritta e ambasciata, con una mano sul cuore e l’altra pendente lungo il fianco, con una voce di strazio dice: «Che ti devo perdonare, povero figliuolo? Che? A te!».
Giovanni alza il volto, mostrandolo così come è, senza più traccia di orgoglio maschile, il volto di un povero bambino piangente, e grida: «Di averlo abbandonato! Di esser fuggito! Di non averlo difeso! Oh! Maestro mio! O Maestro, perdono! Dovevo morire prima di lasciarti! Madre, Madre, chi mi leverà più questo rimorso?».
«Pace, Giovanni. Egli ti perdona, ti ha già perdonato. Non ha mai tenuto conto del tuo smarrimento. Ti ama». Maria parla con soste fra le brevi frasi, come presa da affanno, tenendo una mano sul capo di Giovanni e una sul suo povero cuore che palpita d’angoscia.
«Ma io non l’ho saputo capire neanche ieri sera… e ho dormito mentre Egli chiedeva il conforto del nostro vegliare. Solo l’ho lasciato, il mio Gesù! E poi sono scappato quando quel maledetto è venuto coi manigoldi…».
«Giovanni, non maledire. Non odiare, Giovanni. Lascia al Padre il giudizio di farlo.
3 Ascolta: dove è Egli, ora?».
Giovanni torna a cadere faccia a terra, piangendo più forte.
«Rispondi, Giovanni. Dove è mio Figlio?».
«Madre… io… Madre, è… Madre…».
«È condannato, lo so. Ti chiedo: dove è in questo momento».
«Ho fatto tutto il possibile perché mi vedesse… ho cercato di ricorrere a chi è potente per ottenere pietà, per farlo… per farlo soffrire meno. Non gli hanno fatto molto male…».
«Non mentire, Giovanni. Neppure per pietà di una madre. Non ci riusciresti. E sarebbe inutile. Io so. Da ieri sera l’ho seguito nel suo dolore. Tu non le vedi. Ma le mie carni sono contuse dai suoi stessi flagelli, ma alla mia fronte stanno le spine, ho sentito le percosse… tutto. Ma ora… non vedo più. Ora ignoro dove è il mio Figlio condannato alla croce!… alla croce!… alla croce!… Oh! Dio, dammi forza! Egli mi deve vedere. Non devo sentire il mio dolore finché Egli sente il suo. Quando poi sarà… finito tutto, fàmmi morire allora, o Dio, se vuoi. Ora no.
Per Lui no. Perché mi veda.
4 Andiamo, Giovanni. Dove è Gesù?».
«Parte dalla casa di Pilato. Questo clamore è la turba che grida intorno a Lui, legato, sugli scalini del Pretorio, in attesa della croce o già camminante verso il Golgota».
«Avverti tua madre, Giovanni, e le altre donne. E andiamo. Prendi quel calice, quel pane, quei lini… Mettili qui. Ci saranno di conforto… poi… e andiamo».
Giovanni raccoglie gli oggetti rimasti al suolo ed esce per chiamare le donne. E Maria lo attende, passandosi sul viso quei lini come per ritrovare su essi la carezza della mano del Figlio, e bacia il calice e il pane, e mette tutto su una scansia. E si ammanta ben stretta nel suo manto calandolo fin sugli occhi, al di sopra del velo che le fascia il capo e le si attorciglia al collo. Non piange. Ma trema. E pare che l’aria le manchi tanto ansa a bocca aperta.
Giovanni rientra seguito dalle donne piangenti.
«Figlie! Tacete! Aiutatemi a non piangere! Andiamo». E si appoggia a Giovanni, che la guida e sorregge come fosse una cieca.
La visione cessa così. Sono le 12,30 di ora, ossia le 11,30 dell’ora solare.
Cap. DCVIII. La via dolorosa dal Pretorio al Calvario.
26 marzo 1945.
1 Passa qualche tempo così, non più di una mezz’ora, forse anche meno. Poi Longino, incaricato di presiedere all’esecuzione, dà i suoi ordini.
Ma prima che Gesù sia condotto fuori, nella via, per ricevere la croce e mettersi in moto, Longino, che lo ha guardato due o tre volte, con una curiosità che si tinge già di compassione e con l’occhio pratico di chi non è nuovo a certe cose, si accosta a Gesù con un soldato e gli offre un ristoro: una coppa di vino, credo. Perché mesce da una vera borraccia militare un liquido di un biondo-roseo chiaro. «Ti farà bene. Devi avere sete. E fuori c’è sole. E lunga è la via».
Ma Gesù risponde: «Dio ti compensi della tua pietà. Ma non te ne privare».
«Ma io sono sano e forte… Tu… Non mi privo… E poi… volentieri lo farei, se fosse, per darti un conforto… Un sorso… per mostrarmi che non odi i pagani».
Gesù non ricusa più e beve un sorso della bevanda. Ha le mani già slegate, come non ha più canna né clamide, e lo può fare da Sé. E poi rifiuta, nonostante la bevanda fresca e buona dovrebbe essere di un grande ristoro alla febbre che già si manifesta nelle striature rosse che si accendono sulle sue guance pallide e nelle labbra asciutte, screpolate.
«Prendi, prendi. È acqua e miele. Sostiene. Disseta… Mi fai pietà… sì… pietà… Non eri Tu da uccidere fra gli ebrei… Mah!… Io non ti odio… e cercherò di farti soffrire solo il necessario».
Ma Gesù non torna a bere… Ha veramente sete… La tremenda sete degli svenati e dei febbrili… Sa che non è bevanda narcotizzata e berrebbe volentieri. Ma non vuole soffrire meno. Ma io comprendo, come comprendo questo che dico per luce interna, che ancora più che l’acqua melata gli è di ristoro la pietà del romano.
«Dio ti renda in benedizione questo sollievo», dice poi. E ha ancora un sorriso… uno straziante sorriso con la bocca enfiata, ferita, che si piega a fatica, anche perché fra il naso e lo zigomo destro sta enfiando fortemente la forte contusione della bastonata presa nel cortile interno dopo la flagellazione.
2 Sopraggiungono i due ladroni, inquadrati da una decuria per uno di armati.
È l’ora di andare. Longino dà gli ultimi ordini.
Una centuria si dispone in due file distanti un tre metri l’una dall’altra ed esce così nella piazza, su cui un’altra centuria ha formato un quadrato per respingere la folla acciò non ostacoli il corteo. Sulla piazzetta sono già degli uomini a cavallo: una decuria di cavalleria con un giovane graduato che la comanda e con le insegne. Un soldato a piedi tiene per la briglia il morello del centurione. Longino monta in sella e va al suo posto, davanti un due metri dagli undici a cavallo.
Portano le croci. Quelle dei due ladroni sono più corte. Quella di Gesù molto più lunga. Io dico che l’asta verticale non lo è meno di un quattro metri.
Io la vedo portata già formata. Ho letto su questo, quando leggevo… ossia anni fa, che la croce fu composta sulla cima del Golgota e che lungo il cammino i condannati portavano solo i due pali a fascio sulle spalle. Tutto può essere. Ma io vedo una vera croce, ben contesta, solida, perfettamente incastrata nell’incrocio dei due bracci e ben rinforzata con chiodi e bulloni negli stessi. E infatti, se si pensa che era destinata a sostenere un peso non indifferente, quale è il corpo di un adulto, e sostenerlo anche nelle convulsioni finali, non indifferenti, si comprende che non poteva essere fabbricata lì per lì sulla stretta e scomoda cima del Calvario.
Prima di dare la croce a Gesù, gli passano al collo la tavola con la scritta Gesù Nazzareno Re dei Giudei. E la fune che la sostiene si impiglia nella corona, che si sposta e sgraffia dove non è già sgraffiato e penetra in nuovi posti dando nuovo dolore e facendo sgorgare nuovo sangue. La gente ride di sadica gioia, insulta, bestemmia.
Ora sono pronti. E Longino dà l’ordine di marcia. «Per primo il Nazzareno, dietro i due ladroni; una decuria intorno ad ognuno, le altre sette decurie a fare da ala e rinforzo, e sarà responsabile il soldato che fa ferire a morte i condannati».
3 Gesù scende i tre scalini che dal vestibolo portano sulla piazza. E appare subito evidente che Gesù è in condizioni di forte debolezza. Vacilla nello scendere i tre scalini, impicciato dalla croce che preme sulla spalla tutta piagata, dalla tabella della scritta che ballonzola sul davanti e sega sul collo, dagli ondeggiamenti che imprime al corpo la lunga asta della croce, che sobbalza sugli scalini e sulle asperità del suolo.
I giudei ridono, nel vederlo come ubbriaco tentennare, e gridano ai soldati: «Urtatelo. Fatelo cadere. Nella polvere il bestemmiatore!». Ma i soldati fanno soltanto ciò che devono, ossia ordinano al Condannato di mettersi in mezzo alla via e di camminare.
Longino sprona il cavallo, e il corteo si mette in moto lentamente. E Longino vorrebbe anche fare presto, prendendo la via più breve per andare al Golgota, perché non è sicuro della resistenza del Condannato. Ma la teppa scatenata, e chiamarla teppa è ancora un onore, non vuole così. Quelli che sono stati più furbi sono già corsi in avanti, al bivio dove la strada si biforca per andare da una parte verso le mura, dall’altra verso la città, e tumultuano, urlando, quando vedono che Longino tenta pigliare quella delle mura. «Non devi! Non devi! È illegale! La Legge dice che i condannati devono essere visti dalla città dove peccarono!». I giudei in coda al corteo comprendono che là davanti si tenta defraudarli di un diritto e uniscono le loro urla a quelle dei colleghi.
Per amor di pace, Longino piega per la via che va verso la città e ne fa un pezzo. Ma fa anche cenno ad un decurione di venirgli accosto (dico decurione perché è il graduato, ma forse è quello che noi diremmo il suo ufficiale di ordinanza) e gli dice qualche cosa piano. Costui torna indietro al trotto e, man mano che raggiunge ogni capo decuria, trasmette l’ordine. Poi ritorna presso Longino a riferire che è fatto. E infine raggiunge il posto di prima, nella fila dietro a Longino.
4 Gesù procede ansando. Ogni buca della via è un tranello per il suo piede vacillante e una tortura per le sue spalle impiagate, per il suo capo coronato di spine su cui scende a perpendicolo un sole esageratamente caldo, che ogni tanto si nasconde dietro un tendone plumbeo di nubi. Ma che, anche se nascosto, non cessa di ardere. Gesù è congestionato dalla fatica, dalla febbre e dal caldo. Penso che anche la luce e gli urli gli debbano dare tormento. E, se non può tapparsi gli orecchi per non sentire quei gridi sgangherati, socchiude gli occhi per non vedere la strada abbacinante di sole… Ma li deve anche riaprire perché inciampa in sassi e buche, e ogni inciampone è dolore perché smuove bruscamente la croce che urta sulla corona, che si sposta sulla spalla piagata e allarga la piaga e accresce il dolore.
I giudei non possono più colpirlo direttamente. Ma ancora qualche sasso arriva e qualche bastonata. Il primo, specie nelle piazzette piene di folla. Le seconde, invece, nelle svolte, per le stradette tutte a scalini che salgono e scendono, ora uno, ora tre, ora più, per i continui dislivelli della città. Lì, per forza, il corteo rallenta, e c’è sempre qualche volonteroso (!) che sfida le lance romane pur di dare un nuovo tocco al capolavoro di tortura che è ormai Gesù.
I soldati lo difendono come possono. Ma anche per difenderlo lo colpiscono, perché le lunghe aste delle lance, brandite in così poco spazio, lo urtano e lo fanno incespicare. Ma, giunti ad un certo punto, i soldati fanno una manovra impeccabile e, nonostante gli urli e le minacce, il corteo devia bruscamente per una via che va diretta verso le mura, in discesa, una via che abbrevia molto l’andare verso il luogo del supplizio.
Gesù ansa sempre più. Il sudore gli riga il volto insieme al sangue che gli geme dalle ferite della corona di spine. La polvere si appiccica a questo volto bagnato e lo fa maculato di macchie strane. Perché vi è anche vento, ora. Delle folate sincopate a lunghi intervalli, in cui ricade la polvere che la folata ha alzata in vortici, che portano detriti negli occhi e nelle fauci.
Alla porta Giudiziaria sono già ammucchiate persone e persone. Quelli che, previdenti, si sono per tempo scelti un buon posto per vedere. Ma, poco prima di giungere ad essa, Gesù dà già segno di cadere. Solo il pronto intervento di un soldato, sul quale Egli quasi va a cadere, impedisce che Gesù vada per terra. La gentaglia ride e urla: «Lascialo! Diceva a tutti: “Sorgete”. Sorga Lui, ora…».
Oltre la porta è un torrentello e un ponticello. Nuova fatica per Gesù andare su quelle tavole sconnesse, sulle quali rimbalza ancor più fortemente la lunga asta della croce. E nuova miniera di proiettili per i giudei. Volano i sassi del torrente e colpiscono il povero Martire…
5 Ha inizio la salita del Calvario. Una via nuda, senza un filo d’ombra, selciata a pietre sconnesse, che attacca direttamente la salita.
Anche qui, quando leggevo, ho letto che il Calvario era alto pochi metri. Sarà. Non è certo un monte. Ma un colle lo è, e non certo più basso di quello che è, rispetto ai Lungarni, il monte alle Croci, là dove è la basilica di S. Miniato, a Firenze. Qualcuno dirà: «Oh! poca cosa!». Sì, per uno sano e forte è poca cosa. Ma basta avere il cuore debole per sentire se è poca o tanta!… Io so che, dopo che mi si ammalò il cuore, anche se ancora in forma benigna, non potevo più fare quella salita senza soffrirne molto e dovendo sostare ad ogni poco, e non avevo pesi sulle spalle. E Gesù credo che avesse il cuore molto male a posto dopo la flagellazione e il sudore sanguigno… e non contemplo altro che queste due cose.
Gesù soffre perciò acutamente nel salire e col peso della croce che, così lunga come è, deve anche pesare molto.
Trova una pietra sporgente e siccome, sfinito come è, alza ben poco il piede, inciampa e cade sul ginocchio destro, riuscendo però a sorreggersi con la mano sinistra. La gente urla di gioia… Si rialza. Procede. Sempre più curvo e ansante, congestionato, febbrile…
Il cartello che gli ballonzola davanti gli ostacola la vista; la veste lunga che, ora che Lui va curvo, strascica per terra sul davanti, gli ostacola il passo. Inciampa di nuovo e cade sui due ginocchi, ferendosi di nuovo dove è già ferito; e la croce che gli sfugge di mano e cade, dopo averlo percosso fortemente sulla schiena, lo obbliga a chinarsi a rialzarla ed a faticare per porsela sulle spalle di nuovo. Mentre fa questo, appare nettamente visibile sulla spalla destra la piaga fatta dallo sfregamento della croce, che ha aperto le molte piaghe dei flagelli e le ha unificate in una sola che trasuda siero e sangue, di modo che la tunica bianca è in quel luogo tutta macchiata. La gente ha persino degli applausi per la gioia di vederlo cadere così male…
Longino incita a spicciarsi, e i soldati, con colpi di piatto dati con le daghe, sollecitano il povero Gesù a procedere. Si riprende il cammino con una lentezza sempre maggiore, nonostante ogni sollecitazione.
Gesù sembra tutt’affatto ebbro, tanto va barcollando, urtando or l’una or l’altra delle file dei soldati, tenendo tutta la via. E la gente lo nota e urla: «Gli è andata al capo la sua dottrina. Ve’, ve’ come traballa!». E altri, e non sono popolo questi, ma sacerdoti e scribi, sogghignano: «No. Sono i festini in casa di Lazzaro che ancora fanno fumo. Erano buoni? Ora mangia il nostro cibo…», e simili altre frasi.
6 Longino, che si volta ogni tanto, ha pietà e ordina una sosta di qualche minuto. Ed è insultato tanto dalla plebaglia che il centurione ordina alle milizie di caricare. E la folla vile, davanti alle lance che luccicano e minacciano, si allontana urlando e gettandosi qua e là giù per il monte.
È qui che rivedo, fra i pochi rimasti, emergere da dietro una maceria, forse di qualche muretto franato, il gruppetto dei pastori. Desolati, stravolti, polverosi, stracciati, essi chiamano a loro, con la forza degli sguardi, il loro Maestro. Ed Egli gira il capo, li vede… li fissa come fossero volti di angeli, pare dissetarsi e fortificarsi col loro pianto, e sorride… Viene ridato l’ordine di marcia e Gesù passa proprio davanti a loro e ne ode il pianto angoscioso. Torce a fatica il capo da sotto il giogo della croce e ha un nuovo sorriso… I suoi conforti… Dieci volti… una sosta sotto al cocente sole…
E poi subito il dolore della terza completa caduta. E questa volta non è che inciampi. Ma è che cade per subita flessione delle forze, per sincope. Va lungo disteso, battendo il volto sulle pietre sconnesse, rimanendo nella polvere sotto la croce che gli si piega addosso. I soldati cercano rialzarlo. Ma, poiché pare morto, vanno a riferire al centurione. Mentre vanno e vengono, Gesù rinviene, e lentamente, con l’aiuto di due soldati, di cui uno rialza la croce e l’altro aiuta il Condannato a porsi in piedi, si rimette al suo posto. Ma è proprio sfinito.
«Fate che non muoia che sulla croce!», urla la folla.
«Se lo fate morire avanti, ne risponderete al Proconsole, ricordatelo. Il reo deve giungere vivo al supplizio», dicono i capi degli scribi ai soldati.
Questi li fulminano con sguardi feroci, ma per disciplina non parlano.
7 Longino, però, ha la stessa paura dei giudei che il Cristo muoia per via, e non vuole noie. Senza bisogno che nessuno glielo ricordi, sa quale è il suo dovere di preposto alla esecuzione, e provvede. Provvede disorientando i giudei che sono già corsi avanti per la via, raggiunta da tutte le parti del monte, sudando, graffiandosi per passare fra i rari e spinosi cespugli del monte brullo e arso, cadendo sulle macerie che lo ingombrano come fosse un luogo di sbratto per Gerusalemme, senza sentire altra pena fuorché quella di perdere un ansito del Martire, un suo sguardo di dolore, un atto anche involontario di sofferenza, e senza altra paura che non sia quella di non giungere ad avere un buon posto.
Longino dà, dunque, ordine di prendere la via più lunga, che sale a spirale lungo il monte e che perciò è molto meno ripida. Sembra questa un sentiero che a forza di essere percorso si sia mutato in via abbastanza comoda.
Questo incrocio di una via con l’altra avviene ad una metà circa del monte. Ma vedo che più su, per quattro volte, la strada diretta viene tagliata da questa, che va su con molto meno pendenza e molto più lunghezza in compenso. E su questa strada sono persone che salgono, ma che non partecipano all’indegna gazzarra degli ossessi che seguono Gesù per godere dei suoi tormenti. Donne, per la più parte, e piangenti e velate, e qualche gruppetto di uomini, molto sparuto in verità, che, più avanti di molto delle donne, sta per scomparire alla vista quando, nel proseguire, la strada gira il monte.
Qui il Calvario ha una specie di punta nella sua bizzarra struttura, fatta a muso da una parte, mentre dall’altra scoscende. Cercherò dargliene un’idea del suo aspetto preso di profilo. Ma bisogna che volti il foglio, perché qui mi viene male per mancanza di spazio.
Gli uomini scompaiono dietro la punta sassosa e li perdo di vista.
8 La gente che seguiva Gesù urla di rabbia. Era più bello, per essa, vederlo cadere. Con oscene imprecazioni al Condannato e a chi lo conduce, si dà in parte a seguire il corteo giudiziario e parte prosegue quasi di corsa su per la via ripida, per rifarsi, con un ottimo posto sulla vetta, della delusione avuta.
Le donne che vanno piangendo, e sono al punto che segno con la lettera D, si volgono nel sentire gli urli e vedono che il corteo piega per quella parte. Si fermano, allora, addossandosi al monte, per tema di essere gettate giù dalla china dai violenti giudei. Calano ancor più i loro veli sul volto. E vi è chi è completamente velata come una mussulmana, lasciando liberi solo gli occhi nerissimi. Sono vestite molto riccamente ed hanno, a difesa, un vecchio robusto che, tutto ammantellato come è, non distinguo nel volto. Ne vedo solo la barba lunga, e più bianca che nera, sporgere dal mantellone scurissimo.
Quando Gesù giunge alla loro altezza, esse hanno un pianto più alto e si curvano in profondo saluto. Poi si fanno risolutamente avanti. I soldati vorrebbero respingerle con le aste. Ma quella tutta coperta come una mussulmana scosta per un attimo il velo all’alfiere, sopraggiunto a cavallo per vedere che è questo nuovo intoppo, e questo dà ordine di farla passare. Non posso vedere né il volto, né il vestito, perché lo spostamento del velo è fatto con rapidità di lampo e l’abito è tutto nascosto in un mantello lungo fino a terra, pesante, chiuso completamente da una serie di fibbie. La mano, che per un attimo esce da là sotto per spostare il velo, è bianca e bella. Ed è, con gli occhi nerissimi, l’unica cosa che si veda di questa alta matrona, certo influente se è così ubbidita dall’aiutante di Longino.
9 Si accostano a Gesù piangendo e si inginocchiano ai suoi piedi mentre Egli si ferma ansante… e pure sa ancora sorridere a quelle pietose e all’uomo che le scorta, che si scopre per mostrare che è Gionata. Ma questo le guardie non lo fanno passare. Solo le donne.
Una è Giovanna di Cusa. Ed è più disfatta di quando era morente. Di rosso non ha che le righe del pianto, e poi è tutta una faccia di neve con i dolci occhi neri che, così offuscati come sono, sembrano divenuti di un viola scurissimo come certi fiori. Ha in mano un’anfora d’argento e l’offre a Gesù. Ma Egli ricusa. D’altronde, è tanto il suo affanno che non potrebbe neppur bere. Con la mano sinistra si asciuga il sudore e il sangue che gli cade negli occhi e che, scorrendo lungo le guance paonazze e il collo, dalle vene turgide nel battito affannoso del cuore, bagna tutta la veste sul petto.
Un’altra donna, che ha presso una fanciulla servente con uno scrignetto fra le braccia, apre lo scrignetto, ne trae un lino finissimo, quadrato, e lo offre al Redentore. Questo lo accetta. E poiché non può con una mano sola fare da Sé, la pietosa lo aiuta, badando di non urtargli la corona, a posarselo sul volto. E Gesù preme il fresco lino sulla sua povera faccia e ve lo tiene, come ne trovasse un grande ristoro.
Poi rende il lino e parla: «Grazie Giovanna, grazie Niche,… Sara,… Marcella,… Elisa,… Lidia,… Anna,… Valeria,… e tu… Ma… non piangete… su Me… figlie di… Gerusalemme… Ma sui peccati… vostri e su quelli… della vostra città… Benedici… Giovanna… di non avere… più figli… Vedi… è pietà di Dio… non… non avere figli… perché… soffrano di… questo. E anche… tu, Elisabetta… Meglio… come fu… che fra i deicidi… E voi… madri… piangete sui… figli vostri, perché… quest’ora non passerà… senza castigo… E che castigo, se così è per… l’Innocente… Piangerete allora… di avere concepito… allattato e di… avere ancora… i figli… Le madri… di allora… piangeranno perché… in verità vi dico… che sarà fortunato… chi allora… cadrà… sotto le macerie… per primo. Vi benedico… Andate… a casa… pregate… per Me. Addio, Gionata… conducile via…».
E fra un alto clamore di pianto femminile e di imprecazioni giudee Gesù si rimette in moto.
10Gesù è di nuovo tutto bagnato di sudore. Sudano anche i soldati e gli altri due condannati, perché il sole di questo giorno temporalesco è scottante come fiamma e il fianco del monte, arroventato di suo, aumenta il calore solare.
Cosa deve essere questo sole sulla veste di lana di Gesù, posta sulle ferite dei flagelli, è facile pensare e inorridire… Ma Egli non ha mai un lamento. Soltanto, nonostante la via sia molto meno ripida e non abbia quelle pietre sconnesse dell’altra, così pericolose al suo piede che ormai è strascicante, Gesù barcolla sempre più forte, tornando ad urtare da una fila all’altra dei soldati e piegando sempre più verso terra.
Pensano di risolvere la cosa in bene passandogli una fune alla cintura e tenendolo per due capi come fossero redini. Sì. Questo lo sostiene. Ma non lo solleva dal peso. Anzi la fune, urtando nella croce, la fa spostare continuamente sulla spalla e picchiare nella corona, che ormai ha fatto della fronte di Gesù un tatuaggio sanguinante. Inoltre, la fune sfrega alla cintura dove sono tante ferite, e certo le deve rompere di nuovo, tanto che la tunica bianca si colora alla vita di un rosso pallido. Per aiutarlo, lo fanno soffrire più ancora.
11La strada prosegue. Gira il monte, torna quasi sul davanti, verso la strada erta. Qui, nel posto che segno con la lettera M, è Maria con Giovanni. Direi che Giovanni l’ha portata in quel posto ombroso, dietro la china del monte, per darle un poco di ristoro. È la parte più scoscesa del monte. Non vi è che quella via che la costeggia. Sopra e sotto la costa scoscende o si inerpica ripida, e perciò è trascurata dai crudeli. Lì è ombra, perché direi che è il settentrione, e Maria, addossata come è al monte, è riparata dal sole. Sta appoggiata al terriccio. In piedi, ma già esausta, Ella pure ansante, pallida come una morta nel suo abito blu scurissimo, quasi nero. Giovanni la guarda con pietà desolata. Anche egli ha perduto ogni traccia di colore ed è terreo, con due occhi stanchi e sbarrati, spettinato, dalle gote incavate come per malattia.
Le altre donne — Maria e Marta di Lazzaro, Maria d’Alfeo e di Zebedeo, Susanna di Cana, la padrona di casa e altre ancora che non conosco — tutte sono in mezzo alla via e guardano se viene il Salvatore. E, visto giungere Longino, accorrono presso Maria a dare la notizia. E Maria, sorretta per un gomito da Giovanni, si stacca, maestosa nel suo dolore, dalla costa del monte e si pone risolutamente in mezzo alla strada, scansandosi solo per il sopraggiungere di Longino, che dall’alto del suo morello guarda la pallida Donna e il suo accompagnatore biondo, pallido, dai miti occhi di cielo come Lei. E crolla il capo, Longino, mentre la supera seguito dagli undici a cavallo.
Maria cerca passare fra i soldati appiedati. Ma questi, che hanno caldo e fretta, cercano respingerla con le aste, molto più che dalla via selciata volano sassi per protesta contro tante pietà. Sono i giudei, che ancora imprecano per la sosta causata dalle pie donne e dicono: «Presto! Domani è Pasqua. Bisogna finire tutto entro sera! Complici! Derisori della nostra Legge! Oppressori! A morte gli invasori e il loro Cristo! Lo amano! Veh! come lo amano! Ma prendetelo! Mettetelo nel vostro maledetto Urbe! Ve lo cediamo! Non lo vogliamo! Le carogne alle carogne! La lebbre ai lebbrosi!».
12Longino si stanca e sprona il cavallo, seguito dai dieci lancieri, contro la canea insultante, che fugge una seconda volta. Ed è nel fare questo che vede fermo un carretto, certo salito lì dalle ortaglie che sono ai piedi del monte, e che attende col suo carico di insalate che la turba sia passata per scendere verso la città. Penso che un poco di curiosità nel Cireneo e nei suoi figli lo abbia fatto salire fin lì, perché non era proprio necessario per lui di farlo. I due figli, sdraiati sull’alto del mucchio verdolino delle verdure, guardano e ridono dietro i giudei fuggenti. L’uomo invece, un robustissimo uomo sui quaranta-cinquant’anni, ritto presso il ciuchino che spaventato cerca di rinculare, guarda attentamente verso il corteo.
Longino lo squadra. Pensa gli possa far comodo e ordina: «Uomo, vieni qui».
Il Cireneo finge di non sentire. Ma con Longino non si scherza. Ripete l’ordine in un modo tale che l’uomo getta la redine ad un figlio e viene vicino al centurione.
«Vedi quell’uomo?», chiede. E nel dire così si volge per indicare Gesù e vede a sua volta Maria, che supplica i soldati di farla passare. Ne ha pietà e urla: «Fate passare la Donna». Poi torna a parlare al Cireneo: «Non può più procedere così carico. Tu sei forte. Prendi la sua croce e portala per Lui sino alla cima».
«Non posso… Ho l’asino… è riottoso… i ragazzi non sanno tenerlo…».
Ma Longino dice: «Vai, se non vuoi perdere l’asino e acquistare venti colpi di castigo».
Il Cireneo non osa più reagire. Urla ai ragazzi: «Andate a casa e presto. E dite che vengo subito», e poi va da Gesù.
13Lo raggiunge proprio mentre Gesù si volge verso la Madre, che solo ora vede venire verso di Lui, perché procede così curvo e ad occhi quasi chiusi che è come fosse cieco, e grida: «Mamma!».
È la prima parola, da quando è torturato, che esprima il suo soffrire. Perché in quel grido c’è la confessione di tutto e ogni suo tremendo dolore di spirito, di morale e di carne. È il grido straziato e straziante di un bambino che muore solo, fra aguzzini, fra le peggiori torture… e che giunge ad avere paura anche del suo proprio respiro. È il lamento di un fanciullo delirante che è straziato da visioni d’incubo… E vuole la mamma, la mamma, perché solo il suo bacio fresco calma l’ardore della febbre, la sua voce fuga i fantasmi, il suo abbraccio fa meno paurosa la morte…
Maria si porta la mano al cuore, come ne avesse una pugnalata, e ha un lieve vacillamento. Ma si riprende, affretta il passo e, mentre va a braccia tese verso la sua Creatura straziata, grida: «Figlio!». Ma lo dice in maniera tale che chi non ha cuore di iena se lo sente fendere per quel dolore.
Vedo che anche fra i romani vi è un moto di pietà… eppure sono uomini d’arme, non nuovi alle uccisioni, segnati da cicatrici… Ma la parola «Mamma!» e «Figlio!» sono sempre quelle, e per tutti coloro che, ripeto, non sono peggio delle iene, e sono dette e comprese dovunque, e dovunque sollevano onde di pietà…
Il Cireneo ha questa pietà… E poiché vede che Maria non può abbracciare il suo Figlio per via della croce e, dopo avere teso le braccia, le lascia ricadere, persuasa di non poterlo fare — e lo guarda soltanto, volendo sorridere del suo martire sorriso per rincuorarlo, mentre le labbra tremanti bevono il pianto, e Lui, torcendo il capo da sotto il giogo della croce, cerca a sua volta di sorriderle e di inviarle un bacio con le povere labbra ferite e spaccate dalle percosse e dalla febbre — si affretta a levare la croce, e lo fa con delicatezza di padre, per non urtare la corona o strofinare sulle piaghe.
Ma Maria non può baciare la sua Creatura… Anche il tocco più lieve sarebbe tortura sulle carni lacerate, e Maria se ne astiene, e poi… i sentimenti più santi hanno un pudore profondo. E vogliono rispetto o almeno compassione. Qui è curiosità e soprattutto scherno. Si baciano solo le due anime angosciate.
14Il corteo, che si rimette in moto sotto la spinta delle ondate di popolo furente che preme dal fondo, li divide, respingendo la Madre contro il monte, allo scherno di tutto un popolo…
Ora dietro a Gesù è il Cireneo con la croce. E Gesù, libero di quel peso, procede meglio. Ansa fortemente, si porta sovente la mano al cuore, come avesse un grande dolore, una ferita lì, alla regione sterno-cardiaca, e ora che può, non avendo più le mani legate, si respinge i capelli caduti in avanti, tutti collosi di sangue e sudore, fin dietro le orecchie, per sentire aria sul volto cianotico, si slaccia il cordone del collo, per la sofferenza del respiro… Ma può camminare meglio.
Maria si è ritirata con le donne. Si accoda al corteo quando è passato e poi, per una scorciatoia, si dirige alla vetta del monte, sfidando gli improperi della plebe cannibalesca.
Ora che Gesù è libero, si compie abbastanza presto l’ultimo anello del monte, e già si è prossimi alla cima tutta piena di popolo urlante.
Longino si ferma e dà ordine che tutti, inesorabilmente, siano respinti più in basso, perché la cima, luogo di esecuzione, sia libera. E metà centuria eseguisce l’ordine, accorrendo sul posto e respingendo senza pietà chiunque là si trova, usando daghe e aste per questo. Sotto la grandine delle piattonate e delle bastonate, i giudei della cima fuggono. E vorrebbero collocarsi nella sottostante spianata. Ma quelli che già sono in essa non cedono, e fra la gente si accendono risse feroci. Sembrano tutti pazzi.
15Come le ho detto lo scorso anno, il Calvario, nella sua cima, ha la forma di un trapezio irregolare, lievemente più alto nel lato A, dopo il quale il monte scoscende ripido per oltre metà della sua altezza. Su questa piazzuola sono già pronti tre buchi profondi, tappezzati di mattoni o lavagne, costruiti apposta, insomma. Vicino ad essi sono pietre e terra pronte per rincalzare le croci. Altri buchi invece sono stati lasciati pieni di pietre. Si capisce che li svuotano di volta in volta per il numero che serve.
Sotto la cima trapezoidale, dalla parte che il monte non scoscende, vi è una specie di piattaforma degradante dolcemente, che fa una seconda piazzuola. Da questa partono due larghi sentieri che costeggiano la cima, di modo che questa è isolata e sopraelevata di almeno due metri da tutti i lati.
I soldati, che hanno respinto la folla dalla cima, domano, a colpi persuasivi di aste, le risse, e fanno largo perché il corteo possa sfilare senza ostacoli nell’ultimo pezzo di strada, e restano lì a fare ala mentre i tre condannati, inquadrati dai cavalieri e protetti dall’altra metà centuria alle spalle, giungono fino al punto dove vengono fatti fermare: ai piedi del naturale palco sopraelevato che è la cima del Golgota.
16Mentre ciò avviene, scorgo le Marie al punto che segno con un M, e un poco dietro a loro sono Giovanna di Cusa con altre quattro delle dame di prima. Le altre si sono ritirate. E devono averlo fatto da sole, perché Gionata è là, dietro alla sua padrona. Non c’è più quella che noi diciamo Veronica e che Gesù ha detta Niche, e con lei manca la sua servente. E anche quella tutta velata, che fu obbedita dai soldati, non c’è più. Vedo Giovanna, la vecchia chiamata Elisa, Anna (è la padrona di quella casa dove Gesù va alla vendemmia del primo anno[34]) e due che non so identificare meglio.
Dietro queste donne e le Marie vedo Giuseppe e Simone d’Alfeo, e Alfeo di Sara insieme al gruppo dei pastori. Hanno colluttato con chi li voleva respingere insultandoli, e la forza di questi uomini, che l’amore e il dolore moltiplicano, è stata così violenta[35] che hanno vinto, creando un semicerchio libero contro il quale i vilissimi giudei non osano che lanciare grida di morte e tendere i pugni. Ma non di più, perché i bastoni dei pastori sono nodosi e pesanti, e la forza e la mira non manca a questi prodi. E non dico male a dire così. Ci vuole un vero coraggio a stare in pochi, noti per galilei o seguaci del Galileo, contro tutta una popolazione ostile. L’unico punto di tutto il Calvario dove non si bestemmi il Cristo!
Il monte, dai tre lati che scendono non ripidi a valle, è tutto un formicolaio di folla. La terra giallastra e nuda non si vede più. Sotto il sole che va e viene pare un prato fiorito di corolle di tutti i colori, tanto sono fitti i copricapi e i mantelli dei sadici che lo coprono. Oltre torrente, per la via, altra folla; oltre le mura, altra ancora. Sulle terrazze più vicine, altra ancora. Il resto della città nudo… vuoto… silenzioso. Tutto è qui. Tutto l’amore e tutto l’odio. Tutto il Silenzio che ama e perdona. Tutto il Clamore che odia e impreca.
17Mentre gli uomini preposti all’esecuzione preparano i loro strumenti finendo di svuotare le buche, e i condannati aspettano al centro del loro quadrato, i giudei, rifugiati nell’angolo opposto alle Marie, le insultano. Anche la Madre insultano: «A morte i galilei. A morte! Galilei! Galilei! Maledetti! A morte il Bestemmiatore galileo. Inchiodate sulla croce anche il seno che lo ha portato! Via le vipere che partoriscono i demoni! A morte! Mondate Israele dalle femmine congiunte col capro!…».
Longino, che è smontato da cavallo, si volta e vede la Madre… Ordina di far cessare quella gazzarra… La mezza centuria, che era alle spalle dei condannati, carica la marmaglia e sgombera del tutto la seconda piazzuola, mentre i giudei scappano per il monte pestandosi gli uni con gli altri. Smontano anche gli altri soldati, e uno prende gli undici cavalli, oltre quello del centurione, e li porta all’ombra, dietro il costolone B del monte.
Il centurione si avvia verso la vetta. Giovanna di Cusa si fa avanti, lo ferma. Gli dà l’anfora e una borsa. E poi si ritira piangendo, andando contro lo spigolo del monte con le altre.
18In alto è pronto tutto. Vengono fatti salire i condannati. E Gesù passa ancora una volta presso la Madre, che ha un gemito che Ella stessa cerca frenare portandosi il mantello sulla bocca.
I giudei vedono e ridono e deridono. Giovanni, il mite Giovanni, che ha un braccio dietro le spalle di Maria per sorreggerla, si volge con uno sguardo feroce. Ha persino l’occhio fosforescente. Se non avesse da tutelare le donne, io credo che prenderebbe qualcuno dei vili per la gola.
Non appena i condannati sono sul palco fatale, i soldati circondano la piazzuola da tre lati. Non resta vuoto che quello a strapiombo.
Il centurione dà ordine al Cireneo di andarsene. E questi se ne va, a malincuore ora, e non direi per sadismo, ma per amore. Tanto che si ferma presso i galilei, dividendo con essi gli insulti che la folla elargisce a questi sparuti fedeli del Cristo.
I due ladroni gettano al suolo le loro croci bestemmiando. Gesù tace.
La via dolorosa è terminata.
Cap. DCIX. La crocifissione, la morte e la deposizione dalla croce.
27 marzo 1945.
1 Quattro nerboruti uomini, che per l’aspetto mi paiono giudei, e giudei degni della croce più dei condannati, certo della stessa categoria dei flagellatori, saltano da un sentiero sul luogo del supplizio. Sono vestiti di tuniche corte e sbracciate ed hanno in mano chiodi, martelli e funi che mostrano con lazzi ai tre condannati. La folla si agita in un delirio crudele.
Il centurione offre a Gesù l’anfora perché beva la mistura anestetica di vino mirrato. Ma Gesù la rifiuta. I due ladroni invece ne bevono molta. Poi l’anfora, dall’ampia bocca svasata, viene posta presso un grosso sasso, quasi sullo scrimolo della cima.
2 Viene dato l’ordine ai condannati di spogliarsi. I due ladroni lo fanno senza nessun pudore. Anzi si divertono a fare atti osceni verso la folla e specie verso il gruppo sacerdotale, tutto candido nelle sue vesti di lino e che è piano piano tornato sulla piazzetta più bassa, usando della sua qualità per insinuarsi lì. Ai sacerdoti si sono uniti due o tre farisei e altri prepotenti personaggi, che l’odio fa amici. E vedo persone di conoscenza, come il fariseo Giocana e Ismaele, lo scriba Sadoch, Eli di Cafarnao…
I carnefici offrono tre stracci ai condannati perché se li leghino all’inguine. E i ladroni li pigliano con più orrende bestemmie. Gesù, che si spoglia lentamente per lo spasimo delle ferite, lo ricusa. Forse pensa conservare le corte brache che ha tenute anche nella flagellazione. Ma, quando gli viene detto di levarsi anche le stesse, Egli tende la mano per mendicare lo straccio dei boia a difesa della sua nudità. È proprio l’Annichilito fino a dover chiedere uno straccio ai delinquenti.
Ma Maria ha visto e si è sfilata il lungo e sottile telo bianco, che le vela il capo sotto al manto oscuro e nel quale Ella ha già versato tanto pianto. Se lo leva senza far cadere il manto, lo dà a Giovanni perché lo porga a Longino per il Figlio. Il centurione prende il velo senza fare ostacolo e, quando vede che Gesù sta per denudarsi del tutto, stando voltato non verso la folla ma verso la parte vuota di popolo, mostrando così la sua schiena rigata di lividi e di vesciche, sanguinante di ferite aperte o dalle croste oscure, gli porge il lino materno. E Gesù lo riconosce. Se ne avvolge a più riprese il bacino, assicurandoselo per bene perché non caschi… E sul lino, fino allora solo bagnato di pianto, cadono le prime gocce di sangue, perché molte delle ferite, appena coperte di coagulo, nel chinarsi per levarsi i sandali e deporre le vesti si sono riaperte e il sangue riprende a sgorgare.
3 Ora Gesù si volge verso la folla. E si vede così che anche il petto, le braccia, le gambe sono tutte state colpite dai flagelli. All’altezza del fegato è un enorme livido, e sotto l’arco costale sinistro vi sono nette sette righe in rilievo, terminate da sette piccole lacerazioni sanguinanti fra un cerchio violaceo… un colpo feroce di flagello in quella zona tanto sensibile del diaframma. I ginocchi, contusi dalle ripetute cadute, iniziate subito dopo la cattura e terminate sul Calvario, sono neri di ematoma e aperti sulla rotula, specie il destro, in una vasta lacerazione sanguinante.
La folla lo schernisce come in coro: «Oh! Bello! Il più bello dei figli degli uomini! Le figlie di Gerusalemme ti adorano…». E intona, con tono di salmo: «Il mio diletto è candido e rubicondo, distinto fra mille e mille. La sua testa è oro puro, i suoi capelli grappoli di palma, setosi come piuma di corvo. Gli occhi son come due colombe bagnantesi ai ruscelli non d’acqua ma di latte, nel latte della sua orbita. Le sue guance sono aiuole di aromi, le sue labbra porpurei gigli stillanti preziosa mirra. Le sue mani tornite come lavoro d’orafo terminate in rosei giacinti. Il suo tronco è avorio venato di zaffiri. Le sue gambe, perfette colonne di candido marmo su basi d’oro. La sua maestà è come quella del Libano; imponente egli è più dell’alto cedro. La sua lingua è intrisa di dolcezza ed egli è tutto delizia»; e ridono e urlano anche: «Il lebbroso! Il lebbroso! Hai dunque fornicato con un idolo se Dio ti ha così colpito? Hai mormorato contro i santi di Israele come Maria di Mosè, se sei stato così punito? Oh! Oh! il Perfetto! Sei il Figlio di Dio? Ma no! L’aborto di Satana sei! Almeno egli, Mammona, è potente e forte. Tu… sei uno straccio impotente e schifoso».
4 I ladroni sono legati sulle croci e vengono portati al loro posto, uno a destra, uno a sinistra rispetto al posto destinato a Gesù. Urlano, imprecano, maledicono e, specie quando le croci vengono portate presso il buco e li sconquassano facendo segare i polsi dalle funi, le loro bestemmie a Dio, alla Legge, ai romani, ai giudei, sono infernali.
È la volta di Gesù. Egli si stende mite sul legno. I due ladroni erano tanto ribelli che, non bastando a farlo i quattro boia, erano dovuti intervenire dei soldati a tenerli, perché a calci non respingessero gli aguzzini che li legavano per i polsi. Ma per Gesù non c’è bisogno di aiuto. Si corica e mette il capo dove gli dicono di metterlo. Apre le braccia come gli dicono di farlo, stende le gambe come gli ordinano. Si è solo preoccupato di accomodarsi per bene il suo velo. Ora il suo lungo corpo, snello e bianco, spicca sul legno oscuro e sul suolo giallo.
5 Due carnefici gli si siedono sul petto per tenerlo fermo. E io penso che oppressione e che dolore deve aver provato sotto quel peso. Un terzo gli prende il braccio destro, tenendolo con una mano sulla prima porzione dell’avambraccio e l’altra al termine delle dita. Il quarto, che ha già in mano il lungo chiodo acuminato sulla punta quadrangolare nel fusto, terminato in una piastra rotonda e piatta, larga come un soldone dei tempi passati, guarda se il buco già fatto nel legno corrisponde alla giuntura radio-ulnare del polso. Va bene. Il boia appoggia la punta del chiodo al polso, alza il martello e dà il primo colpo.
Gesù, che aveva gli occhi chiusi, all’acuto dolore ha un grido e una contrazione, e spalanca gli occhi nuotanti fra le lacrime. Deve essere un dolore atroce quello che prova… Il chiodo penetra spezzando muscoli, vene, nervi, frantumando ossa…
Maria risponde al grido della sua Creatura torturata con un gemito che ha quasi del lamento di un agnello sgozzato, e si curva, come spezzata, tenendosi la testa fra le mani. Gesù, per non torturarla, non grida più. Ma i colpi ci sono, metodici, aspri, di ferro contro ferro… e si pensa che sotto è un membro vivo quello che li riceve.
La mano destra è inchiodata. Si passa alla sinistra. Il foro non corrisponde al carpo. Allora prendono una fune, legano il polso sinistro e tirano fino a slogare la giuntura e a strappare tendini e muscoli, oltre che lacerare la pelle già segata dalle funi della cattura. Anche l’altra mano deve soffrire, perché è stirata per riflesso, e intorno al suo chiodo si allarga il buco. Ora si arriva appena all’inizio del metacarpo, presso il polso. Si rassegnano e inchiodano dove possono, ossia fra il pollice e le altre dita, proprio al centro del metacarpo. Qui il chiodo entra più facilmente ma con maggiore spasimo, perché deve recidere nervi importanti, tanto che le dita restano inerti, mentre le altre della destra hanno contrazioni e tremiti che denunciano la loro vitalità. Ma Gesù non grida più, ha solo un lamento roco dietro le labbra fortemente chiuse, e lacrime di spasimo cadono per terra dopo esser cadute sul legno.
6 Ora è la volta dei piedi. A un due metri e più dal termine della croce è un piccolo cuneo, appena sufficiente ad un piede. Su questo vengono portati i piedi per vedere se va bene la misura. E dato che è un poco in basso e i piedi arrivano male, stiracchiano per i malleoli il povero Martire. Il legno scabro della croce sfrega così sulle ferite, smuove la corona che si sposta strappando nuovi capelli e minaccia di cadere. Un boia gliela ricalca sul capo con una manata…
Ora, quelli che erano seduti sul petto di Gesù si alzano per spostarsi sui ginocchi, dato che Gesù ha un movimento involontario di ritirare le gambe, vedendo brillare al sole il lunghissimo chiodo, lungo il doppio e largo il doppio di quello usato per le mani. E pesano sui ginocchi scorticati, e premono sui poveri stinchi contusi, mentre gli altri due compiono l’operazione, molto più difficile, dell’inchiodatura di un piede sull’altro, cercando di combinare le due giunture dei tarsi insieme.
Per quanto guardino e tengano fermi i piedi, al malleolo e alle dita, contro il cuneo, il piede sottoposto si sposta per la vibrazione del chiodo, e lo devono schiodare quasi, perché, dopo essere entrato nelle parti molli, il chiodo, già spuntato per avere perforato il piede destro, deve essere portato un poco più in centro. E picchiano, picchiano, picchiano… Non si sente che l’atroce rumore del martello sulla testa del chiodo, perché tutto il Calvario non è che occhi e orecchie tese, per raccogliere atto e rumore e gioirne…
Sul suono aspro del ferro è un lamento in sordina di colomba: il gemere roco di Maria, che sempre più si curva, ad ogni colpo, come se il martello piagasse Lei, la Madre Martire. Ed ha ragione di parere prossima ad essere spezzata da quella tortura. La crocifissione è tremenda. Pari alla flagellazione in spasimo, più atroce a vedersi, perché si vede scomparire il chiodo fra le carni vive. Ma in compenso è più breve. Mentre la flagellazione spossa per la sua durata.
Per me, l’agonia dell’Orto, la flagellazione e la crocifissione sono i momenti più atroci. Mi svelano tutta la tortura del Cristo. La morte mi solleva, perché dico: «È finito!». Ma queste non sono fine. Sono principio a nuove sofferenze.
7 Ora la croce è strascinata presso il buco e rimbalza, scuotendo il povero Crocifisso, sul suolo ineguale. Viene issata la croce, che sfugge per due volte a coloro che la alzano e ricade una volta di schianto, un’altra sul braccio destro della stessa, dando un aspro tormento a Gesù, perché la scossa subita smuove gli arti feriti.
Ma quando poi la croce viene lasciata cadere nel suo buco e, prima di essere assicurata con pietre e terriccio, ondeggia in tutti i sensi, imprimendo continui spostamenti al povero Corpo sospeso a tre chiodi, la sofferenza deve essere atroce. Tutto il peso del corpo si sposta in avanti e in basso, e i buchi si allargano, specie quello della mano sinistra, e si allarga il foro nei piedi mentre il sangue spiccia più forte. E se quello dei piedi goccia lungo le dita per terra e lungo il legno della croce, quello delle mani segue gli avambracci, perché sono più alti al polso che all’ascella per forza della posizione, e riga anche le coste scendendo dall’ascella verso la cintura. La corona, quando la croce ondeggia prima di essere fissata, si sposta, perché il capo ribatte all’indietro, conficcando nella nuca il grosso nodo di spini che termina la pungente corona, e poi torna ad adagiarsi sulla fronte e graffia, graffia senza pietà.
Finalmente la croce è assicurata e non c’è che il tormento dell’essere appeso. Issano anche i ladroni, i quali, una volta messi verticalmente, urlano come fossero scotennati vivi per la tortura delle funi, che segano i polsi e fanno divenire nere le mani, con le vene gonfie come corde.
Gesù tace. La folla non tace più, invece. Ma riprende il suo vocio infernale.
Ora la cima del Golgota ha il suo trofeo e la sua guardia d’onore. Al limite più alto (lato A) la croce di Gesù. Al lato B e C le altre due. Mezza centuria di soldati, con le armi al piede, tutto intorno alla vetta; dentro a questo cerchio d’armati, i dieci appiedati, che giocano a dadi le vesti dei condannati. Ritto in piedi, fra la croce di Gesù e quella di destra, Longino. E pare monti la guardia d’onore al Re Martire. L’altra mezza centuria, in riposo, è agli ordini dell’aiutante di Longino sul sentiero di sinistra e sulla piazzuola più bassa, in attesa di essere adoperata se ce ne sarà bisogno. Nei soldati c’è l’indifferenza quasi totale. Solo qualcuno alza ogni tanto il volto ai crocifissi.
8 Longino invece osserva tutto con curiosità e interesse, confronta e mentalmente giudica. Confronta i crocifissi, e specie il Cristo, e gli spettatori. Il suo occhio penetrante non perde un particolare. E per vedere meglio fa solecchio con la mano, perché il sole gli deve dare noia.
È infatti un sole strano. Di un giallo rosso d’incendio. E poi pare che l’incendio si spenga di colpo per un nuvolone di pece che sorge da dietro le catene giudee e che corre veloce per il cielo, scomparendo dietro ad altri monti. E quando il sole ritorna fuori è così vivo che l’occhio non lo sopporta che male.
Nel guardare vede Maria, proprio sotto il balzo, che tiene alzato verso il Figlio il suo volto straziato. Chiama uno dei soldati che giuocano a dadi e gli dice: «Se la Madre vuole salire col figlio che l’accompagna, venga. Scortala e aiutala».
E Maria con Giovanni, creduto «figlio», sale per la scaletta incisa nella roccia tufacea, credo, e penetra oltre il cordone dei soldati andando ai piedi della croce, ma un poco scosta per essere vista e per vedere il suo Gesù.
La folla le propina subito i più obbrobriosi insulti. Accomunandola nelle bestemmie al Figlio. Ma Ella, con le labbra tremanti e sbiancate, cerca solo di dargli conforto, con un sorriso straziato su cui si asciugano le lacrime che nessuna forza di volontà riesce a trattenere negli occhi.
9 La gente, cominciando dai sacerdoti, scribi, farisei, sadducei, erodiani e simili, si procura lo spasso di fare come un carosello, salendo dalla strada erta, passando lungo il rialzo finale e scendendo per l’altra via, o viceversa. E mentre passano ai piedi della vetta, sulla seconda piazzuola, non mancano di offrire le loro parole blasfeme come omaggio al Morente. Tutta la turpitudine, la crudeltà, l’odio e l’insania di cui sono capaci gli uomini con la lingua, vengono ampiamente testificate da queste bocche d’inferno. I più accaniti sono i membri del Tempio, coi farisei per aiuto.
«Ebbene? Tu, Salvatore dell’uman genere, perché non ti salvi? Ti ha abbandonato il tuo re Belzebù? Ti ha rinnegato?», urlano tre sacerdoti.
E un branco di giudei: «Tu, che non più tardi di or sono cinque giorni, con l’aiuto del Demonio, facevi dire al Padre… ah! ah! ah! che ti avrebbe glorificato, come mai non gli ricordi di mantenere la sua promessa?».
E tre farisei: «Bestemmiatore! Ha salvato gli altri, diceva, con l’aiuto di Dio! E non riesce a salvare Se stesso! Vuoi che ti si creda? E allora fai il miracolo. Non puoi più, eh? Ora hai le mani inchiodate, e sei nudo».
E dei sadducei ed erodiani ai soldati: «Attenti alla malìa, voi che vi siete prese le sue vesti! Ha dentro il segno infernale!».
Una folla in coro: «Scendi dalla croce e ti crederemo. Tu che distruggi il Tempio… Folle!… Guardalo là, il glorioso e santo Tempio d’Israele. È intoccabile, o profanatore! E Tu muori».
Altri sacerdoti: «Blasfemo! Figlio di Dio, Tu? E scendi di lì, allora. Fulminaci, se sei Dio. Non ti temiamo e sputiamo verso Te».
Altri che passano e scrollano il capo: «Non sa che piangere. Salvati, se è vero che sei l’Eletto!».
I soldati: «E salvati, dunque! Incenerisci questa suburra della suburra! Sì! Suburra dell’Impero siete, giudei canaglie. Fàllo! Roma ti metterà in Campidoglio e ti adorerà come un nume!».
I sacerdoti coi loro compari: «Erano più dolci le braccia delle femmine di quelle della croce, non è vero? Ma, guarda, sono già lì pronte a riceverti le tue… (e dicono un termine infame). Ci hai tutta Gerusalemme a farti da pronuba». E fischiano come carrettieri.
Altri lanciando dei sassi: «Muta questi in pane, Tu, moltiplicatore dei pani».
Altri, scimmiottando gli osanna della domenica delle palme, lanciano dei rami e gridano: «Maledetto colui che viene in nome del Demonio! Maledetto il suo regno! Gloria a Sionne che lo recide di fra i vivi!».
Un fariseo si piazza di fronte alla croce, e mostra il pugno facendo le corna e dice: «”Ti affido al Dio del Sinai”, Tu dicesti? Ora il Dio del Sinai ti prepara al fuoco eterno. Perché non chiami Giona a renderti il buon servizio?».
Un altro: «Non rovinare la croce con i colpi della tua testa. Deve servire per i tuoi seguaci. Una intera legione ne morirà sul tuo legno, te lo giuro su Jeové. E per primo ci metterò Lazzaro. Vedremo se Tu lo levi di morte, ora».
«Sì! Sì! Andiamo da Lazzaro. Inchiodiamolo dall’altro lato della croce», e pappagallescamente fanno la parlata lenta di Gesù dicendo: «Lazzaro, amico mio, vieni fuori! Slegatelo e lasciatelo andare!».
«No! Diceva a Marta e Maria, le sue femmine: “Io sono la Risurrezione e la Vita”. Ah! Ah! Ah! La Risurrezione non sa mandare indietro la morte, e la Vita muore!».
10«Ecco là Maria con Marta. Chiediamo dove è Lazzaro e andiamolo a cercare». E si fanno avanti, verso le donne, chiedendo arrogantemente: «Dove è Lazzaro? Al palazzo?».
E Maria Maddalena, mentre le altre terrorizzate fuggono dietro i pastori, si fa avanti, ritrovando nel suo dolore la antica baldanza dei tempi di peccato, e dice: «Andate. Troverete già in palazzo i soldati di Roma e cinquecento armati delle mie terre, che vi castreranno come vecchi caproni destinati al pasto degli schiavi alle macine».
«Sfrontata! Così parli ai sacerdoti?».
«Sacrileghi! Turpi! Maledetti! Volgetevi! Alle spalle avete, io le vedo, le lingue delle fiamme infernali».
I vili si volgono, veramente terrorizzati, tanto è sicura l’affermazione di Maria; ma, se non hanno le fiamme alle spalle, hanno alle reni le ben pontute lance romane. Perché Longino ha dato un ordine e la mezza centuria che era in riposo è entrata in fazione e punge alle natiche i primi che trova. Questi fuggono urlando e la mezza centuria resta a chiudere gli imbocchi delle due strade e a fare baluardo alla piazzuola. I giudei imprecano, ma Roma è la più forte.
La Maddalena riabbassa il suo velo — se lo era alzato per parlare agli insultatori — e torna al suo posto. Le altre si riuniscono a lei.
11Ma il ladrone di sinistra continua gli insulti dalla sua croce. Pare si sia fatto il condensatore di tutte le bestemmie altrui e le snocciola tutte, terminando: «Salvati e salvaci, se vuoi che ti si creda. Il Cristo Tu? Un folle sei! Il mondo è dei furbi e Dio non c’è. Io ci sono. Questo è vero, e per me tutto è lecito. Dio?… Fola! Messa per tenerci quieti. Viva il nostro io! Lui solo è re e dio!».
L’altro ladrone, che è a destra ed ha quasi ai piedi Maria, e la guarda quasi più che non guardi Cristo, e da qualche momento piange mormorando: «la madre», dice: «Taci. Non temi Dio neppure ora che soffri questa pena? Perché insulti chi è buono? È in un supplizio ancor più grande del nostro. E non ha fatto nulla di male».
Ma il ladrone continua le sue imprecazioni.
12Gesù tace. Anelante per lo sforzo della posizione, per la febbre, per lo stato cardiaco e respiratorio, conseguenza della flagellazione subita in forma tanto violenta, e anche dell’angoscia profonda che gli aveva fatto sudar sangue, cerca trovare un sollievo, alleggerendo il peso che grava sui piedi, sospendendosi alle mani e facendo forza con le braccia. Forse lo fa anche per vincere un poco il crampo che già tormenta i piedi e che si tradisce con il tremito muscolare. Ma lo stesso tremore è nelle fibre delle braccia, che sono sforzate in quella posizione e devono essere gelate nelle loro estremità, perché poste più in alto e abbandonate dal sangue, che a fatica giunge ai polsi e poi ne geme dai buchi dei chiodi lasciando senza circolazione le dita. Specie quelle della sinistra sono già cadaveriche e stanno senza moto, ripiegate verso il palmo. Anche le dita dei piedi esprimono il loro tormento. Specie gli alluci, forse perché meno è leso il loro nervo, si alzano, si abbassano, si divaricano.
Il tronco, poi, svela tutta la sua pena col suo movimento, che è veloce ma non profondo, ed affatica senza dare sollievo. Le coste, molto ampie e alte di loro, perché la struttura di questo Corpo è perfetta, sono ora dilatate oltre misura per la posizione assunta dal corpo e per l’edema polmonare che certo si è formato nell’interno. Eppure non servono ad alleggerire lo sforzo respiratorio, tanto che tutto l’addome aiuta col suo muoversi il diaframma, che sempre più si va paralizzando.
E la congestione e l’asfissia aumentano di minuto in minuto, come lo indicano il colorito cianotico che sottolinea le labbra, di un rosso acceso dalla febbre, e le striature di un rosso violaceo, che spennellano il collo lungo le giugulari turgide e si allargano fino sulle guance, verso le orecchie e le tempie, mentre il naso è affilato e esangue, e gli occhi affondano in un cerchio che è livido dove è privo del sangue colato dalla corona.
Sotto l’arco costale sinistro si vede l’urto propagato dalla punta cardiaca, irregolare, ma violento, e ogni tanto, per una convulsione interna, il diaframma ha un fremito profondo che si rivela da una distensione totale della pelle, per quanto può stendersi su quel povero Corpo ferito e morente.
Il Volto ha già l’aspetto che vediamo nelle fotografie della Sindone, col naso deviato e gonfio da una parte; e anche il tenere l’occhio destro quasi chiuso, per il gonfiore che è da questo lato, aumenta la somiglianza. La bocca, invece, è aperta, con la sua ferita sul labbro superiore ormai ridotta ad una crosta.
La sete, data dalla perdita di sangue, dalla febbre e dal sole, deve essere intensa, tanto che Egli, con mossa macchinale, beve le stille del suo sudore e del suo pianto, e anche quelle del sangue che scende dalla fronte fin sui baffi, e si bagna con queste la lingua…
La corona di spine gli vieta di appoggiarsi al tronco della croce per aiutare la sospensione sulle braccia e alleggerire i piedi. Le reni e tutta la spina si arcua verso l’esterno, stando staccato dal tronco della croce dal bacino in su per forza di inerzia che fa pendere in avanti un corpo sospeso come era il suo.
13I giudei, respinti oltre la piazzuola, non cessano di insultare, e il ladrone impenitente fa eco.
L’altro, che ora guarda con sempre maggiore pietà la Madre e piange, lo rimbecca aspramente quando sente che nell’insulto è compresa anche Lei. «Taci. Ricordati che sei nato da una donna. E pensa che le nostre han pianto per causa dei figli. E furono lacrime di vergogna… perché noi siamo delinquenti. Le nostre madri sono morte… Io vorrei poterle chiedere perdono… Ma lo potrò? Era una santa… L’ho uccisa col dolore che le davo… Io sono un peccatore… Chi mi perdona? Madre, in nome del tuo Figlio morente, prega per me».
La Madre alza per un momento il suo viso straziato e lo guarda, questo sciagurato che attraverso al ricordo di sua madre e alla contemplazione della Madre va verso il pentimento, e pare lo carezzi col suo sguardo di colomba.
Disma piange più forte. Cosa che scatena ancora di più gli scherni della folla e del compagno. La prima urla: «Bravo! Pigliati questa per madre. Così ha due figli delinquenti!». E l’altro rincara: «Ti ama perché sei una copia minore del suo beneamato».
14Gesù parla per la prima volta: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!».
Questa preghiera vince ogni timore in Disma. Osa guardare il Cristo e dice: «Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo Regno. Io è giusto che qui soffra. Ma dammi misericordia e pace oltre la vita. Una volta ti ho sentito parlare e, folle, ho respinto la tua parola. Ora me ne pento. E dei miei peccati me ne pento davanti a Te, Figlio dell’Altissimo. Io credo che Tu venga da Dio. Io credo nel tuo potere. Io credo nella tua misericordia. Cristo, perdonami in nome di tua Madre e del tuo Padre santissimo».
Gesù si volge e lo guarda con profonda pietà, ed ha un sorriso ancora bellissimo sulla povera bocca torturata. Dice: «Io te lo dico: oggi tu sarai meco in Paradiso».
Il ladrone pentito si mette calmo e, non sapendo più le preghiere imparate da bambino, ripete come una giaculatoria: «Gesù Nazareno, re dei giudei, pietà di me; Gesù Nazareno, re dei giudei, io spero in Te; Gesù Nazareno, re dei giudei, io credo nella tua Divinità».
L’altro continua nelle sue bestemmie.
15Il cielo si fa sempre più fosco. Ora difficilmente le nubi si aprono per fare passare il sole. Ma anzi si accavallano a più e più strati plumbei, bianchi, verdognoli, si sormontano, si dipanano secondo i giuochi di un vento freddo, che a intervalli scorre il cielo e poi scende sulla terra e poi tace di nuovo, ed è quasi più sinistra l’aria quando tace, afosa e morta, di quando fischia tagliente e veloce.
La luce, prima viva fin oltre misura, si va facendo verdastra. E i volti prendono bizzarri aspetti. I soldati, sotto i loro elmi e nelle loro corazze, prima lucenti ed ora divenute come appannate nella luce verdastra e sotto il cielo di cenere, mostrano i duri profili come scalpellati. I giudei, per la maggioranza bruni di pelle e capelli e barba, paiono degli annegati, tanto il loro volto si fa terreo. Le donne sembrano statue di neve azzurrastra per il pallore esangue che la luce accentua.
Gesù sembra illividire sinistramente come per inizio di decomposizione, quasi fosse già morto. La testa gli comincia a pendere sul petto. Le forze mancano rapidamente. Trema, nonostante la febbre che lo arde. E nella sua debolezza mormora il nome che prima ha solo detto nel fondo del cuore: «Mamma!», «Mamma!». Lo mormora piano, come in un sospiro, quasi fosse già in un lieve delirio che gli impedisca di trattenere quanto la volontà vorrebbe trattenere. E Maria, ogni volta, ha un atto infrenabile di tendere le braccia come per soccorrerlo.
E la gente crudele ride di questi spasimi di chi muore e di chi spasima. Salgono da capo sino a dietro i pastori, che però sono sulla piazzetta bassa, i sacerdoti e gli scribi. E poiché i soldati vorrebbero respingerli, reagiscono dicendo: «Ci stanno questi galilei? Ci stiamo anche noi, che dobbiamo verificare che giustizia sia fatta fino in fondo. E da lontano, in questa luce strana, non possiamo vedere».
Infatti molti cominciano a impressionarsi della luce che sta fasciando il mondo, e qualcuno ha paura. Anche i soldati accennano al cielo e ad una specie di cono, che pare di lavagna tanto è cupo e che si leva come un pino da dietro una vetta. Sembra una tromba marina. Si alza, si alza e pare che generi nubi sempre più nere, quasi fosse un vulcano eruttante fumo e lava.
È in questa luce crepuscolare e paurosa che Gesù dà a Maria Giovanni e a Giovanni Maria. Curva il capo, poiché la Madre si è fatta più sotto alla croce per vederlo meglio, e dice: «Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua Madre».
Maria ha il volto ancor più sconvolto dopo questa parola che è il testamento del suo Gesù, che non ha nulla da dare alla Madre se non un uomo, Egli che per amore dell’Uomo la priva dell’Uomo-Dio, nato da Lei. Ma cerca, la povera Madre, di non piangere che mutamente, perché non può, non può non piangere… Le stille del pianto gemono nonostante ogni sforzo per trattenerle, anche se la bocca ha il suo straziato sorriso, fissato sulle labbra per Lui, per confortare Lui…
Le sofferenze crescono sempre più. E la luce sempre più decresce.
16È in questa luce di fondo marino che emergono, da dietro dei giudei, Nicodemo e Giuseppe, e dicono: «Scansatevi!».
«Non si può. Che volete?», dicono i soldati.
«Passare. Siamo amici del Cristo».
Si voltano i capi dei sacerdoti. «Chi osa professarsi amico del ribelle?», dicono i sacerdoti sdegnati.
E Giuseppe risoluto: «Io, nobile membro del Gran Consiglio, Giuseppe d’Arimatea, l’Anziano, e con me è Nicodemo, capo dei giudei».
«Chi parteggia per il ribelle è ribelle».
«E chi parteggia per gli assassini è assassino, Eleazaro di Anna. Ho vissuto da giusto. E ora vecchio sono e prossimo alla morte. Non voglio divenire ingiusto mentre già il Cielo su me discende e con esso il Giudice eterno».
«E tu, Nicodemo! Mi meraviglio!».
«Io pure. E di una cosa sola: che Israele sia tanto corrotto da non sapere più riconoscere Dio».
«Mi fai ribrezzo».
«Scansati, allora, e lasciami passare. Non chiedo che quello».
«Per contaminarti più ancora?».
«Se non mi sono contaminato a starvi presso, nulla più mi contamina. Soldato, a te la borsa e il segno di lasciapassare». E passa al decurione più vicino una borsa e una tavoletta cerata.
Il decurione osserva e dice ai soldati: «Lasciate passare i due».
E Giuseppe con Nicodemo si avvicinano ai pastori. Non so neppure se Gesù li veda in quella caligine sempre più fitta e con l’occhio che già si vela nell’agonia. Ma essi lo vedono e piangono senza rispetto umano, nonostante ora su di loro si avventino gli improperi sacerdotali.
17Le sofferenze sono sempre più forti. Il corpo ha i primi inarcamenti propri della tetanìa e ogni clamore di folla li esaspera. La morte delle fibre e dei nervi si estende dalle estremità torturate al tronco, rendendo sempre più difficoltoso il moto respiratorio, debole la contrazione diaframmatica e disordinato il movimento cardiaco. Il volto di Cristo passa alternativamente da vampe di rossore intensissimo a pallori verdastri di morente per dissanguamento. La bocca si muove con maggiore fatica, perché i nervi sovraffaticati del collo e del capo stesso, che hanno per decine di volte fatto da leva al corpo tutto puntandosi sulla sbarra trasversa della croce, propagano il crampo anche alle mascelle. La gola, enfiata dalle carotidi ingorgate, deve dolere ed estendere il suo edema alla lingua, che appare ingrossata e lenta nei movimenti. La schiena, anche nei momenti che le contrazioni tetanizzanti non la curvano ad arco completo dalla nuca alle anche, appoggiate come punti estremi al tronco della croce, si arcua sempre più in avanti, perché le membra divengono sempre più pesanti del peso delle carni morte.
La gente vede poco e male queste cose, perché la luce è ormai di un cenere cupo, e solo chi è ai piedi della croce può vedere bene.
18Gesù si affloscia, un certo momento, tutto in avanti e in basso, come già morto; non ansa più, la testa gli pende inerte in avanti, il corpo dalle anche in su è tutto staccato facendo angolo con le braccia alla croce.
Maria ha un grido: «È morto!». Un grido tragico che si propaga nell’aria nera. E Gesù appare realmente morto.
Un altro grido femminile le risponde e nel gruppo delle donne vedo un tramestio. Poi una decina di persone si allontanano sostenendo qualche cosa. Ma non posso vedere chi si allontana così. È troppo poca la luce nebbiosa. Sembra di essere immersi in una nube di cenere vulcanica fittissima.
«Non è possibile», urlano dei sacerdoti e dei giudei. «È una finta per farci andare via. Soldato, pungilo con la lancia. È una buona medicina per ridargli voce». E poiché i soldati non lo fanno, una scarica di pietre e di zolle di terra volano verso la croce, colpendo il Martire e ricadendo sulle corazze romane.
Il farmaco, come ironicamente dicono i giudei, opera il prodigio. Certo qualche sasso ha colpito a segno, forse sulla ferita di una mano, o sul capo stesso, perché miravano in alto. Gesù ha un gemito pietoso e rinviene. Il torace torna a respirare con fatica e la testa a muoversi da destra a manca, cercando un luogo dove posarsi per soffrire meno, senza trovare altro che maggior pena.
19A gran fatica, puntandosi una volta ancora sui piedi torturati, trovando forza nella sua volontà, unicamente in quella, Gesù si irrigidisce sulla croce, torna eretto come fosse un sano nella sua forza completa, alza il volto guardando con occhi bene aperti il mondo steso ai suoi piedi, la città lontana, che appena si intravvede come un biancore incerto nella foschia, e il cielo nero dal quale ogni azzurro ed ogni ricordo di luce sono scomparsi. E a questo cielo chiuso, compatto, basso, simile ad una enorme lastra di lavagna scura, Egli grida a gran voce, vincendo con la forza della volontà, col bisogno dell’anima, l’ostacolo delle mascelle irrigidite, della lingua ingrossata, della gola edematica: «Eloi, Eloi, lamma scebacteni!» (io sento dire così). Deve sentirsi morire, e in un assoluto abbandono del Cielo, per confessare con tal voce l’abbandono paterno.
La gente ride e lo scherza. Lo insulta: «Non sa che farne Dio di Te! I demoni sono maledetti da Dio!».
Altri gridano: «Vediamo se Elia, che Egli chiama, viene a salvarlo».
E altri: «Dategli un poco d’aceto, che si gargarizzi la gola. Fa bene alla voce! Elia o Dio, poiché è incerto ciò che il folle vuole, sono lontani… Ci vuol voce per farsi sentire!», e ridono come iene o come demoni.
Ma nessun soldato dà l’aceto e nessuno viene dal Cielo per dare conforto. È l’agonia solitaria, totale, crudele, anche soprannaturalmente crudele, della Grande Vittima.
Tornano le valanghe di dolore desolato che già l’avevano oppresso nel Getsemani. Tornano le onde dei peccati di tutto il mondo a percuotere il naufrago innocente, a sommergerlo nella loro amaritudine. Torna soprattutto la sensazione, più crocifiggente della croce stessa, più disperante di ogni tortura, che Dio ha abbandonato e che la preghiera non sale a Lui…
Ed è il tormento finale. Quello che accelera la morte, perché spreme le ultime gocce di sangue dai pori, perché stritola le superstiti fibre del cuore, perché termina ciò che la prima cognizione di questo abbandono ha iniziato: la morte. Perché di questo per prima cosa è morto il mio Gesù, o Dio, che lo hai colpito per noi! Dopo il tuo abbandono, per il tuo abbandono, che diventa una creatura? O un folle, o un morto. Gesù non poteva divenire folle, perché la sua intelligenza era divina e, spirituale come è l’intelligenza, trionfava sopra il trauma totale del colpito da Dio. Divenne dunque un morto: il Morto, il santissimo Morto, l’innocentissimo Morto. Morto Lui che era la Vita. Ucciso dal tuo abbandono e dai nostri peccati.
20L’oscurità si fa ancora più fitta. Gerusalemme scompare del tutto. Lo stesso Calvario pare annullarsi nelle sue falde. Solo la cima è visibile, quasi che le tenebre la tengano alta a raccogliere l’unica e l’ultima superstite luce, posandola come per una offerta, col suo trofeo divino, su uno stagno di onice liquida, perché sia vista dall’amore e dall’odio.
E dalla luce non più luce viene la voce lamentosa di Gesù: «Ho sete!».
Vi è infatti un vento che asseta anche i sani. Un vento continuo, ora, violento, pieno di polvere, freddo, pauroso. Penso quale spasimo avrà dato col suo soffio violento ai polmoni, al cuore, alle fauci di Gesù, alle sue membra gelate, intormentite, ferite. Ma proprio tutto si è messo a torturare il Martire.
Un soldato va ad un vaso dove i satelliti del boia hanno messo dell’aceto col fiele, perché col suo amaro aumenti la salivazione nei suppliziati. Prende la spugna immersa nel liquido, la infila su una canna sottile eppure rigida, che è già pronta lì presso, e porge la spugna al Morente.
Gesù si tende avido verso la spugna che viene. Pare un infante affamato che cerchi il capezzolo materno.
Maria, che vede e certo pensa questa cosa, geme, appoggiandosi a Giovanni: «Oh! ed io neppure una stilla di pianto gli posso dare… Oh! seno mio, ché non gemi latte? Oh! Dio, perché, perché così ci abbandoni? Un miracolo per la mia Creatura! Chi mi solleva per dissetarlo del mio sangue, posto che latte non ho?…».
Gesù, che ha succhiato avidamente l’aspra e amara bevanda, torce il capo, avvelenato dal disgusto di essa. Deve, oltretutto, essere come del corrosivo sulle labbra ferite e spaccate.
21Si ritrae, si accascia, si abbandona. Tutto il peso del corpo piomba sui piedi e in avanti. Sono le estremità ferite quelle che soffrono la pena atroce dello slabbrarsi sotto il peso di un corpo che si abbandona. Non più un movimento per sollevare questo dolore. Dal bacino in su, tutto è staccato dal legno, e tale resta.
La testa pende in avanti tanto pesantemente che il collo pare scavato in tre posti: al giugolo, completamente infossato, e di qua e di là dello sternocleidomastoideo. Il respiro è sempre più anelante, ma interciso. È già più un rantolo sincopato che un respiro. Ogni tanto un colpo di tosse penosa porta una schiuma lievemente rosata alle labbra. E le distanze fra una espirazione e l’altra diventano sempre più lunghe. L’addome è già fermo. Solo il torace ha ancora dei sollevamenti, ma faticosi, stentati… La paralisi polmonare si accentua sempre più.
E sempre più fievole, tornando al lamento infantile del bambino, viene l’invocazione: «Mamma!». E la misera mormora: «Sì, tesoro, sono qui». E quando la vista che si vela gli fa dire: «Mamma, dove sei? Non ti vedo più. Anche tu mi abbandoni?», e non è neanche una parola,ma un mormorio che appena è udibile da chi più col cuore che con l’udito raccoglie ogni sospiro del Morente, Ella dice: «No, no, Figlio! Non ti abbandono io! Sentimi, caro… La Mamma è qui, qui è… e solo si tormenta di non poter venire dove Tu sei…».
È uno strazio… E Giovanni piange liberamente. Gesù deve sentire quel pianto. Ma non dice niente. Penso che la morte imminente lo faccia parlare come in delirio e neppure sappia quanto dice e, purtroppo, neppure comprenda il conforto materno e l’amore del Prediletto.
Longino — che inavvertitamente ha lasciato la sua posa di riposo, con le mani conserte sul petto e una gamba accavallata, ora una, ora l’altra, per dare sollievo alla lunga attesa in piedi, e ora invece è rigido sull’attenti, la mano sinistra sulla spada, la destra regolarmente tesa lungo il fianco, come fosse sui gradini del trono imperiale — non vuole commuoversi. Ma il suo volto si altera nello sforzo di vincere l’emozione, e gli occhi hanno un luccicore di pianto che solo la sua ferrea disciplina trattiene.
Gli altri soldati, che giocavano a dadi, hanno smesso e si sono drizzati in piedi, rimettendosi gli elmi che avevano servito ad agitare i dadi, e stanno in gruppo presso la scaletta scavata nel tufo, silenziosi, attenti. Gli altri sono di servizio e non possono mutare posizione. Sembrano statue. Ma qualcuno dei più prossimi, e che sente le parole di Maria, mugola qualcosa fra le labbra e scrolla il capo.
22Un silenzio. Poi, netta nell’oscurità totale, la parola: «Tutto è compiuto!», e poi l’ansito sempre più rantoloso, con pause di silenzio fra un rantolo e l’altro, sempre più vaste.
Il tempo scorre su questo ritmo angoscioso. La vita torna quando l’aria è rotta dall’anelito aspro del Morente… La vita cessa quando questo suono penoso non si ode più. Si soffre a sentirlo… si soffre a non sentirlo… Si dice: «Basta di questa sofferenza!», e si dice: «Oh! Dio! che non sia l’ultimo respiro».
Le Marie piangono tutte, col capo contro il rialzo terroso. E si sente bene il loro pianto, perché tutta la folla ora tace di nuovo per raccogliere i rantoli del Morente.
Ancora un silenzio. Poi, pronunciata con infinita dolcezza, con ardente preghiera, la supplica: «Padre, nelle tue mani raccomando lo spirito mio!».
Ancora un silenzio. Si fa lieve anche il rantolo. È appena un soffio limitato alle labbra e alla gola.
Poi, ecco, l’ultimo spasimo di Gesù. Una convulsione atroce, che pare voglia svellere il corpo infisso, coi tre chiodi, dal legno, sale per tre volte dai piedi al capo, scorre per tutti i poveri nervi torturati; solleva tre volte l’addome in una maniera anormale, poi lo lascia dopo averlo dilatato come per sconvolgimento dei visceri, ed esso ricade e si infossa come svuotato; alza, gonfia e contrae tanto fortemente il torace, che la pelle si infossa fra coste e coste che si tendono, apparendo sotto l’epidermide e riaprendo le ferite dei flagelli; fa rovesciare violentemente indietro, una, due, tre volte il capo, che percuote contro il legno, duramente; contrae in uno spasimo tutti i muscoli del volto, accentuando la deviazione della bocca a destra, fa spalancare e dilatare le palpebre sotto cui si vede roteare il globo oculare e apparire la sclerotica. Il corpo si tende tutto; nell’ultima delle tre contrazioni è un arco teso, vibrante, tremendo a vedersi, e poi un grido potente, impensabile in quel corpo sfinito, si sprigiona, lacera l’aria, il «grande grido» di cui parlanoi Vangeli e che è la prima parte della parola «Mamma»… E più nulla…
La testa ricade sul petto, il corpo in avanti, il fremito cessa, cessa il respiro. È spirato.
23La Terra risponde al grido dell’Ucciso con un boato pauroso. Sembra che da mille buccine dei giganti traggano un unico suono e su questo tremendo accordo ecco le note isolate, laceranti dei fulmini che rigano il cielo in tutti i sensi, cadendo sulla città, sul Tempio, sulla folla… Credo che ci saranno stati dei fulminati, perché la folla è colpita direttamente. I fulmini sono l’unica luce saltuaria che permetta di vedere. E poi subito, e mentre durano ancora le scariche delle saette, la terra si scuote in un turbine di vento ciclonico. Il terremoto e l’aeromoto si fondono per dare un apocalittico castigo ai bestemmiatori. La vetta del Golgota ondeggia e balla come un piatto in mano di un pazzo, nelle scosse sussultorie e ondulatorie che scuotono talmente le tre croci che sembra le debbano ribaltare.
Longino, Giovanni, i soldati si abbrancano dove possono, come possono, per non cadere. Ma Giovanni, mentre con un braccio afferra la croce, con l’altro sostiene Maria che, e per il dolore e per il traballio, gli si è abbandonata sul cuore. Gli altri soldati, e specie quelli del lato che scoscende, si sono dovuti rifugiare al centro per non essere gettati giù dai dirupi. I ladroni urlano di terrore, la folla urla ancora di più e vorrebbe scappare. Ma non può. Cadono le persone l’una sull’altra, si pestano, precipitano nelle spaccature del suolo, si feriscono, rotolano giù per la china, impazziti.
Per tre volte si ripete il terremoto e l’aeromoto, e poi si fa l’immobilità assoluta di un mondo morto. Solo dei lampi, ma senza tuono, rigano ancora il cielo e illuminano la scena dei giudei fuggenti in ogni senso, con le mani fra i capelli, o tese in avanti, o alzate al cielo, schernito fino allora e di cui ora hanno paura. La oscurità si tempera di un barlume di luce che, aiutato dal lampeggio silenzioso e magnetico, permette di vedere che molti restano al suolo, morti o svenuti, non so. Una casa arde nell’interno delle mura e le fiamme si alzano dritte nell’aria ferma, mettendo un punto di rosso fuoco sul verde cenere dell’atmosfera.
24Maria alza il capo dal petto di Giovanni e guarda il suo Gesù. Lo chiama, perché mal lo vede nella poca luce e coi suoi poveri occhi pieni di pianto. Tre volte lo chiama: «Gesù! Gesù! Gesù!». È la prima volta che lo chiama per nome da quando è sul Calvario. Infine, ad un lampo che fa come una corona sopra la vetta del Golgota, lo vede, immobile, tutto pendente in avanti, col capo talmente piegato in avanti, e a destra, da toccare con la guancia la spalla e col mento le coste, e comprende. Tende le mani che tremano nell’aria scura e grida: «Figlio mio! Figlio mio! Figlio mio!». Poi ascolta… Ha la bocca aperta, pare voglia ascoltare anche con quella, come ha dilatati gli occhi per vedere, per vedere… Non può credere che il suo Gesù non sia più…
Giovanni, che anche lui ha guardato e ascoltato, ed ha compreso che tutto è finito, abbraccia Maria e cerca allontanarla dicendo: «Non soffre più».
Ma, prima che l’apostolo termini la frase, Maria, che ha capito, si svincola, gira su se stessa, si curva ad arco verso il suolo, si porta le mani agli occhi e grida: «Non ho più Figlio!».
E poi vacilla e cadrebbe se Giovanni non se la raccogliesse tutta sul cuore, e poi egli si siede, per terra, per sostenerla meglio sul suo petto, finché le Marie, non più trattenute dal cerchio superiore di armati — perché, ora che i giudei sono fuggiti, i romani si sono ammucchiati sulla piazzuola sottostante commentando l’accaduto — sostituiscono l’apostolo presso la Madre.
La Maddalena si siede dove era Giovanni, e quasi si adagia Maria sui ginocchi, sostenendola fra le braccia e il suo petto, baciandola sul volto esangue, riverso sulla spalla pietosa. Marta e Susanna, con la spugna e un lino intrisi nell’aceto, le bagnano le tempie e le narici, mentre la cognata Maria le bacia le mani chiamandola con strazio, e appena Maria riapre gli occhi, e gira uno sguardo che il dolore rende come ebete, le dice: «Figlia, figlia diletta, ascolta… dimmi che mi vedi… Sono la tua Maria… Non mi guardare così!…». E poiché il primo singhiozzo apre la gola di Maria e le prime lacrime cadono, ella, la buona Maria d’Alfeo, dice: «Sì, sì, piangi… Qui con me, come da una mamma, povera, santa figlia mia»; e quando si sente dire: «Oh! Maria! Maria! hai visto?», ella geme: «Sì, sì,… ma… ma… figlia… oh! figlia!…». Non trova più altro e piange, l’anziana Maria. Un pianto desolato, a cui fanno eco tutte le altre, ossia Marta e Maria, la madre di Giovanni e Susanna.
Le altre pie donne non ci sono più. Penso siano andate via, e con esse i pastori, quando si udì quel grido femminile…
25I soldati parlottano fra di loro.
«Hai visto i giudei? Ora avevano paura».
«E si battevano il petto».
«I più terrorizzati erano i sacerdoti!».
«Che paura! Ho sentito altri terremoti. Ma come questo mai. Guarda: la terra è rimasta piena di fessure».
«E lì è franato tutto un pezzo della via lunga».
«E sotto ci sono dei corpi».
«Lasciali! Tanti serpenti di meno».
«Oh! un altro incendio! Nella campagna…».
«Ma è morto proprio?».
«E non vedi? Ne hai dubbi?».
26Spuntano da dietro la roccia Giuseppe e Nicodemo. Certo si erano rifugiati lì, dietro il riparo del monte, per salvarsi dai fulmini. Vanno da Longino. «Vogliamo il Cadavere».
«Solo il Proconsole lo concede. Andate, e presto, perché ho sentito che i giudei vogliono andare al Pretorio ed ottenere il crucifragio. Non vorrei facessero sfregio».
«Come lo sai?».
«Rapporto dell’alfiere. Andate. Io attendo».
I due si precipitano giù per la strada ripida e scompaiono.
27È qui che Longino si accosta a Giovanni e gli dice piano qualche parola che non afferro. Poi si fa dare da un soldato una lancia. Guarda le donne tutte intente a Maria, che riprende lentamente le forze. Esse hanno, tutte, le spalle alla croce.
Longino si pone di fronte al Crocifisso, studia bene il colpo e poi lo vibra. La larga lancia penetra profondamente da sotto in su, da destra a sinistra.
Giovanni, combattuto fra il desiderio di vedere e l’orrore di vedere, torce per un attimo il viso.
«È fatto, amico», dice Longino e termina: «Meglio così. Come a un cavaliere. E senza spezzare ossa… Era veramente un Giusto!».
Dalla ferita geme molt’acqua e un filino appena di sangue già tendente a raggrumarsi. Geme, ho detto. Non esce che filtrando dal taglio netto che rimane inerte, mentre, se vi fosse stato del respiro, si sarebbe aperto e chiuso nel moto toracico addominale…
28…Mentre sul Calvario tutto resta in questo tragico aspetto, io raggiungo Giuseppe e Nicodemo che scendono per una scorciatoia per fare più presto.
Sono quasi alla base quando si incontrano con Gamaliele. Un Gamaliele spettinato, senza copricapo, senza mantello, con la splendida veste sporca di terriccio e strappata dai rovi. Un Gamaliele che corre, salendo e ansando, con le mani nei capelli radi e molto brizzolati di uomo anziano. Si parlano senza fermarsi.
«Gamaliele! Tu?».
«Tu, Giuseppe? Lo lasci?».
«Io no. Ma tu come qui? E così?…».
«Cose tremende! Ero nel Tempio! Il segno! Il Tempio scardinato! Il velo di porpora e giacinto pende lacerato! Il Sancta Santorum è scoperto! Anatema è su noi!». Ha parlato continuando a correre verso la cima, reso pazzo dalla prova.
I due lo guardano andare… si guardano… dicono insieme: «”Queste pietre fremeranno alle mie ultime parole!”. Egli glielo aveva promesso!…».
29Affrettano la corsa verso la città.
Per la campagna, fra il monte e le mura, e oltre, vagano, nell’aria ancora fosca, persone con aspetto di ebeti… Urli, pianti, lamenti… Chi dice: «Il suo Sangue ha piovuto fuoco!». Chi: «Fra i fulmini Geové è apparso a maledire il Tempio!». Chi geme: «I sepolcri! I sepolcri!».
Giuseppe afferra uno che dà di cozzo la testa contro la muraglia e lo chiama a nome, tirandoselo dietro mentre entra in città: «Simone! Ma che vai dicendo?».
«Lasciami! Un morto anche tu! Tutti i morti! Tutti fuori! E mi maledicono».
«È impazzito», dice Nicodemo.
Lo lasciano e trottano verso il Pretorio.
La città è in preda del terrore. Gente che vaga battendosi il petto. Gente che fa un salto indietro o si volge spaventata sentendo dietro una voce o un passo.
In uno dei tanti archivolti oscuri, l’apparizione di Nicodemo, vestito di lana bianca — perché, per fare più presto, si è levato sul Golgota il manto oscuro — fa dare un urlo di terrore ad un fariseo fuggente. Poi si accorge che è Nicodemo e gli si attacca al collo con una espansione strana, urlando: «Non mi maledire! Mia madre m’è apparsa e mi ha detto: “Sii maledetto in eterno!”», e poi si accascia al suolo gemendo: «Ho paura! Ho paura!».
«Ma sono tutti folli!», dicono i due.
È raggiunto il Pretorio. E solo qui, mentre attendono di essere ricevuti dal Proconsole, Giuseppe e Nicodemo riescono a sapere il perché di tanti terrori. Molti sepolcri si erano aperti sotto la scossa tellurica, e c’era chi giurava averne visto uscire gli scheletri, che per un attimo si ricomponevano con parvenza umana e andavano accusando i colpevoli del deicidio e maledicendoli.
30Li lascio nell’atrio del Pretorio, dove i due amici di Gesù entrano senza tante storie di stupidi ribrezzi e paure di contaminazioni, e torno sul Calvario, raggiungendo Gamaliele che sale, ormai sfinito, gli ultimi metri. Procede battendosi il petto e, quando giunge sulla prima delle due piazzuole, si butta bocconi, lunghezza bianca sul suolo giallastro, e geme: «Il segno! Il segno! Dimmi che mi perdoni! Un gemito, anche un gemito solo, per dirmi che mi odi e perdoni».
Comprendo che lo crede ancora vivo. Né si ricrede altro che quando un soldato, urtandolo con l’asta, dice: «Alzati e taci. Non serve! Dovevi pensarci prima. È morto. E io, pagano, te lo dico: Costui, che voi avete crocifisso, era realmente il Figlio di Dio!».
«Morto? Morto sei? Oh!…». Gamaliele alza il volto terrorizzato, cerca vedere fin lassù in cima, nella luce crepuscolare. Poco vede, ma quel tanto da capire che Gesù è morto lo vede. E vede il gruppo pietoso che conforta Maria, e Giovanni ritto alla sinistra della croce che piange, e Longino ritto a destra, solenne nella sua rispettosa postura.
Si pone in ginocchio, tende le braccia e piange: «Eri Tu! Eri Tu! Non possiamo più avere perdono. Abbiamo chiesto il tuo Sangue su noi. Ed Esso grida al Cielo, e il Cielo ci maledice… Oh! Ma Tu eri la Misericordia!… Io ti dico, io, l’annientato rabbi di Giuda: “Il tuo Sangue su noi, per pietà“. Aspergici con Esso! Perché solo Esso può impetrarci perdono…», piange. E poi, più piano, confessa la sua segreta tortura: «Ho il segno richiesto… Ma secoli e secoli di cecità spirituale stanno sulla mia vista interiore, e contro il mio volere di ora si drizza la voce del mio superbo pensiero di ieri… Pietà di me! Luce del mondo, nelle tenebre che non ti hanno compreso fa’ scendere un tuo raggio! Sono il vecchio giudeo fedele a ciò che credevo giustizia ed era errore. Adesso sono una landa brulla, senza più alcuno degli antichi alberi della Fede antica, senza alcun seme o stelo della Fede nuova. Sono un arido deserto. Opera Tu il miracolo di far sorgere un fiore che abbia il tuo nome in questo povero cuore di vecchio israelita pervicace. In questo mio povero pensiero, prigioniero delle formule, penetra Tu, Liberatore. Isaia lo dic: “… pagò per i peccatori e prese su Sé i peccati di molti”. Oh! anche il mio, Gesù Nazareno…».
Si alza. Guarda la croce che si fa sempre più nitida nella luce che rischiara e poi se ne va curvo, invecchiato, annichilito.
E sul Calvario torna il silenzio, appena rotto dal pianto di Maria. I due ladroni, esausti dalla paura, non parlano più.
31Tornano in corsa Nicodemo e Giuseppe, dicendo che hanno il permesso di Pilato. Ma Longino, che non si fida troppo, manda un soldato a cavallo dal Proconsole per sapere come deve fare anche coi due ladroni. Il soldato va e torna al galoppo con l’ordine di consegnare Gesù e di compiere il crucifragio sugli altri, per volere dei giudei.
Longino chiama i quattro boia, che sono vigliaccamente accoccolati sotto la rupe, ancora terrorizzati dell’accaduto, e ordina che i due ladroni siano finiti a colpi di clava. Cosa che avviene senza proteste per Disma, al quale il colpo di clava, sferrato al cuore dopo aver già percosso i ginocchi, spezza a metà fra le labbra, in un rantolo, il nome di Gesù. E con maledizioni orrende da parte dell’altro ladrone. Il loro rantolo è lugubre.
32I quattro carnefici vorrebbero anche occuparsi di Gesù, staccandolo dalla croce. Ma Giuseppe e Nicodemo non lo permettono. Anche Giuseppe si leva il mantello e dice a Giovanni di imitarlo e di tenere le scale mentre loro salgono con leve e tenaglie.
Maria si alza tremante, sorretta dalle donne, e si accosta alla croce.
Intanto i soldati, finito il loro compito, se ne vanno. E Longino, prima di scendere oltre la piazzuola inferiore, si volta dall’alto del suo morello a guardare Maria e il Crocifisso. Poi il rumore degli zoccoli suona sulle pietre e quello delle armi contro le corazze, e si allontana sempre più.
Il palmo sinistro è schiodato. Il braccio cade lungo il Corpo, che ora pende semistaccato.
Dicono a Giovanni di salire lui pure, lasciando le scale alle donne. E Giovanni, montato sulla scala dove prima era Nicodemo, si passa il braccio di Gesù intorno al collo e lo tiene così, tutto abbandonato sul suo òmero, abbracciato dal suo braccio alla vita e tenuto per la punta delle dita per non urtare l’orrendo squarcio della mano sinistra, che è quasi aperta. Quando i piedi sono schiodati, Giovanni fatica non poco a tenere e sostenere il Corpo del suo Maestro fra la croce e il suo corpo.
Maria si pone già ai piedi della croce, seduta con le spalle alla stessa, pronta a ricevere il suo Gesù nel grembo.
Ma schiodare il braccio destro è l’operazione più difficile. Nonostante ogni sforzo di Giovanni, il Corpo pende tutto in avanti e la testa del chiodo sprofonda nella carne. E, poiché non vorrebbero ferirlo di più, i due pietosi faticano molto. Finalmente il chiodo è afferrato dalla tenaglia e estratto piano piano.
Giovanni tiene sempre Gesù per le ascelle, con la testa rovesciata sulla sua spalla, mentre Nicodemo e Giuseppe lo afferrano uno alle cosce, l’altro ai ginocchi, e cautamente scendono così dalle scale.
33Giunti a terra, vorrebbero adagiarlo sul lenzuolo che hanno steso sui loro mantelli. Ma Maria lo vuole. Si è aperta il manto, lasciandolo pendere da una parte, e sta con le ginocchia piuttosto aperte per fare cuna al suo Gesù.
Mentre i discepoli girano per darle il Figlio, la testa coronata ricade all’indietro e le braccia pendono verso terra, e struscerebbero al suolo con le mani ferite se la pietà delle pie donne non le tenessero per impedirlo.
Ora è in grembo alla Madre… E sembra uno stanco e grande bambino che dorma tutto raccolto sul seno materno. Maria lo tiene col braccio destro passato dietro le spalle del Figlio e il sinistro passato al disopra dell’addome per sorreggerlo alle anche.
La testa è sulla spalla materna. E Lei lo chiama… lo chiama con voce di strazio. Poi se lo stacca dalla spalla e lo carezza con la sinistra, ne raccoglie e stende le mani e, prima di incrociarle sul grembo spento, le bacia, e piange sulle ferite. Poi carezza le guance, specie là dove è il livido e il gonfiore, bacia gli occhi infossati, la bocca rimasta lievemente storta a destra e socchiusa.
Vorrebbe ravviargli i capelli, come gli ha ravviato la barba ingrommata di sangue. Ma nel farlo incontra le spine. Si punge per levare quella corona e non vuole farlo che Lei, con l’unica mano che ha libera, e respinge tutti dicendo: «No, no! Io! Io!», e pare abbia fra le dita il capo tenerello di un neonato, tanto va con delicatezza nel farlo. E quando può levare questa torturante corona, si curva a medicare tutti gli sgraffi delle spine con i baci.
Con la mano tremante divide i capelli scomposti, li ravvia e piange, e parla piano piano, e asciuga con le dita le lacrime che cadono sulle povere carni gelide e sanguinose, e pensa di pulirle col pianto e col suo velo, che è ancora ai lombi di Gesù. E ne tira a sé una estremità, e con quella si dà a detergere ed asciugare le membra sante. E sempre torna in carezze sul volto, e poi sulle mani, e poi carezza le ginocchia contuse, e poi risale ad asciugare il Corpo, su cui cadono lacrime e lacrime.
È nel fare questo che la sua mano incontra lo squarcio del costato. La piccola mano, coperta dal lino sottile, entra quasi tutta nell’ampia bocca della ferita. Maria si curva per vedere, nella semiluce che si è formata, e vede. Vede il petto aperto e il cuore di suo Figlio. Urla, allora. Sembra che una spada apra a Lei il cuore. Urla, e poi si rovescia sul Figlio e pare morta Lei pure.
34La soccorrono, la confortano. Le vogliono levare il Morto divino e, poiché Ella grida: «Dove, dove ti metterò, che sia sicuro e degno di Te?», Giuseppe, tutto curvo in un inchino riverente, la mano aperta appoggiata sul petto, dice: «Confortati, o Donna! Il mio sepolcro è nuovo e degno di un grande. Lo dono a Lui. E questo, Nicodemo, amico, già nel sepolcro ha portato gli aromi, ché egli questo vuole offrire di suo. Ma, te ne prego, poiché la sera si avvicina, lasciaci fare… È Parasceve. Sii buona, o Donna santa!».
Anche Giovanni e le donne pregano in tal senso, e Maria si lascia levare dal grembo la sua Creatura, e si alza, affannosa, mentre lo avvolgono nel lenzuolo, pregando: «Oh! fate piano!».
Nicodemo e Giovanni alle spalle, Giuseppe ai piedi, sollevano la Salma avvolta non solo nel lenzuolo, ma appoggiata anche sui mantelli che fanno da portantina, e si avviano giù per la via.
Maria, sorretta dalla cognata e dalla Maddalena, seguita da Marta, Maria di Zebedeo e Susanna, che hanno raccolto i chiodi, le tenaglie, la corona, la spugna e la canna, scende verso il sepolcro.
Sul Calvario restano le tre croci, di cui quella di centro è nuda e le due altre hanno il loro vivo trofeo che muore.
35«Ed ora», dice Gesù, «fate bene attenzione. Ti risparmio la descrizione della sepoltura, che è fatta bene dallo scorso anno: 19 febbraio 1944. Userete perciò quella, e P. M. metterà al termine della stessa il lamento di Maria che ho dato a suo tempo: 4 ottobre 1944. Poi metterai quanto vedrai tu di nuovo. Sono parti nuove della Passione e vanno messe a posto molto bene, per non fare confusione o lasciare lacune».
Cap. DCX. Angoscia di Maria al Sepolcro e unzione del Corpo di Gesù.
19 febbraio 1944.
1 Dire quello che io provo è inutile. Farei unicamente un’esposizione del mio soffrire, e perciò senza valore rispetto al soffrire che io vedo. Lo descrivo dunque, senza commenti su me.
2 Assisto alla sepoltura di Nostro Signore.
Il piccolo corteo, dopo aver sceso il Calvario, trova alla base dello stesso, scavato nel calcare del monte, il sepolcro di Giuseppe d’Arimatea. In esso entrano i pietosi col Corpo di Gesù.
Vedo il sepolcro fatto così. È un ambiente ricavato nella pietra in fondo ad una ortaglia tutta in fiore. Sembra una grotta, ma si capisce scavata dalla mano dell’uomo. Vi è la camera sepolcrale propriamente detta con i suoi loculi (fatti diversi da quelli delle catacombe). Questi sono come fori tondi che penetrano nella pietra come buchi di un alveare, tanto per dare un’idea. Per ora sono tutti vuoti. Si vede l’occhio vuoto di ogni loculo come una macchia nera nel grigiastro della pietra. Poi, precedente a questa camera sepolcrale, vi è come un’anticamera. Al centro della stessa, il tavolo di pietra per l’unzione. Su questo viene posto Gesù nel suo lenzuolo.
Entrano anche Giovanni e Maria. Non di più, perché la camera preparatoria è piccola e, se fossero in più persone, non potrebbero più muoversi. Le altre donne stanno presso la porta, ossia presso l’apertura, perché non vi è porta vera e propria.
3 I due portatori scoprono Gesù.
Mentre essi preparano, in un angolo, su una specie di mensola, alla luce di due torce, le bende e gli aromi, Maria si curva sul Figlio e piange. E daccapo lo asciuga col velo che è ancora ai lombi di Gesù. È l’unico lavacro che ha il Corpo di Gesù, questo delle lacrime materne, e se sono copiose e abbondanti non servono però che a levare superficialmente e parzialmente polvere, sudore e sangue di quel Corpo torturato.
Maria non si stanca di carezzare quelle membra gelate. Con una delicatezza ancor maggiore che se toccasse quelle di un neonato, Ella prende le povere mani straziate, le stringe fra le sue, ne bacia le dita, le stende, cerca di riunire le slabbrature delle ferite come per medicarle, perché dolgano meno, si appoggia sulle guance quelle mani che non possono più accarezzare, e geme, geme nel suo dolore atroce. Raddrizza e unisce i poveri piedi, che stanno così abbandonati, come mortalmente stanchi di tanto cammino fatto per noi. Ma essi si sono troppo spostati sulla croce, e specie il sinistro sta quasi per piatto come non avesse più caviglia.
Poi torna al Corpo e lo carezza, così freddo e già rigido, e quando vede una nuova volta lo squarcio della lancia che ora, nella posizione supina del Salvatore sulla lastra di pietra, è aperto e beante come una bocca, lasciante vedere meglio ancora la cavità toracica — la punta del cuore appare distintamente fra lo sterno e l’arco costale sinistro, e due centimetri circa sopra di essa vi è l’incisione fatta dalla punta della lancia nel pericardio e nel cardio, lunga un buon centimetro e mezzo, mentre quella esterna al costato destro è di almeno sette — Maria grida di nuovo come sul Calvario. Sembra che la lancia trapassi Lei, tanto Ella si contorce nel suo dolore, portando le mani al cuore suo, trafitto come quello di Gesù. Quanti baci su quella ferita, povera Mamma!
Poi torna al capo riverso e lo raddrizza, poiché è rimasto lievemente piegato indietro e fortemente a destra. Cerca di chiudere le palpebre, che si ostinano a rimanere semichiuse, e la bocca rimasta aperta, contratta, un poco storta a destra. Ravvia i capelli, solo ieri tanto belli e ordinati, ed ora fatti tutto un groviglio appesantito dal sangue. Districa le ciocche più lunghe, le liscia sulle sue dita, le arrotola per ridare ad esse la forma dei dolci capelli del suo Gesù, così morbidi e ricciuti. E geme, geme perché si ricorda di quando era bambino… È il motivo fondamentale del suo dolore: il ricordo dell’infanzia di Gesù, del suo amore per Lui, delle sue cure che temevano anche dell’aria più viva per la Creaturina divina, e il confronto con quanto gli hanno fatto, ora, gli uomini.
4 Il suo lamento mi fa stare male. Ed il suo gesto quando, gemendo: «Che ti hanno, che ti hanno fatto, Figlio mio?», non potendolo vedere così, nudo, rigido, su una pietra, Ella se lo raccoglie in braccio, passandogli il braccio sotto le spalle e serrandolo sul petto con l’altra mano e ninnandolo, con la stessa mossa della grotta della Natività, mi fa piangere e soffrire come se una mano mi frugasse nel cuore.
4 ottobre 1944.
5 La terribile angoscia spirituale di Maria.
La Madre è ritta presso la pietra dell’unzione e carezza, e contempla, e geme, e piange. La luce tremolante delle torce illumina a tratti il suo volto, ed io vedo dei grossi goccioloni di pianto rotolare sulle guance pallidissime di un viso devastato. E odo le parole. Tutte. Ben distinte, per quanto mormorate fra le labbra, vero colloquio di anima materna coll’anima del Figlio. Ricevo l’ordine di scriverle.
6 «Povero Figlio! Quante ferite!… Come hai sofferto! Guarda che t’hanno fatto!… Come sei freddo, Figlio! Le tue dita sono di gelo. E come sono inerti! Paiono spezzate. Mai, neppure nel sonno più abbandonato dell’infanzia, né in quello pesante della tua fatica di artiere, erano inerti così… E come sono fredde! Povere mani! Dàlle alla tua Mamma, tesoro mio, amore santo, amore mio! Guarda come sono lacerate! Ma guarda, Giovanni, che squarcio! Oh! crudeli! Qui, qui, dalla tua Mamma questa mano ferita. Che te la medichi. Oh! non ti farò male… Userò baci e lacrime, e col fiato e con l’amore te la scalderò. Dammi una carezza, Figlio! Tu sei di ghiaccio, io ardo di febbre. La mia febbre avrà sollievo dal tuo gelo, e il tuo gelo si molcerà alla mia febbre. Una carezza, Figlio! Sono poche ore che non mi carezzi, e mi paiono secoli. Vi furono mesi senza tue carezze, e mi parvero ore perché sempre aspettavo il tuo venire e di ogni giorno facevo un’ora, di ogni ora un minuto, per dirmi che Tu non m’eri lontano da una o più lune, ma da solo pochi dì, da sole poche ore. Perché ora è così lungo il tempo? Ah! strazio inumano! Perché Tu sei morto. Mi ti hanno morto! Non ci sei più sulla Terra! Più! In qualunque posto io getti l’anima per cercare la tua e abbracciarsi ad essa, poiché trovarti, averti, sentirti era la vita della mia carne e del mio spirito, in qualunque posto io ti cerchi con l’onda del mio amore, non ti trovo più, più non ti trovo! Di Te non mi resta che questa spoglia fredda, questa spoglia senz’anima! O anima del mio Gesù, o anima del mio Cristo, o anima del mio Signore, dove sei? Perché avete levata l’anima al Figlio mio, iene crudeli congiunte con Satana? E perché non m’avete seco lui crocifissa? Avete avuto paura di un secondo delitto? (La voce si fa sempre più forte e straziante). E che era uccidere una povera donna, per voi che non avete esitato ad uccidere Dio fatto Carne? Non avete commesso un secondo delitto? E non è questo il più nefando, di lasciare sopravvivere una madre al figlio trucidato?».
7 La Madre, che con la voce aveva alzato anche il capo, ora torna a curvarsi sul volto spento ed a parlare piano, solo per Lui:
«Almeno nella tomba, qui dentro, saremmo stati insieme come insieme saremmo stati nell’agonia sul legno, e insieme nel viaggio oltre vita e incontro alla Vita. Ma, se seguirti non posso nel viaggio oltre la vita, qui ad attenderti posso restare».
Si torna a drizzare e dice forte ai presenti:
«Andate tutti. Io resto. Chiudetemi qui con Lui. Lo attendo. Che dite? Che non si può? Perché non si può? Se fossi morta non sarei qui, coricata al suo fianco, in attesa d’essere composta? Sarò al suo fianco, ma in ginocchio. Vi fui quando Egli vagiva, tenero e roseo, in una notte decembrina. Vi sarò ora, in questa notte del mondo che non ha più il Cristo. Oh! vera notte! La Luce non è più!… O gelida notte! L’Amore è morto! Che dici, Nicodemo? Mi contamino? Il suo Sangue non è contaminazione. Non mi contaminai neppure nel generarlo. Ah! come uscisti, Tu, Fiore del mio seno, senza lacerare fibra, ma proprio come fiore di profumato narciso, che sboccia dall’anima del bulbo-matrice e dà fiore anche se l’abbraccio della terra non è stato sulla matrice. Vergine fiorire che in Te ha riscontro, o Figlio venuto da abbraccio celeste e nato fra celesti dilagar di fulgori».
8 Ora la Madre straziata si torna a curvare sul Figlio, straniandosi da ogni altra cosa che non sia Lui, e mormora piano:
«Ma te la ricordi, Figlio, quella sublime veste di splendori che tutto vestì mentre il tuo sorriso nasceva al mondo? Te la ricordi quella beatifica luce che il Padre mandò dai Cieli per avvolgere il mistero del tuo fiorire e per farti trovare meno repellente questo mondo oscuro, a Te che eri Luce e venivi dalla Luce del Padre e dello Spirito Paraclito? Ed ora?… Ora buio e freddo… Quanto freddo! Quanto! Io ne tremo tutta. Più di quella notte di dicembre. Allora c’era la gioia dell’averti a scaldarmi il cuore. E Tu avevi due ad amarti… Ora… Ora sono sola e morente io pure. Ma ti amerò per due: per questi che ti hanno amato tanto poco da abbandonarti nel momento del dolore; ti amerò per quelli che ti hanno odiato, per tutto il mondo ti amerò, o Figlio. Non sentirai il gelo del mondo. No, non lo sentirai. Tu non mi apristi le viscere per nascere, ma per non farti sentire il gelo io sono pronta ad aprirmele e chiuderti nell’abbraccio del seno mio. Tu lo ricordi come questo seno ti amò, piccolo germe palpitante?… È sempre quel seno. Oh! è il mio diritto e il mio dovere di Madre. È il mio desiderio. Non c’è che la Madre che possa averlo, che possa avere per il Figlio un amore grande quanto l’universo».
9 La voce si è andata elevando e ora, tutta forte, dice: «Andate. Io resto. Tornerete fra tre giorni ed usciremo insieme. Oh! rivedere il mondo appoggiata al tuo braccio, o Figlio mio! Come sarà bello il mondo alla luce del tuo risorto sorriso! Il mondo fremente al passo del suo Signore! La Terra ha tremato quando la morte ti ha svelto l’anima e dal cuore t’è uscito lo spirito. Ma ora tremerà… oh! non più di orrore e spasimo, ma del fremito soave, a me sconosciuto ma che la mia femminilità intuisce, che scuote una vergine quando, dopo un’assenza, sente la pedata dello sposo che viene per le nozze. Più ancora: la Terra fremerà di un fremito santo, come io ne fui scossa, fin nel profondo più fondo, quando ebbi in me il Signore Uno e Trino, e il volere del Padre col fuoco dell’Amore creò il seme da cui Tu sei venuto, o mio Bambino santo, Creatura mia, tutta mia! Tutta! Tutta della Mamma! della Mamma!… Ogni bambino ha padre e madre. Anche il bastardo ha un padre e una madre. Ma Tu hai avuto la Mamma sola a farti la Carne di rosa e giglio, a farti questi ricami di vene, azzurre come i nostri rivi di Galilea, e queste labbra di melograno, e questi capelli che più vaghi non l’hanno le capre biondo-chiomate dei nostri colli, e questi occhi, due piccoli laghi di Paradiso. No, anzi, che son dell’acqua da cui viene l’unico e quadruplice Fiume del Luogo di delizie, e seco porta, nei suoi quattro rami, l’oro, l’onice, il bidellio e l’avorio, e i diamanti, e le palme, e il miele, e le rose, e ricchezze infinite, o Fison, o Gehon, o Tigri, o Eufrate: via agli angeli giubilanti in Dio, via ai re che Te adorano, Essenza conosciuta o sconosciuta, ma vivente, ma presente anche nel cuore più oscuro! Solo la tua Mamma ti ha fatto questo, col suo “sì”… Di musica e di amore ti ho composto, di purezza e ubbidienza ti ho fatto, o Gioia mia!
10Il tuo Cuore cosa è? La fiamma del mio che si è partita per condensarsi in corona intorno al bacio di Dio alla sua Vergine. Ecco cosa è questo tuo Cuore. Ah!».
(L’urlo è straziante, al punto che la Maddalena accorre a soccorrere insieme a Giovanni. Le altre non osano e, piangenti e velate, sogguardano dall’apertura).
«Ah! te l’hanno spezzato! Ecco perché sei così freddo e così fredda sono io! Non hai più dentro la fiamma del mio cuore, ed io non posso più continuare a vivere per il riflesso di quella fiamma, che era mia e che ti ho data per farti un cuore. Qui, qui, qui, sul mio petto! Prima che morte m’uccida ti voglio scaldare, cullare ti voglio. Ti cantavo: “Non c’è casa, non c’è cibo, non c’è altro che dolor”. O profetiche parole! Dolore, dolore, dolore per Te, per me! Ti cantavo: “Dormi, dormi sul mio cuore”. Anche ora: qui, qui, qui…».
E, sedendosi sull’orlo della pietra, se lo raccoglie in grembo, passandosi un braccio del Figlio sulle spalle, appoggiandosi il capo del Figlio sull’òmero e su quel capo piegando il suo, tenendolo stretto al petto, ninnandolo, baciandolo, straziata e straziante.
11Nicodemo e Giuseppe si avvicinano, appoggiando ad una specie di sedile, che è all’altra parte della pietra, vasi e bende, e la sindone monda e un catino con acqua, mi pare, e batuffoli di filacce, mi pare.
Maria vede e chiede, forte: «Che fate voi? Che volete? Prepararlo? A che? Lasciatelo in grembo alla sua Mamma. Se riesco a scaldarlo, prima risorge. Se riesco a consolare il Padre e a consolare Lui dell’odio deicida, il Padre perdona prima, e Lui prima torna».
La Dolorosa è quasi delirante.
«No, non ve lo do! L’ho dato una volta, una volta l’ho dato al mondo, e il mondo non lo ha voluto. L’ha ucciso per non volerlo. Ora non lo do più! Che dite? Che lo amate? Già! Ma perché allora non l’avete difeso? Avete atteso, a dirlo che lo amavate, quando non era più che uno che non poteva più udirvi. Che povero amore il vostro! Ma se eravate così paurosi del mondo, al punto di non osare di difendere un innocente, almeno lo dovevate rendere a me, alla Madre, perché difendesse il suo Nato. Lei sapeva chi era e che meritava. Voi!… Voi lo avete avuto a Maestro, ma non avete nulla imparato. Non è vero forse? Mento forse? Ma non vedete che non credete alla sua Risurrezione? Ci credete? No. Perché state là, preparando bende e aromi? Perché lo giudicate un povero morto, oggi gelido, domani corrotto, e lo volete imbalsamare per questo. Lasciate le vostre manteche. Venite ad adorare il Salvatore col cuore puro dei pastori betlemmiti. Guardate: nel suo sonno non è che uno stanco che riposa. Quanto ha faticato nella vita! Sempre più ha faticato! E in queste ultime ore, poi!… Ora riposa. Per me, per la Mamma sua non è che un grande Bambino stanco che dorme. Ben misero il letto e la stanza! Ma anche il suo primo giaciglio non fu più bello, né più allegra la sua prima dimora. I pastori adorarono il Salvatore nel suo sonno di Infante. Voi adorate il Salvatore nel suo sonno di Trionfatore di Satana. E poi, come i pastori, andate a dire al mondo: “Gloria a Dio! Il Peccato è morto! Satana è vinto! Pace sia in Terra e in Cielo fra Dio e l’uomo!”. Preparate le vie al suo ritorno. Io vi mando. Io che la Maternità fa Sacerdotessa del rito. Andate. Ho detto che non voglio. Io l’ho lavato col mio pianto. E basta. Il resto non occorre. E non vi pensate di porlo su di Lui. Più facile sarà per Lui il risorgere se libero da quelle funebri, inutili bende. Perché mi guardi così, Giuseppe? E tu perché, Nicodemo? Ma l’orrore di questa giornata ebeti vi ha fatto? Smemorati? Non ricordate? “A questa generazione malvagia e adultera, che cerca un segno, non sarà dato che il segno di Giona… Così il Figlio dell’uomo starà tre giorni e tre notti nel cuore della Terra”. Non ricordate? “Il Figlio dell’uomo sta per essere dato in mano agli uomini che l’uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà“. Non ricordate? “Distruggete questo Tempio del Dio vero ed in tre giorni Io lo risusciterò”. Il Tempio era il suo Corpo, o uomini. Scuoti il capo? Mi compiangi? Folle mi credi? Ma come? Ha risuscitato i morti e non potrà risuscitare Se stesso?
12Giovanni?».
«Madre!».
«Sì, chiamami “madre”. Non posso vivere pensando che non sarò chiamata così! Giovanni, tu eri presente quando risuscitò la figlioletta di Giairo e il giovinetto di Naim. Erano ben morti, quelli, vero? Non era solo un pesante sopore? Rispondi».
«Morti erano. La bambina da due ore, il giovinetto da un giorno e mezzo».
«E sorsero al suo comando?».
«E sorsero al suo comando».
«Avete udito? Voi due, avete udito? Ma perché scuotete il capo? Ah! forse volete dire che la vita torna più presto in chi è innocente e giovinetto. Ma il mio Bambino è l’Innocente! Ed è il sempre Giovane. È Dio, mio Figlio!…». La Madre guarda con occhi di strazio e di follia i due preparatori che, accasciati ma inesorabili, dispongono i rotoli delle bende inzuppate ormai negli aromi.
Maria fa due passi. Ha rideposto il Figlio sulla pietra con la delicatezza di chi depone un neonato nella cuna. Fa due passi, si curva ai piedi del letto funebre, dove in ginocchio piange la Maddalena, e l’afferra per una spalla, la scuote, la chiama: «Maria. Rispondi. Costoro pensano che Gesù non possa risorgere perché uomo e morto di ferite. Ma tuo fratello non è più vecchio di Lui?».
«Sì».
«Non era tutto una piaga?».
«Sì».
«Non era già putrido prima di scendere nel sepolcro?».
«Sì».
«E non risorse dopo quattro giorni di asfissia e di putrefazione?».
«Sì».
«E allora?».
13Un silenzio grave e lungo. Poi un urlo inumano. Maria vacilla portandosi una mano sul cuore. La sostengono. Ma Lei li respinge. Pare respinga i pietosi. In realtà respinge ciò che Lei sola vede. E urla: «Indietro! Indietro, crudele! Non questa vendetta! Taci! Non ti voglio udire! Taci! Ah! mi morde il cuore!».
«Chi, Madre?».
«O Giovanni! Satana è! Satana che dice: “Non risorgerà. Nessun profeta l’ha detto”. O Dio altissimo! Aiutatemi tutti, o voi, spiriti buoni, o voi, uomini pietosi! La mia ragione vacilla! Non ricordo più nulla. Che dicono i profeti? Che dice il salmo? Oh! chi mi ripete i passi che parlano del mio Gesù?».
È la Maddalena che con la sua voce d’organo dice il salmo davidico sulla Passione del Messia.
La Madre piange più forte, sorretta da Giovanni, e il pianto cade sul Figlio morto che ne è tutto bagnato. Maria vede, e lo asciuga, e dice a voce bassa: «Tanto pianto! E quando avevi tanta sete neppure una stilla te ne ho potuto dare. E ora… tutto ti bagno! Sembri un arbusto sotto una pesante rugiada. Qui, che la Mamma ti asciuga, Figlio! Tanto amaro hai gustato! Sul tuo labbro ferito non cada anche l’amaro e il sale del materno pianto!…».
Poi chiama forte: «Maria. Davide non dice… Sai Isaia? Di’ le sue parole…».
La Maddalena dice il brano sulla Passione e termina con un singhiozzo: «… consegnò la sua vita alla morte e fu annoverato tra i malfattori, Egli che tolse i peccati del mondo e pregò per i peccatori».
«Oh! Taci! Morte no! Non consegnato alla morte! No! No! Oh! che il vostro non credere, alleandosi alla tentazione di Satana, mi mette il dubbio nel cuore! E dovrei non crederti, o Figlio? Non credere alla tua santa parola?! Oh! dilla all’anima mia! Parla. Dalle sponde lontane, dove sei andato a liberare gli attendenti la tua venuta, getta la tua voce d’anima alla mia anima protesa, alla mia che è qui, tutta aperta a ricevere la tua voce. Dillo a tua Madre che torni! Di’: “Al terzo giorno risorgerò”. Te ne supplico, Figlio e Dio! Aiutami a proteggere la mia fede. Satana la attorciglia nelle spire per strozzarla. Satana ha levato la sua bocca di serpe dalla carne dell’uomo, perché Tu gli hai strappato questa preda, e ora ha confitto l’uncino dei suoi denti velenosi nella carne del mio cuore e me ne paralizza i palpiti, e la forza, e il calore. Dio! Dio! Dio! Non permettere che io diffidi! Non lasciare che il dubbio mi agghiacci! Non dare libertà a Satana di portarmi a disperare! Figlio! Figlio! Mettimi la mano sul cuore. Caccerà Satana. Mettimela sul capo. Vi riporterà la luce. Santifica con una carezza le mie labbra, perché si fortifichino a dire: “Credo” anche contro tutto un mondo che non crede. Oh! che dolore è non credere! Padre! Molto bisogna perdonare a chi non crede. Perché, quando non si crede più… quando non si crede più… ogni orrore diviene facile. Io te lo dico… io che provo questa tortura. Padre, pietà dei senza fede! Da’ loro, Padre santo, da’ loro, per questa Ostia consumata e per me, ostia che si consuma ancora, da’ la tua Fede ai senza fede!».
14Un lungo silenzio.
Nicodemo e Giuseppe fanno un cenno a Giovanni e alla Maddalena.
«Vieni, Madre». È la Maddalena che parla, cercando di allontanare Maria dal Figlio e di dividere le dita di Gesù intrecciate fra quelle di Maria, che le bacia piangendo.
La Mamma si raddrizza. È solenne. Stende un’ultima volta le povere dita esangui, conduce la mano inerte a fianco del Corpo. Poi abbassa le braccia verso terra e, ben dritta, colla testa lievemente riversa, prega e offre. Non si ode parola. Ma si capisce che prega da tutto l’aspetto. È veramente la Sacerdotessa all’altare, la Sacerdotessa nell’attimo dell’offerta. «Offerimus praeclarae majestati tuae de tuis donis, ac datis, hostiam puram, hostiam sanctam, hostiam immaculatam…».
Poi si volge: «Fate pure. Ma Egli risorgerà. Inutilmente voi diffidate della mia ragione e siete ciechi alla verità che Egli vi disse. Inutilmente tenta Satana di insidiare la mia fede. A redimere il mondo manca anche la tortura data al mio cuore da Satana vinto. La subisco e la offro per i futuri. Addio, Figlio! Addio, mia Creatura! Addio, Bambino mio! Addio… Addio… Santo… Buono… Amatissimo e amabile… Bellezza… Gioia… Fonte di salute… Addio… Sui tuoi occhi… sulle tue labbra… sui tuoi capelli d’oro… sulle tue membra gelide… sul tuo Cuore trafitto… oh! sul tuo Cuore trafitto… il mio bacio… il mio bacio… il mio bacio… Addio… Addio… Signore! Pietà di me!».
[19 febbraio 1944]
15I due preparatori hanno finito la preparazione delle bende.
Vengono alla tavola e denudano Gesù anche del suo velo. Passano una spugna, mi pare, o un batuffolo di lino sulle membra in una molto frettolosa preparazione delle membra goccianti da mille parti.
Poi spalmano tutto il Corpo di unguenti. Lo seppelliscono addirittura sotto una crosta di manteca. Prima lo hanno sollevato, nettando anche la tavola di pietra su cui posano la sindone, che pende per oltre la metà dal capo del letto. Lo riadagiano sul petto e spalmano tutto il dorso, le cosce, le gambe. Tutta la parte posteriore. Poi delicatamente lo girano, osservando che non venga asportata la manteca degli aromi, e lo ungono anche dalla parte anteriore. Prima il tronco, poi le membra. Prima i piedi, per ultime le mani, che uniscono sul basso ventre.
La mistura degli aromi deve essere appiccicosa come gomma, perché vedo che le mani restano a posto, mentre prima scivolavano sempre per il loro peso di membra morte. I piedi no. Conservano la loro posizione: uno più dritto, l’altro più steso.
Per ultimo, il capo. Dopo averlo spalmato accuratamente, di modo che le fattezze scompaiono sotto lo strato di unguento, lo legano con la fascia mentoniera per mantenere chiusa la bocca.
Maria geme più forte.
Poi alzano il lato pendente della sindone e la ripiegano sopra a Gesù. Egli scompare sotto la grossa tela della sindone. Non è più che una forma coperta da un telo.
Giuseppe osserva che tutto sia bene a posto e appoggia ancora sul viso un sudario di lino e altri panni, simili a corte e larghe strisce rettangolari, che passano da destra a sinistra, al disopra del Corpo, e tengono a posto la sindone, bene aderente al Corpo. Non è la caratteristica fasciatura che si vede nelle mummie e neppure nella risurrezione di Lazzaro. È un embrione di fasciatura.
Gesù ormai è annullato. Anche la forma si confonde sotto i lini. Sembra un lungo mucchio di tela, più stretto ai vertici e più largo al centro, appoggiato sul grigio della pietra.
Maria piange più forte.
[4 ottobre 1944]
16Dice Gesù:
«E la tortura continuò con assalti periodici sino all’alba della Domenica. Io ho avuto, nella Passione, una sola tentazione. Ma la Madre, la Donna, espiò per la donna, colpevole di ogni male, più e più volte. E Satana sulla Vincitrice infierì con centuplicata ferocia.
Maria l’aveva vinto. Su Maria la più atroce tentazione. Tentazione alla carne della Madre. Tentazione al cuore della Madre. Tentazione allo spirito della Madre. Il mondo crede che la Redenzione ebbe fine col mio ultimo anelito. No. La compì la Madre, aggiungendo la sua triplice tortura per redimere la triplice concupiscenza, lottando per tre giorni contro Satana che la voleva portare a negare la mia Parola e non credere nella mia Risurrezione. Maria fu l’unica che continuò a credere. Grande e beata è anche per questa fede.
Hai conosciuto anche questo. Tormento che fa riscontro al tormento del mio Getsemani. Il mondo non capirà questa pagina. Ma “coloro che sono nel mondo senza essere del mondo” la comprenderanno e aumentato amore avranno per la Madre Dolorosa. Per questo l’ho data.
Va’ in pace con la nostra benedizione».
Cap. DCXI. La chiusura del Sepolcro e il ritorno al Cenacolo.
28 marzo 1945.
1 Giuseppe d’Arimatea spegne una delle torce, dà un’ultima occhiata e si avvia all’apertura del sepolcro tenendo accesa e alta la superstite torcia.
Maria si china ancora una volta per baciare il Figlio attraverso le sue coperture. E vorrebbe farlo dominando la sua pena, per contenerla in una forma di rispetto al Cadavere che, già imbalsamato, non le appartiene più. Ma, quando è prossima al Volto velato, non si domina più e si abbatte in una nuova crisi di desolazione.
La sollevano di là a fatica, la allontanano, con ancora maggiore fatica, dal letto funebre. Ricompongono le tele scomposte e, più portandola di peso che sorreggendola, portano via la povera Madre, che si allontana col volto girato all’indietro, per vedere, per vedere il suo Gesù che resta solo nel buio del sepolcro.
2 Escono nell’ortaglia silenziosa nella luce vespertina. Già la relativa luce, che si è rifatta dopo la tragedia del Golgota, si torna ad incupire per la notte che scende. E là, sotto le ramaglie fitte, per quanto ancora nude di fronde e appena ornate delle bocche bianco-rosa dei meli in boccio, stranamente in ritardo in questo frutteto di Giuseppe, mentre altrove sono già tutti coperti di fiori aperti e anche già fecondati in minuscoli pomi, vi è ancora più penombra che altrove.
Viene fatta scorrere la pesante pietra del sepolcro nella sua cunella. Dei lunghi rami di un rosaio scapigliato, che si rovesciano dall’alto della grotta verso il suolo, paiono bussare a quella porta di pietra e dire: «Perché ti chiudi davanti ad una madre che piange?». E paiono piangere anche loro gocce di sangue coi petali rossi che si sfogliano, colle corolle che si adagiano lungo la pietra scura, coi boccioli serrati che battono contro la inesorabile chiusura.
3 Ma presto altro sangue bagna quella porta sepolcrale e altro pianto. Maria, fino allora sorretta da Giovanni e abbastanza quieta nel suo singhiozzare, si svincola dall’apostolo e con un grido, che io credo abbia fatto tremare anche le fibre delle piante, si getta contro la porta, si attacca alla sporgenza di essa per respingerla, si scortica le dita e si spezza le unghie senza riuscirvi, e fa leva fin col capo premuto contro questa sporgenza ruvida. E il suo gemito ha del ruggito di una leonessa che si sveni sulla soglia della trappola dove sono chiusi i suoi nati, pietosa e feroce per amore di madre.
Non ha più nulla della mite vergine di Nazaret, della paziente donna fin qui conosciuta. È la madre. Solo e semplicemente la madre, attaccata con tutte le fibre ed i nervi della carne e dell’amore alla sua creatura. È la più vera «padrona» di quella carne che ha generato, l’unica padrona dopo Dio, e non vuole le sia rubata questa sua proprietà. È la «regina» che difende il suo serto: il figlio, il figlio, il figlio.
Tutta la ribellione e le ribellioni che in trentatré anni ogni altra donna avrebbe avuto contro l’ingiustizia del mondo verso la sua creatura, tutte le ferocie sante e lecite che ogni altra madre avrebbe avuto durante quelle ultime ore per ferire e uccidere con le mani e coi denti gli assassini del suo nato, tutte queste cose che Ella per amore del genere umano ha sempre domate, ora si agitano nel suo cuore, bollono nel suo sangue e, mite anche nel suo dolore che la fa pazza, Ella non impreca, Ella non si avventa. Ma solo chiede alla pietra che si apra, che le ceda il passo, perché il suo posto è là dentro, dove Egli è. Ma solo chiede agli uomini, impietosi nella loro pietà, di ubbidirle e di aprire.
Dopo avere percosso e sanguinato con le labbra e con le mani sulla pietra tenace, si volge, si appoggia a braccia aperte, abbrancando ancora i due orli della pietra, e terribile nella sua maestà di Madre dolorosa ordina: «Aprite! Non volete? Ebbene, io qui resto. Dentro no? Qui fuori, allora. Qui è il mio pane e il mio letto. Qui è la mia dimora. Non ho altre case né altro scopo. Voi andate pure. Tornate nel mondo che è uno schifo. Io resto dove non è bramosia e odor di sangue».
«Non puoi, Donna!».
«Non puoi, Madre!».
«Non puoi, Maria, cara!».
E cercano di staccarle le mani dalla pietra, impauriti di quegli occhi, che essi non conoscono ancora con quel bagliore che li fa duri e imperiosi, vitrei, fosforici.
4 La prepotenza non è dei miti, e gli umili non sanno durare nella superbia… E a Maria subito cade la veemenza del volere e l’impero del comandare. Torna ad avere il suo sguardo mite di colomba torturata, perde l’imponenza dell’atto e si curva da capo con atto di supplica, e congiunge le mani pregando: «Oh! mi lasciate! Per i vostri morti, per quelli che amate fra i vivi, pietà di una povera madre!… Sentite… Sentite il mio cuore. Ha bisogno di pace per perdere questo battito crudele. Esso si è messo a battere così lassù, sul Calvario. Il martello faceva ton, ton, ton… e ogni colpo feriva il mio Bambino… e mi picchiava nel cervello e nel cuore… e la testa mi è piena di quei colpi, e il cuore batte veloce così come era quel ton, ton, ton, sulle mani, sui piedi del mio Gesù, del mio piccolo Gesù… Il mio Bambino! Il mio Bambino!…».
Le torna tutto il tormento, che pareva calmato dopo la sua preghiera al Padre presso la tavola dell’unzione. Piangono tutti.
«Ho bisogno di non sentire urli né urti. E il mondo è pieno di voci e di rumori. Ogni voce mi sembra il “grande grido” che mi ha impietrito il sangue nelle vene, e ogni rumore mi sembra quello del martello sui chiodi. Ho bisogno di non vedere volti d’uomo. E il mondo è pieno di volti… Io sono quasi dodici ore che vedo volti di assassini… Giuda… i carnefici… i sacerdoti… i giudei… Tutti, tutti assassini!… Via! Via… Non voglio più vedere alcuno… In ogni uomo è un lupo e un serpente. Io sento ribrezzo e paura dell’uomo… Lasciatemi qui, sotto questi alberi quieti, su quest’erba fiorita… Fra poco ci saranno le stelle… Esse sono state le sue amiche e le mie amiche sempre… Ieri sera esse hanno fatto compagnia alla nostra solitaria agonia… Esse sanno tante cose… Esse vengono da Dio… Oh! Dio! Dio!…», piange e si inginocchia. «Pace, mio Dio! Non mi resti che Te!».
5 «Vieni, figlia. Dio ti darà pace. Ma vieni. Domani è il sabato pasquale. Non potremmo venire a portarti cibo…».
«Niente! Niente! Non voglio cibo! Voglio la mia Creatura! Mi sfamo col mio dolore, mi disseto col mio pianto… Qui… Sentite come piange quell’assiolo? Piange con me, e fra poco piangeranno gli usignoli. E domani, nel sole, piangeranno le calandre e i capineri e tutti gli uccelli che Egli amava, e le tortore verranno con me a battere a questa pietra e a dire, e a dire: “Levati, amor mio, e vieni! Amore che stai nel crepaccio della rupe, nel nascondiglio del dirupo, lasciami vedere il tuo viso, lasciami ascoltare la tua voce”. Aaaah! che dico! Anche loro, anche loro, i biechi assassini, me lo hanno interpellato con la parola del Cantico! Sì, venite, o figlie di Gerusalemme, a vedere il vostro Re col diadema onde lo incoronò la sua Patria nel giorno del suo sposalizio con la Morte, nel giorno del suo trionfo di Redentore!».
«Guarda, Maria! Sopraggiungono le guardie del Tempio. Vieni via, ché non ti facciano spregio».
«Le guardie? Spregio? No. Sono vili. Vili sono. E se io marciassi su loro, terribile nel mio dolore, esse fuggirebbero come Satana davanti a Dio. Ma io mi ricordo di essere Maria… e non le colpirò come ne avrei diritto. Starò buona… non mi vedranno neppure. E, se mi vedranno e mi chiederanno: “Che vuoi?”, dirò loro: “L’elemosina di respirare l’aria imbalsamata che esce da questa fessura”. Dirò: “In nome di vostra madre”. Tutti hanno una madre… l’ha detto anche il ladrone pietoso…».
«Ma queste sono peggio dei ladroni. Ti insulteranno».
«Oh!… E c’è ancora un insulto che io non conosca, dopo quelli di oggi?».
6 È la Maddalena che trova la ragione capace di piegare la Dolorosa all’ubbidienza. «Tu sei buona, tu santa sei, e credi, e sei forte. Ma noi che siamo?… Tu lo vedi! I più, fuggiti. I superstiti, pavidi. Il dubbio, che è già in noi, ci piegherebbe. Tu sei la Madre. Non hai solo il dovere e il diritto sul Figlio. Ma il dovere e il diritto su ciò che è del Figlio. Tu devi tornare con noi, fra noi, per raccoglierci, per rassicurarci, per infonderci la tua fede. Tu lo hai detto, dopo il tuo giusto rimprovero alla nostra pavidità e miscredenza: “Più facile sarà a Lui il risorgere se libero da queste inutili bende”. Io ti dico: “Se noi riusciremo a riunirci nella fede nella sua Risurrezione, più presto Egli risorgerà. Lo evocheremo col nostro amore…”. Madre, Madre del mio Salvatore, torna con noi, tu, amore di Dio, per darci questo tuo amore! Vuoi dunque che si perda di nuovo la povera Maria di Magdala, che Egli ha salvato con tanta pietà?».
«No. Ne avrei rimprovero. Hai ragione. Devo tornare… cercare gli apostoli… i discepoli… i parenti… tutti… Dire… dire: credete. Dire: Egli vi perdona… A chi l’ho già detto?… Ah! All’Iscariota… Bisognerà… sì, bisognerà cercare anche lui… perché è il più grande peccatore…». Maria resta col capo curvo sul petto, trema come per ribrezzo, e poi dice: «Giovanni, lo cercherai. E me lo porterai. Lo devi fare. E io lo devo fare. Padre, anche questo sia fatto per la redenzione dell’Umanità. Andiamo».
Si alza. Escono dall’ortaglia semioscura. Le guardie li guardano uscire senza far motto.
7 La strada, polverosa e sconvolta dalla fiumana di popolo che l’ha percorsa e percossa con piedi e pietre e randelli, fa una curva intorno al Calvario per giungere sulla via maestra, che è parallela alle mura. E qui ancora più intense sono le tracce dell’avvenuto. Due volte Maria ha un grido e si curva studiando nella mal luce il suolo, perché le pare vedere del sangue e pensa sia del suo Gesù. Ma non sono che brandelli di stoffe lacerate nella mischia della fuga, io credo. Il torrentello, che corre lungo la via, mormora piano nel grande silenzio che è da per tutto. Sembra che la città sia abbandonata, tanto da essa non viene che silenzio.
Ecco il ponticello che conduce alla erta via del Calvario. E, di fronte a questo, ecco la porta Giudiziaria. Prima di scomparire dentro di quella, Maria si volge a guardare la vetta del Calvario… e piange desolatamente. Poi dice: «Andiamo. Ma conducetemi voi. Io non voglio vedere Gerusalemme, le sue vie, i suoi abitanti».
«Sì, sì, ma facciamo presto. Stanno per chiudere le porte e, lo vedi?, è rinforzata la guardia ad esse. Roma teme subbugli».
«Ne ha ragione. Gerusalemme è un covo di tigri! È una tribù di assassini! È una turba di predoni. E non solo alle sostanze, ma alle vite tendono le zanne rapaci questi usurpatori.
8 Sono trentadue anni che me la insidiano la vita del mio Bambino… Era un agnellino di latte e rosa, un agnellino d’oro riccio… Appena sapeva dire “Mamma”, e fare i primi passetti, e ridere coi suoi pochi dentini fra le labbra di pallido corallo, quando sono venuti per sgozzarlo… Ora dicono che aveva bestemmiato, e violato il sabato, ed eccitato alla rivolta, e mirato al trono, e peccato con donne… Ma allora che aveva fatto? Quali bestemmie poteva avere detto se appena sapeva chiamare la Mamma? Che poteva violare della Legge, se Egli, l’eterno Innocente, era allora anche il piccolo innocente dell’uomo? Che rivolta poteva eccitare se neppure sapeva fare un capriccio? A che trono mirare? Il suo trono sulla Terra e nel Cielo Egli lo aveva, e non ne chiedeva altri. In Cielo aveva il seno del Padre, in Terra il mioseno. Mai ha avuto occhi per il senso, e voi, giovani e belle, lo potete dire. Ma allora, ma allora… Il suo senso era limitato al bisogno del tepore e del nutrimento, e amoreggiava, sì, ma colla mia tepida mammella, per posargli sopra la faccina e dormire così, e col tondo capezzolo, dal quale il mio amore fluiva in latte… Oh! mia Creatura!… E ti volevano morto! Questo ti volevano levare: la vita! Il tuo unico tesoro. La Madre al Figlio, il Figlio alla Madre, per renderci i più miseri e desolati dell’Universo. Perché levare al Vivo la vita? Perché arrogarvi il diritto di levare questa cosa che è la vita: bene del fiore e dell’animale, bene dell’uomo? Non vi chiedeva nulla il mio Gesù. Non denaro, non gioielli, non case. Una ne aveva, piccola e santa, e l’aveva lasciata per amore di voi, uomini-iene. Quello che ha il piccolo dell’animale, Egli lo aveva rinunciato per voi, ed era andato povero e solo per il mondo, senza più neppure il letto che gli aveva fatto il Giusto, senza neppure più il pane che gli faceva la Mamma, ed aveva dormito là dove aveva potuto ed aveva mangiato come aveva potuto. Nelle case dei buoni, come ogni figlio d’uomo, o sul giaciglio erboso dei prati, vegliato dalle stelle. Seduto ad una mensa, o dividendo con gli uccelli di Dio i chicchi del grano e il frutto del rovo selvatico. E non vi chiedeva nulla. Ma, anzi, vi dava. Voleva solo la vita per darvi con la sua parola la Vita. E voi, e tu, Gerusalemme, della vita lo avete spogliato. Sei sazia e pasciuta del suo Sangue e della sua Carne? O non ti empie ancora? E vuoi, iena dopo vampiro e avvoltoio, pascerti del suo Cadavere e, non ancora satolla di obbrobri e tormenti, ancora vuoi infierire e godere nello sfregiarne le spoglie e rivedere i suoi spasimi, i suoi tremiti, i suoi singulti, le sue convulsioni, in me, nella Madre dell’Ucciso?
9 Siamo giunti? Perché vi fermFate? Che vuole quell’uomo da Giuseppe? Che dice?».
Infatti Giuseppe è stato fermato da uno dei rari passanti e, nel silenzio assoluto della città deserta, si sentono molto bene le loro parole.
«È noto che sei entrato nella casa di Pilato. Profanatore della Legge. Ne renderai conto. La Pasqua t’è interdetta! Sei contaminato».
«Anche tu, Elchia. Mi hai toccato e sono tutto coperto del sangue di Cristo e del suo sudore mortale!».
«Ah! orrore! Via! Via! Quel sangue, via!».
«Non avere paura. Ti ha già abbandonato. E maledetto».
«Ma anche tu, maledetto. E non ti pensare, ora che amoreggi con Pilato, di potere sottrarre il Cadavere. Abbiamo provveduto perché il giuoco cessi».
Nicodemo si è avvicinato lentamente, mentre le donne si sono fermate con Giovanni, addossandosi ad un fondo portale serrato.
«Abbiamo visto», riprende Giuseppe. «Vigliacchi! Avete paura anche di un morto! Ma del mio orto e del mio sepolcro faccio ciò che mi pare».
«Lo vedremo».
«Lo vedremo. Mi appellerò a Pilato».
«Sì. Fornica con Roma, ora».
Nicodemo si fa avanti: «Meglio con Roma che col Demonio come voi, deicidi! E del resto, mi dici: come mai rimetti penne? Or ora fuggivi in preda al terrore. Già ti sta passando? Non basta ancora quanto avesti? Non è arsa una tua casa? Trema! Non è finito il castigo, ma anzi viene. Come la Nemesi dei pagani, ti incombe. Né guardie né suggelli vieteranno al Vendicatore di sorgere e colpire».
«Maledetto!». Elchia fugge e va a urtare contro le donne. Comprende e dice un atroce insulto a Maria.
10Giovanni non fa parola. Con un balzo di pantera gli si avvinghia e l’atterra e, tenendolo premuto coi ginocchi, le mani intorno al collo, gli dice: «Chiedile perdono o ti strozzo, demonio». E non lo lascia altro che quando l’altro, premuto e mezzo strangolato dalle mani di Giovanni, non arrangola: «Perdono».
Ma il suo grido ha attirato la ronda. «Alto là! Che avviene? Altre sedizioni? Fermi tutti o sarete colpiti. Chi siete?».
«Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, autorizzati dal Proconsole al seppellimento dell’ucciso Nazzareno, di ritorno dal sepolcro con la Madre, il figlio e le parenti e amiche. Costui ha offeso la Madre e fu obbligato a chiedere perdono».
«Quello solo? Dovevate sgozzarlo. Andate. Soldati, arrestate costui. Che altro vogliono questi vampiri? Anche il cuor delle madri? Salve, giudei!».
«Che orrore! Ma non sono più uomini… Giovanni, sii buono con loro. Guarda al ricordo del mio e tuo Gesù. Egli predicava perdono».
«Madre, hai ragione. Ma sono delinquenti e mi levano di ragione. Sono sacrileghi, offendono te. E non lo posso permettere».
«Sono delinquenti, sì. E sanno di esserlo.
11Guarda quanto pochi per le vie. E quei pochi come scantonano furtivi. Dopo il delitto, i delinquenti hanno paura. Vederli fuggire così, entrare nelle case, asserragliarvisi per paura, mi suscita orrore. Li sento tutti colpevoli del Deicidio. Guarda là, Maria, quel vecchio. È già curvo sulla fossa e pure, or che la luce di quella porta che si apre lo illumina, mi pare di averlo visto sfilare accusando il mio Gesù, là, sul Calvario… Lo diceva ladro… Ladro il mio Gesù!… Quel giovane, poco più che un fanciullo, pronunciava sconce bestemmie invocando il Sangue su lui… Oh! infelice!… E quell’uomo? Così nerboruto e forte, si sarà astenuto dal colpirlo? Oh! non voglio vedere! Guardate: sui volti che hanno si sovrappone il volto dell’anima e… e non hanno più effigie di uomini, ma di demoni… Tanto erano coraggiosi contro il Legato, il Crocifisso… E ora fuggono, si nascondono, si rinserrano. Hanno paura. Di chi? Di un morto. Per loro non è che un morto, poiché negano che sia Dio. Di che dunque hanno paura? A chi chiudono le porte? Al rimorso. Alla punizione. Non giova. Il rimorso è in voi. E vi seguirà in eterno. E la punizione non è umana. E non servono serrami e bastoni, porte e sbarre contro di essa. Essa scende dal Cielo, da Dio, vendicatore del suo Immolato, e penetra oltre mura e porte, e con la sua fiamma celeste vi marca per il castigo soprannaturale che vi attende. Il mondo verrà al Cristo, al Figliuolo di Dio e mio, verrà a Colui che voi avete trafitto, ma voi sarete in eterno i segnati, i Caini di un Dio, marcati come l’obbrobrio della razza umana. Io che sono nata da voi, io che sono Madre di tutti, devo dire che a me, vostra figlia, voi siete stati più che patrigni e che, nello sterminato numero dei miei figli, voi siete quelli che più mi imponete fatica ad accogliervi, perché siete sozzi del delitto verso la mia Creatura. Né ve ne pentite dicendo: “Eri il Messia. Ti riconosciamo e ti adoriamo”. Ecco un’altra ronda romana. L’Amore non è più sulla Terra. La Pace non è più fra gli uomini. E l’Odio e la Guerra si agitano come quelle torce fumose. I dominatori hanno paura della folla scatenata. Sanno per esperienza che, quando quella belva che si chiama uomo ha sentito il sapore del sangue, diviene avida di strage… Ma non temete di questi. Questi non sono leoni né pantere reali. Sono vilissime iene. Si avventano sull’agnello inerme. Ma temono il leone armato di lance e di autorità. Non temete di questi striscianti sciacalli. Il vostro passo ferrato li pone in fuga e il brillare delle vostre lance li fa più miti di conigli.
12Quelle lance! Una ha aperto il cuore del Figlio mio! Quale fra esse? Vederle mi è freccia al cuore… Eppure vorrei averle tutte fra queste mani che tremano, per vedere quale è quella che ancora ha tracce di sangue, e dire: “È questa! Dammela, o soldato! Dàlla ad una madre in ricordo della tua madre lontana, ed io pregherò per lei e per te”. E nessun soldato me la negherebbe. Perché essi, gli uomini di guerra, furono i più buoni davanti all’agonia del Figlio e della Madre. Oh! perché lassù non pensai a questo? Ero come una che ha avuto colpito il capo. Già l’avevo intontito da quei colpi… Oh! quei colpi! Chi mi dà di non sentirli più, qui, nella mia povera testa? La lancia… Come la vorrei!…».
«La possiamo cercare, Maria. Il centurione mi parve molto buono con noi. Credo non me la negherà. Andrò domani».
«Sì, sì, Giovanni. Sono povera. Non ho che poco denaro. Ma me ne spoglio fino all’ultimo picciolo per avere quel ferro… Oh! come ho potuto non chiederlo allora?».
«Maria, cara, nessuno di noi sapeva di quella ferita… Quando la vedesti, i soldati erano lontani».
«È vero… Sono ebete dal dolore. E le vesti? Non ho nulla di suo! Darei il mio sangue per averle…». Maria piange di nuovo desolatamente.
13E giunge così nella via dove è il Cenacolo. È tempo, perché è esausta e si trascina proprio come una vecchia cadente. E lo dice.
«Fa’ cuore. Siamo giunte, ormai».
«Giunte? Tanto breve la via che stamane mi parve tanto lunga? Stamane? È stato stamane? Non di più? Quante ore o quanti secoli sono passati da quando vi sono entrata ieri sera e da quando ne sono uscita questa mattina? Sono proprio io, la Madre cinquantenne, o una vegliarda secolare, una donna di più tempi, ricca di secoli sulle spalle curvate e sulla testa canuta? Mi pare di avere vissuto tutto il dolore del mondo e che esso sia tutto sulle mie spalle che piegano sotto il suo peso. Croce incorporea, ma così pesante! Di pietra. Pesante forse più ancora di quella del mio Gesù. Perché io porto la mia e la sua col ricordo del suo strazio e con la realtà del mio strazio. Entriamo. Poiché si deve entrare. Ma non è un conforto. È un aumento di dolore. Da questa porta è entrato il Figlio mio per l’ultimo suo pasto. Da questa ne è uscito per andare incontro alla morte. E ha dovuto mettere il suo piede là dove il suo traditore l’aveva messo uscendo per chiamare i catturatori dell’Innocente. Contro quell’uscio ho visto Giuda… Giuda ho visto! E non l’ho maledetto. Ma gli ho parlato da madre straziata. Straziata per il Figlio buono e per il figlio malvagio… Ho visto Giuda! Il Demonio ho visto in lui! Io, che ho sempre tenuto Lucifero sotto il mio calcagno e guardando solo Iddio non ho mai abbassato l’occhio su Satana, ho conosciuto il suo volto guardando il Traditore. Ho parlato col Demonio… Ed esso è fuggito, perché non sopporta la mia voce. L’avrà lasciato ora? In modo che io possa parlare a quel morto e io, la Genitrice, tornare a concepirlo con il Sangue di un Dio per partorirlo alla Grazia? Giovanni, giurami che lo cercherai e che non sarai crudele con lui. Non lo sono io, che pur ne avrei diritto… Oh! Lasciatemi entrare in quella stanza dove il mio Gesù ha preso l’ultimo suo pasto. Dove la voce del mio Bambino ha detto le sue ultime parole in pace!».
«Sì. Anderemo. Ma ora, guarda, vieni qui, dove eravamo ieri. Riposa.
14Saluta Giuseppe e Nicodemo che si ritirano».
«Li saluto, sì. Oh! li saluto. Li ringrazio. Li benedico!».
«Ma vieni, vieni. Lo farai con più agio».
«No. Qui. Giuseppe… Oh! non ho conosciuto alcuno con questo nome che non mi amasse…».
Maria d’Alfeo dà in uno scoppio di pianto.
«Non piangere… Anche Giuseppe… Era per amore che tuo figlio sbagliava. Voleva darmi umanamente pace… Ma oggi!… Lo hai visto… Oh! tutti i Giuseppe sono buoni con Maria… Giuseppe, io ti dico grazie. E a te, Nicodemo… Il mio cuore si prostra sotto i vostri piedi stanchi per il tanto cammino fatto per Lui… per gli ultimi onori a Lui… Io non ho che il cuore da darvi… e ve lo do, amici leali del Figlio mio… e… e scusate ad una madre trafitta le parole che vi dissi nel sepolcro…».
«Oh! Santa! Tu perdona!», dice Nicodemo.
«Sta’ buona, ora. Riposa nella tua Fede. Domani verremo», aggiunge Giuseppe.
«Sì, verremo. Ai tuoi ordini siamo».
«È sabato domani», obietta la padrona di casa.
«Il sabato è morto. Verremo. Addio. Il Signore sia con voi», e se ne vanno.
15«Vieni, Maria».
«Sì, Madre, vieni».
«No. Aprite. Me lo avete promesso di farlo dopo i saluti. Aprite questa porta! Non potete chiuderla ad una madre. Ad una madre che cerca di respirare nell’aria l’odore del fiato, del corpo del suo Bambino. Ma non sapete che quel fiato e quel corpo gliel’ho dati io? Io, io che l’ho portato nove mesi, che l’ho partorito, allattato, allevato, curato? Quel fiato è mio! Quell’odore di carne è mio! È il mio, fatto più bello nel mio Gesù. Lasciatemelo sentire ancora una volta».
«Ma sì, cara. Domani. Ora sei stanca. Sei ardente di febbre. Non puoi. Stai male».
«Sì. Male. Ma è perché ho negli occhi la vista del suo Sangue e nel naso l’odore del suo Corpo piagato. Che io veda la tavola dove si appoggiò vivo e sano, che io senta il profumo del suo corpo giovanile. Aprite! Non me lo seppellite una terza volta! Già me lo avete celato sotto gli aromi e le bende, poi me lo avete serrato sotto la pietra. Ora perché, perché negare ad una Madre di ritrovare l’ultimo vestigio di Lui nell’alito che Egli ha lasciato oltre questa porta? Lasciatemi entrare. Cercherò per terra, sulla tavola, sul sedile, le tracce dei suoi piedi, delle sue mani. E le bacerò, le bacerò sino a consumarmi le labbra. Cercherò… cercherò… Forse troverò un capello del suo capo biondo. Un capello che non sia ingrommato di sangue. Ma lo sapete cosa è un capello del figlio per la sua mamma? Tu, Maria di Cleofa, tu Salome, siete madri. E non capite? Giovanni? Giovanni? Ascoltami. Io ti sono Madre. Egli mi ha fatto tale. Egli! Tu mi devi ubbidienza. Apri! Io ti amo, Giovanni. Ti ho sempre amato perché lo amavi. Ti amerò più ancora. Ma apri. Apri, dico! Non vuoi? Non vuoi? Ah! non ho dunque più figlio!? Gesù non mi ricusava mai nulla. Perché mi era figlio. Tu ricusi. Non sei tale. Non capisci il mio dolore… Oh! Giovanni, perdona… perdona… Apri… Non piangere… Apri… Oh! Gesù! Gesù!… Ascoltami… Il tuo spirito operi un miracolo! Apri alla tua povera Mamma quest’uscio che nessuno vuole aprire! Gesù! Gesù!».
Maria bussa con le mani serrate a pugno la porticina ben chiusa. È in un parossismo di strazio. Finché impallidisce e, mormorando: «Oh! mio Gesù! Vengo! Vengo!», si rovescia senza forza fra le braccia delle donne piangenti, che la sorreggono per impedirle di cadere ai piedi di quella porta e la trasportano così nella stanza di fronte.
Cap. DCXII: La notte del Venerdì Santo. Lamento della Vergine. Il velo di Niche e la preparazione degli unguenti.
29 marzo 1945.
1 Maria, soccorsa dalle donne piangenti, rinviene e piange senza altra forza più che questa di piangere e piangere. Pare veramente che la sua vita debba fluire e consumarsi tutta con quel pianto.
Le vogliono dare qualche ristoro. Marta le offre un poco di vino; la padrona di casa vorrebbe prendesse almeno un poco di miele; Maria d’Alfeo, in ginocchio davanti a Lei, le offre una tazza con del latte tiepido, dicendo: «L’ho munto io stessa alla capretta della piccola Rachele» (sarà una figlia di questi che sono in questa casa di Lazzaro, non so se come inquilini o come custodi). Ma Maria non vuole nulla. Piangere. Solo piangere. E chiedere e sentirsi promettere che saranno cercati apostoli e discepoli, che saranno cercate la lancia e le vesti, e che, a giorno fatto, posto che ora proprio non ve la vogliono lasciare andare, la lasceranno entrare nella stanza del Cenacolo.
«Sì. Se starai un poco quieta, se riposerai un poco, io ti ci condurrò», dice la cognata. «Noi due entreremo ed in ginocchio io cercherò per te ogni segno di Gesù…», e Maria d’Alfeo ha un singhiozzo. «Ma vedi? Qui hai la coppa e il pane spezzato da Lui, usato da Lui per l’Eucarestia. Quale più santo ricordo? Vedi? Giovanni te li ha portati sin da stamane, perché tu li vedessi questa sera…
2 Povero Giovanni, che è là che piange ed ha paura…».
«Paura? Perché? Vieni, Giovanni». Giovanni esce dall’ombra, perché nella stanza è una sola lucernetta messa sul tavolo presso gli oggetti della Passione, e si inginocchia ai piedi di Maria, che lo carezza e chiede: «Perché hai paura?».
E Giovanni, baciandole le mani e piangendo: «Perché tu stai male. Hai la febbre e l’affanno… E non ti metti quieta. E se duri così morirai come è morto Lui…».
«Oh! fosse vero!».
«No! Madre! Mamma! Oh! è più dolce dire: “Mamma”. Come alla mia! Làsciatelo dire… Ma, come io non trovo differenza fra mia madre e te, e anzi ti amo più di lei, perché tu sei la Mamma che Egli mi ha dato e sei la sua Mamma, tu non fare una troppo grande differenza fra il Figlio tuo nato e il figlio che ti è stato dato… E amami un poco come ami Lui… Se fosse Lui che ti dicesse: “Ho paura che tu muoia”, risponderesti tu: “Oh! fosse vero”? No. Non lo diresti. Ma anzi ti dorresti di andartene e di lasciarlo in un mondo di lupi, Lui, il tuo Agnello… E di me non te ne accori?… Sono tanto più agnello di Lui. Non per bontà e purezza, ma per stupidità e paura. Se tu mi manchi, il povero Giovanni verrà sbranato dai lupi senza aver saputo dare un belato che parli del suo Maestro… Vuoi che muoia così, senza servirlo? Stupido in morte come in vita? No, vero? E allora, Mamma, cerca di metterti quieta… Per Lui… Oh! non dici che risorge? Sì, lo dici, ed è vero. E allora vuoi che quando Egli risorgerà trovi vuota la casa di te? Perché certo Egli verrà qui… Oh! povero, povero Gesù, se invece del tuo grido d’amore sentisse i nostri di cordoglio, se invece di trovare il tuo seno per posare il Capo martirizzato e glorioso trovasse la chiusura del tuo sepolcro… Vivere devi. Per salutarlo quando Egli tornerà… Non dico “al nostro amore”. Noi meritiamo ogni rimprovero per il modo come agimmo. Ma al tuo amore.
3 Oh! che sarà l’incontro? Ed Egli come sarà? Madre della Sapienza, Mamma dell’ignorantissimo Giovanni, tu che tutto sai, dicci come sarà Egli quando apparirà risorto».
«Lazzaro aveva le ferite delle gambe chiuse, ma se ne vedeva il segno. E apparve avvolto in bende piene di marciume», dice Marta.
«Lo dovemmo lavare e lavare…», aggiunge Maria.
«E debole era, e dovemmo ristorarlo per suo ordine», Marta termina.
«Il figlio della vedova di Naim era come sbalordito e pareva un bimbo incapace di camminare e parlare speditamente, tanto che Egli lo rese alla madre perché gli insegnasse a usare di nuovo del bene della vita. E la figlioletta di Giairo Egli stesso la guidò nei primi passi…», dice Giovanni.
«Io penso che il mio Signore ci manderà un angelo a dirci: “Venite con una veste monda”. Ed il mio amore l’ha già preparata. È nel palazzo. Io non l’ho potuta filare. Ma l’ho fatta filare dalla mia nutrice, che ora è tranquilla sul mio futuro e non piange più. Io ho preso il lino più prezioso e da Plautina ho avuto la porpora, e Noemi l’ha tessuta nella balza; ed io ho fatto la cintura, la borsa e il talet, ricamandoli di notte per non essere vista. Ho imparato da te, Madre. Non è perfetto. Ma, più delle perle che fanno il suo Nome sulla cintura e sulla borsa, lo rendono bello i diamanti del mio pianto d’amore ed i miei baci. Ogni punto è un palpito di devozione per Lui. E io gli porterò quella. Tu permetti, non è vero?».
«Oh!… Io non pensavo che lo privassero della sua veste… non sono pratica degli usi del mondo e della sua ferocia… Credevo di conoscerla già… (e le lacrime rotolano di nuovo lungo le guance ceree) ma vedo che ancora nulla sapevo… E pensavo: “Avrà la veste della Mamma anche dopo”. Gli piaceva tanto!
L’aveva voluta Lui così. E me lo aveva detto da molto tempo: “Tu farai una veste così e così. E me la porterai per la Pasqua… Perché Gerusalemme mi deve vedere in porpurea veste di re…”. Oh! quella lana, candida più di neve, mentre la filavo diveniva rossa agli occhi di Dio e miei, perché il mio cuore ebbe una nuova ferita da quella parola… Le altre, dopo anni o dopo mesi, si erano, se non chiuse, disseccate dal loro gemere sangue. Ma questa! Ogni giorno, ogni ora mi rigirava la spada nel cuore: “Un giorno di meno! Un’ora di meno! E poi sarà morto!”. Oh! Oh!… E il filato sul fuso o sul telaio mi diveniva rosso… È sceso nella tinta, poi, per il mondo… Ma era già rosso…». Maria piange di nuovo.
Cercano sollevarla parlandole della Risurrezione. Chiede Susanna: «Che dici tu? Come sarà, risorto? E come risorgerà?».
E Lei, smarrita, acciecata in quest’ora di martirio redentivo, risponde: «Non so… Più nulla so… Fuorché che Egli è morto!…».
4 Ha un nuovo scoppio di pianto violento e bacia il lino che era ai fianchi del Figlio, e se lo stringe sul cuore e se lo ninna come fosse un bambino…
E tocca i chiodi, le spine, la spugna, e urla: «Queste! Queste cose ha saputo darti la tua Patria! Ferro, spine, aceto e fiele! E insulti, insulti, insulti! E fra tutti i figli d’Israele fu dovuto scegliere un di Cirene per portarti la croce. Quell’uomo mi è sacro come uno sposo. E se ne conoscessi un altro che ha dato soccorso al mio Bambino io gli bacerei i piedi. Ma dunque nessuno ebbe pietà? Uscite! Andate! Anche vedere voi mi è dolore! Perché fra tutti, fra tutti, non avete saputo ottenere nemmeno una tortura meno crudele. Servi inutili e inerti del vostro Re, uscite!». È tremenda nel suo scatto. Ritta in piedi, rigida, pare persino più alta, con gli occhi imperiosi, il braccio teso che accenna alla porta. Comanda come un regina sul trono.
Escono tutti senza reagire per non eccitarla di più e si siedono fuori della porta chiusa, ascoltando il suo gemere ed ogni rumore che Ella possa fare. Ma dopo il rumore del sedile respinto e dei suoi ginocchi che battono al suolo, perché Ella si inginocchia col capo contro la tavola su cui sono gli oggetti della Passione, non sentono altro che il suo pianto senza soste e conforto.
Ella mormora, ma così piano che quelli di fuori non possono udire: «Padre, Padre, perdono! Divento superba e cattiva. Ma Tu lo vedi. È vero ciò che dico. Erano turbe intorno a Lui. E tutta la Palestina è, in queste feste, fra le mura sante… Sante? No. Non più sante… Tali sarebbero rimaste se Egli fosse spirato in esse. Ma Gerusalemme l’ha espulso come il rigurgito che fa nausea. Perciò in Gerusalemme è solo il Delitto… Ebbene, di tutto questo popolo che lo seguiva non se ne poté radunare un pugno che si imponesse, non dico per salvarlo. Doveva morire per redimere. Ma per farlo morire senza tante torture. Sono stati nell’ombra, oppure sono fuggiti… Il mio cuore si rivolta davanti a tanta viltà. Sono la Madre. Per questo perdona al mio peccato di durezza superba…», e piange…
…Fuori gli altri sono sulle spine e per molti motivi.
5 Rientra il padrone di casa, che era uscito a curiosare, e porta notizie tremende. Si dice che molti sono morti nel terremoto, molti sono stati feriti in colluttazioni fra seguaci del Nazzareno e i giudei, che molti sono stati arrestati e vi saranno nuove esecuzioni per rivolte e minacce a Roma, che Pilato ha ordinato l’arresto di tutti i seguaci del Nazareno e dei capi del Sinedrio presenti in città o anche già fuggiti per la Palestina, che Giovanna è morente nel suo palazzo, che Mannaen è stato arrestato da Erode per averlo insolentito in piena Corte come complice del deicidio. Insomma un mucchio di notizie catastrofiche…
Le donne gemono. Non tanto per paura di esse stesse, ma quanto per i loro figli e mariti. Susanna pensa allo sposo, noto fra i seguaci di Gesù in Galilea. Maria di Zebedeo pensa al marito, ospite presso un amico, e al figlio Giacomo di cui, dalla sera avanti, non ha notizia. E Marta singhiozza: «Saranno già andati a Betania! Chi non sapeva chi era Lazzaro per il Maestro?».
«Ma è protetto da Roma, lui», rimbecca Maria Salome.
«Oh! protetto! Chissà, con l’odio che per noi hanno i capi d’Israele, che accuse portano contro di lui a Pilato… Oh! Dio!». Marta si mette le mani fra i capelli e grida: «Le armi! Le armi! La casa ne è piena… e anche il palazzo! Lo so! Stamane, all’aurora, è venuto Levi, il guardiano, e mi ha detto… Ma già lo sai anche tu! E l’hai detto ai giudei sul Calvario… Stolta! Hai messo in mano ai crudeli l’arma per uccidere Lazzaro!…».
«L’ho detto, sì. Ho detto il vero senza saperlo. Ma taci, spaventata gallina! Quanto ho detto è la più sicura garanzia per Lazzaro. Si guarderanno bene dall’avventurarsi in ricerche dove sanno essere degli armati! Sono vigliacchi!».
«I giudei sì. Ma i romani no».
«Non temo Roma. È giusta e pacata nelle sue disposizioni».
«Maria ha ragione», dice Giovanni. «Longino mi ha detto: “Spero sarete lasciati tranquilli. Ma, non lo foste, vieni, o manda al Pretorio. Pilato è benigno verso i seguaci del Nazareno. Lo era anche per Lui. Vi difenderemo”».
«Ma se i giudei fanno da loro? Ieri sera erano loro i catturatori di Gesù! E, se dicono che noi siamo profanatori, hanno diritto di prenderci. Oh! i miei figli! Quattro ne ho! Dove saranno Giuseppe e Simone? Erano sul Calvario e poi sono scesi quando Giovanna non resse. Per aiutare e difendere le donne. Loro, i pastori, Alfeo… tutti! Oh! li avranno certo già uccisi. Senti che Giovanna è morente? Lo è certo per ferita. Ed essi, prima che potesse la plebe colpire una donna, l’avranno difesa e saranno morti!… E Giuda e Giacomo? Il mio piccolo Giuda! Il mio tesoro! E Giacomo, dolce come una fanciulla! Oh, non ho più figli! Come la madre dei fanciulli Maccabei sono!…».
6 Piangono tutte disperatamente. Tutte meno la padrona di casa, che è andata a cercare un nascondiglio per il marito, e Maria Maddalena, che non piange. Ma getta fuoco dagli occhi, tornando la prepotente donna di un tempo. Non parla. Ma dardeggia le abbattute compagne, e il suo occhio le bolla di un epiteto molto chiaro: «Pusillanimi!».
Passa del tempo così… Ogni tanto uno si alza, apre piano l’uscio, sbircia, torna a chiudere.
«Che fa?», chiedono gli altri.
E chi ha guardato risponde: «È sempre in ginocchio. Prega», oppure: «Pare che parli con qualcuno». E anche: «Si è alzata e gestisce andando su e giù per la stanza».
[senza data]
7 Lamento della Vergine.
«Gesù! Gesù! Gesù! Dove sei? Mi senti ancora? La senti la tua povera Mamma che grida, adesso, il tuo Nome dopo averlo tenuto in cuore per tante ore? Il tuo Nome santo e benedetto, che è stato il mio amore, l’amore delle mie labbra che sentivano sapore di miele a dire il tuo Nome, delle mie labbra che ora, invece, a dirlo pare che bevano l’amaro che t’è rimasto sulle labbra, l’amaro dell’atroce mistura. Il tuo Nome, amore del mio cuore che si gonfiava di gioia quando lo diceva, così come si era dilatato per travasare il suo sangue e accoglierti e vestirti di esso quando sei sceso a me dal Cielo, così piccino, così minuscolo che avresti potuto posare nel calice della menta selvatica, Tu, tanto grande, Tu, il Potente, annichilito in un germe d’uomo per la salute del mondo. Il tuo Nome, dolore del mio cuore, ora che ti hanno strappato alle carezze della tua Mamma per gettarti fra le braccia dei carnefici, che ti hanno torturato sino a farti morire!
Ne ho il cuore stritolato da questo tuo Nome, che ho dovuto chiudere dentro per tante ore e che cresceva il suo grido più cresceva il tuo dolore, fino a sbriciolarlo come cosa calpestata dal piede di un gigante. Oh! sì che il mio dolore è gigante e mi schiaccia, mi frantuma e non vi è nulla che lo possa sollevare. A chi lo dico il tuo Nome? Nulla risponde al mio grido. Anche se io urlassi sino a spezzare la pietra che chiude il tuo sepolcro, Tu non lo udresti, perché sei morto. Non la senti più la tua Mamma!
8 Quante volte non ti ho chiamato, o Figlio, in questi trentaquattro anni! Da quando ho saputo che avrei dovuto esser Madre e che il mio Piccino si sarebbe chiamato “Gesù”! Tu non eri nato ed io, carezzandomi il seno dove Tu crescevi, chiamavo piano: “Gesù!”, e mi pareva che Tu ti muovessi per dirmi: “Mamma!”.
Io ti davo già una voce. Me la sognavo già la tua voce. La udivo prima che fosse. E quando l’ho sentita, esile come quella di un agnellino appena nato, tremare nella notte fredda in cui sei nato, io ho conosciuto l’abisso della gioia… e credevo aver conosciuto l’abisso del dolore, perché era il pianto della mia Creatura che aveva freddo, che era in disagio, che piangeva il suo primo pianto di Redentore, ed io non avevo fuoco e cuna e non potevo soffrire in tua vece, Gesù. Non avevo che il seno per fuoco e guanciale, e il mio amore per adorarti, Figlio mio santo.
Credevo aver conosciuto l’abisso del dolore… Era l’alba di quel dolore, era l’orlo di quel dolore. Ora è il meriggio, ora è il fondo. Questo è l’abisso, questo che tocco ora dopo esservi scesa in questi trentaquattro anni, sospinta da tante cose e prostrata nel fondo orrendo, oggi, della tua croce.
Quando eri piccino, io ti cullavo cantando: “Gesù! Gesù!”. Quale armonia più bella e santa di questo Nome, che fa sorridere gli angeli in Cielo? Esso per me era più bello del canto così dolce degli angeli nella notte del tuo Natale. Vi vedevo dentro il Cielo, tutto il Cielo vedevo attraverso quel Nome. Ed ora, a dirlo a Te che sei morto e non mi senti e non rispondi, come Tu non fossi mai stato, io vedo l’Inferno, tutto l’Inferno. Ecco, ora capisco cosa vuol dire esser dannati. È non potere più dire: “Gesù”. Orrore! Orrore! Orrore!…
9 Quanto durerà questo inferno per la tua Mamma? Tu hai detto: “In capo a tre giorni Io riedificherò questo Tempio”. È tutt’oggi che mi ripeto queste tue parole per non cadere uccisa, per esser pronta a salutarti al tuo ritorno, a servirti ancora… Ma come potrò saperti morto per tre giorni? Tre giorni nella morte Tu, Tu, Vita mia?
Ma come? Tu che tutto sai, poiché sei la Sapienza infinita, non lo sai lo spasimo della tua Mamma? Non te lo puoi figurare ricordando quando ti ho smarrito a Gerusalemme e Tu mi hai visto fendere la folla, che ti stava intorno, con il volto di una naufraga che tocca il lido dopo tanta lotta con l’onde e la morte, col viso di una che esce da una tortura spossata, svenata, invecchiata, spezzata? E allora ti potevo pensare unicamente smarrito. Potevo illudermi che era solo così. Oggi no. Oggi no. Lo so che sei morto. Non è possibile l’illusione.Ti ho visto uccidere. Ecco, anche se il dolore mi smemorasse, ecco qui il tuo Sangue sul mio velo che mi dice: “È morto! Non ha più sangue! Questo è l’ultimo, sgorgato dal suo Cuore!”. Dal suo Cuore! Dal Cuore del mio Bambino! Del Figlio mio! Del mio Gesù! Oh! Dio, Dio pietoso, non mi far ricordare che gli hanno spaccato il Cuore!…
10Gesù! Non posso stare qui, sola, mentre Tu sei là, solo. Io che non ho amato mai le vie del mondo e le folle, e Tu lo sai, da quando Tu hai lasciato Nazareth ti sono venuta sempre più sovente dietro, per non vivere lontano da Te. Non potevo vivere lontana da Te. Ho affrontato curiosità e scherni, non conto le fatiche perché esse si annullavano nel vederti, pur di vivere dove Tu eri. Ed ora io son qua sola. E Tu sei là solo! Perché non mi hanno lasciata nel tuo sepolcro? Mi sarei seduta presso il tuo gelido letto, tenendoti una mano nelle mie per farti sentire che t’ero vicina… No, per sentire che m’eri vicino. Tu non senti più nulla. Sei morto!
Quante volte ho passato le notti presso la tua cuna, pregando, amando, beandomi di Te! Vuoi che ti dica come dormivi, coi pugnetti chiusi come due bocci di fiore presso il visino santo? Vuoi che ti dica come sorridevi nel sonno e, ricordandoti certo del latte della Mamma, dormendo facevi l’atto di succhiare? Vuoi che ti dica come ti svegliavi e aprivi gli occhietti e ridevi, vedendomi curva sul tuo viso, e tendevi le manine con gioia impaziente per esser preso, e con uno stridetto dolce come il trillo di un capinero reclamavi il tuo cibo? Ah! che ero beata quando ti attaccavi al mio seno e sentivo il tepore liscio della tua gota, la carezza delle tue manine sulla mia mammella! Non sapevi stare senza la tua Mamma.
E ora sei solo! Perdonami, Figlio, d’averti lasciato solo. Di non essermi ribellata per la prima volta nella vita e di aver voluto restare là. Era il mio posto. Mi sarei sentita meno desolata se fossi stata presso il tuo funebre letto, ad accomodarti le fasce come un tempo, a mutarle… Anche se Tu non avessi potuto sorridermi e parlarmi, a me sarebbe parso di averti di nuovo piccino. Ti avrei accolto sul cuore per non farti sentire il freddo della pietra, il duro del marmo. Non ti ho tenuto anche oggi? Il grembo di una madre è sempre capace di accogliere il figlio, anche se è uomo. Il figlio è sempre un bambino per la sua mamma, anche se è un deposto di croce, coperto di piaghe e ferite.
11Quante! quante ferite! Quanto dolore! Oh! il mio Gesù, il mio Gesù tanto ferito! Così ferito! Così ucciso! No. No. Signore, no! Non può esser vero! Io sono pazza! Gesù morto? Io deliro. Gesù non può morire! Soffrire, sì. Morire, no. Egli è la Vita! Egli è Figlio di Dio. È Dio. Dio non muore.
Non muore? E allora perché si è chiamato Gesù? Che vuol dire “Gesù”? Vuol dire… oh! vuol dire: “Salvatore”! È morto! È morto perché è il Salvatore! Ha dovuto salvare tutti perdendo Se stesso… Non deliro. No. Non sono pazza. No. Lo fossi! Soffrirei meno! Egli è morto. Ecco il suo Sangue. Ecco la sua corona. Ecco i tre chiodi. Con questi, con questi me lo hanno trafitto!
Uomini, guardate con che avete trafitto Dio, il Figlio mio! E vi devo perdonare. E vi devo amare. Perché Egli vi ha perdonati. Perché Egli mi ha detto di amarvi! Mi ha fatto Madre vostra, Madre degli assassini della mia Creatura! Una delle sue ultime parole, lottando contro il rantolo dell’agonia… “Madre, ecco tuo figlio… i tuoi figli!”. Anche non fossi Colei che ubbidisce, avrei dovuto ubbidire oggi, perché era il comando di un morente.
Ecco. Ecco, Gesù. Io perdono. Io li amo. Ah! mi si spezza il cuore in questo perdono e in questo amore! Mi senti che li perdono e che li amo? Prego per loro. Ecco, prego per loro… Chiudo gli occhi per non vedere questi oggetti della tua tortura, per poterli perdonare, per poterli amare, per poter pregare per loro. Ogni chiodo serve a crocifiggere una mia volontà di non perdonare, di non amare, di non pregare per i tuoi carnefici.
12Devo, voglio pensare di essere presso la tua cuna. Pregavo anche allora per gli uomini. Ma allora era facile. Tu eri vivo ed io, per quanto pensassi crudeli gli uomini, non giungevo mai a pensare che potessero esserlo tanto con Te, che li avevi beneficati oltre misura. Pregavo, convinta che la tua parola li avrebbe fatti più buoni. In cuor mio dicevo loro, guardandoli: “Siete cattivi, malati, ora, fratelli. Ma fra poco Egli parlerà, ma fra poco Egli vincerà in voi Satana. Vi darà la Vita perduta!”. La vita perduta! Tu, Tu, Tu l’hai perduta la vita per loro, Gesù mio!
Se, quando eri nelle fasce, io avessi potuto vedere l’orrore di questo giorno, il mio dolce latte si sarebbe mutato in tossico per il dolore! Simeone l’ha detto: “E una spada ti trapasserà il cuore”. Una spada? Una selva di spade! Quante ferite ti hanno fatto, Figlio? Quanti gemiti hai avuto? Quanti spasimi? Quante gocce di sangue hai versato? Ebbene, ognuna è una spada in me. Sono una selva di spade. In Te non c’è lembo di pelle che non sia piagato. In me non ce ne è che non sia trafitto. Mi trapassano le carni e penetrano nel cuore.
13Quando attendevo la tua nascita, ti preparavo le fasce ed i pannilini filando il lino più morbido della terra. Non ho guardato al prezzo per poter possedere lo stame più liscio. Come eri bello nelle fasce della tua Mamma! Tutti mi dicevano: “È bello il tuo Bambino, Donna!”. Eri bello! Dal bianco del lino sporgeva la tua rosea faccina, avevi due occhietti più azzurri del cielo e la testolina pareva avvolta in una nebbia d’oro, tanto i tuoi capellini erano biondi e soffici. Sapevano di fior di mandorlo appena sbocciato. Credevano che io ti profumassi. No. Il mio Tesoro non aveva che il profumo delle fasce lavate dalla sua Mamma, scaldate, baciate dal suo cuore e dal suo labbro. Non ero mai stanca di lavorare per Te…
E ora? Ora non ho più nulla da fare per Te. Da tre anni eri lontano da casa. Ma eri ancora lo scopo dei miei giorni. Pensare a Te. Alle tue vesti. Al tuo cibo: intridere la farina e farne pane, curare le api per darti il miele, vegliare sulle piante perché ti dessero frutta. Come le amavi, le cose che ti portava la tua Mamma! Nessun cibo di ricca mensa, nessuna veste di preziosa stoffa t’erano come queste tessute, cucite, curate, colte dalle mani della tua Mamma. Quando ti raggiungevo, Tu mi guardavi subito le mani, come quando eri piccino ed io e Giuseppe ti davamo i poveri doni per farti sentire che eri il “nostro” Re. Non sei mai stato goloso, Bambino mio; ma era l’amore che cercavi, era questo il tuo cibo, e nelle nostre premure trovavi quello. Anche ora trovavi, cercavi quello, povero Figlio mio così poco amato dal mondo!
Ora più nulla. Tutto è compiuto. Non farà più nulla per Te la tua Mamma. Non hai più bisogno di nulla. Ora sei solo… ed io son sola… Oh! felice Giuseppe che non si è trovato a questo giorno! Io pure non ci fossi più stata! Ma allora Tu non avresti avuto neppure questo conforto di vedere la tua povera Mamma. Saresti stato solo sulla croce come sei solo nel sepolcro. Solo con le tue ferite.
14Oh! Dio! Dio, quante ferite ha il Figlio tuo, il Figlio mio! Come le ho potute vedere senza morire, io che tramortivo quando da piccino ti facevi male? Una volta sei caduto nell’orto di Nazareth e ti sei ferito la fronte. Poche gocce di sangue. Ma io, che m’ero sentita morire vedendo gocciare il tuo sangue nella circoncisione, e Giuseppe dovette sostenermi perché tremavo come una che muore, mi pareva che quella ferita minuscola t’avesse ad uccidere, e più col pianto che coll’acqua e coll’olio l’ho medicata, e non ho avuto bene se non quando non ha dato più sangue. Un’altra volta, imparavi a lavorare, ti feristi con la sega. Una piccola ferita. Ma era come se la sega mi avesse divisa nel mezzo. Non ho avuto requie che quando, sei giorni dopo, ho visto risanata la tua mano.
Ed ora? Ed ora? Ora hai le mani, i piedi, il costato aperto, ora la tua carne cade a brandelli, ora hai la faccia contusa, quella faccia che io non osavo sfiorarti col bacio, e impiagata la fronte e la nuca. E nessuno ti ha dato medicamento e conforto.
15Guardami il cuore, o Dio che mi hai percossa nella mia Creatura! Guardalo! Non è piagato come il Corpo del Figlio tuo e mio? I flagelli sono scesi come grandine su me, mentre Egli era colpito. Che è la distanza per l’amore? Io ho patito la tortura di mio Figlio! L’avessi patita io sola! Fossi io sulla pietra sepolcrale! Guardami, o Dio! Non goccia sangue il mio cuore?
Ecco il cerchio delle spine. Lo sento. È una fascia che me lo stringe e perfora. Ecco il foro dei chiodi: tre stili infissi nel cuore. Oh! quei colpi! quei colpi! Come non è crollato il Cielo per quei colpi sacrileghi nelle carni di Dio? E non poter urlare! Non poter lanciarmi e strappare l’arma agli assassini e farne difesa per la mia Creatura già morente. Ma doverli udire, udire… e non far nulla! Un colpo sul chiodo, e il chiodo entra nelle carni vive. Un altro colpo, ed entra più ancora. E un altro, e un altro, e si spezzano le ossa e i nervi, e viene trafitta la carne del mio Bambino e il cuore della sua Mamma! E quando ti hanno alzato sulla tua croce? Quanto devi aver sofferto, Figlio santo! Vedo ancora lacerarsi la tua mano nella scossa della caduta. Ho il cuore lacerato come essa.
Sono contusa, flagellata, punta, colpita, trafitta come Te. Non ero con Te sulla croce. Ma guardala, la tua Mamma! È diversa da Te? No, non c’è differenza di martirio. Anzi, il tuo è finito. Il mio dura ancora. Tu non odi più le accuse bugiarde; io le sento. Tu non odi più le bestemmie orrende. Io le sento ancora. Tu non senti più il morso delle spine e dei chiodi e la sete e la febbre. Io sono piena di punte di fuoco e sono come chi muore di arsione e delirio.
16Almeno una goccia d’acqua mi avessero lasciato darti. Il mio pianto, se la ferocia degli uomini negava al Creatore l’acqua da Lui creata. Ti ho dato tanto latte, perché eravamo poveri, Figlio mio, e nella fuga in Egitto avevamo tanto perduto e avevamo dovuto rifarci un tetto, dei mobili e vesti e cibo, né sapevamo quanto l’esilio sarebbe durato, né cosa avremmo trovato tornando al paese. Ti ho dato il latte oltre il solito tempo, perché Tu non sentissi mancanza di cibo. Sinché non fu presa la capretta, la tua capretta fui io, Bambino della tua Mamma. Tu avevi già tanti dentini, e mordevi… Oh! gioia vederti ridere nel giuoco infantile!…
Tu volevi camminare. Eri tanto sano e forte. Io ti sorreggevo per ore e ore, e non sentivo spezzarsi le reni nello stare curva su Te, che facevi i tuoi passetti e dicevi ad ogni passo: “Mamma, Mamma!”. Oh! beatitudine sentirti cantare quel nome! Lo dicevi anche oggi: “Mamma, Mamma!”. Ma la tua Mamma non poteva che vederti morire! Neppure accarezzarti i piedi potevo! I piedi? Ah! non avrei potuto, anche se fossero stati alla portata della mia mano, toccarli, per non accrescerne il tormento. Come dovevano soffrire i tuoi poveri piedi, o mio Gesù!
Fossi potuta salire a Te e mettermi fra il legno e il tuo Corpo, e impedire che nelle convulsioni dell’agonia Tu urtassi contro il legno! La sento ancora la tua testa battere nel legno negli ultimi sussulti. E quel suono, quel suono mi fa impazzire. L’ho nella testa… come un martello…
Torna, torna, Figlio caro, Figlio adorato, Figlio santo! Io muoio. Non reggo a questa mia desolazione. Mostrami di nuovo il tuo volto. Chiamami ancora. Io non posso pensarti senza voce, senza sguardo, spoglia fredda e senza vita.
Oh! Padre, soccorrimi Tu! Gesù non mi sente! Non è finita la Passione? Non è tutto compiuto? Non bastano questi chiodi, queste spine, questo sangue, questo mio pianto? Ancora dell’altro ci vuole per guarire l’uomo?
17Padre, ti nomino gli strumenti del suo dolore ed il mio pianto. Ma questo è il meno. Quello che lo ha fatto morire sovrumanamente straziato è stato il tuo abbandono. Quello che mi fa urlare è il tuo abbandono. Non ti sento più! Dove sei, Padre santo? Ero la Piena di Grazia. L’Angelo l’ha detto: “Ave, Maria, piena di Grazia, il Signore è con te e tu sei benedetta fra tutte le donne”.
No. Non è vero! Non è vero! Io sono come una maledetta da Te per il suo peccato. Tu non sei più con me. La Grazia si è ritirata come se io fossi una seconda Eva peccatrice. Ma io ti sono sempre stata fedele. In che t’ho dispiaciuto? Hai fatto di me ciò che t’è parso, e ti ho sempre detto: “Sì, Padre. Son pronta”.
Possono dunque mentire gli angeli? E Anna, che m’ha assicurato che Tu mi avresti dato il tuo angelo nell’ora del dolore? Sono sola. Non ho più grazia agli occhi tuoi, non ho più Te, Grazia, in me. Non ho più angelo. Mentono dunque i santi? In che ti ho dispiaciuto, se essi non mentono ed io ho meritato quest’ora?
E Gesù? In che ha mancato il tuo Agnello puro e mansueto? In che ti abbiamo offeso che, oltre al martirio dato dagli uomini, si debba avere la tortura incalcolabile del tuo abbandono? Lui, Lui poi, che t’era Figlio e che ti chiamava con quella voce che ha fatto rabbrividire la Terra e scuotersi in un singulto di pietà. Come hai potuto lasciarlo solo in tanto tormento?
Povero Cuore di Gesù che ti amava tanto! Dove è il segno della ferita del Cuore? Eccolo. Guarda, Padre, questo segno. Qui è l’impronta della mia mano penetrata nello squarcio della lanciata. Qui… qui… Non pianto, non bacio della sua Mamma, che ha arsi gli occhi e consumate le labbra per il piangere e il baciare, lo cancellano. Questo segno grida e rimprovera. Questo segno, più del sangue di Abele, grida a Te dalla Terra. E Tu, che hai maledetto Caino e ne hai fatto le vendette, non sei intervenuto per il mio Abele, già svenato dai suoi Caini, ed hai permesso l’ultimo spregio! Tu gli hai stritolato il Cuore col tuo abbandono e hai lasciato che un uomo lo mettesse a nudo, perché io lo vedessi e ne fossi stritolata. Ma di me non importa. È di Lui, di Lui che ti chiedo e ti chiamo a rispondere. Non dovevi…
18Oh! perdono! Perdono, Padre santo! Perdona ad una Madre che piange la sua Creatura… È morto! È morto il Figlio mio! Morto col Cuore squarciato! Oh! Padre! Padre, pietà! Io ti amo! Noi ti abbiamo amato e Tu ci hai tanto amati. Come hai permesso che fosse ferito il Cuore del nostro Figlio? Oh! Padre!… Padre, pietà di una povera donna! Io bestemmio, Padre! Io serva tua, tuo nulla, oso rimproverarti! Pietà! Sei stato buono. Sei stato buono. La ferita, l’unica ferita che non gli ha fatto male, è questa. Il tuo abbandono ha servito a farlo morire avanti al tramonto per evitargli altre torture.
Sei stato buono. Tutto fai con fine di bontà. Siamo noi creature che non comprendiamo. Sei stato buono. Buono sei stato! Dilla, anima mia, questa parola, per levare il mordente del tuo soffrire al tuo soffrire. Dio è buono e ti ha sempre amata, anima mia. Dalla cuna a quest’ora ti ha sempre amata. Ti ha dato tutta la gioia del Tempo. Tutta. Ti ha dato Lui stesso. È stato buono. Buono. Buono. Grazie, Signore. Che Tu sia benedetto per la tua infinita bontà!
Grazie. Gesù, dico “grazie” anche per Te. Questa almeno non l’hai sentita, Figlio mio! Io sola l’ho sentita nel mio, quando ho visto il tuo Cuore aperto. Ora è nel mio la tua lancia, e fruga, e strazia. Ma meglio così! Tu non la senti. Ma Gesù, pietà! Un segno da Te! Una carezza, una parola per la tua povera Mamma dal cuore straziato! Un segno, un segno, Gesù, se mi vuoi trovare viva al tuo ritorno!».
[29 marzo 1945]
19Un picchio risoluto all’uscio fa sobbalzare tutti. Il padrone di casa fugge coraggiosamente. Maria di Zebedeo vorrebbe che il suo Giovanni lo seguisse e lo spinge verso il cortile. Le altre, meno la Maddalena, si stringono l’una coll’altra gemendo.
È Maria di Magdala che va dritta e forte all’uscio e chiede: «Chi bussa?».
Una voce di donna risponde: «Sono Niche. Ho una cosa da dare alla Madre. Aprite! Presto. La ronda è in giro».
Giovanni, che si è svincolato dalla madre ed è corso presso la Maddalena, lavora intorno ai molteplici serrami, tutti ben assicurati questa sera. Apre. Entra Niche con la servente ed un uomo nerboruto che le scorta. Chiudono.
«Ho una cosa…», e piange Niche e non può parlare…
«Che? Che?». Le sono tutti addosso, curiosi.
«Sul Calvario… Ho visto il Salvatore in quello stato… Avevo preparato il velo lombare perché non usasse i cenci dei boia… Ma era tanto sudato, col sangue negli occhi, che ho pensato darglielo perché si asciugasse. Ed Egli lo ha fatto… E mi ha reso il velo. Io non l’ho usato più… Volevo tenerlo per reliquia col suo sudore e il suo sangue. E vedendo l’accanimento dei giudei, dopo poco, con Plautina e le altre romane Lidia e Valeria, insieme, abbiamo deciso di tornare indietro. Per paura che ci levassero questo lino. Le romane son donne virili. Ci hanno messe nel mezzo, io e la servente, e ci hanno protette. È vero che sono contaminazione per Israele… e che toccare Plautina è pericolo. Ma ciò si pensa in tempi di calma. Oggi erano tutti ubbriachi… A casa ho pianto… per ore… Poi è venuto il terremoto e sono svenuta… Rinvenuta, ho voluto baciare quel lino e ho visto… oh!… Vi è sopra la faccia del Redentore!…».
«Fa’ vedere! Fa’ vedere!».
«No. Prima alla Madre. È il suo diritto».
«È tanto sfinita! Non resisterà…».
«Oh! non lo dite! Le sarà di conforto, invece. Avvertitela!».
20Giovanni bussa piano all’uscio.
«Chi è?».
«Io, Madre. Fuori è Niche… È venuta nella notte… Ti ha portato un ricordo… un dono… Spera darti conforto con quello».
«Oh! un solo dono mi può confortare! Il sorriso del suo Volto…».
«Madre!». Giovanni l’abbraccia per tema che cada e dice, come confidasse il Nome vero di Dio: «Quello è. Il sorriso del suo Volto, impresso nel lino con cui Niche lo ha asciugato sul Calvario».
«Oh! Padre! Dio altissimo! Figlio santo! Eterno Amore! Siate benedetti! Il segno! Il segno che vi ho chiesto! Fàlla, fàlla entrare!».
Maria si siede perché non si regge più e, mentre Giovanni fa cenno alle donne, che occhieggiano, che Niche passi, Ella si ricompone.
Niche entra e si inginocchia ai suoi piedi con la servente accanto. Giovanni, ritto in piedi, presso Maria, le tiene il braccio dietro le spalle come per sorreggerla. Niche non dice una parola. Ma apre il cofano, estrae il lino, lo spiega. E il Volto di Gesù, il Volto vivo di Gesù, il doloroso e pur sorridente Volto di Gesù, guarda la Madre e le sorride.
Maria ha un grido di amore doloroso e tende le braccia. Le donne le fanno eco dal vano dell’uscio dove si affollano. E la imitano nell’inginocchiarsi davanti al Volto del Salvatore.
Niche non trova una parola. Passa il lino dalle sue alle mani materne e si curva poi a baciarne il lembo. E poi esce a ritroso, senza attendere che Maria rinvenga dalla sua estasi.
Se ne va… È già fuori, nella notte, quando pensano a lei… Non resta che chiudere il portone come era prima.
Maria è di nuovo sola. In un colloquio d’anima con l’effigie del Figlio, perché tutti si ritirano di nuovo.
21Altro tempo passa. Poi Marta dice: «Come faremo per gli unguenti? Domani è sabato…».
«E non potremo prendere nulla…», dice Salome.
«E bisognerebbe farlo… Molte libbre di aloe e mirra… ma era così mal lavato…».
«Bisognerebbe avere pronto tutto per l’aurora del primo giorno dopo il sabato», osserva Maria d’Alfeo.
«E le guardie? Come faremo?», chiede Susanna.
«Lo diremo a Giuseppe, se non ci lasciano entrare», risponde Marta.
«Non potremo da noi spostare la pietra».
Risponde la Maddalena: «Oh! in cinque dici che non potremo? Siamo robuste tutte… e l’amore fa il resto».
«E poi verrò io con voi», dice Giovanni.
«Tu no proprio. Non voglio perdere anche te, figlio».
«Ma non ci pensare. Basteremo noi».
«Ma intanto… Chi ci dà gli aromi?».
Restano tutte accasciate… Poi Marta dice: «Potevamo chiedere a Niche se era vero di Giovanna… delle sommosse…».
«È vero! Ma ebeti siamo. Potevamo allora prendere anche gli aromi. Isacco era sul suo uscio quando tornammo…».
22«In palazzo sono molti vasetti d’essenze, e c’è incenso fino. Vado a prenderli». E Maria Maddalena si alza dal suo posto e si mette il manto.
Marta grida: «Tu non andrai».
«Io andrò».
«Sei folle! Ti prenderanno!».
«Tua sorella ha ragione. Non andare!».
«Oh! che inutili e urlanti femmine che siete! Invero che Gesù aveva una bella schiera di seguaci! Avete già esaurito la vostra riserva di coraggio? A me, invece, più ne uso e più me ne viene».
«Andrò io con lei. Sono un uomo».
«E io sono tua madre e te lo proibisco».
«Sta’ buona, Maria Salome, e sta’ buono, Giovanni. Vado sola. Non ho paura. So cosa è girare di notte per le vie. L’ho fatto mille volte per il peccato… e dovrei temere ora che vado per servire il Figlio di Dio?».
«Ma oggi la città è in rivolta. Hai sentito l’uomo».
«È un coniglio. E voi con lui. Io vado».
«E se ti trovano i soldati?».
«Dirò: “Sono la figlia di Teofilo, siro, servo fedele di Cesare”. E mi lasceranno andare. E poi… L’uomo davanti ad una donna giovane e bella è un trastullo più innocuo di un filo di paglia. Lo so, per mia vergogna…».
«Ma dove vuoi trovare profumi in palazzo se esso è disabitato da anni?».
«Lo credi? Oh! Marta! Non ricordi che Israele vi obbligò a lasciarlo perché era uno dei miei luoghi di ritrovo con gli amanti? In esso io avevo tutto quanto serviva a farli più folli ancora di me. Quando fui salvata dal mio Salvatore, io ho nascosto, in un luogo noto a me sola, gli alabastri e gli incensi che usavo per le mie orge d’amore. Ed ho giurato che unicamente il pianto sul mio peccato e l’adorazione di Gesù santissimo sarebbero state le acque profumate e gli ardenti incensi di Maria pentita. E di quei segni di un culto profano del senso e della carne ne avrei solo usato per santificarli su Lui e dargli unzione. Ora è l’ora. Vado. Restate. E tranquille. Con me viene l’angelo di Dio e nulla di male mi accadrà. Addio. Vi porterò notizie. E a Lei non dite nulla… Le aumentereste l’affanno…».
E Maria di Magdala esce sicura, imponente.
23«Madre, questo ti insegni… E ti dica: “Non fare che il mondo dica che tuo figlio è un vile”. Domani, anzi oggi, perché già è data la seconda vigilia, io andrò cercando i compagni, come Ella vuole…».
«È sabato… non puoi…», obbietta Salome per trattenerlo.
«”Il sabato è morto”, dico io pure con Giuseppe. L’èra nuova è iniziata. Altre leggi, altri sacrifici e cerimonie in essa».
Maria Salome china la testa sui ginocchi e piange senza più protestare.
«Oh! poter sapere di Lazzaro!», geme Maria di Cleofa.
«Se mi lasciate andare lo saprete. Perché i compagni, Simone Cananeo ne ha avuto l’ordine, sono stati condotti, da lui, da Lazzaro. Gesù lo disse, me presente, a Simone».
«Ohimé! Tutti là? Allora tutti perduti!». Maria Cleofa e Salome piangono desolate.
Passa altro tempo fra pianti e attese.
24Poi torna Maria Maddalena. Trionfante, carica di borse piene di vasetti preziosi.
«Vedete che nulla è accaduto? Ecco qui: oli di ogni genere, e nardo, e olibano, e benzoino. Non c’è la mirra e l’aloe… Non volevo amarezze io… Le bevo tutte ora… Ma intanto intrideremo queste, e domani prenderemo… oh! pagando, Isacco darà anche di sabato… Prenderemo mirra e aloe».
«Ti hanno vista?».
«Nessuno. Non c’è in giro neppure un pipistrello».
«I soldati?».
«I soldati? Io credo che russino nei loro giacigli».
«Ma le sedizioni… gli arresti…».
«Li ha visti la paura di quell’uomo…».
«Chi è nel palazzo?».
«Ma Levi e la moglie. Tranquilli come pargoli. Gli armati sono fuggiti… ah! ah! bei prodi abbiamo, per mia fede!… Sono fuggiti appena seppero della condanna. Dico il vero: Roma è dura e usa il flagello… Ma con questo si fa temere e servire. Ed ha uomini, non conigli… Oh! sì! Egli diceva: “I miei seguaci conosceranno la mia stessa sorte”. Umh! Se molti romani diverranno di Gesù, ciò può essere. Ma se deve avere martiri fra gli israeliti! Resterà solo… Ecco. Questo è il mio sacco. E questo è di Giovanna, che… Sì. Non solo vili, ma mentitori siamo. Giovanna non è che accasciata. Lei ed Elisa si sono sentite male sul Golgota. Una è una madre che ebbe morto il figlio, e sentire i rantoli di Gesù la fecero stare male. L’altra è delicata, non usa a tanto cammino e a tanto sole. Ma niente ferite, niente agonie. Piange, come noi, certo. Non di più. Si rammarica di essere stata condotta via. Domani verrà. E manda questi aromi. Quelli che aveva. Con lei era rimasta Valeria, per ordine di Plautina, ed ora se ne è andata con gli schiavi alla casa di Claudia, perché loro hanno molti incensi. Quando verrà, perché anche lei, per grazia del Cielo, non è una lepre sempre tremante, non mettetevi ad urlare come sentiste il gladio alla gola. Su. Alzatevi. Prendiamo dei mortai. Lavoriamo. Piangere non giova. O, almeno, piangete e lavorate. Sarà stemperato col pianto il nostro balsamo. Ed Egli lo sentirà su di Lui… Sentirà l’amore nostro». E si morde le labbra, per non piangere e per dare forza alle altre, veramente disfatte.
Lavorano con lena.
25Maria chiama Giovanni.
«Madre, che hai?».
«Questi colpi…».
«Tritano gli incensi…».
«Ah!… Ma… perdonate… Non fate quel rumore… mi sembrano i martelli…».
Infatti i pestelli di bronzo contro il marmo dei mortai fanno proprio un rumore di martelli.
Giovanni lo dice alle donne, e queste escono nel cortile per essere udite meno. Giovanni torna dalla Madre.
«Come li hanno avuti?».
«È andata Maria di Lazzaro. A casa sua, e da Giovanna… E anche altri ne verranno portati…».
«Non è venuto nessuno?».
«Nessuno dopo Niche».
«Ma guardalo, Giovanni, come è bello anche in quel suo dolore!». Maria si assorbe a mani giunte contro il telo, che ha steso contro un cofano tenendolo fermo con dei pesi.
«Bello, sì, Madre. E ti sorride… Non piangere più… Già qualche ora è passata. Meno da attendere il suo ritorno…», e intanto Giovanni piange…
Maria lo accarezza sulla gota. Ma guarda solo l’effigie del Figlio.
Giovanni esce, accecato dal pianto.
26Anche la Maddalena, che è tornata a prendere delle anfore, è nelle stesse condizioni. Ma dice all’apostolo: «Non bisogna farsi vedere piangere. Perché, se no, quelle là non sanno più fare nulla. E fare si deve…».
«… e credere si deve», termina Giovanni.
«Sì. Credere. Se non si potesse credere, sarebbe la disperazione. Io credo. E tu?».
«Io pure…».
«Lo dici male. Non ami ancora abbastanza. Se amassi con tutto te stesso, non potresti non credere. L’amore è luce e voce. Anche contro le tenebre della negazione e il silenzio della morte dice: “Io credo”». È splendida la Maddalena, così alta e imponente, imperiosa nella sua confessione di fede! Deve avere il cuore torturato. E i suoi occhi bruciati di pianto lo dicono. Ma l’animo è invitto.
Giovanni la guarda ammirato e mormora: «Tu sei forte!».
«Sempre. Lo fui tanto che seppi sfidare il mondo. Ed ero senza Dio, allora. Ora che ho Lui, sento di sapere sfidare anche l’inferno. Tu, che sei buono, non dovresti essere che più forte di me. Perché la colpa deprime, sai? Più di una consunzione. Ma tu sei innocente… Per questo ti amava tanto…».
«Anche te amava…».
«E io non ero innocente. Ma ero la sua conquista e…».
27Bussano al portone con forza.
«Sarà Valeria. Apri».
Giovanni lo fa senza paura, dominato dalla calma di Maria.
È infatti Valeria coi suoi schiavi, che portano la lettiga da cui ella è scesa. Entra salutando latinamente: «Salve».
«La pace sia con te, sorella. Entra», dice Giovanni.
«Posso offrire alla Madre l’omaggio di Plautina? Anche Claudia ha contribuito. Ma se non è dolore per Lei il vedermi».
Giovanni entra da Maria.
«Chi bussa? Pietro? Giuda? Giuseppe?».
«No. È Valeria. Ha portato resine preziose. Te le vorrebbe offrire… se non ti dà pena».
«Devo superare la pena. Egli ha chiamato al suo Regno i figli d’Israele e i pagani. Tutti ha chiamato. Ora… è morto… Ma io sono qui per Lui. E tutti ricevo. Entri».
Valeria entra. Si è levato il mantello oscuro ed è tutta bianca nella sua stola. Si inchina fino a terra. Saluta e parla. «Domina. Tu lo sai chi siamo. Le prime redente dall’oscurantismo pagano. Fango e tenebre eravamo. Tuo Figlio ci ha dato ala e luce. Ora è… è addormentato in pace. Sappiamo i vostri usi. E vogliamo che anche i balsami di Roma siano sparsi sul Trionfatore».
«Dio vi benedica, figlie del mio Signore. E… perdonate se non so dire di più…».
«Non ti sforzare, Domina. Roma è forte. Ma sa anche comprendere il dolore e l’amore. Ti capisce, Madre Dolorosa. Addio».
«La pace sia con te, Valeria! A Plautina, a voi tutte, la mia benedizione».
Valeria si ritira, lasciando i suoi incensi e altre essenze.
«Lo vedi, Madre? Tutto il mondo dà per il Re del Cielo e della Terra».
«Sì», dice Maria. «Tutto il mondo. E la Madre non avrà potuto dargli che il pianto».
28Un gallo canta allegro in qualche posto vicino. Giovanni sussulta.
«Che hai, Giovanni?», chiede la Vergine.
«Pensavo a Simon Pietro…».
«Ma non era con te?», chiede la Maddalena che è rientrata nella stanza.
«Sì. In casa di Anna. Poi ho capito che dovevo venire qui. E non l’ho mai più visto».
«Fra poco è l’alba».
«Sì. Aprite».
Aprono le impannate, e i volti sembrano ancor più terrei nella luce verdolina dell’alba.
La notte del Venerdì Santo è finita.
Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, noi ci affidiamo a Te!
Uniamoci a Gesù nel Getsemani: l’Ora Santa
L’ora Santa
L’Ora santa è un’ora di preghiera da farsi possibilmente dalle 23.00 alle 24.00 del giovedì, in special modo del Giovedì Santo, in cui si medita e si contempla l’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi. Il Salvatore Gesù si degnò dettare, per così dire, il metodo dell’Ora santa a Santa Margherita Maria Alacoque. Ascoltiamo il primo consiglio che le diede: “Egli mi disse che tutte le notti dal giovedì al venerdì dovevo levarmi all’ora indicata per recitare cinque Pater, Ave, Gloria, prostrata con la faccia per terra, e cinque atti d’adorazione già insegnatimi dalla sua bontà per tributargli omaggi riparatori in ricambio dell’ estrema angoscia sofferta nella notte della Passione.” Ascoltiamo ora anche il secondo consiglio più specificato del primo: “Tutte le notti dal Giovedì al Venerdì ti farò partecipare alla tristezza mortale che soffersi nel Getsemani e sarai tu pure ridotta, senza che tu possa capire come, ad una specie d’agonia peggiore della morte. Ti leverai fra le undici e mezzanotte per accompagnarmi nell’umile preghiera che, in mezzo alle più crudeli angosce, presentai al Padre e, prostrata con la faccia a terra per un’ora, placherai la collera divina implorando misericordia per i poveri peccatori ed addolcendo l’amarezza che mi procurò l’abbandono degli Apostoli ai quali dovetti rimproverare di non aver saputo vegliare meco neppur un’ora: durante quest’ ora farai quello che io ti dirò”.
Schema per l’Ora santa divisa in 4 quarti d’ora
“Mettiti, o anima pia, alla presenza del tuo amatissimo Salvatore e ripensa a quella notte nella quale dopo aver istituito la Santa Eucaristia per farsi tuo cibo, il buon Gesù uscì con i suoi Apostoli dal Cenacolo per recarsi all’Orto degli Ulivi e dar principio a quella crudelissima Passione con cui doveva salvare il mondo. Una mortale tristezza si mostra sulla fronte e si palesa dalle parole dell’afflitto Gesù. Un pallore di morte adombra quel volto, su cui ora splendevano tutte le grazie del Paradiso. Intanto, l’affannato Salvatore posa sopra di te i suoi sguardi come se volesse dirti: «Cara anima, che mi costi tante pene, fermati con me almeno per un’ora e guarda se vi è dolore uguale al mio dolore… Ma sappi che nella notte della mia agonia cercai invano chi mi consolasse». Adorabile Gesù, potrà mai esistere creatura così ingrata e così dura di cuore che ricusi di passare un’ora in tua compagnia, ricordando quei misteri di sommo dolore e di sommo amore che si compirono nell’oscurità della notte della tua Passione sulle sacre zolle del Getsemani? Buon Gesù, eccomi a Te: degnati di svelarmi l’atrocità delle tue pene e quell’eccesso di amore che Ti condusse a farti vittima dei miei peccati e dei peccati di tutti gli uomini”.
Primo quarto d’ora: “la tristezza di Gesù”
Non vi è pena maggiore di quella che con verità può compararsi alle pene della morte. Ora il nostro Salvatore, che è verità infallibile, per farci comprendere l’eccesso del dolore che venne ad opprimerLo quando entrò nel Getsemani, dice che l’anima Sua è presa da mortale tristezza: cioè, che il dolore ch’Egli soffre è tale da poterGli causare la morte. E ciò detto s’inoltra nell’orto degli Ulivi, finché, giunto a quel luogo dove era solito passare le notti in orazione, esorta i Suoi fedeli discepoli (che aveva condotti con Sé fin dentro l’Orto perché fossero testimoni delle Sue pene) a vegliare e pregare con Lui. Quindi, allontanatosi da loro quanto un lancio di pietra, s’inginocchiò dinanzi alla maestà del Padre per dar principio all’orazione più dolorosa, e insieme più generosa, che mai sia stata fatta sulla terra. Il primo motivo della tristezza di Gesù nel Getsemani fu quell’orrendo cumulo di strazi e di obbrobri che in breve tempo dovranno piombare su di Lui come i tempestosi flutti di un mare sconvolto da una furiosa tempesta. Infatti, non appena si fu scostato dai cari discepoli, gli si pararono davanti al pensiero tutto le orribili scene di dolori e di sangue della Sua imminente Passione. Tradimenti, disonori, scherni, calunnie… e di più, un’atroce flagellazione con tale tempesta di colpi da far andare in brandelli le carni lacerate e scoprire le ossa. Ma non basta. La sacra testa dev’essere tormentata da una moltitudine di grosse spine, che rimangono conficcate fino alla morte. E di più, schiaffi, sputi, scherni… ma non basta. Deve trangugiarsi l’infamia di una condanna legale e vedersi aborrito dai potenti della sua nazione e dal popolo. Moribondo poi per tante pene, deve trascinarsi al monte del sacrificio con la croce sulle lacere spalle, e cader più volte semivivo sotto l’enorme peso… Bersi l’amaro fiele… Essere denudato in mezzo ad un’insolente moltitudine… Lasciarsi inchiodare mani e piedi… Dover penzolare per tre ore da quegli uncini di ferro e star lì sospeso tra cielo e terra per espiare in un abisso di pene le iniquità del genere umano. Ma non basta. A quell’atrocità di spasimi dovranno aggiungersi il più amaro scherno, gli insulti e le provocazioni più trafiggenti…Poi la cocente sete, resa più tormentosa dall’aceto… L’abbandono del Padre… L’immenso dolore dell’amatissima Madre… L’orribile e desolata morte!
Anima redenta, figlia delle atroci pene di Gesù, considera il tuo Salvatore sommerso in un abisso di dolori… e ciò per amor tuo… per salvarti… per condurti con sé in Paradiso… Oppresso da tanta angoscia, Gesù si accostò ai tre discepoli, cui aveva raccomandato di vegliare e pregare, ma li trovò addormentati. Per l’agonizzante Gesù non vi fu una parola di conforto…non vi fu un sentimento di compassione… Nell’amarezza dell’abbandono, Egli volge a te, o anima pia, il moribondo sguardo per vedere se può trovare nel tuo cuore qualche affetto di compassione e di riconoscenza. E tu non avrai una parola per il buon Gesù ? Che avresti detto se realmente ti fossi trovato presso di Lui nella notte della sua agonia? Deh! Apri il tuo cuore e fa ora ciò che avresti fatto allora, che gli è ugualmente gradito, perché sempre Egli accetta con uguale compiacenza le affettuose espressioni che partono dal cuore dei Suoi fedeli. (Pausa)
Offerte:
Padre Santo, che hai amato il mondo fino a sacrificare Tuo Figlio fatto uomo, in onore di tutti i redenti, io Ti ringrazio di quest’atto di infinità carità, offrendoti la perfettissima santità e tutti i meriti del Tuo Unigenito. (Padre nostro, Ave Maria, Gloria)
Padre Santo, che per liberare noi dalla morte eterna hai accumulato sull’adorabile umanità del Tuo Unigenito l’esecrabile carico di tutte le nostre iniquità, io Ti offro l’agonia di Gesù nel Getsemani, supplicandoTi di concedermi di godere in eterno il frutto delle sue orribile pene. (Padre nostro, Ave Maria, Gloria)
Padre Santo, che per riconciliare la colpevole umanità con la Tua offesa Maestà hai sottoposto ai rigori d’inesorabile giustizia l’innocentissimo Tuo Unigenito che ha dovuto portare le pene meritate dalle nostre colpe, io Ti offro l’amorosa sottomissione di Gesù nel Getsemani, supplicandoTi di concedere conversione e salvezza a tutti i peccatori. (Padre nostro, Ave Maria, Gloria)
Secondo quarto d’ora: “Gesù geme sotto il peso delle umane iniquità”
Già una lunga ora di pene è trascorsa per Gesù fra le tenebre della notte e nell’abbandono di tutti i Suoi cari. La viva apprensione degli atroci strazi che lo attendono ha sparso il terrore e l’affanno nella Sua anima benedetta. Egli sente sempre più l’enorme peso della Sua missione di Salvatore del mondo…Vede giunto il tempo della Sua immolazione… Cielo, terra e inferno già sono armati contro di Lui e deve sostenere una gran battaglia in cui tutti i colpi sono scagliati contro Lui stesso. E Gesù che fa? Impallidito, tremante, si volge al Padre e umilmente esclama: « Padre, se è possibile, passi da me questo calice». Quale risposta riceverà l’umile preghiera del Figlio di Dio? Il cielo è chiuso… per Gesù non vi è risposta! Egli vuole soffrire anche questa pena per ottenere per noi umile perseveranza nella preghiera e costante pazienza quando sembra che il Cielo sia chiuso alle nostre suppliche. Ah, buon Gesù, non c’è pena che Tu non abbia voluto soffrire per nostro conforto e nostro esempio! Ma segui, o anima pia, il tuo Gesù che, sospinto dall’amore, sempre più s’inoltra nella via del dolore. L’orrenda serie di tutti i delitti, di tutte le scelleratezze dei figli di Adamo gli si presenta al pensiero e gli lacera il cuore. Frattanto Egli vede che deve addossarsi quell’abominevole fardello e comparire allo sguardo purissimo del Padre ricoperto di mille lordure… È impossibile che mente umana possa comprendere e neppure immaginare l’orribile strazio che soffrì allora la benedetta e innocentissima anima di Gesù. Oh, come rimane oppresso il caro Salvatore sotto il peso di tanti peccati! Ma l’Agnello divino che sta per immolarsi alla divina giustizia, tanto offesa dagli uomini, dopo aver soddisfatto per le umane iniquità sacrificando la preziosa Sua vita sopra un patibolo per togliere dal mondo il peccato, potrà almeno sperare che gli uomini, rimarranno sempre fedeli a Colui che con tante pene li ha salvati dall’eterna morte?… Ah, povero Gesù, così che fosse…Ma intanto un quadro più orribile del precedente gli si apre dinanzi. Egli vede che anche dopo aver redento con tante pene l’umanità e lavata la terra con il Suo Sangue, dopo aver infuso nei Suoi fedeli il divino Spirito e aver fatto della terra un paradiso di grazia con l’adorabile Eucaristia, ah, dopo tanti eccessi di carità, Egli vede regnare tuttavia il peccato nel mondo. Vede la Sua Santa Legge calpestata, la Sua Chiesa e i Suoi ministri perseguitati, le Sue grazie trascurate, il Suo amore disprezzato… e piangendo esclama: “Perché versare tutto il mio sangue? Perché morire fra gli spasimi di un patibolo, se poi gli uomini, ingrati a tanto beneficio, vorranno darsi in braccio al demonio e all’eterna disperazione? Quando finirà il regno del peccato nel mondo?”. E il buon Gesù dà uno sguardo a tutti i secoli futuri, e in ciascun secolo vede peccati, in ciascun anno vede peccati. Peccati in ciascun giorno, peccati in ogni momento… E il peso di tutti questi peccati l’opprime ancor di più. Anima mia, saresti mai tu fra coloro che prolungando la catena dei peccati e rimandando sempre più la promessa conversione, strappano dal Cuore dell’agonizzante Gesù quel lamento così pieno di giusto dolore? Oh, com’è orrendo il peccato in anime già lavate dal quel Sangue divino, in anime congiunte nella Comunione al Cuore di Gesù.
O afflittissimo Salvatore, quanta ragione hai di lamentarti e di piangere! Ma se Gesù con ragione si lamenta dei peccati dei suoi redenti in generale, perché non soffrirà al prevedere i peccati dei suoi più cari amici, cioè delle anime a Lui consacrate? “Anime dilette – Egli esclama – anime della mia pace, che siete cioè intime familiari del mio cuore, che vivete nella mia casa, che mangiate il Mio pane e vi nutrite alla Mia mensa, perché Mi trafiggete il Cuore con il peccato? Popolo del Mio Cuore, che ti ho mai fatto? In che ti ho contristato? Io ti ho dissetato con le acque celesti della mia grazia e tu Mi porgi aceto e fiele… Io ti ho saziato con la manna preziosa della mia Carne e tu Mi percuoti con schiaffi e flagelli!… Popolo mio, che ti ho fatto? In che ti ho contristato? Io ti ho preparato una sede in Cielo e tu Mi presenti il patibolo!… Anima cara, che potevo fare per te che non l’abbia fatto? E per tanto amore, tu Mi rendi dolore e spine!”. (pausa)
Offerte:
Perché non posso, o mio Salvatore afflitto, offrirTi il mio cuore e quello di tutti gli uomini acceso dalle fiamme di perfettissima carità per ricambiare in qualche modo al Tuo amore infinito? Dolente della mia e dell’altrui freddezza, Ti offro, o buon Gesù, quei santi ardori con i quali gli antichi Patriarchi e Profeti sospirarono la Tua venuta e quel santo zelo con cui i Tuoi Apostoli portarono il Tuo Nome per tutta la terra. (Padre nostro, Ave Maria, Gloria).
Ti offro, o appassionato mio Bene, quella perfetta e tenerissima compassione con la quale la Tua Madre Immacolata, trafitta nell’anima dalla spada del dolore, condivise le Tue pene e quella perfettissima riconoscenza con cui, per tutto il genere umano, Lei Ti ringraziò, lodò e benedisse per l’infinito beneficio della Redenzione. (Padre nostro, Ave Maria, Gloria).
Mio Gesù agonizzante, non potendo io, meschina creatura, darTi come vorrei, qualche conforto nelle Tue grandi pene, Ti offro quel palpito di gioia con il quale, unitamente a tutti gli Angeli del Cielo, l’Adorabile Trinità applaudì alla grande opera della Redenzione, compiuta da Te con tanto dolore e con tanto amore; e insieme Ti supplico di far comprendere bene a tutti i redenti questo mistero d’infinita carità. (Padre nostro, Ave Maria, Gloria).
Terzo quarto d’ora: “il grande fiat”
Contempla, o anima redenta, il tuo Salvatore che, trafitto il Cuore dall’umana ingratitudine, è caduto agonizzante sulle dure zolle del Getsemani. È solo, abbandonato, senza una mano che lo sostenga. Egli non ha ricusato di porgere la mano ai deboli, ai tribolati, ed ha confortato anche il discepolo che, stanco, gli posava il capo sul Cuore. Su, anima fedele, è giunto il momento di rendere a Gesù sofferente un ricambio d’amore. Che avresti fatto se nella notte della Passione ti fossi trovato nel Getsemani presso Gesù in agonia? O mio sofferente Signore, voglio sollevarTi della terra… Voglio offrirTi il mio cuore a sostegno del Tuo capo cadente… E poi voglio dirTi una parola che Ti consoli. O dolcissimo Salvatore, Ti amo, Ti amo, Ti amo! Voglio cercarTi amore, voglio procurarTi amore, voglio che tutti i tuoi Ti amino… la vita stessa voglio spendere perché Tu sia amato… Sì, tanto amato, amato sempre, amato da tutti i Tuoi redenti. Mio dolce Gesù, ho detto che spenderei anche la vita per farTi amare, che cioè farei qualunque grande sacrificio, ma poi, quando incontro qualche lieve contrarietà, una piccola umiliazione, un rifiuto, un rimprovero, una scortesia… io sopporto? Amo davvero il sacrificio? Sono felice di poterti presentare l’offerta di qualche desidero mortificato? O buon Gesù, mi vergogno a rispondere… Ma qui accanto a Te, qui alla scuola del dolore e dell’amore voglio imparare a mortificarmi, a sacrificarmi in tutto per amor Tuo, o mio dolce Maestro. Intanto scorrono lentamente per Gesù le ore della Sua mortale agonia… Egli, il DIO del Cielo e della terra, langue disteso al suolo e nessuno si dà pensiero per Lui. Ma i discepoli che fanno? Dormono!… Ah, Gesù nella notte della Passione doveva soddisfare anche per la pena dell’amarezza. In quel momento Gesù accettò, volle quella pena, ma ora non la vuole più, anzi desidera che i Suoi redenti veglino attorno a Lui meditando la Sua Passione. Invece la maggior parte di essi dorme il sonno degli ingrati, che consiste nell’oblio di chi ci ama e ci beneficia. Quale eccesso di ingratitudine e di durezza! O buon Gesù, non sei conosciuto perché, se Ti conoscessimo, penseremmo sempre a Te e il nostro cuore non palpiterebbe se non per Te. Un Angelo del Cielo viene per consolarLo. Con umiltà di Figlio obbediente, Gesù accoglie il messaggero del Padre pronto a sottostare ai Suoi comandi. L’Angelo viene per confortare Gesù, ma non per alleggerirgli le pene, né per levarGli di mano l’amarissimo calice. Infatti egli esorta Gesù a sostenere la grande battaglia cui va incontro e a ricevere da forte tutti i colpi che il Cielo, il mondo e l’inferno gli avrebbero scagliato contro. Il Cielo, perché l’eterna giustizia del Padre stava per punire in Lui tutte le iniquità degli uomini. Il mondo, che non potendo soffrire la santità del FIGLIO di DIO, gli prepara il patibolo, e l’inferno che, per odio contro il Santo dei Santi, eccita maggiormente la crudeltà dei nemici di Gesù, affinché più spietatamente lo strazino. Quindi l’Angelo Lo esorta a bere fino all’ultima goccia l’abominevole calice delle scelleratezze umane e a sostenere tutto il peso delle vendette divine. Intanto giustizia e misericordia aspettano il “Fiat” di Gesù, nel quale si sarebbero riconciliate per sempre. Lo aspetta il Cielo per potersi popolare di uomini santi; Lo aspetta la terra che anela di veder cancellata dal Sangue del Redentore divino la maledizione meritata con il primo peccato; lo aspettano i giusti imprigionati nel seno d’Abramo per poter volare nell’amplesso del Creatore; lo aspettano i miseri mortali per tornar figli di DIO e vedersi riaprire le porte del Paradiso. Ma quanto costa quel Fiat al mio Gesù, Egli innocentissimo, Egli santo ed immacolato, deve prendere le aborrite divise di peccatore, di scellerato: deve farsi reo, e fare Sue le nostre iniquità. Ciò lo addolora immensamente. Ma al tempo stesso, Egli vede che se non si fa reo delle nostre colpe, se non consente a prendere su di Sé tutti i flagelli della Giustizia punitrice e lavare nel Suo Sangue le nostre iniquità, noi siamo perduti… Allora con un potentissimo sforzo d’eroico amore, Gesù pronuncia il grande “Fiat”. In tal modo Egli accetta, anzi invoca su di Sé gli orrendi castighi. Per cui dice “Fiat” alle spine per espiare i nostri cattivi pensieri; “Fiat” agli insulti, agli sputi e agli schiaffi per espiare il nostro orgoglio; “Fiat” all’aceto e al fiele in soddisfazione degli innumerevoli nostri peccati di parole e di gola; “Fiat” alla croce e ai chiodi per riparare alle nostre disubbidienze; “Fiat” a quelle tre ore di atroci spasimi sul patibolo per sanare tutte le nostre piaghe e rimediare a tutti i nostri mali; “Fiat” alla morte per dare a noi la vita eterna” O prezioso “Fiat” che rallegra il Cielo, salva la terra, abbatte l’inferno! “Fiat” che spezza tante catene, asciuga tante lacrime! Grazie, o buon Gesù, grazie della Tua accettazione generosa del progetto del Padre. Ti benedico e Ti ringrazio in nome di tutti gli uomini. (pausa)
Offerte:
Padre Santo, che in riparazione delle nostre ribellioni e disubbidienze hai voluto essere onorato dal generoso “Fiat” di Gesù nel Getsemani, Ti offro quel Fiat in espiazione di tutte le offese che ha ricevuto la Tua adorabile Maestà dalla mia ribelle volontà, supplicandoTi di concedermi, per i meriti di quello stesso Fiat, perfetta docilità ed obbedienza. (Padre nostro, Ave Maria, Gloria).
Padre Santo, per la gloria che Ti procurò il generoso “Fiat” di Gesù nel Getsemani, Ti supplico di perdonare ogni mia ribellione e disubbidienza e concedimi la grazia di vivere sempre pienamente sottomesso alla Tua volontà e a quella dei miei superiori per amor Tuo. (Padre nostro, Ave Maria, Gloria).
Padre Santo, per quei generosi sforzi e per quelle pene che costarono a Gesù il “Fiat” proferito nel Getsemani, Ti supplico di concedere a me, a tutte le anime a te consacrate e a tutti i cristiani, spirito di santa fortezza e costanza, unito a quella generosità che affronta lieta ogni sacrificio per la Tua gloria. (Padre nostro, Ave Maria, Gloria).
Ultimo quarto d’ora: “Il Sangue di Gesù ed i suoi frutti”
Il mio Gesù ha proferito dunque il grande “Fiat”, ma l’immenso sforzo di questo Fiat lo fa cadere di nuovo a terra agonizzante sotto l’enorme peso che si è addossato. Da una parte lo preme la divina Giustizia che Lo considera come una vittima universale in cui si adunano tutte le colpe e tutte le pene e dall’altra parte lo preme l’infinito desiderio che ha di compiacere la grande missione di Redentore del mondo che Gli anticipa quel doloroso battesimo di sangue da Lui tanto bramato. Ah! Ora sì che il buon Gesù può considerarsi come eletto frumento triturato fra due macine e come dolce grappolo d’uva spremuto sotto il torchio! Infatti, per l’immenso dolore che gli stringe il Cuore, il Sangue incomincia a stillare da tutte le membra e ne versa in così grande quantità che va a scorrere sulle zolle del Getsemani. Oh, quanto è costato a Gesù quel grande Fiat! Oh, quanto ha dovuto soffrire per pagare tutti i nostri debiti! E quale grande vergogna per me che ricuso di fare anche i più lievi sacrifici, mentre vedo il mio DIO che spontaneamente si fa vittima per mio amore! Ma perché, dolce Gesù, perché struggerTi così fra infiniti dolori? Tu che con una sola preghiera, con un sospiro, con un palpito del Tuo Cuore avresti potuto salvare tutto il mondo. Ma un profeta aveva già detto che la redenzione di Gesù sarebbe stata copiosa. Ed è veramente copiosa la redenzione da Lui operata, poiché non solo ci libera dalla morte eterna, ma ci ridona l’onore di innocenti, di giusti, di santi. Solo un DIO poteva compiere un’opera così grande!
Ma Gesù ancora non è pago: l’incomprensibile Suo amore vuole che per mezzo dei Suoi dolori ci venga posto in mano, come cosa assolutamente nostra, il tesoro dei Suoi meriti con il quale possiamo ottenere ogni bene dall’Altissimo. Cosa potremmo desiderare di più? Vi sono dei beni così grandi che l’uomo non avrebbe mai osato chiedere, anzi non avrebbe neppure mai pensato di poter raggiungere. Ci pensa però l’infinita carità del nostro Salvatore benedetto e con la voce del Suo Sangue e con i gemiti del Suo Cuore agonizzante, c’impetra carità dal Padre la somma grazia d’essere innalzati fino all’amplesso della divinità, grazie all’Eucaristia, da Lui istituita quella notte stessa. E quasi ciò non bastasse ad appagare una carità che non conosce confini, Egli vuole che il suo Spirito, il divino Paraclito, sia infuso e dimori perennemente nelle nostre anime. “Pregherò il Padre – aveva detto quella sera stessa ai discepoli – pregherò il Padre ed Egli vi darà lo Spirito Santo”. Ed ora qui nel Getsemani, agonizzante e grondante sangue, Egli compie questa promessa meritando per noi l’infusione del divino Paraclito e innalzando così l’uomo al supremo grado della felicità, della grazia e della gloria. Ormai Gesù non può fare di più per noi sebbene gli rimanga un desiderio. Egli ricorda che il Padre gli aveva detto: “Chiedi a Me e Ti darò per Tua eredità le nazioni”. E alzando al cielo la fronte grondante Sangue, domanda al Padre che, fra tante nazioni promesseGli come Sua eredità, Egli possa avere qualche drappello scelto di anime spose che siano le predilette del Suo Cuore, le discepole fedeli che ne ricopino gli esempi e nelle quali Egli possa versare l’abbondanza di quelle grazie da Lui meritate con tante pene. “Padre, dammi le anime e prendi tutto il resto, anche la mia vita che si consumerà sul patibolo per le anime”. E fra tante anime Gesù allora sceglie anche la tua, la brama, la vuole, la chiede gemendo al Padre e per essa in particolare rinnova l’offerta di tutto Se stesso e delle Sue infinite pene.
O anima, o anima, quanto sei amata da quel DIO che, sudando sangue, ti scelse, ti volle, ti abbracciò quale sposa! E come dall’alto della Croce, fra poco Gesù dirà alla Madre: “Ecco tuo Figlio” e le consegnerà nella persona di Giovanni tutti i Suoi redenti, così nel Getsemani si volge al Padre e dice: “Ecco i tuoi figli, Io Tuo Figlio per natura, prendo il posto dell’uomo peccatore, affinché il peccatore prenda il mio posto e divenga Tuo Figlio per grazia. O Padre, a Me le pene al peccatore il perdono e la pace: a Me la morte, a lui la vita; a Me il Tuo abbandono, o Padre, e a lui perfetta, beata ed eterna unione con Te… Ecco, ecco i Tuoi figli… abbracciali. Il mio sangue li rende puri, belli e degni di Te. Padre, voglio (Gesù non aveva mai detto voglio, ma ora lo dice) che le anime che mi hai date, siano una cosa sola con noi, fuse in noi, uomo affinché “l’uomo fosse innalzato fino a DIO, partecipe del Regno nella Tua stessa gloria per tutta l’eternità”. Ecco gli incomprensibili misteri d’amore che si operano nel cuore d’un DIO che suda sangue per gli uomini! Ecco gli straordinari frutti del Sangue di Gesù! Silenzio, ammirazione e generoso amore: questo, o anima redenta, o anima sposa di un DIO umanato, è il solo ricambio che tu possa offrire a quel Grande, a quel Santo, a quell’Infinito Amore che s’immola per te! (pausa)
Offerte:
Padre Santo, con il cuore penetrato dalla più viva riconoscenza, Ti ringrazio in nome di tutti gli uomini, perché ci hai dato un Redentore così buono e così generoso attraverso il quale, con infinito vantaggio, abbiamo riacquistato i beni perduti per la colpa originale. Ti offro per la salvezza di tutti i redenti il Sangue che Egli ha versato. Fa’ che i frutti della redenzione siano copiosi quanto la Redenzione stessa e che Gesù sia da tutti i figli di Adamo conosciuto, benedetto, amato e ringraziato per tutta l’eternità. (Padre nostro, Ave Maria, Gloria).
Padre Santo, Ti offro il prezioso Sangue di Gesù per impetrare dalla Tua misericordia la santificazione della Chiesa Cattolica, la conversione di tutti i peccatori, la perseveranza dei giusti e la liberazione delle anime del Purgatorio. Te lo offro per il maggior bene dei miei superiori e di tutti i miei cari. Di più, Te lo offro per la santificazione dell’anima mia e per ottenere……… (Chiedere le grazie che si desiderano). (Padre nostro, Ave Maria, Gloria).
Padre Santo, che hai amato il mondo fino a dargli il Tuo unigenito Figlio e a sacrificarlo fra tante pene, ora fa’ che il mondo ami tanto Gesù, gli sia riconoscente, Lo benedica ed esalti e che tante siano le anime a Lui perfettamente unite e costantemente fedeli. Ottieni, Padre, che fra queste vi sia anche la mia misera anima. Padre Santo, Ti offro i gemiti, le preghiere, le angosce di Gesù nel Getsemani, affinché Ti degni di ridestare vivissima nel cuore di tutti i cristiani la devozione ai mirabili misteri della Redenzione; e con essa quel vero e generoso spirito di sacrificio che rende le anime somiglianti a Gesù. (Padre nostro, Ave Maria, Gloria).
Vangelo Mc 14, 1- 15, 47: La passione del Signore.
+ Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Matteo
Dal Vangelo secondo Marco
Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturare Gesù con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».
Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.
Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».
Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?». Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».
E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto:
“Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse”.
Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.
Giunsero a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».
E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò. Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono. Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio. Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un brigante siete venuti a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Si compiano dunque le Scritture!». Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.
Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi. Alcuni si alzarono a testimoniare il falso contro di lui, dicendo: «Lo abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo”». Ma nemmeno così la loro testimonianza era concorde. Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono!
E vedrete il Figlio dell’uomo
seduto alla destra della Potenza
e venire con le nubi del cielo».
Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte. Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: «Fa’ il profeta!». E i servi lo schiaffeggiavano.
Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa dici». Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò. E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro». Ma egli di nuovo negava. Poco dopo i presenti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo». Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate». E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». E scoppiò in pianto.
E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato. Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. Pilato lo interrogò di nuovo dicendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!». Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito.
A ogni festa, egli era solito rimettere in libertà per loro un carcerato, a loro richiesta. Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio. La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia. Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?». Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!». Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.
Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa. Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo. Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.
Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo. Condussero Gesù al luogo del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese.
Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso. Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. La scritta con il motivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei». Con lui crocifissero anche due ladroni, uno a destra e uno alla sua sinistra.
Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!». Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!». E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.
Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
(Qui si genuflette e si fa una breve pausa)
Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».
Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.
Venuta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro. Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Cap. DLXXXVIII. Giuda Iscariota dai Capi del Sinedrio.
29 marzo 1947
1 Giuda giunge a notte alla casa di campagna di Caifa. Ma c’è la luna che fa da complice all’assassino illuminandogli la strada. Deve essere ben sicuro di trovare là, in quella casa fuori le mura, coloro che egli cercava, perché altrimenti penso che avrebbe cercato di entrare in città e sarebbe andato nel Tempio. Invece sale sicuro fra gli ulivi del piccolo colle. È più sicuro questa volta dell’altra. (Cioè della volta precedente, vedi Vol 8 Cap 535). Perché ora è notte, e le ombre e l’ora lo proteggono da ogni possibile sorpresa. Le vie della campagna sono deserte, ormai, dopo essere state percorse per tutto il giorno dalle turbe dei pellegrini che vanno a Gerusalemme per la Pasqua. Persino i pove-ri lebbrosi sono nei loro spechi e dormono i loro sonni di infelici, smemorati per qualche ora dalla loro sorte.
Ecco Giuda alla porta della casa biancheggiante al lume della luna. Bussa. Tre colpi, un colpo, tre colpi, due colpi… Persino il segnale convenzionale sa a meraviglia! E deve essere proprio un segnale sicuro, perché la porta si socchiude senza il preventivo sbirciare del portinaio dallo spioncino aperto nella porta.
Giuda sguscia dentro e al servo portinaio, che l’ossequia, chiede: «L’adunanza è raccolta?».
«Sì, Giuda di Keriot. Al completo, potrei dire».
«Conducimi ad essa. Devo parlare di importanti cose. Svelto! ».
L’uomo chiude con tutti i chiavistelli la porta e lo precede per l’andito semibuio, fermandosi davanti ad un uscio pesante al quale bussa. Il brusio delle voci cessa nella stanza chiusa e lo sostituisce il rumore della serratura e il cigolio della porta, che si apre gettando un cono di luce viva nel corridoio buio.
«Tu? Entra! », dice quello che ha aperto la porta e che non so chi sia. E Giuda entra nella sala, mentre chi gli ha aperto chiude a chiave di nuovo.
2 Vi è un movimento di stupore o, per lo meno, di agitazione, vedendo entrare Giuda. Ma lo salutano in coro: «La pace a te, Giuda di Simone».
«La pace a voi, membri del Sinedrio santo», saluta Giuda.
«Vieni avanti. Che vuoi?», gli chiedono.
«Parlarvi… Parlarvi del Cristo. Non è più possibile che si vada avanti così. Io non vi posso più essere di aiuto se voi non vi decidete a prendere decisioni estreme. L’uomo è in sospetto, ormai».
«Ti sei fatto scoprire, stolto?», lo interrompono.
«No. Ma voi stolti, voi che per una stupida fretta avete fatto delle mosse sbagliate. Lo sapevate bene che io vi avrei servito! Non vi siete fidati di me».
«Hai memoria labile, Giuda di Simone! Non ti ricordi come ci lasciasti l’ultima volta? Chi poteva pensare che tu ci eri fedele, a noi, quando proclamasti a quel modo che non potevi tradire Lui?», dice Elchia ironico, serpentino più che mai.
«E credete che sia facile giungere ad ingannare un amico, l’unico che veramente mi ami, l’Innocente? Credete che sia facile giungere al delitto?». Giuda è già agitato.
3 Cercano di calmarlo. E lo blandiscono. E lo seducono, o almeno tentano di farlo, facendogli osservare che il suo non è un delitto, «ma un’opera santa verso la Patria, alla quale egli evita rappresaglie dai dominatori, che già danno segni di intolleranza per queste continue agitazioni e divisioni di partiti e di folle in una provincia romana, e verso l’Umanità, se proprio egli è convinto della natura divina del Messia e della sua missione
spirituale».
«Se è vero ciò che Egli dice – lungi da noi il crederlo – non sei tu il collaboratore della Redenzione? Il tuo nome andrà associato al suo nei secoli, e la Patria ti annovererà fra i suoi prodi e ti onorerà delle più alte cariche. Un seggio è pronto per te fra noi. Salirai, Giuda. Darai leggi ad Israele. Oh! non dimenticheremo ciò che tu hai fatto per il bene del sacro Tempio, del sacro Sacerdozio, per la difesa della Legge santissima, per il bene di tutta la Nazione! Fai solo di aiutarci e poi, noi te lo giuriamo, io te lo giuro a nome del potente padre mio e di Caifa portante l’efod, tu sarai l’uomo più grande di Israele. Più dei tetrarchi, più dello stesso mio padre, ormai Pontefice deposto. Come un re, come un profeta sarai servito e ascoltato. Che se poi Gesù di Nazaret non fosse che un falso Messia, anche se in realtà non sarebbe passibile di morte perché le sue azioni non sono da ladrone, ma da folle, ecco che ti ricordiamo le parole ispirate di Caifa pontefice – tu sai che colui che porta l’efod e il razionale parla per suggerimento divino e profetizza il bene e il da farsi per il bene – Caifa, ricordi? Caifa ha detto: “È bene che un uomo muoia per il popolo e non perisca tutta la Nazione”. Fu parola di profezia». (Vedi Vol 8 Cap 549).
«In verità fu tale. L’Altissimo parlò per bocca del Sommo Sacerdote. Sia ubbidito!», dicono in coro, già teatrali e simili ad automi che devono fare quei dati gesti, quei laidi burattini che sono i membri del gran consiglio del Sinedrio.
4 Giuda è suggestionato, sedotto… ma una radichetta di buon senso, se non di bontà, sussiste ancora in lui e lo trattiene dal pronunciare le parole fatali.
Circondandolo con deferenza, con simulato affetto, lo incalzano: «Non credi a noi? Guarda: siamo i capi delle ventiquattro famiglie sacerdotali, gli Anziani del popolo, gli scribi, i più grandi farisei d’Israele, i rabbi sapienti, i magistrati del Tempio. Il fior di Israele è qui, intorno a te, pronto ad acclamarti, e ad una voce ti dice: “Fa’ questo, ché è santo”».
«E Gamaliele dove è? E Giuseppe e Nicodemo dove sono? E dove Eleazaro l’amico di Giuseppe, e dove Giovanni di Gaas? Io non li vedo».
«Gamaliele è in grande penitenza, Giovanni presso la moglie incinta e sofferente questa sera, Eleazaro… non sappiamo perché non sia venuto. Ma un malore può colpire chiunque e all’improvviso, non ti pare? Riguardo a Giuseppe e Nicodemo, non li abbiamo avvisati di questa seduta segreta, e per tuo amore, per cura del tuo onore… Perché, nello sfortunato caso che la cosa fallisse, il tuo nome non andasse riportato al Maestro… Noi tuteliamo il tuo nome. Noi ti amiamo, Giuda, novello Maccabeo salvatore della Patria». (è Giuda Maccabeo, le cui gesta sono narrate in: 1 Maccabei 3-9; 2 Maccabei 8-15).
«Il Maccabeo combatté la buona battaglia. Io… commetto un tradimento».
«Non osservare le particolarità dell’atto, ma la giustizia del fine.
5 Parla tu, o Sadoc, scriba d’oro. La tua bocca fluisce preziose parole. Se Gamaliele è dotto, tu sapiente sei, perché sulle tue labbra è la sapienza di Dio. Parla tu a costui che tituba ancora».
Quella buona pelle di Sadoc si fa avanti e con lui il decrepito Canania: una volpe scheletrita e morente al fianco di un astuto sciacallo robusto e feroce.
«Ascolta, o uomo di Dio! », comincia pomposamente Sadoc prendendo una posa ispirata e oratoria, il braccio destro messo ciceronianamente in avanti, il sinistro occupato a sorreggere tutto quell’ingombro di pieghe che costituisce la sua veste di scriba. E poi alza anche il sinistro braccio, lasciando che il suo monumento di vesti si scomponga e si disordini, e così, a volto e braccia levate verso il soffitto della stanza, tuona: «Io te lo dico! Te lo dico davanti all’altissima Presenza di Dio!».
«Maran-Atà!», fanno eco tutti curvandosi, come se un soffio supremo li curvasse, e poi rialzandosi con le braccia incrociate sul petto.
«Io te lo dico. È scritto nelle pagine della nostra storia e del nostro destino! È scritto nei segni e nelle figure lasciate dai secoli! È scritto nel rito che non ha sosta dalla notte fatale agli egizi! È scritto nella figura di Isacco! È scritto nella figura di Abele. E ciò che è scritto si avveri».
«Maran Atà!», dicono gli altri con un coro basso e lugubre, suggestionante, con i gesti di prima, i volti bizzarramente colpiti dalla luce dei due lampadari accesi agli estremi della sala, di mica pallidamente violacea, emananti una luce fantasmagorica. E veramente questa accolta di uomini, quasi tutti biancovestiti, coi coloriti pallidi od olivastri della loro razza, resi ancor più pallidi e olivastri dalla luce diffusa, sembrano proprio un’adunanza di spettri.
«La parola di Dio è scesa sulle labbra dei profeti per segnare questo decreto. Egli deve morire! È detto!».
«È detto! Maran Atà!».
«Egli deve morire, e segnata è la sua sorte!».
«Egli deve morire. Maran Atà! ».
«Nei più minuti particolari è descritto il suo destino fatale, e fatalità non si infrange!».
«Maran Atà!».
«Persino è segnato il prezzo simbolico che sarà versato a colui che si fa strumento di Dio per la consumazione della promessa».
«È segnato! Maran Atà!».
«Come Redentore, o come falso profeta, Egli deve morire! ».
«Deve morire! Maran Atà!».
«L’ora è venuta! Jeové lo vuole! Io sento la sua voce! Essa grida: “Si compia”!».
«L’Altissimo ha parlato! Si compia! Si compia! MaranAtà! ».
6 «Ti fortifichi il Cielo come fortificò Giaele e Giuditta, che donne erano e seppero essere eroi; come fortificò Jefte che, padre, seppe alla Patria sacrificare la figlia; come fortificò David contro il Golia; (come si legge in 1 Samuele 17, 32-51 nel contesto dell’intero capitolo 17) e compi il gesto che farà eterno Israele nella memoria dei popoli!».
«Ti fortifichi il Cielo. Maran Atà!».
«Sii vincitore! ».
«Sii vincitore! Maran Atà! ».
Si alza la chioccia voce senile di Canania: «Colui che tituba all’ordine sacro è dannato al disonore e alla morte! ».
«È dannato. Maran Atà! ».
«Se non vorrai ascoltare la voce del Signore Iddio tuo e non metterai in atto il suo comando e ciò che Egli per nostra bocca ti ordina, tutte le maledizioni su te! ».
«Tutte le maledizioni! Maran Atà! ».
«Ti percuota il Signore con tutte le maledizioni mosaiche e ti disperda di fra le genti». (Maledizioni mosaiche, che sono in: Levitico 26, 14-46; Deuteronomio 28, 15-68).
«Ti percuota e disperda! Maran Atà!».
Un silenzio di morte segue a questa scena suggestionante… Tutto si immobilizza in una immobilità paurosa.
7 Finalmente ecco la voce di Giuda che si alza, e quasi faccio fatica a riconoscerla tanto è mutata: «Sì. Io lo farò. Lo devo fare. E lo farò. Già l’ultima parte delle maledizioni mosaiche è la mia parte, e ne devo uscire perché troppo ho tardato già. E folle divento non avendo tregua e riposo, e cuore pauroso, e occhi smarriti, e anima consumata dalla tristezza. Tremante di essere scoperto e fulminato da Lui nel mio duplice giuoco – ché io non so, io non so sino a che punto Egli sa il mio pensiero – vedo la mia vita sospesa a un filo, e mattina e sera invoco di finire quest’ora per lo spavento che sbigottisce il mio cuore. Per l’orrore che compiere devo. Oh! affrettate quest’ora! Traetemi da queste mie angosce! Tutto sia compiuto. Subito! Ora! E io sia liberato! Andiamo!».
La voce di Giuda si è affermata e fatta forte mano a mano che ha parlato. Il gesto, prima automatico e insicuro, come di sonnambulo, si è fatto libero, volontario. Egli si raddrizza in tutta la sua altezza, satanicamente bello, e grida: «Cadano i lacci di un folle terrore! Io sono libero da una soggezione paurosa. Cristo! Non ti temo più e ti consegno ai tuoi nemici! Andiamo! ». Un grido di demone vittorioso, e veramente si avvia con baldanza alla porta.
8 Ma lo fermano: «Piano! Rispondi a noi: dove è Gesù di Nazaret?».
«Nella casa di Lazzaro. A Betania».
«Noi non possiamo entrare in quella casa ben munita di servi fedeli. Casa di un favorito di Roma. Andremmo incontro a noie sicure».
«All’aurora noi veniamo in città. Mettete le guardie sulla via di Betfage, fate tumulto e prendetelo».
«Come sai che viene per quella via? Potrebbe prendere anche l’altra … ».
«No. Ha detto ai seguaci che per essa entrerà in città, dalla porta di Efraim, e di essere ad attenderlo presso En Rogel. Se voi lo prendete prima… ».
«Non possiamo. Dovremmo entrare in città con Lui fra le guardie, e ogni via che conduce alle porte e ogni via cittadina sono piene di folla dall’alba a notte. Accadrebbe tumulto. E non deve accadere».
«Salirà al Tempio. Chiamatelo per interrogarlo in una sala. Chiamatelo a nome del Sommo Sacerdote. Egli verrà, perché ha più rispetto di voi che della sua vita. Una volta che è solo con voi… non vi mancherà il modo di portarlo in luogo sicuro e condannarlo nell’ora propizia».
«Avverrebbe ugualmente tumulto. Te ne dovresti essere accorto che la folla è fanatica per Lui. E non il popolo solo, ma anche i grandi e le speranze di Israele. Gamaliele perde i suoi discepoli, e così Gionata ben Uziel e altri fra noi, e tutti ci lasciano, sedotti da Lui. E persino i gentili lo venerano, o lo temono, il che è già venerare, e sono pronti a rivoltarsi a noi se lo malmeniamo. Fra l’altro, alcuni dei ladroni, che avevamo assoldati per fare i falsi discepoli e suscitare risse, sono stati arrestati e hanno parlato sperando clemenza per la delazione, e il Pretore sa… Tutto il mondo gli va dietro, mentre noi non concludiamo nulla. Ma bisogna agire con sottigliezza, perché non se ne avvedano le turbe».
«Sì. Così bisogna fare! Anche Anna se ne raccomanda. Dice: “Che non accada durante la festa e non nasca tumulto fra il popolo fanatico”. Così ha ordinato, dando ordini anche perché sia trattato con rispetto nel Tempio e altrove e non sia molestato, onde poterlo trarre in inganno».
9 «E allora che volete fare? Io ero ben disposto questa notte, ma voi esitate…», dice Giuda.
«Ecco, tu dovresti condurci a Lui in un’ora che è solo. Tu sai le sue abitudini. Ci hai scritto che Egli ti tiene vicino più che tutti. Perciò tu devi sapere ciò che Egli vuol fare. Noi staremo sempre pronti. Quando tu giudichi propizia l’ora e il luogo, vieni, e noi verremo».
«È detto. E che compenso ne avrò?». Ormai Giuda parla freddamente, come si trattasse di un commercio qualunque.
«Ciò che è detto dai profeti, per essere fedeli alla parola ispirata: trenta denari…». (Zaccaria 11, 12-13).
«Trenta denari per uccidere un uomo, e quell’Uomo? Il prezzo di un comune agnello in questi giorni di festa?! Siete folli! Non che io abbia bisogno di denaro. Ne ho buone scorte. Non pensate perciò di persuadermi per ansia di denaro. Ma è troppo poco per pagare il mio dolore di tradire Colui che mi ha sempre amato».
«Ma te lo abbiamo detto ciò che ti faremo. Gloria, onori! Ciò che tu speravi da Lui e che non hai avuto. Noi medicheremo la tua delusione. Ma il prezzo è fissato dai profeti! Oh! una formalità! Un simbolo e nulla più. Il resto verrà poi…».
«E il denaro quando?».
«Il momento che tu ci dirai: “Venite”. Non prima. Nessuno paga prima di aver già le mani sulla merce. Non ti pare giusto, forse?».
«Giusto è. Ma almeno triplicate la somma…».
«No. Così è detto dai profeti. Così si deve fare. Oh! sapremo ubbidire ai profeti! Non tralasceremo un iota di quanto hanno scritto di Lui. Eh! Eh! Eh! Noi siamo fedeli alla parola ispirata! Eh! Eh! Eh! », ride quel ributtante scheletro di Canania.
E molti gli fanno coro con delle risate lugubri, basse, insincere, veri cachinni di demoni che non sanno che ghignare. Perché il riso è proprio dell’animo sereno e amante, e il ghigno dei cuori turbati e saturi di livore.
10 «Tutto è detto. Puoi andare. Noi attendiamo l’alba per rientrare in città per diverse vie. Addio. La pace sia con te, pecora spersa che ritorni al gregge di Abramo. La pace a te! La pace a te! E la riconoscenza di tutto Israele! Conta su noi! Un tuo desiderio ci è legge. Dio sia con te, come lo fu con tutti i suoi servi più fedeli! Tutte le benedizioni su te!».
Lo accompagnano con abbracci e proteste di amore sino all’uscio… lo guardano allontanarsi per il corridoio semibuio… ascoltano lo sferragliare dei chiavistelli del portone che si apre e chiude…
11 Rientrano nella sala, giubilanti.
Solo due o tre voci si levano, quelle dei meno demoniaci: «E ora? Come faremo con Giuda di Simone? Ben lo sappiamo che non potremo dargli ciò che gli abbiamo promesso, fuorché quei poveri trenta denari!… Che dirà egli, quando si vedrà da noi tradito? Non avremo fatto un danno maggiore? Non andrà egli dicendo al popolo ciò che facemmo? Che sia uomo di non fermo pensiero noi lo sappiamo».
«Siete ben ingenui e stolti nell’avere questi pensieri e nel darvi questi affanni! È già stabilito ciò che faremo a Giuda. Stabilito dall’altra volta. Non ricordate? E noi non cambiamo pensiero. Dopo che tutto sarà finito, del Cristo, Giuda morrà. È detto».
«Ma se parlasse prima?».
«A chi? Ai discepoli e al popolo, per essere lapidato? Egli non parlerà. L’orrore della sua azione gli è bavaglio…».
«Ma potrebbe pentirsi in futuro, avere rimorsi, divenire folle anche… Perché il suo rimorso, se avesse a destarsi, non potrebbe che fare di lui un pazzo…».
«Non ne avrà tempo. Provvederemo prima. Ogni cosa a suo tempo. Prima il Nazareno e poi colui che lo ha tradito», dice lentamente, terribilmente, Elchia.
«Sì. E badate! Non una parola agli assenti. Già troppo hanno conosciuto del nostro pensiero. Non mi fido di Giuseppe e Nicodemo. E poco degli altri».
«Dubiti di Gamaliele?».
«Egli si è astratto da noi da molti mesi. Senza un diretto ordine ponteficale non prenderà parte alle nostre sedute. Dice che scrive la sua opera con l’aiuto del figlio. Ma parlo di Eleazaro e Giovanni».
«Oh! non ci hanno mai contraddetti», dice pronto un sinedrista che ho visto altre volte con Giuseppe d’Arimatea, ma del quale non ricordo il nome.
«Anzi! Ci hanno contraddetti troppo poco. Eh! Eh! Eh! E bisognerà sorvegliarli! Molte serpi hanno preso
covo nel Sinedrio, io credo… Eh! Eh! Eh! Ma saranno snidate… Eh! Eh! Eh! », dice Canania andando curvo e tremolante, appoggiato al suo bastone, a cercarsi un comodo posto su uno dei larghi e bassi sedili coperti di pesanti tappeti che sono lungo le pareti della sala, e soddisfatto si stende e si addormenta presto, la bocca aperta, brutto nella sua vecchiezza cattiva.
Lo osservano. E Doras, figlio di Doras, dice: «Egli ha la soddisfazione di veder questo giorno. Mio padre lo sognò, ma non l’ebbe. Ma porterò nel cuore il suo spirito, perché sia presente nel giorno della vendetta sul Nazareno e abbia la sua gioia… ».
12 «Ricordatevi che dovremo a turno, e turno numeroso, essere costantemente nel Tempio».
«Lo saremo».
«Dovremo ordinare che a qualunque ora Giuda di Simone sia introdotto dal Sommo Sacerdote».
«Lo faremo».
«Ed ora prepariamoci il cuore al compito finale».
«È già pronto! È già pronto!».
«Con astuzia».
«Con astuzia».
«Con finezza».
«Con finezza».
«Per calmare ogni sospetto».
«Per sedurre ogni cuore».
«Qualunque cosa dica o faccia, nessuna reazione. Ci vendicheremo di tutto in una volta sola».
«Così faremo. E sarà feroce vendetta».
«Completa!».
«Tremenda! ».
E si siedono, cercando riposo in attesa dell’alba.
Cap. DXCVIII. Giovedì santo. Preparativi per la Cena pasquale. La voce del Padre. Il segno convenuto con il Traditore. L’ossequio di persone ragguardevoli.
3 aprile 1947
1 Un nuovo mattino. Così sereno! Così festoso! Non ci sono più neppure le nuvole rare che ieri vagavano lentamente sul cobalto del cielo. Non c’è neppure l’afa pesante che ieri era gravosa tanto. Una brezza sottile alita sui volti. E sa di fiori, sa di fieni, sa di aria pulita. E smuove lentamente le foglie degli ulivi. Sembra voglia far ammirare l’argenteo delle fogliette lanceolate e spargere fiori, piccoli, candidi, odorosi, sui passi di Cristo, sul suo capo biondo, baciarlo, rinfrescarlo – perché ogni minuto calice ha la sua stilluzza di rugiada – baciarlo, rinfrescarlo e poi morire prima di vedere l’orrore incombente. E si inchinano le erbe dei clivi scuotendo le campanelle, le corolle, le palmette dei mille fiori. Stelle dal cuore d’oro, le grosse margherite selvagge stanno alte sullo stelo come per baciargli la mano che sarà trafitta, e le pratoline e le matricarie gli baciano i piedi generosi, che si fermeranno dall’andare per il bene degli uomini solo quando saranno inchiodati per dare un bene maggiore ancora, e le rose canine odorano e il biancospino che non ha più fiori agita le foglie dentellate. Pare che dica: «No, no» a quelli che lo useranno per dare tormento al Redentore. E «no» dicono le canne del Cedron. Anche loro non vogliono colpire, la loro volontà di piccole cose non vuol fare male al Signore. E forse anche i sassi delle chine si felicitano di essere fuori di città, sull’Uliveto, perché in tal modo, no, non feriranno il Martire. E piangono gli esili convolvoli rosati, che Gesù amava tanto, e i corimbi delle acacie candide come grappoli di farfalle strette a uno stelo, forse pensando: «Non lo vedremo più». E i miosotis, così esili e puri, lasciano cadere la loro corolla al tocco della veste porpurea che Gesù ha indossato di nuovo. Deve. essere bello morire quando cosa che è di Gesù colpisce. Tutti i fiori, anche uno sperso mughetto, forse caduto là incidentalmente e che si è radicato fra le radici sporgenti di un olivo, è felice di esser scorto e colto da Tommaso e offerto al Signore… E felici sono i mille uccelli fra i rami di salutarlo con canti di gioia. Oh! che non lo bestemmiano gli uccelli che Egli ha sempre amato! Persino un branchetto di pecore sembra volerlo salutare benché siano in pianto, orbate come sono dei figli venduti per il sacrificio pasquale. E belando, un lamento di madri per l’aria, chiamando i figli che non torneranno più, vengono a sfregarsi presso Gesù, guardandolo con lo sguardo mite.
2 La vista delle pecore richiama gli apostoli al pensiero del rito e interrogano Gesù quando sono quasi al Getsemani. «Dove andremo a consumare la Pasqua? Che luogo scegli? Dillo, e noi andremo ad apparecchiare ogni cosa», dicono.
E Giuda di Keriot: «Dammi ordini e andrò».
«Pietro. Giovanni. Sentitemi».
I due, che erano un poco avanti, si fanno vicino a Gesù che li ha chiamati.
«Precedeteci ed entrate in città per la porta del Letame. Appena entrati, incontrerete un uomo che torna da En Rogel con una brocca di quella buon’acqua. Seguitelo finché entra in una casa. Direte a colui che è in essa: “Il Maestro dice: ‘Dove è la stanza dove Io possa mangiare la Pasqua coi miei discepoli?’”. Egli vi mostrerà un gran cenacolo pronto. Apparecchiate in esso ogni cosa. Andate solleciti e poi raggiungeteci al Tempio».
I due partono in tutta fretta.
Gesù procede invece lentamente. Tanto è ancor fresca mattina e le strade che immettono nella città mostrano appena i primi pellegrini. Valicano il Cedron sul ponticello che è prima del Getsemani. Entrano in città. Le porte, forse per un contrordine di Pilato, rassicurato dalla assenza di dispute intorno a Gesù, non sono più sorvegliate dai legionari. Infatti la massima calma regna in ogni luogo.
3 Oh! non si può dire che non abbiano saputo contenersi i giudei! Nessuno ha molestato il Maestro né i suoi discepoli. Ossequi bene educati, se non affettuosi, lo hanno sempre salutato, anche se quelli che li davano erano i più astiosi del Sinedrio. Una sopportazione inarrivabile ha accompagnato anche la requisitoria di ieri.
Ed ecco che proprio anche ora, poiché la casa di campagna di Caifa è proprio vicina a quella porta, ecco che proprio ora passa, venendo da essa, un folto gruppo di farisei e di scribi, fra i quali il figlio di Anna ed Elchia con Doras e Sadoc, ed è un piegarsi di schiene ammantate ampiamente, che ossequiano fra ondeggiamenti di vesti e frange e copricapi amplissimi. Gesù saluta e passa, regale nella sua veste di lana rossa e nel manto più cupo di tinta, il copricapo di Sintica nella mano, il sole che fa dei suoi capelli rosso-rame un serto d’oro e un velo lucente giù sino agli omeri. Le schiene si alzano dopo il suo passaggio e appaiono i volti: di iene idrofobe.
Giuda di Keriot, che guardava sempre intorno con la sua faccia di traditore, con la scusa di riallacciarsi un sandalo si fa ai margini della via e, lo vedo bene, fa un cenno a quei tali che lo attendano… Lascia che il gruppo di Gesù e dei discepoli vada avanti, sempre lavorando intorno alla fibbia del suo sandalo per darsi un contegno, poi rapido passa vicino a quelli e sussurra: «Alla Bella. Verso sesta. Un di voi», e sfreccia via
veloce raggiungendo i compagni. Franco, spudoratamente franco!…
4 Salgono al Tempio. Pochi ebrei ancora. Ma molti gentili. Gesù va ad adorare il Signore. Poi torna indietro e ordina a Simone e Bartolomeo di comperare l’agnello facendosi dare denari da Giuda di Keriot.
«Ma potevo fare io!», dice questi.
«Avrai altro da fare. Lo sai. Vi è quella vedova alla quale portare l’obolo di Maria di Lazzaro e dirle che dopo le feste vada a Betania, da Lazzaro. Lo sai dove sta? Hai capito bene?».
«So, so! Mi ha mostrato il luogo Zaccaria che la conosce bene». E aggiunge: «Sono molto contento di andare. Più che andare per l’agnello. Quando vado?».
«Più tardi. Non mi fermerò molto qui. Riposerò oggi, volendo esser forte per questa sera e per la mia orazione notturna».
«Va bene».
Ecco, io mi chiedo: Gesù, che aveva così taciuto nei giorni scorsi ogni suo proposito per non dare particolari a Giuda, perché ora dice, ripete ciò che farà nella notte? La Passione è già iniziata con la cecità di preveggenza, o è questa preveggenza tanto aumentata che Egli legge nei libri dei Cieli che quella è «la notte» e che perciò bisogna farlo sapere a chi attende di saperlo per consegnarlo ai nemici, o lo ha sempre saputo che in quella notte deve iniziarsi la sua immolazione? Io non so darmi risposta. Gesù non mi dà risposta. E io resto nei miei perché, mentre osservo Gesù che risana gli ultimi malati. Gli ultimi… Domani, fra poche ore, non potrà più… La Terra sarà privata del potente Risanatore di corpi. La Vittima, però, sul suo patibolo inizierà la serie, ininterrotta da venti secoli, dei suoi risanamenti di spiriti.
5 Oggi io contemplo più che descrivere. Il mio Signore mi fa proiettare la vista spirituale da ciò che io vedo accadere, nell’ultimo giorno di libertà di Cristo, a ciò che è nei secoli… Oggi io contemplo più i sentimenti, i pensieri del Maestro che non gli avvenimenti intorno a Lui. Sono già nella comprensione angosciosa della sua tortura del Getsemani…
6 Gesù è sopraffatto come il solito dalla folla che è già cresciuta, che ora è, nella più parte, ebrea e che si dimentica di affrettarsi al luogo del sacrificio degli agnelli per avvicinarsi a Gesù, Agnello di Dio che sta per essere immolato. E ancora chiede, e ancora vuole spiegazioni.
Molti sono ebrei venuti dalla Diaspora, i quali, saputo per fama del Cristo, del Profeta galileo, del Rabbi di Nazaret, sono curiosi di sentirlo parlare e ansiosi di levarsi ogni possibile dubbio. E questi si fanno largo supplicando quelli di Palestina così: «Voi sempre lo avete. Voi sapete chi è. Voi avete la sua parola quando volete. Noi siamo venuti da lontano e ripartiremo subito dopo aver compiuto il precetto. Lasciateci andare a Lui!». La folla si apre a fatica per cedere il posto a questi. E questi si avvicinano a Gesù e l’osservano curiosamente. Parlottano fra loro, gruppo per gruppo.
Gesù li osserva, anche se contemporaneamente ascolta un gruppo di persone venute dalla Perea. Poi, licenziate queste che gli hanno offerto denaro per i suoi poveri, così come molti fanno, ed Egli lo ha passato a Giuda come sempre, si accinge a parlare.
7 «Uni nella religione, ma diversi di provenienza, molti fra i presenti si chiedono: “Chi è costui che è detto il Nazareno?”, e la loro speranza e il loro dubbio cozzano insieme. Ascoltate.
È detto di Me: “Un germoglio spunterà dalla radice di Jesse, un fiore verrà da questa radice e sopra di Lui riposerà lo Spirito del Signore. Egli non giudicherà secondo quello che apparisce agli occhi, non condannerà per ciò che si sente con gli orecchi, ma giudicherà con giustizia i poveri, prenderà le difese degli umili. Il germoglio della radice di Jesse, posto quale segno fra le nazioni, sarà invocato dai popoli e il suo sepolcro sarà glorioso. Egli, alzata una bandiera alle nazioni, riunirà i profughi d’Israele, i dispersi di Giuda, li raccoglierà dai quattro punti della Terra”.
È detto di Me: “Ecco, il Signore Dio viene, con possanza, il suo braccio trionferà. Porta seco la sua mercede, ha davanti agli occhi l’opera sua. Come un pastore pascerà il suo gregge”.
È detto di Me: “Ecco il mio Servo col quale Io starò, nel quale si compiace l’anima mia. In Lui ho diffuso il mio spirito. Egli porterà giustizia fra le nazioni. Non griderà, non spezzerà la canna fessa, non spegnerà il lucignolo fumigante, farà giustizia secondo verità. Senza essere né triste né turbolento, giungerà a stabilire sulla Terra la giustizia, e le isole aspetteranno la sua legge”.
È detto di Me: “Io, il Signore, ti ho chiamato nella giustizia, ti ho preso per mano, ti ho preservato, ti ho fatto alleanza del popolo e luce delle nazioni per aprire gli occhi ai ciechi e trarre dal carcere i prigionieri e dalla sotterranea prigione quelli che giacciono nelle tenebre”.
È detto di Me: “Lo Spirito del Signore è sopra di Me, perché il Signore mi ha unto ad annunziare la Buona
Novella ai mansueti, a curare quelli che hanno il cuore affranto, a predicare la libertà agli schiavi, la liberazione ai prigionieri, a predicare l’anno di grazia del Signore”.
È detto di Me: “Egli è il Forte, pascerà il gregge con la fortezza del Signore, con la maestà del nome del Signore Dio suo. A Lui si convertiranno, perché sin da ora sarà glorificato, fino agli ultimi confini del mondo”.
È detto di Me: “Io stesso andrò in cerca delle mie pecorelle. Andrò in cerca delle smarrite, ricondurrò le scacciate, legherò le fratturate, ristorerò le deboli, terrò d’occhio le grasse e robuste, le pascerò con giustizia”.
È detto: “Egli è il Principe di pace e sarà la pace”.
È detto: “Ecco, viene il tuo Re, il Giusto, il Salvatore. Egli è povero, cavalca un asinello. Egli annunzierà pace alle nazioni. Il suo dominio sarà da mare a mare sino agli estremi della Terra”.
È detto: “Settanta settimane sono state fissate per il tuo popolo, per la tua città santa, affinché sia tolta la prevaricazione, abbia fine il peccato, sia cancellata l’iniquità, venga l’eterna giustizia, siano compiute visione e profezia, e sia unto il Santo dei santi. Dopo sette più sessantadue verrà il Cristo. Dopo sessantadue sarà ucciso. Dopo una settimana Egli confermerà il testamento, ma a mezzo della settimana verranno meno le ostie e i sacrifici, e sarà nel Tempio l’abominazione della desolazione, e durerà sino alla fine dei secoli”.
8 Mancheranno dunque le ostie in questi giorni? L’altare non avrà vittima? Avrà la gran Vittima. Ecco, la vede il profeta: “Chi è costui che viene con le vesti tinte di rosso? È bello nel suo vestito e cammina nella grandezza della sua forza”.
E come si è tinto di porpora, Colui che è povero, la veste? Ecco, lo dice il profeta: “Ho abbandonato il mio corpo ai percuotitori, le mie guance a chi mi strappa la barba, non ho allontanato il volto da chi mi oltraggia. E la mia bellezza e il mio splendore si è perduto, e gli uomini non mi hanno più amato. Disprezzato mi hanno gli uomini, considerato l’ultimo! Uomo di dolori, sarà velato il mio volto e vilipeso, e mi guarderanno come un lebbroso, mentre è per tutti che Io sarò piagato e morto”.
Ecco la Vittima! Non temere, o Israele! Non temere! Non manca l’Agnello pasquale! Non temere, o Terra! Non temere! Ecco il Salvatore! Come pecora sarà condotto al macello, perché lo ha voluto, e non ha aperto bocca per maledire quelli che l’uccidono. Dopo la condanna sarà innalzato e consumato nei patimenti, le membra slogate, le ossa scoperte, i piedi e le mani trafitti. Ma dopo l’affanno, col quale giustificherà molti, possederà le moltitudini perché, dopo aver consegnato la sua vita alla morte per la salute del mondo, risorgerà e governerà la Terra, nutrirà i popoli delle acque viste da Ezechiele, uscenti dal vero Tempio che, anche se è abbattuto, risorge per sua stessa forza, del vino di cui si è anche imporporata la candida veste d’Agnello senza macchia, e del Pane venuto dal Cielo.
9 Sitibondi, venite alle acque! Affamati, nutritevi! Esausti, bevete il mio vino, e voi malati! Venite voi che non avete denaro, voi che non avete salute, venite! E voi che siete nelle tenebre! E voi che siete morti, venite! Io sono Ricchezza e Salute, Io sono Luce e Vita. Venite voi che cercate la via! Venite voi che cercate la verità! Io sono Via e Verità! Non temete di non poter consumare l’Agnello perché mancano le ostie veramente sante in questo Tempio profanato. Tutti avrete da mangiare dell’Agnello di Dio venuto a togliere i peccati del mon-do, come ha detto di Me l’ultimo dei profeti del mio popolo. Di quel popolo al quale Io chiedo: Popolo mio, che ti ho fatto? In che ti ho contristato? Che potevo darti di più di ciò che Io non ti abbia dato? Ho istruito i tuoi intelletti, ho guarito i tuoi malati, beneficato i tuoi poveri, sfamato le tue turbe, ti ho amato nei tuoi figli, ho perdonato, ho pregato per te. Ti ho amato sino al Sacrificio. E tu che appresti al tuo Signore? Un’ora, l’ultima, ti è data, o mio popolo, o mia città regale e santa. Convertiti in quest’ora al Signore Dio tuo!».
10 «Ha detto le parole vere!».
«Così è detto! E Lui veramente fa quello che è detto!».
«Come un pastore ha avuto cura di tutti!».
«Come fossimo le pecore disperse, malate, nella caligine, è venuto a portarci alla via giusta, a guarirci anima e corpo, a illuminarci».
«Veramente tutti i popoli vanno a Lui. Osservate là quei gentili come sono ammirati! ».
«Pace ha predicato».
«Amore ha dato».
«Non capisco ciò che dice del sacrificio. Parla come se dovesse essere ucciso».
«Così è, se è l’Uomo visto dai profeti, il Salvatore».
«E parla come se tutto il popolo dovesse malmenarlo. Ciò non accadrà mai. Il popolo, noi, lo amiamo».
«È nostro amico. Lo difenderemo».
«Galileo è, e noi di Galilea daremo la vita per Lui».
«Di Davide è, e non alzeremo la mano che per difenderlo, noi di Giudea».
«E noi, che ci amò come amò voi, noi dell’Auranite, della Perea, della Decapoli, noi potremo dimenticarlo? Tutti, tutti lo difenderemo».
Queste le voci fra la folla ormai numerosa molto. Labilità delle intenzioni umane! Giudico dalla posizione del sole essere verso le nove antimeridiane dell’ora nostra. Ventiquattr’ore più tardi questa gente sarà da molte ore intorno al Martire per torturarlo con l’odio e le percosse, e urlerà chiedendo la sua morte. Pochi, molto pochi, troppo pochi fra le migliaia di persone che si affollano da ogni parte della Palestina e oltre, e che hanno avuto luce, salute, sapienza, perdono dal Cristo, saranno coloro che non solo non cercheranno di strapparlo ai nemici, perché la loro pochezza rispetto alla moltitudine dei percuotitori lo vieta, ma anche non sapranno confortarlo dandogli prova d’amore col seguirlo con volto amico. Le lodi, i consensi, i commenti ammirati si spargono per l’ampio cortile come onde che dall’alto del mare vadano lontano a morire sul lido.
11 Degli scribi, dei giudei, dei farisei tentano di neutralizzare l’entusiasmo del popolo, e anche il fermento del popolo contro i nemici del Cristo, dicendo: «Vaneggia. La stanchezza sua è tanta e lo conduce a delirare. Vede persecuzioni dove sono onori. Il suo dire ha fiumi della solita sua sapienza, ma mescolati a frasi di delirio. Nessuno gli vuol fare del male. Abbiamo capito. Capito chi è…».
Ma la gente è incerta di tanta conversione di umori, e qualcuno fra essa si ribella dicendo: «Egli mi guarì un figlio demente. So ciò che è la pazzia. Non così parla uno che è folle! ».
E un altro: «Lasciali dire. Sono vipere che hanno paura che il bastone del popolo spezzi loro le reni. Cantano la dolce canzone dell’usignolo per ingannarci, ma se ascolti bene c’è dentro il fischio del serpe».
E un altro ancora: «Scolte del popolo di Cristo, all’erta! Quando nemico carezza ha il pugnale nascosto nella manica e tende la mano per colpire. Occhi aperti e cuore pronto! Gli sciacalli non possono diventare docili agnelli».
«Dici bene: il gufo alletta e incanta gli uccellini ingenui con l’immobilità del suo corpo e con la mendace letizia del suo saluto. Ride e invita col suo grido, ma è già pronto a divorare».
E così via, da gruppo a gruppo.
12 Ma vi sono anche i gentili. Questi gentili che sono stati costanti e sempre più numerosi ad ascoltare il Maestro in questi giorni di festa. Sempre ai margini della folla, perché l’esclusivismo ebreo-palestinese è forte e li respinge volendo i primi posti intorno al Rabbi, essi hanno desiderio di avvicinarlo e parlargli.
Un folto gruppo di essi occhieggia Filippo, che la folla ha spinto in un angolo. Si accostano a lui dicendo: «Signore, noi desideriamo vedere da vicino Gesù, il tuo Maestro. E parlargli almeno una volta».
Filippo si alza sulle punte dei piedi per vedere se scorge qualche apostolo più vicino al Signore. Vede Andrea e gli grida, dopo averlo chiamato: «Qui sono dei gentili che vorrebbero salutare il Maestro. Chiedigli se vuole accoglierli».
Andrea, separato da Gesù di qualche metro, pigiato nella folla, si fa largo senza riguardi, lavorando generosamente di gomiti e urlando: «Fate largo! Fate largo, dico. Devo andare dal Maestro». Lo raggiunge e gli trasmette il desiderio dei gentili.
«Conducili in quell’angolo. Io verrò a loro».
E mentre Gesù cerca di passare fra la gente, Giovanni, che è tornato con Pietro, Pietro stesso, Giuda Taddeo, Giacomo di Zebedeo e Tommaso, che lascia il gruppo dei suoi parenti, trovato fra la folla, per aiutare i compagni, lottano a fargli strada.
13 ”Ecco Gesù là dove già sono i gentili che lo ossequiano.
«La pace a voi. Che volete da Me?».
«Vederti. Parlarti. Le tue parole ci hanno conturbati. Desideravamo sempre di parlarti per dirti che la tua parola ci colpisce. Ma attendevamo di farlo in momento propizio. Oggi… Tu parli di morte… Noi temiamo di non poter più parlarti se non prendiamo quest’ora. Ma è possibile che gli ebrei possano uccidere il loro figlio migliore? Noi siamo gentili e la tua mano non ci beneficò. La tua parola ci era sconosciuta. Avevamo sentito parlare di Te vagamente. Ma non ti avevamo mai visto né avvicinato. Eppure, lo vedi! Noi ti rendiamo omaggio. Tutto il mondo con noi ti onora».
«Sì, l’ora è venuta nella quale il Figlio dell’uomo deve essere glorificato dagli uomini e dagli spiriti».
Ora la gente è di nuovo intorno a Gesù. Ma con la differenza che in prima fila sono i gentili e indietro gli altri.
«Ma allora, se è l’ora della tua glorificazione, Tu non morrai come dici, o come abbiamo capito. Perché non è essere glorificato morire in tal modo. Come potrai riunire il mondo sotto il tuo scettro, se Tu muori prima di
averlo fatto? Se il tuo braccio si immobilizzerà nella morte, come potrà trionfare e radunare i popoli?».
«Morendo dò vita. Morendo edifico. Morendo creo il Popolo nuovo. È nel sacrificio che si ha la vittoria. In verità vi dico che, se il granello di frumento caduto sulla terra non muore, rimane infecondo. Ma se invece muore, ecco che produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perderà. Chi odia la sua vita in questo mondo la salverà per la vita eterna. Io poi ho il dovere di morire per dare questa vita eterna a tutti coloro che mi seguo-no per servire la Verità. Chi mi vuole servire venga: non è limitato il posto nel mio regno a questo o a quel popolo. Chiunque mi vuol servire venga e mi segua, e dove Io sono sarà pure il mio servo. E chi mi serve l’onorerà il Padre mio, unico, vero Iddio, Signore del Cielo e della Terra, Creatore di tutto quanto è, Pensiero, Parola, Amore, Vita, Via, Verità; Padre, Figlio, Spirito Santo, Uno essendo Trino, Trino essendo unico, solo, vero Dio.
14 “Ma ora l’anima mia è turbata. E che dirò? Dirò forse: “Padre, salvami da quest’ora”? No. Perché Io sono venuto per questo: per giungere a quest’ora. E allora dirò: “Padre, glorifica il tuo Nome!”».
Gesù apre le braccia in croce, una croce porpurea contro il candore dei marmi del portico, e alza il volto, offrendosi, pregando, salendo coll’anima al Padre.
E una voce, più forte del tuono, immateriale nel senso che non è simile a nessuna voce d’uomo, ma sensibilissima per tutti gli orecchi, empie il cielo sereno della bellissima giornata d’aprile e vibra, più potente di accordo d’organo gigante, bellissima nella sua tonalità, e proclama: «E Io l’ho glorificato e ancora lo glorificherò».
La gente ha avuto paura. Quella voce, così potente che ne ha vibrato il suolo e ciò che su esso si trova, quella voce misteriosa, diversa da ogni altra, veniente da una fonte che è sconosciuta, quella voce che empie tutto, da settentrione a mezzogiorno, da oriente a occidente, terrorizza gli ebrei e stupisce i pagani. I primi si gettano, sol che possano farlo, al suolo, mormorando nel tremore: «Ora morremo!.
Abbiamo sentito la voce dal Cielo. Un angelo gli ha parlato!», e si battono il petto in , attesa della morte. I secondi gridano: «Un tuono! Un boato! Fuggiamo! La Terra ha ruggito! Ha tremato!». Ma fuggire è impossibile in quella ressa che si accresce di quelli che, ancor fuor dalle mura del Tempio, accorrono entro di esse gridando: «Pietà di noi! Corriamo! Qui è luogo santo. Non si fenderà il monte dove sorge l’altare di Dio!». E perciò ognuno resta dove è, dove lo blocca la folla e lo spavento.
15 Sulle terrazze del Tempio accorrono i sacerdoti, gli scribi, i farisei che erano sparsi per i meandri di esso, e leviti, e strategoi. Agitati, sbalorditi. Ma di tutti loro non scendono, fra la gente che è nei cortili, altro che Gamaliele con suo figlio. Gesù lo vede passare, tutto candido nella veste di lino, che è così bianca da splendere persino sotto il forte sole che la investe.
Gesù, guardando Gamaliele ma come parlando per tutti, alza la voce dicendo: «Non per Me, ma per voi è venuta questa voce dal Cielo».
Gamaliele si arresta, si volge, trivella con gli sguardi dei suoi occhi profondi e nerissimi – che l’abitudine ad essere un maestro venerato come un semidio fa involontariamente duri come quelli dei rapaci – lo sguardo zaffireo, limpido, dolce nella sua maestà, di Gesù…
E Gesù prosegue: «Ora si ha il giudizio di questo mondo. Ora il Principe delle Tenebre sta per essere cacciato fuori. Ed Io, quando sarò innalzato, trarrò tutti a Me, perché così salverà il Figlio dell’uomo».
16 «Noi abbiamo imparato dai libri della Legge che il Cristo vive in eterno. E Tu ti dici il Cristo e dici che devi morire. E ancora dici che sei il Figlio dell’uomo e salverai essendo esaltato. Chi sei dunque? Il Figlio dell’uomo o il Cristo? E chi è il Figlio dell’uomo?», dice la folla che si rinfranca.
«Sono un’unica Persona. Aprite gli occhi alla Luce. Ancora per un poco la Luce è con voi. Camminate verso la Verità sinché avete la Luce fra voi, affinché non vi sorprendano le tenebre. Coloro che camminano nel buio non sanno dove vadano a finire. Finché avete fra voi la Luce credete ad Essa, per essere figli della Luce». Tace.
La folla è perplessa e divisa. Una parte se ne va scrollando il capo. Una parte osserva l’atteggiamento dei principali dignitari: farisei, capi dei sacerdoti, scribi… e specie di Gamaliele, e regola i propri moti su questo atteggiamento. Altri ancora approvano col capo e si inchinano a Gesù con chiari segni di volergli dire: «Crediamo! Ti onoriamo per ciò che sei». Ma non osano schierarsi apertamente in suo favore. Hanno paura degli occhi attenti dei nemici di Cristo, dei potenti, che li sorvegliano dall’alto delle terrazze che sovrastano i superbi porticati che cingono i cortili del Tempio.
17 Anche Gamaliele, dopo essere rimasto pensieroso qualche minuto, e par che interroghi i marmi che pavimentano il suolo per avere risposta alle sue interne domande, si riavvia verso l’uscita dopo aver scrollato testa e spalle come per disappunto o sprezzo… e passa diritto davanti a Gesù senza più guardarlo.
Gesù invece lo guarda, con compassione… e alza di nuovo la voce, fortemente – è come un bronzeo squillo – per superare ogni rumore ed essere sentito dal grande scriba che se ne va deluso. Par che parli per tutti, ma
parla per lui solo, è palese.
Dice a voce altissima:
«Chi crede in Me non crede, in verità, in Me, ma in Colui che mi ha mandato, e chi vede Me vede Colui che mi ha mandato. E questo Colui è bene il Dio d’Israele! Perché non c’è altro Dio fuor che Lui.
Per questo dico: se non potete credere a Me come a colui che è detto figlio di Giuseppe di Davide ed è figlio di Maria, della stirpe di Davide, della Vergine vista dal profeta, nato a Betlemme, come è detto dalle profezie, precorso dal Battista, ancor come è detto da secoli, credete almeno alla Voce del vostro Dio che vi ha parlato dal Cielo. Credete in Me come Figlio di questo Dio d’Israele. Ché, se non credete a Chi vi ha parlato dal Cielo, non Me offendete, ma il Dio vostro di cui sono Figlio.
Non vogliate rimanere nelle tenebre! Io sono venuto Luce al mondo affinché chi crede in Me non resti nelle tenebre. Non vogliate crearvi dei rimorsi, che non potreste più placare quando Io fossi tornato là donde sono venuto, e che sarebbero un ben duro castigo di Dio sulla vostra pervicacia. Io sono pronto a perdonare sinché sono fra voi, sinché il giudizio non è fatto, e per quanto sta a Me ho desiderio di perdonare. Ma diverso è il pensiero del Padre mio. Perché Io sono la Misericordia ed Egli è la Giustizia.
In verità vi dico che, se uno ascolta le mie parole e non le osserva poi, Io non lo giudico. Non sono venuto nel mondo per giudicare, ma per salvare il mondo. Ma anche se Io non giudico, in verità vi dico che vi è chi vi giudica per le vostre azioni. Il Padre mio, che mi ha mandato, giudica coloro che respingono la sua Parola. Sì, chi mi disprezza e non riconosce la Parola di Dio e non riceve le parole del Verbo, ecco che ha chi lo giudica: la stessa Parola che Io ho annunziata, quella lo giudicherà nel giorno estremo.
Dio non si irride, è detto. E il Dio irriso sarà terribile a coloro che lo giudicarono pazzo e mentitore.
Ricordate tutti che le parole che mi avete sentito dire sono di Dio. Perché Io non ho parlato di mio, ma il Padre che mi ha mandato, Egli stesso mi ha prescritto quello che debbo dire e di che devo parlare. E Io ubbi-disco al suo comando perché Io so che il suo comandamento è giusto. Vita eterna è ogni comando di Dio. Ed Io, vostro Maestro, vi do l’esempio di ubbidienza ad ogni comando di Dio, Perciò siate certi che le cose che vi ho dette e vi dico, le ho dette e le dico così come mi ha detto il Padre mio di dirvele. E il Padre mio è il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe; il Dio di Mosè, dei patriarchi e dei profeti, il Dio d’Israele, il Dio vostro».
Parole di luce, che cadono nelle tenebre che già si incupiscono nei cuori!
Gamaliele, che si era nuovamente fermato, a capo chino, riprende ad andare… Altri lo seguono crollando il capo o sogghignando…
18 Anche Gesù se ne va… Ma prima dice a Giuda di Keriot: «Va’ dove devi andare», e agli altri: «Ognuno è libero di andare. Dove deve o dove vuole. Con Me restino i discepoli pastori».
«Oh! prendi anche me con Te, Signore! », dice Stefano.
«Vieni … ».
Si separano. Non so dove va Gesù. Ma so dove va Giuda di Keriot. Va alla porta Speciosa o Bella, salendo i diversi scalini che dall’atrio dei Gentili portano a quello delle donne, e dopo averlo attraversato, salendo al termine di esso altri scalini, occhieggia nell’atrio degli Ebrei e con ira batte il piede al suolo non trovando chi cerca.
Torna indietro. Vede una delle guardie del Tempio. La chiama. Ordina, con la sua solita arroganza: «Va’ da Eleazar ben Anna. Che venga subito alla Bella. Lo attende Giuda di Simone per cose gravi».
Si appoggia a una colonna e attende. Poco tempo. Eleazaro figlio di Anna, Elchia, Simone, Doras, Cornelio, Sadoc, Nahum e altri accorrono con un grande svolazzio di vesti.
Giuda parla a voce bassa ma concitata: «Questa sera! Dopo la cena. Al Getsemani. Veniteci e prendetelo. Datemi il denaro».
«No. Te lo daremo quando tu verrai a prenderci questa sera. Non ci fidiamo di te! Ti vogliamo con noi. Non si sa mai!», ghigna Elchia. Gli altri assentono in coro.
Giuda avvampa di sdegno per l’insinuazione. Giura: «Lo giuro su Jeové che dico il vero! ».
Sadoc gli risponde: «Va bene. Ma è meglio fare così. Quando è l’ora tu vieni, prendi i preposti alla cattura e vai con loro, ché non avvenga che le guardie stolte arrestino Lazzaro, al caso, e facciano accadere guai. Tu indicherai ad esse, con un segno, l’uomo… Devi capire! È notte,… ci sarà poca luce… le guardie saranno stanche, assonnate… Ma se tu guidi!… Ecco! Che dite?». Si volge ai compagni il perfido Sadoc e dice: «Io proporrei per segnale un bacio. Un bacio! Il miglior segno per indicare l’amico tradito. Ah! Ah! ».
Ridono tutti. Un coro di demoni sghignazzanti.
Giuda è furente. Ma non arretra. Non arretra più. Soffre per lo scherno che gli fanno, non per quello che sta per fare. Tanto che dice: «Ma ricordate che voglio le monete contate nella borsa prima di uscire di qui con le guardie».
«Le avrai! Le avrai! Anche la borsa ti daremo, perché tu possa conservare quelle monete come reliquia del tuo amore. Ah! Ah! Ah! Addio, serpe! ».
Giuda è livido. È già livido. Non perderà mai più (luci colore e quell’espressione di spavento disperato. Essa, anzi, coll’andar delle ore si accentuerà sempre più, sino ad essere insostenibile alla vista quando penzolerà dall’albero… Fugge via…
19 Gesù si è rifugiato nel giardino di una casa amica. Un quieto giardino delle prime case di Sion. Mura alte e antiche lo cingono. È silenzioso e fresco, coperto come è dalle fronde semoventi di vecchi alberi. Una voce di donna canta poco lontano una dolce ninna-nanna.
Devono essere passate delle ore, perché i servi di Lazzaro, di ritorno dopo essere andati non so dove, dicono:
«I tuoi discepoli sono già nella casa dove si prepara per la cena, e Giovanni, dopo aver portato con noi i frutti ai figli di Giovanna di Cusa, se ne è andato a prendere le donne per accompagnarle da Giuseppe di Alfeo, che è venuto solo oggi, quando sua madre non sperava più di vederlo, e poi da lì alla casa della cena, perché è il vespero».
«Andremo anche noi. Sono venute le ore delle cene. .. ». Gesù si alza rimettendosi il manto.
«Maestro, lì fuori ci sono delle persone. Persone di censo. Vorrebbero parlarti senza esser viste dai farisei», dice un servo.
«Falli entrare. Ester non si opporrà. Non è vero, donna?», dice Gesù rivolgendosi ad una matura donna che sta accorrendo per salutarlo.
«No, Maestro. La mia casa è tua, lo sai. Per troppo poco hai usato di essa!».
«Tanto che basti a dire al mio cuore: era casa amica». Ordina al servo: «Conduci chi attende».
20 Entrano una trentina di persone di dignitoso aspetto. Ossequiano. Uno parla per tutti: «Maestro, le tue parole ci hanno scosso. Abbiamo sentito in Te la voce di Dio. Ma ci dicono folli perché crediamo in Te. Che fare allora?».
«Non a Me crede chi crede in Me, ma crede a Colui che mi ha mandato e del quale oggi avete sentito la voce santissima. Non Me vede chi vede Me, ma vede Colui che mi ha mandato, perché Io sono una sola cosa col Padre mio. Per questo vi dico che dovete credere per non offendere Dio che mi è e vi è Padre, e vi ama sino a sacrificarvi il suo Unigenito. Ché, se è dubbio nei cuori che Io sia il Cristo, non vi è dubbio che Dio sia nel Cielo. E la voce di Dio, che Io ho chiamato Padre, oggi al Tempio, chiedendogli di dare gloria al suo Nome, ha risposto a Colui che Padre lo chiamava, e senza dirgli “mentitore o bestemmiatore” come molti dicono. Dio ha confermato chi Io sono. La sua Luce. Io sono la Luce venuta al mondo. Io sono venuto Luce al mondo affinché chi crede in Me non resti nelle Tenebre. Se uno ascolta le mie parole e poi non le osserva, lo non lo giudico. Non sono venuto a giudicare il mondo ma a salvare il mondo. Chi mi disprezza e non riceve le mie parole ha chi lo giudica. La Parola da Me annunciata, quella sarà che lo giudicherà nel giorno estremo. Perché era sapiente, perfetta, dolce, semplice, così come è Dio. Perché quella Parola è Dio. Non sono Io, Gesù di Nazaret, detto il figlio di Giuseppe legnaiolo della stirpe di Davide e figlio di Maria, fanciulla ebrea, vergine della stirpe di Davide sposata a Giuseppe, che ho parlato. No. Io non ho parlato di mio. Ma è il Padre mio, Colui che è nei Cieli e ha nome Jeové, Colui che oggi ha parlato, Colui che mi ha mandato, che mi ha prescritto quello che devo dire e di che ho da parlare. E Io so che nel suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che dico le dico come me le ha dette il Padre, e in esse è Vita. Per questo vi dico: ascoltatele. Mettetele in pratica e avrete la Vita. Perché la mia parola è Vita. E chi l’accoglie, accoglie, insieme a Me, il Padre dei Cieli che mi ha mandato a darvi la Vita. E chi ha in sé Dio ha in sé la Vita. 21 `Andate. La pace venga a voi e vi permanga».
Li benedice e congeda. Benedice anche i discepoli. Trattiene solamente Isacco e Stefano. Gli altri li bacia e li congeda. E quando sono andati, esce per ultimo insieme ai due e va con essi, per le viette più solitarie e già scure, alla casa del Cenacolo. E, giunto là, abbraccia e benedice con particolare amore Isacco e Stefano, li bacia, li benedice di nuovo, li guarda andare e poi bussa ed entra…
22 Dice Gesù:«Metterai qui le altre visioni dell’addio a mia Madre, del Cenacolo, della Cena. E ora facciamo noi due, Io e te, la vera commemorazione pasquale. Vieni… ».
Cap. DC. L’ultima Cena pasquale.
9 marzo 1945
1 Comincia la sofferenza del Giovedì Santo.
Gli apostoli, e sono dieci, si dànno un gran da fare a preparare il Cenacolo.
Giuda, arrampicato sul tavolo, osserva se l’olio è in tutti i palloncini del grande lampadario, che pare una corolla di fucsia doppia, perché ha uno stelo circondato da cinque lumi in ampolle simili a petali, poi un secondo giro, più in basso, che è tutta una coroncina di fiammelle, poi ha, per ultimo, tre esili lampadine sospese a catenelle che sembrano i pistilli del luminoso fiore. Poi scende con un salto e aiuta Andrea a disporre con arte le stoviglie sulla tavola, su cui viene stesa una finissima tovaglia.
Sento Andrea che dice: «Che splendido lino !».
E l’Iscariota: «Uno dei migliori di Lazzaro. Marta l’ha voluta portare per forza».
«E questi calici? e queste anfore, allora?», osserva Tommaso che ha messo il vino nelle anfore preziose e le rimira, specchiandosi nelle loro pance snelle, e ne carezza i manici a cesello con occhio d’intenditore.
«Chissà che valore, eh?», chiede Giuda Iscariota.
«È lavorato a martello. Mio padre ne andrebbe pazzo. L’argento e l’oro in foglia si piega, quando è caldo, con facilità. Ma trattato così… È un momento rovinare tutto. Basta un colpo mal dato. Ci vuole forza e leggerezza insieme. Vedi i manici? Tratti dal blocco. Non saldati. Cose da ricchi… Pensa che tutta la limatura e lo sbozzato si perdono. Non so se mi capisci».
«Eh! se capisco! Insomma è come uno che fa scoltura».
«Proprio così».
Tutti ammirano. Poi tornano al loro lavoro. Chi dispone i sedili e chi fa pronte le credenze.
2 Entrano insieme Pietro e Simone.
«Oh! siete venuti finalmente! Dove siete andati di nuovo? Dopo essere giunti col Maestro e noi, siete da capo fuggiti», dice l’Iscariota.
«Ancora un’incombenza prima dell’ora», risponde breve Simone.
«Hai delle malinconie?».
«Credo che, con quello che si è udito in questi giorni, e da quelle labbra che mai trovammo menzognere, ce ne sia ben ragione».
«E con quel puzzo di… Bene, sta’ zitto, Pietro», borbotta Pietro fra i denti.
«Anche tu! … Mi sembri folle da qualche giorno. Hai la faccia di un coniglio selvatico che si sente dietro lo sciacallo», risponde Giuda Iscariota.
«E tu hai il muso della faina. Anche tu non sei molto bello da qualche giorno. Guardi in un modo… Hai persino l’occhio storto… Chi aspetti, o che speri vedere? Sembri sicuro, vuoi farlo parere, ma assomigli a chi ha paura», rimbecca Pietro.
«Oh! Quanto a paura!… Non sei certo un eroe neppure tu!».
«Nessuno lo siamo, Giuda. Tu porti il nome del Maccabeo, ma non lo sei. Io dico, col mio, “Dio fa grazie”, ma ti giuro che ho in me il tremito di chi sa di portare disgrazia e di essere soprattutto in disgrazia di Dio. Simone di Giona, ribattezzato “la pietra”, è ora molle come cera al fuoco. Non si agguanta più col suo volere. E sì che mai lo vidi pauroso nelle più fiere tempeste! Matteo, Bartolmai e Filippo sembrano sonnambuli. Mio fratello e Andrea non fanno che sospirare. I due cugini, in cui è il dolore del sangue con quello dell’amore al Maestro, guardali. Sembrano uomini già vecchi. Tommaso ha perduto la sua giocondità. E Simone sembra tornato il lebbroso sfinito di or sono tre anni, tanto è scavato da un dolore, direi corroso, livido, avvilito», gli risponde Giovanni.
3 «Sì. Ci ha suggestionati tutti con la sua melanconia», osserva l’Iscariota.
«Mio cugino Gesù, il mio e vostro Maestro e Signore, è e non è melanconico. Se vuoi dire, con questo nome, che è triste per il troppo dolore che tutto Israele gli sta dando, e che noi vediamo, e per l’altro occulto dolore che Egli solo vede, ti dico: “Hai ragione”. Ma se usi quel termine per dirlo folle, te lo proibisco», dice Giacomo di Alfeo.
«E non è follia un’idea fissa di malinconia? Io ho studiato anche il profano. E so. Egli troppo ha dato di Sé.
Ora è uno stanco di mente».
«Il che significa demente. Non è vero?», chiede l’altro cugino Giuda, in apparenza calmo.
«Proprio così! Aveva visto bene tuo padre (in una sua invettiva contro Gesù al Vol 2 Cap 100 che l’Iscariota aveva accolto con perfidia alcune righe più avanti), giusto di santa memoria, al quale tanto tu somigli in giustizia e sapienza! Gesù, triste destino di una illustre casa troppo vecchia e colpita da senilità psichica, ha sempre avuto una tendenza a questa malattia. Dolce dapprima, poi sempre più aggressiva. Tu hai visto come ha attaccato farisei e scribi, sadducei ed erodiani. Si è resa impossibile la vita come un cammino sparso di schegge di quarzo. E da Sé se le è sparse. Noi… lo amammo tanto che l’amore ci fu velo. Ma quelli che l’amarono non idolatramente – tuo padre, tuo fratello Giuseppe, e Simone dapprima – videro giusto… Dovevamo aprire gli occhi alle loro parole. Invece siamo stati tutti sedotti dal suo dolce fascino di malato. Ed ora… Mah! ».
Giuda Taddeo, che, alto come l’Iscariota, gli è proprio di fronte e pare udirlo con pace, ha uno scatto violento e, con un manrovescio potente, getta Giuda supino su uno dei sedili, e con una collera contenuta nella voce gli fischia, curvandosi sul volto del vigliacco, che non reagisce forse temendo che il Taddeo sia a conoscenza del suo crimine: «Questo per la demenza, rettile! E solo perché Egli è di là, ed è sera di Pasqua, non ti strozzo. Ma pensa, pensalo bene! Se gli avviene del male, e non c’è più Lui a fermare la mia forza, nessuno ti salva. È come tu già avessi il capestro al collo, e saranno queste mie mani oneste e forti, di artiere galileo e di discendente del frombolatore di Golia, che te lo faranno. Alzati, smidollato libertino! E regolati!».
Giuda si alza, livido, senza la minima reazione. E, ciò che mi stupisce, nessuno ha una reazione al gesto nuovo del Taddeo. Anzi! … È chiaro che tutti approvano.
4 È appena ricomposto l’ambiente che entra Gesù. Si affaccia sulla soglia della porticina, dalla quale la sua alta persona appena passa, mette piede sul ballatoio di così poco spazio e col suo mite, mesto sorriso dice, aprendo le braccia: «La pace sia con voi». La sua voce è stanca, come quella di uno che languisce nel fisico o nel morale.
Scende. Carezza sul capo biondo Giovanni che gli è corso vicino. Sorride, come ignaro, al cugino Giuda e dice all’altro cugino: «Tua madre ti prega di essere dolce con Giuseppe. Ha chiesto di Me e di te poco fa alle donne. Mi spiace non averlo salutato».
«Lo farai domani».
«Domani?… Ma avrò sempre tempo di vederlo… Oh! Pietro! Staremo un poco insieme, finalmente! Da ieri mi sembri un fuoco fatuo. Ti vedo, poi non ti vedo più. Oggi quasi posso dire che ti ho perso. Anche tu, Simone».
«I nostri capelli più bianchi che neri ti possono fare sicuro che non fummo assenti per fame di carne», dice serio Simone.
«Per quanto… a tutte le età si possa avere quella fame… I vecchi! Peggio dei giovani…», dice l’Iscariota offensivo.
Simone lo guarda e sta per ribattere. Ma lo guarda anche Gesù e dice: «Ti duole un dente? Hai la guancia destra gonfia e rossa».
«Sì. Ho male. Ma non merita occuparsene».
Gli altri non dicono nulla e la cosa muore così.
5 «Avete fatto tutto quanto era da fare? Tu, Matteo? Andrea? E tu, Giuda, hai pensato all’offerta al Tempio?».
Tanto i due primi come l’Iscariota dicono: «Tutto fatto di quello che avevi detto da farsi per oggi. Sta’ quieto».
«Io ho portato le primizie di Lazzaro a Giovanna di Cusa. Per i bambini. Mi hanno detto: “Erano più buone quelle mele!”. Avevano il sapore della fame, quelle! Ed erano le tue mele», dice sorridente e sognante Giovanni.
Anche Gesù sorride ad un ricordo…
«Io ho visto Nicodemo e Giuseppe», dice Tommaso.
«Li hai visti? Hai parlato con loro?», chiede l’Iscariota con interesse esagerato.
«Sì. Che c’è di strano? Giuseppe è un buon cliente del padre mio».
«Non lo avevi detto prima… Mi sono stupito per questo!…». Giuda cerca rimediare all’impressione, data prima, di affanno per l’incontro di Giuseppe e Nicodemo con Tommaso.
«Mi fa strano che non siano venuti qui a venerarti. Non loro, non Cusa, non Mannanen… Nessuno dei…».
Ma l’Iscariota ride con una falsa risata, interrompendo Bartolomeo, e dice: «Il coccodrillo si rintana nell’ora buona».
«Che vuoi dire? Che insinui?», interroga Simone, aggressivo quanto non fu mai.
«Pace, pace! Ma che avete? È sera pasquale! Mai avemmo sì degno apparato alla consumazione dell’agnello. Consumiamo dunque la cena con spirito di pace. Vedo che vi ho molto turbato con le mie istruzioni di queste ultime sere. Ma, vedete? Ho finito! Ora non vi turberò più. Non tutto è detto di quanto a Me si riferisce. Solo l’essenziale. Il resto… lo capirete poi. Vi sarà detto… Sì. Verrà Chi ve lo dirà.
6 Giovanni, vai con Giuda e qualche altro a prendere le coppe per la purificazione. E poi sediamo alla mensa». Gesù è di una dolcezza straziante.
Giovanni con Andrea, Giuda Taddeo con Giacomo, portano l’ampia coppa, vi mescono acqua e offrono l’asciugamani a Gesù e ai compagni, i quali poi fanno lo stesso con loro. La coppa (che è un bacile di metallo) viene messa in un angolo.
«Ed ora ai propri posti. Io qui, e qui (alla destra) Giovanni, e dall’altro lato il mio fedele Giacomo. I due primi discepoli.
Dopo Giovanni la mia Pietra forte, e dopo Giacomo colui che è come l’aria. Non si avverte. Ma è sempre presente e dà conforto: Andrea. Vicino a lui, mio cugino Giacomo. Tu non ti rammarichi, dolce fratello, se do il primo posto ai primi? Sei il nipote del Giusto, il cui spirito palpita e aleggia su Me, in questa sera, più che mai. Abbi pace, padre della mia debolezza di fanciullino, quercia alla cui ombra ebbero ristoro la Madre e il Figlio! Abbi pace!… Dopo Pietro, Simone… Simone, vieni un momento qui. Voglio fissare il tuo volto leale. Dopo non ti vedrò che male, perché altri mi copriranno la tua onesta faccia. Grazie, Simone. Di tutto», e lo bacia.
Simone, quando è lasciato, va al suo posto portandosi per un attimo le mani al volto con atto di afflizione.
«Di fronte a Simone, il mio Bartolmai. Due onestà e due sapienze che si rispecchiano. Stanno bene insieme. E vicino, tu, Giuda, fratello mio. Così ti vedo,… e mi sembra di essere a Nazaret… quando qualche festa ci riuniva tutti ad una mensa… Anche a Cana… Ricordi? Eravamo insieme. Una festa… una festa di nozze… il primo miracolo… l’acqua mutata in vino… Anche oggi una festa… e anche oggi vi sarà un miracolo… il vino cambierà natura… e sarà… ». Gesù si immerge nel suo pensiero. A capo chino, è come isolato nel suo mondo segreto. Gli altri lo guardano e non parlano.
Rialza il capo e fissa Giuda Iscariota, al quale dice: «Tu mi starai di fronte».
«Tanto mi ami? Più di Simone, che mi vuoi avere sempre di fronte?».
«Tanto. Lo hai detto».
«Perché, Maestro?».
«Perché tu sei quello che hai fatto più di tutti per quest’ora».
Giuda guarda con un mutevolissimo sguardo il Maestro e i compagni. Il primo con un che di ironica compassione, gli altri con aria di trionfo.
«E vicino a te, da una parte Matteo, dall’altra Tommaso».
«Allora Matteo alla mia sinistra e Toma a destra».
«Come vuoi, come vuoi», dice Matteo. «Mi basta aver bene di fronte il mio Salvatore».
«Ultimo, Filippo. Ecco, vedete? Chi non è al mio fianco nel lato d’onore, ha l’onore di essermi di fronte».
7 Gesù, ritto al suo posto, mesce nell’ampio calice collocato a Lui davanti (tutti hanno alti calici, ma Lui ne ha uno molto più ampio, oltre quello che hanno tutti. Deve essere il calice di rito). Mesce in esso il vino. Lo alza, lo offre. Lo posa.
Poi tutti insieme chiedono con tono di salmo: «Perché questa cerimonia?». Domanda formale, si capisce. Di rito.
Alla quale Gesù, come capo famiglia, risponde: «Questo giorno ricorda la nostra liberazione dall’Egitto. Sia benedetto Geové che ha creato il frutto della vigna».
Beve un sorso di questo vino offerto e passa il calice agli altri. Poi offre il pane, lo spezza, lo distribuisce, indi le erbe intinte nella salsa rossastra che è in quattro salsiere.
Finita questa parte di pasto, cantano dei salmi, tutti in coro.
Viene portato dalla credenza sulla mensa, e posto di fronte a Gesù, il capace vassoio dell’agnello arrostito.
Pietro, che ha il ruolo di… prima parte, di coro, se più le piace, chiede: «Perché quest’agnello, così?».
«A ricordo di quando Israele fu salvo per l’agnello immolato. Non morì primogenito dove il sangue splendeva sugli stipiti e l’architrave. E dopo, mentre tutto l’Egitto piangeva sui primogeniti maschi morti, dalla reggia ai tuguri, gli ebrei, capitanati da Mosè, si mossero verso la terra della liberazione e della promessa. Coi fianchi già cinti, i calzari al piede, in mano il bordone, fu sollecito il popolo di Abramo a porsi in marcia cantando gli inni della gioia».
Tutti si alzano in piedi e intonano: «Quando Israele uscì dall’Egitto e la casa di Giacobbe di mezzo ad un popolo barbaro, la Giudea divenne il suo santuario», ecc. ecc. (se trovo giusto, è il salmo 114. Quello che viene detto subito dopo è il Salmo 113).
Ora Gesù taglia l’agnello, mesce un nuovo calice, lo passa dopo averne bevuto. Poi cantano ancora: «Fanciulli, lodate il Signore, sia benedetto il nome dell’Eterno ora e sempre nei secoli. Dall’oriente all’occidente deve essere lodato», ecc.
Gesù dà le parti, badando che ognuno sia bon servito, proprio come un padre di famiglia fra figli a lui tutti cari. È solenne, un po’ triste, mentre dice: «Ho ardentemente desiderato di mangiare con voi questa Pasqua. È stato il mio desiderio dei desideri da quando, in eterno, Io fui “il Salvatore”. Sapevo che quest’ora precede quella. E la gioia di darmi metteva in anticipo questo sollievo al mio patire… Ho ardentemente desiderato di mangiare con voi questa Pasqua, perché mai più gusterò del frutto della vite finché sia venuto il Regno di Dio. Allora mi assiderò nuovamente cogli eletti al Banchetto dell’Agnello, per le nozze dei viventi col Vivente. Ma ad esso verranno soltanto coloro che sono stati umili e mondi di cuore come Io sono».
8 «Maestro, poco fa Tu hai detto che chi non ha l’onore del posto ha quello d’esserti di fronte. Come allora possiamo sapere chi è il primo fra noi?», chiede Bartolomeo.
«Tutti e nessuno. Una volta… tornavamo stanchi… nauseati per l’astio farisaico. (Vol 5 Cap 352). Ma stanchi non eravate per disputare fra di voi chi fosse il più grande… Un bambino mi corse vicino… un mio piccolo amico… E la sua innocenza temperò il mio disgusto di tante cose. Non ultima la vostra umanità pervicace. Dove sei ora, piccolo Beniamino dalla sapiente risposta, a te venuta dal Cielo perché, angelo come eri, lo Spirito ti parlava? Io vi ho detto allora: “Se uno vuole essere il primo sia l’ultimo e servo di tutti”. E vi ho dato ad esempio il fanciullo saggio. Ora vi dico: “I re delle nazioni le signoreggiano. E i popoli oppressi, pur odiandoli, li acclamano e i re vengono detti ‘Benefattori’, ‘Padri della Patria’. Ma l’odio cova sotto il bugiardo ossequio”. Ma fra voi così non sia. Il maggiore sia come il minore, il capo come colui che serve. Chi infatti è più grande? Chi sta a mensa, o chi serve? È colui che sta a mensa. Eppure Io vi servo. E fra poco più vi servirò. Voi siete quelli che siete stati con Me nelle prove. Ed Io dispongo per voi un posto nel mio Regno, così come Io sarò in esso Re secondo il volere del Padre, acciocché mangiate e beviate alla mia mensa eterna e siate assisi sui troni giudicando le dodici tribù di Israele. Siete rimasti con Me nelle mie prove… Solo questo è quello che vi dà grandezza agli occhi del Padre».
«E quelli che verranno? Non avranno posto nel Regno? Noi soli?».
«Oh! quanti principi nella mia Casa! Tutti coloro che saranno stati fedeli al Cristo nelle prove della vita saranno principi nel Regno mio. Perché coloro che avranno perseverato sino alla fine nel martirio dell’esistenza saranno pari a voi, che con Me siete rimasti nelle mie prove. Io mi identifico nei miei credenti. Il Dolore che Io abbraccio per voi e per tutti gli uomini Io lo do come insegna ai più eletti. Chi nel Dolore mi sarà fedele sarà un mio beato pari a voi, o miei diletti».
9 «Noi abbiamo perseverato fino alla fine».
«Lo credi, Pietro? Ed Io ti dico che l’ora della prova ha ancora da venire. Simone, Simone di Giona, ecco che Satana ha chiesto di vagliarvi come il grano. Io ho pregato per te, perché la tua fede non vacilli. Tu, quando sarai ravveduto, conferma i tuoi fratelli».
«Lo so di essere un peccatore. Ma fedele a Te lo sarò fino alla morte. Non ho questo peccato. Mai l’avrò».
«Non essere superbo, Pietro mio. Quest’ora muterà infinite cose, che prima erano così ed ora saranno diverse. Quante! … Esse portano e importano necessità nuove. Voi lo sapete. Io vi ho sempre detto, anche quando andavamo per luoghi remoti percorsi dai banditi: “Non temete. Nulla ci accadrà di male perché gli angeli del Signore sono con noi. Non preoccupatevi di nulla”. Vi ricordate quando vi dicevo: “Non abbiate sollecitudini per ciò che dovete mangiare e per le vesti. Il Padre sa di che abbiamo bisogno”? Vi dicevo anche: “L’uomo è molto più di un passero e del fiore che oggi è erba e domani è fieno. Eppure il Padre ha cura anche del fiore e dell’uccellino. Potete allora dubitare che non abbia cura di voi?”. Vi dicevo ancora: “Date a chiunque vi chiede, a chi vi offende presentate l’altra guancia”. Vi dicevo: “Non abbiate borsa né bastone”. Perché Io ho insegnato amore e fiducia. Ma ora… Ora non è più quel tempo. Ora Io vi dico: “Vi è mai mancato nulla fino ad ora? Foste mai offesi?”».
«Nulla, Maestro. E solo Tu fosti offeso».
«Vedete dunque che la mia parola era verità. Ma ora gli angeli sono tutti richiamati dal loro Signore. È ora di demoni… Con le ali d’oro essi, gli angeli del Signore, si coprono gli occhi, si fasciano e si dolgono che non siano ali di colore cruccioso, perché è ora di lutto, e lutto crudele, sacrilego… Non ci sono angeli sulla Terra questa sera. Sono presso il trono di Dio per coprire col loro canto le bestemmie del mondo deicida e il pianto dell’Innocente. E noi siamo soli… Io e voi: soli. E i demoni sono i padroni dell’ora. Perciò ora prenderemo le apparenze e le misure dei poveri uomini che diffidano e non amano. Ora, chi ha una borsa prenda anche una bisaccia, chi non ha spada venda il suo mantello e ne comperi una. Perché anche questo è detto di Me nella Scrittura e si deve compiere: (Isaia 53, 12) “Egli è stato annoverato fra i malfattori”. In verità tutto ciò che mi riguarda ha il suo fine».
10 Simone, che si è alzato andando alla cassapanca dove ha deposto il suo ricco mantello – perché questa sera
sono tutti con gli abiti migliori e perciò hanno pugnali, damaschinati ma molto corti, più coltelli che pugnali, alle ricche cinture – prende due spade, due vere spade, lunghe, lievemente ricurve, e le porta a Gesù: «Io e Pietro ci siamo armati questa sera. Queste abbiamo. Ma gli altri non hanno che il corto pugnale».
Gesù prende le spade, le osserva, ne snuda una e ne prova il taglio sull’unghia. È una strana vista e fa una ancora più strana impressione vedere quell’arnese feroce nelle mani di Gesù.
«Chi ve le ha date?», chiede l’Iscariota mentre Gesù osserva e tace. E pare sulle spine Giuda…
«Chi? Ti ricordo che mio padre era nobile e potente».
«Ma Pietro…».
«Ebbene? Da quando devo rendere conto dei doni che voglio fare ai miei amici?».
Gesù alza il capo dopo avere ringuainato l’arma. Le rende allo Zelote.
«Va bene. Bastano. Hai fatto bene a prenderle.
11 “Ma ora, avanti la bevuta al terzo calice, attendete un momento. Vi ho detto che il più grande è pari al più piccolo e che Io ho veste di servo a questa tavola, e più vi servirò. Finora vi ho dato cibo. Servizio per il corpo. Ora vi voglio dare un cibo per lo spirito. Non è un piatto del rito antico. È del nuovo rito. Io mi sono voluto battezzare prima di essere il “Maestro”. Per spargere la Parola bastava quel battesimo. Ora verrà sparso il Sangue. Ci vuole un altro lavacro anche su voi, che pure vi siete purificati dal Battista, a suo tempo, e anche oggi nel Tempio. Ma non basta ancora. Venite, che Io vi purifichi. Sospendete il pasto. Vi è qualcosa di più alto e necessario del cibo dato al ventre perché si empia, anche se è cibo santo come questo del rito pasquale. Ed è uno spirito puro, pronto a ricevere il dono del Cielo, che già scende per farsi trono in voi e darvi la Vita. Dare la Vita a chi è mondo».
Gesù si alza in piedi, fa alzare Giovanni per uscire meglio dal suo posto, va ad una cassapanca e si leva la veste rossa deponendola piegata sul già piegato mantello, si cinge alla vita un ampio asciugamani, poi va ad un altro bacile, ancora vuoto e mondo. Vi versa dell’acqua, lo porta in mezzo alla stanza, presso la tavola, e lo mette su uno sgabello. Gli apostoli lo guardano stupefatti.
«Non mi chiedete che faccio?».
«Non sappiamo. Ti dico che siamo già purificati», risponde Pietro.
«Ed Io ti ripeto che non importa. La mia purificazione servirà a chi è già puro ad essere più puro».
Si inginocchia. Slaccia i sandali all’Iscariota ed uno per volta gli lava i piedi. È facile farlo, perché i letti-sedili sono fatti in modo che i piedi sono verso l’esterno. Giuda è sbalordito e non dice niente. Solo quando Gesù, prima di calzare il piede sinistro e alzarsi, fa l’atto di baciargli il piede destro già calzato, Giuda ritrae violentemente il piede e colpisce con la suola la bocca divina. Lo fa senza volere. Non è un colpo forte. Ma mi dà tanto dolore. Gesù sorride, e all’apostolo che gli chiede: «Ti ho fatto male? Non volevo… Perdona», dice: «No, amico. L’hai fatto senza malizia e non fa male». Giuda lo guarda… Uno sguardo turbato, sfuggente…
Gesù passa a Tommaso, poi a Filippo… Gira il lato stretto della tavola e viene al cugino Giacomo. Lo lava e lo bacia, nell’alzarsi, in fronte. Passa ad Andrea, che è rosso di vergogna e fa sforzi per non piangere, lo lava, lo carezza come un bambino. Poi c’è Giacomo di Zebedeo, che non fa che mormorare: «Oh! Maestro! Maestro! Maestro! Annichilito, sublime Maestro mio!». Giovanni si è già slacciato i sandali e, mentre Gesù sta curvo ad asciugargli i piedi, si china e lo bacia sui capelli.
Ma Pietro!… Non è facile persuaderlo a quel rito! «Tu lavare i piedi a me? Non te lo pensare! Sinché sono vivo, non te lo permetterò. Io sono il verme, Tu sei Dio. Ognuno a suo posto».
«Ciò che Io faccio tu non lo puoi comprendere per ora. Ma poi lo comprenderai. Lasciami fare».
«Tutto quello che vuoi, Maestro. Vuoi tagliarmi il collo? Fàllo. Ma lavarmi i piedi non lo farai».
«Oh! mio Simone! Tu non sai che, se non ti lavo, non avrai parte nel mio Regno? Simone, Simone! Tu hai bisogno di quest’acqua per la tua anima e per il tanto cammino che devi fare. Non vuoi venire con Me? Se non ti lavo, non vieni nel mio Regno».
«Oh! Signor mio benedetto! Ma allora lavami tutto! Piedi, mani e capo!».
«Chi ha fatto come voi un bagno non ha bisogno che di lavarsi i piedi, giacché è interamente puro. I piedi… L’uomo coi piedi va nelle lordure. E poco ancora sarebbe perché, ve l’ho detto, non è ciò che entra ed esce col cibo quello che sporca, e non è quello che si posa sui piedi per via ciò che contamina l’uomo. (Vedi Vol 5 Capp 300 e 301, e il capitolo 567). Ma è quanto incuba e matura nel suo cuore e di lì esce a contaminare le sue azioni e le sue membra. E i piedi dell’uomo dall’animo impuro vanno alle crapule, alle lussurie, agli illeciti commerci, ai delitti… Perciò sono, fra le membra del corpo, quelle che hanno molta parte da purificare… con gli occhi, con la bocca… Oh! uomo! uomo! Perfetta creatura un giorno: il primo! E poi così corrotto dal Seduttore! E non c’era in te malizia, o uomo, e non peccato!… Ed ora? Sei tutto malizia e peccato, e non c’è parte di te che non pecchi!».
Gesù ha lavato i piedi a Pietro, li bacia, e Pietro piange e prende con le sue grosse mani le due mani di Gesù, se le passa sugli occhi e le bacia poi.
Anche Simone si è levato i sandali e senza parola si lascia lavare. Ma poi, quando Gesù sta per passare da Bartolomeo, Simone si inginocchia e gli bacia i piedi dicendo: «Mondami dalla lebbra del peccato come mi mondasti dalla lebbra del corpo, acciocché io non sia confuso nell’ora del giudizio, mio Salvatore! ».
«Non temere, Simone. Verrai nella Città celeste bianco come neve alpina».
«Ed io, Signore? Al tuo vecchio Bartolmai che dici? Tu mi hai visto sotto l’ombra del fico e mi hai letto nel cuore. Ed ora che vedi, e dove mi vedi? Rassicura un povero vecchio, che teme non avere forza e tempo per giungere a come Tu vuoi che si sia». Bartolomeo è molto commosso.
«Anche tu non temere. Ho detto allora: “Ecco un vero israelita in cui non è frode”. Ora dico: “Ecco un vero cristiano degno del Cristo”. Dove ti vedo? Su un trono eterno, vestito di porpora. Io sarò sempre con te».
È la volta di Giuda Taddeo. Questo, quando si vede ai piedi Gesù, non sa trattenersi, curva il capo sul braccio appoggiato sulla tavola e piange.
«Non piangere, dolce fratello. Ora sei come uno che deve sopportare lo strappo di un nervo e ti pare di non poterlo sopportare. Ma sarà un breve dolore. Poi… oh! tu sarai felice, perché mi ami, tu. Ti chiami Giuda. E sei come il nostro grande Giuda: (cioè Giuda Maccabeo, celebrato in 1 Maccabei 3, 1-9) come un gigante. Sei colui che protegge. Le tue azioni sono da leone e lioncello che rugge. Tu scoverai gli empi che davanti a te indietreggeranno, e saranno atterriti gli iniqui. Io so. Sii forte. Un’eterna unione stringerà e renderà perfetta la nostra parentela in Cielo». Bacia anche lui sulla fronte come l’altro cugino.
«Io sono peccatore, Maestro. Non a me…».
«Tu eri peccatore, Matteo. Ora sei l’Apostolo. Sei una mia “voce”. Ti benedico. Questi piedi quanta strada hanno fatto per venire sempre avanti, verso Dio… L’anima li spronava ed essi hanno lasciato ogni via che non fosse la mia via. Procedi. Sai dove finisce il sentiero? Sul seno del Padre mio e tuo».
Gesù ha finito. Si leva il telo, si lava in acqua pulita le mani, si riveste, torna al suo posto e dice, mentre si siede al suo posto: «Ora siete puri, ma non tutti. Solo coloro che ebbero volontà di esserlo».
Fissa Giuda di Keriot che mostra di non udire, intento a spiegare al compagno Matteo come suo padre si decise a mandarlo a Gerusalemme. Un discorso inutile, che ha l’unico scopo di dare un contegno a Giuda che, per quanto audace, si deve sentire a disagio.
12 Gesù mesce per la terza volta nel calice comune. Beve, fa bere. Poi intona, e gli altri fanno coro: «Amo perché il Signore ascolta la voce della mia preghiera, perché piega il suo orecchio verso di me. Io lo invocherò per tutta la vita. Mi avevano circondato dolori di morte», ecc. (Vengono recitati, nell’ordine: Salmo 116, Salmo 117, Salmo 118 [lungo inno], Salmo 119 [quello che non finisce mai]).
Un attimo di sosta. Poi riprende a cantare: «Ebbi fede, per questo ho parlato. Ma ero fortemente umiliato. E dicevo nel mio smarrimento: “Ogni uomo è menzognero”». Guarda fisso Giuda.
La voce, stanca questa sera, del mio Gesù riprende lena quando esclama: «È preziosa al cospetto di Dio la morte dei santi», e «Tu hai spezzato le mie catene. A Te sacrificherò ostia di lode invocando il nome del Signore», ecc. ecc.
Un’altra breve sosta nel canto e poi riprende: «Lodate tutte il Signore, o nazioni, tutti i popoli lodatelo. Perché si è affermata su noi la sua misericordia e la verità del Signore dura in eterno».
Altra breve sosta e poi un lungo inno: «Celebrate il Signore, perché Egli è buono, perché la sua misericordia dura in eterno…».
Giuda di Keriot canta stonato tanto che per due volte Tommaso lo rimette in tono col suo potente vocione baritonale e lo guarda fisso. Anche altri lo guardano, perché generalmente è sempre ben intonato, e della sua voce ho capito che se ne tiene come del resto. Ma questa sera! Certe frasi lo turbano al punto che stecca, e così certi sguardi di Gesù che sottolineano le frasi. Una è: «Meglio confidare nel Signore che confidare nell’uomo». Un’altra è: «Urtato, vacillavo e stavo per cadere. Ma il Signore mi ha sorretto». Un’altra è: «Io non morrò ma vivrò e narrerò le opere del Signore». E infine queste due, che dico ora, fanno strozzare la voce in gola al Traditore: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra angolare», e «Benedetto colui che viene nel nome del Signore! ».
Finito il salmo, mentre Gesù taglia e porge di nuovo dell’agnello, Matteo chiede a Giuda di Keriot: «Ma ti senti male?».
«No. Lasciami stare. Non ti occupare di me».
Matteo si stringe nelle spalle.
Giovanni, che ha udito, dice: «Anche il Maestro non sta bene. Che hai, Gesù mio? La tua voce è fioca. Come di malato o di chi ha molto pianto», e lo abbraccia stando col capo sul petto di Gesù.
«Non ha che molto parlato, come io non ho che molto camminato e preso fresco», dice Giuda nervoso.
E Gesù, senza rispondere a lui, dice a Giovanni: «Tu mi conosci ormai… e sai cosa è che mi stanca…».
13 L’agnello è quasi consumato.
Gesù, che ha mangiato pochissimo, bevendo solo un sorso di vino ad ogni calice e bevendo in compenso
molt’acqua come fosse febbrile, riprende a parlare: «Voglio che voi comprendiate il mio gesto di dianzi. Vi ho detto che il primo è come l’ultimo e che vi darò un cibo non corporale. Un cibo di umiltà vi ho dato. Per lo spirito vostro. Voi chiamate Me: Maestro e Signore. Dite bene, perché tale Io sono. Se dunque Io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete farvelo l’un l’altro. Io vi ho dato l’esempio affinché, come Io ho fatto, voi facciate. In verità vi dico: il servo non è da più del padrone, né l’apostolo è più di Colui che tale lo ha fatto. Cercate di comprendere queste cose. Se poi, comprendendole, le metterete in pratica, sarete beati. Ma non sarete tutti beati. Io vi conosco. So chi ho scelto. Non parlo di tutti ad un modo. Ma dico ciò che è vero. D’altra parte, deve compiersi ciò che è scritto a mio riguardo: (Salmo 41, 10) “Colui che mangia il pane con Me ha levato il suo calcagno su Me”. Tutto Io vi dico prima che avvenga, perché non abbiate dubbi su Me. Quando tutto sarà compiuto, voi crederete ancor più che Io sono Io. Chi accoglie Me accoglie Colui che mi ha mandato: il Padre santo che è nei Cieli; e chi accoglierà coloro che Io manderò, accoglierà Me stesso. Perché Io sono col Padre e voi siete con Me… Ma ora compiamo il rito».
Versa di nuovo vino nel calice comune e, prima di berne e di farne bere, si alza, e con Lui si alzano tutti, e canta di nuovo uno dei salmi di prima: «Ebbi fede e per questo parlai…», e poi uno che non finisce mai. Bello… ma eterno! Credo di ritrovarlo per l’inizio e la lunghezza, nel salmo 119. Lo cantano così. Un pezzo tutti insieme. Poi, a turno, uno ne dice un distico e gli altri insieme un pezzo, e così via sino alla fine. Lo credo che alla fine abbiano sete!
14 Gesù si siede. Non si mette sdraiato. Resta seduto, come noi. E parla: «Ora che l’antico rito è compiuto, Io celebro il nuovo rito. Vi ho promesso un miracolo d’amore. È l’ora di farlo. Per questo ho desiderato questa Pasqua. Da ora in poi questo è l’ostia che sarà consumata in perpetuo rito d’amore. Vi ho amato per tutta la vita della Terra, amici diletti. Vi ho amato per tutta l’eternità, figli miei. E amare vi voglio sino alla fine. Non vi è cosa più grande di questa. Ricordatevelo. Io me ne vado. Ma resteremo per sempre uniti mediante il miracolo che ora Io compio».
Gesù prende un pane ancora intiero, lo pone sul calice colmo. Benedice e offre questo e quello, poi spezza il pane e ne prende tredici pezzi e ne dà uno per uno agli apostoli dicendo: «Prendete e mangiate. Questo è il mio Corpo. Fate questo in memoria di Me che me ne vado». Dà il calice e dice: «Prendete e bevete. Questo è il mio Sangue. Questo è il calice del nuovo patto nel Sangue e per il Sangue mio, che sarà sparso per voi per la remissione dei vostri peccati e per darvi la Vita. Fate questo in memoria di Me».
Gesù è tristissimo. Ogni sorriso, ogni traccia di luce, di colore lo hanno abbandonato. Ha già un volto d’agonia. Gli apostoli lo guardano angosciati.
15 Gesù si alza dicendo: «Non vi muovete. Torno subito». Prende il tredicesimo pezzetto di pane, prende il calice ed esce dal Cenacolo.
«Va dalla Madre», sussurra Giovanni.
E Giuda Taddeo sospira: «Misera donna! ».
Pietro chiede in un soffio: «Credi che sappia?».
«Tutto sa. Tutto ha sempre saputo».
Parlano tutti a voce bassissima, come davanti ad un morto.
«Ma credete che proprio…», chiede Tommaso che non vuole ancora credere.
«E ne hai dubbi? È la sua ora», risponde Giacomo di Zebedeo.
«Dio ci dia la forza di essere fedeli», dice lo Zelote.
«Oh! io…» , sta per parlare Pietro.
Ma Giovanni, che è all’erta, dice: «Sss. È qui».
Gesù rientra. Ha in mano il calice vuoto. Appena sul fondo vi è un’ombra di vino, e sotto la luce del lampadario pare proprio sangue.
Giuda Iscariota, che ha davanti il calice, lo guarda come affascinato e poi ne torce lo sguardo.
Gesù l’osserva ed ha un brivido che Giovanni, appoggiato come è al suo petto, sente. «Ma dillo! Tu tremi…», esclama.
«No. Non tremo per febbre…
16 Io tutto vi ho detto e tutto vi ho dato. Di più non potevo darvi. Me stesso vi ho dato». Ha il suo dolce gesto delle mani che, prima congiunte, ora si disgiungono e si allargano, mentre la testa si china come per dire: «Scusate se non posso di più. Così è».
«Tutto vi ho detto e tutto vi ho dato. E ripeto. Il nuovo rito è compiuto. Fate questo in memoria di Me. Io vi ho lavato i piedi per insegnarvi ad essere umili e puri come il Maestro vostro. Perché in verità vi dico che, come è il Maestro, così devono essere i discepoli. Ricordatelo, ricordatelo. Anche quando sarete in alto, ricordatelo. Non vi è discepolo da più del Maestro. Come Io vi ho lavato, voi fatelo fra voi. Ossia amatevi come fratelli, aiutandovi l’un l’altro, venerandovi a vicenda, essendo l’un coll’altro d’esempio. E siate puri. Per essere degni di mangiare il Pane vivo disceso dal Cielo ed avere in voi e per Esso la forza d’essere i miei discepoli nel mondo nemico, che vi odierà per il mio Nome. Ma uno di voi non è puro. Uno di voi mi tradirà. Di questo sono fortemente conturbato nello spirito… La mano di colui che mi tradisce è meco su questa tavola, e non il mio amore, non il mio Corpo e il mio Sangue, non la mia parola lo ravvedono e lo fanno pentito. Io lo perdonerei, andando alla morte anche per lui».
I discepoli si guardano esterrefatti. Si scrutano, in sospetto l’un dell’altro. Pietro fissa l’Iscariota in un risveglio di tutti i suoi dubbi. Giuda Taddeo scatta in piedi per guardare a sua volta l’Iscariota al disopra del corpo di Matteo.
Ma l’Iscariota è così sicuro! A sua volta guarda fisso Matteo come sospettasse di lui. Poi fissa Gesù e sorride chiedendo: «Son forse io quello?». Pare il più sicuro della sua onestà e che dica così, tanto per non lasciare cadere la conversazione.
Gesù ripete il suo gesto dicendo: «Tu lo dici, Giuda di Simone. Non Io. Tu lo dici. Io non ti ho nominato. Perché ti accusi? Interroga il tuo interno ammonitore, la tua coscienza di uomo, la coscienza che Dio Padre ti ha data per condurti da uomo, e senti se ti accusa. Tu lo saprai prima di tutti. Ma se essa ti rassicura, perché dici una parola e pensi un fatto che è anatema anche a dirlo o a pensarlo per gioco?».
Gesù parla con calma. Sembra sostenga la tesi proposta come lo può fare un dotto alla sua scolaresca. Il subbuglio è forte. Ma la calma di Gesù lo placa.
17 Però Pietro, che è il più sospettoso di Giuda – forse lo è anche il Taddeo, ma lo pare meno, disarmato come è dalla disinvoltura dell’Iscariota – tira Giovanni per la manica e quando Giovanni, che si è tutto stretto a Gesù udendo parlare di tradimento, si volge, gli sussurra: «Chiedigli chi è».
Giovanni riprende la sua posizione, solo alza lievemente il capo come per baciare Gesù, e intanto gli mormora all’orecchio: «Maestro, chi è?».
E Gesù pianissimo, rendendogli il bacio fra i capelli: «Colui a cui darò un pezzo di pane intinto».
E preso un pane ancora intero, non il resto di quello usato per l’Eucarestia, ne stacca un grosso boccone, lo intinge nel succo lasciato dall’agnello nel vassoio, allunga al disopra della tavola il braccio e dice: «Prendi, Giuda. Questo a te piace».
«Grazie, Maestro. Mi piace, sì», e ignaro di ciò che è quel boccone se lo mangia, mentre Giovanni, inorridito, chiude persino gli occhi per non vedere l’orrido riso dell’Iscariota mentre coi denti forti morde il pane accusatore.
«Bene. Ora che ti ho fatto felice, va’», dice Gesù a Giuda. «Tutto è compiuto qui (marca molto la parola). Quello che resta ancora da fare altrove fàllo presto, Giuda di Simone».
«Ti ubbidisco subito, Maestro. Poi ti raggiungerò al Getsemani. Vai là, vero? Come sempre?».
«Vado là… come sempre… sì».
«Che ha da fare?», chiede Pietro. «Va solo?».
«Non sono un pargolo», motteggia Giuda che si sta mettendo il mantello.
«Lascialo andare. Io e lui sappiamo ciò che si deve fare», dice Gesù.
«Sì, Maestro». Pietro tace. Forse pensa di avere peccato di sospetto verso il compagno. Con la mano sulla fronte, pensa. Gesù si stringe al cuore Giovanni e torna a sussurrargli fra i capelli: «Non dire nulla a Pietro, per ora. Sarebbe un inutile scandalo».
«Addio, Maestro. Addio, amici». Giuda saluta. «Addio», dice Gesù.
E Pietro: «Ti saluto, ragazzo».
Giovanni, col capo quasi nel grembo di Gesù, mormora: «Satana! ». Solo Gesù l’ode e sospira.
Qui mi cessa tutto, ma Gesù dice: «Sospendo per pietà di te.
Ti darò la fine della Cena in altro momento».
18 (continua la Cena)
Vi è qualche minuto di assoluto silenzio. Gesù sta a capo chino, carezzando macchinalmente i capelli biondi di Giovanni.
Poi si scuote. Alza la testa, gira lo sguardo, ha un sorriso che conforta i discepoli. Dice: «Lasciamo la tavola. E sediamo tutti ben vicini, come tanti figli intorno al padre».
Prendono i letti-sedili che erano dietro la tavola (quelli di Gesù, Giovanni, Giacomo, Pietro, Simone, Andrea
ed il cugino Giacomo) e li portano dall’altro lato.
Gesù prende posto sul suo, sempre fra Giacomo e Giovanni. Ma, quando vede che Andrea sta per sedersi al posto lasciato dall’Iscariota, grida: «No, là no». Un grido impulsivo, che la sua somma prudenza non riesce a impedire. Poi modifica dicendo così: «Non occorre tanto spazio. Stando seduti, si può stare su questi soli. Bastano. Vi voglio molto vicini».
Ora, rispetto alla tavola, sono messi in forma ad U con Gesù al centro e avendo di fronte la tavola, spoglia di vivande ormai, e il posto di Giuda.
Giacomo di Zebedeo chiama Pietro: «Siediti qui. Io mi siedo su questo sgabelletto, ai piedi di Gesù».
«Che Dio ti benedica, Giacomo! Ne avevo tanta voglia!», dice Pietro e si serra al suo Maestro, che è così fra la stretta di Giovanni e Pietro, avendo ai piedi Giacomo.
Gesù sorride:
«Vedo che comincia ad operare la parola detta prima. I buoni fratelli si amano. Anche Io ti dico, Giacomo: “Che Dio ti benedica”. Anche questo tuo atto non sarà dimenticato dall’Eterno e lo troverai lassù.
19 “Tutto Io posso di quanto Io chiedo. Voi lo avete visto. È bastato un mio desiderio perché il Padre concedesse al Figlio di darsi in Cibo all’uomo. Con quanto è accaduto adesso è stato glorificato il Figlio dell’uomo, perché è testimonianza di potere il miracolo che non è che possibile agli amici di Dio. Più è grande il miracolo e più è sicura e profonda questa divina amicizia. Questo è un miracolo che, per la sua forma, durata e natura, per gli estremi di esso ed i limiti che tocca, più forte non ce ne può essere. Io ve lo dico: tanto è potente, soprannaturale, inconcepibile all’uomo superbo, che ben pochi lo comprenderanno come va compreso, e molti lo negheranno. Che dirò allora? Condanna per loro? No. Dirò: pietà!
Ma più grande è il miracolo, più grande è la gloria che all’autore dello stesso viene. È Dio stesso che dice: “Ecco, questo mio diletto ciò che ha voluto ha avuto, ed Io l’ho concesso perché egli ha grande grazia agli occhi miei”. E qui dice: “Ha una grazia senza limiti così come è infinito il miracolo da Lui compiuto”. Parimenti alla gloria che si riversa sull’autore del miracolo da parte di Dio è la gloria che da esso autore si riversa sul Padre. Perché ogni gloria soprannaturale, essendo veniente da Dio, alla sua sorgente ritorna. E la gloria di Dio, per quanto già infinita, sempre più si aumenta e sfavilla perla gloria dei suoi santi. Onde Io dico: come è stato glorificato il Figlio dell’uomo da Dio, così Dio è stato glorificato dal Figlio dell’uomo. Io ho glorificato Dio in Me stesso. A sua volta, Dio glorificherà il suo Figlio in Lui. Ben presto lo glorificherà.
20 Esulta, Tu che torni alla tua Sede, o Essenza spirituale della Seconda Persona! Esulta, o Carne che torni ad ascendere dopo tanto esilio nel fango! E non già il Paradiso d’Adamo, ma l’eccelso Paradiso del Padre sta per esserti dato a dimora. Ché, se è stato detto che per lo stupore di un comando di Dio (Giosuè 10, 12-14), dato per bocca di un uomo, si arrestò il sole, che non avverrà negli astri quando vedranno il prodigio della Carne dell’Uomo ascendere e sedersi alla destra del Padre nella sua Perfezione di materia glorificata?
Figliolini miei, per poco ancora Io resto con voi. E voi, dopo, mi cercherete come gli orfani cercano il morto genitore. E piangendo andrete parlando di Lui e picchierete invano al muto sepolcro, e poi ancora picchierete alle porte azzurre dei Cieli, con l’anima vostra lanciata in supplice ricerca d’amore, dicendo: “Dove il nostro Gesù? Lo vogliamo. Senza Lui non è più luce nel mondo, non letizia, né amore. O ce lo rendete, oppure lasciateci entrare. Noi vogliamo essere dove Egli è”. Ma non potete per ora venire dove Io vado. L’ho detto anche ai giudei: (Vedi Vol 7 Cap 488) “Poi mi cercherete, ma dove Io vado voi non potete venire”. Lo dico anche a voi.
21 Pensate alla Madre… Neppure Lei potrà venire dove Io vado. Eppure Io ho lasciato il Padre per venire a Lei e farmi Gesù nel suo seno senza macchia. Eppure dall’Inviolata Io sono venuto, nell’estasi luminosa del mio Natale. E del suo amore, divenuto latte, mi sono nutrito. Io sono fatto di purità e di amore perché Maria mi ha nutrito della sua verginità fecondata dall’Amore perfetto che vive in Cielo. Eppure per Lei Io sono cresciuto, costandole fatiche e lacrime… Eppure Io le chiedo un eroismo quale mai fu compito, e rispetto al quale quello di Giuditta e Giaele sono eroismi di povere femmine contrastanti colla rivale presso la fonte del paese. Eppure nessuno pari a Lei è nell’amarmi. E, ciononostate, Io la lascio e vado dove Lei non verrà che fra molto tempo. Per Lei non è il comando che do a voi: “Santificatevi anno per anno, mese per mese, giorno per giorno, ora per ora, per potere venire a Me quando sarà la vostra ora”. In Lei è ogni grazia e santità. È la creatura che ha tutto avuto e che tutto ha dato. Nulla vi è da aggiungere o da levare. È la santissima testimonianza di ciò che può Iddio.
22 Ma per essere certo che in voi sia capacità di potermi raggiungere e di dimenticare il dolore del lutto della separazione daI vostro Gesù, Io vi do un comandamento nuovo. Ed è che vi amiate gli uni con gli altri. Così come Io ho amato voi, ugualmente voi amatevi l’uno con l’altro. Da questo si conoscerà che siete miei discepoli. Quando un padre ha molti figli, da che si conosce che tali sono? Non tanto per l’aspetto fisico – perché vi sono uomini che sono in tutto simili ad un altro uomo, col quale non vi è nessun rapporto di sangue e neppure di nazione – quanto per il comune amore alla famiglia, al padre loro, e fra loro. Ed anche morto il padre non si disgrega la buona famiglia, perché il sangue è uno ed è sempre quello avuto dal seme del padre, e annoda legami che neppure la morte scioglie, perché più forte della morte è l’amore. Ora, se voi vi amerete anche dopo che Io vi avrò lasciati, tutti riconosceranno che voi siete miei figli, e perciò miei discepoli, e fra voi fratelli avendo avuto un unico padre».
23 «Signore Gesù, ma dove vai?», chiede Pietro.
«Vado dove tu per ora non mi puoi seguire. Ma più tardi mi seguirai».
«E perché non adesso? Ti ho seguito sempre da quando Tu mi hai detto: “Seguimi”. Ho tutto lasciato senza rimpianto… Ora, andartene senza il tuo povero Simone, lasciandomi privo di Te, mio Tutto, dopo che per Te ho lasciato il mio poco bene di prima, non è giusto né bello da parte tua. Vai alla morte? Sta bene. Ma io pu-re vengo. Andremo insieme nell’altro mondo. Ma prima ti avrò difeso. Io sono pronto a dare la vita per Te».
«Tu darai la tua vita per Me? Ora? Ora no. In verità – oh! che in verità te lo dico – non avrà ancora cantato il gallo che tu mi avrai rinnegato tre volte. Ora è ancora la prima vigilia. Poi verrà la seconda… e poi la terza. Prima che scocchi il gallicinio, tu avrai per tre volte rinnegato il tuo Signore».
«Impossibile, Maestro! Credo a tutto ciò che dici. Ma non a questo. Sono sicuro di me».
«Ora, per ora sei sicuro. Ma perché ora hai ancora Me. Hai con te Iddio. Fra poco l’incarnato Iddio sarà preso e non l’avrete più. E Satana, dopo avervi già appesantiti – la tua stessa sicurezza è una astuzia di Satana, zavorra per appesantirti – vi spaurirà. Vi insinuerà: “Dio non è. Io sono”. E siccome, per quanto ottusi dallo spavento, ancora ragionerete, voi capirete che quando è Satana il padrone dell’ora è morto il Bene ed è operante il Male, abbattuto lo spirito e trionfante l’umano. Allora resterete come guerrieri senza duce, inseguiti dal nemico, e nello sbigottimento dei vinti curverete le schiene al vincitore, e per non essere uccisi rinnegherete il caduto eroe.
24 Ma, ve ne prego. Il vostro cuore non si turbi. Credete in Dio. E credete anche in Me. Contro tutte le apparenze, credete in Me. Creda nella mia misericordia e in quella del Padre tanto colui che resta come colui che fugge. Tanto colui che tace come colui che aprirà la bocca per dire: “Io non lo conosco”. Ugualmente credete nel mio perdono. E credete che, quali che siano in futuro le vostre azioni, nel Bene e nella mia Dottrina, nella mia Chiesa perciò, esse vi daranno un uguale posto in Cielo.
Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se così non fosse, Io ve lo avrei detto. Perché Io vado avanti. A preparare un posto per voi. Non fanno forse così i buoni padri quando devono portare altrove la loro piccola prole? Vanno avanti, preparano la casa, le suppellettili, le provviste. E poi tornano a prendere le loro creature più care. Così fanno per amore. Perché ai piccoli nulla manchi, e non provino disagio nel nuovo paese. Ugualmente così Io faccio. E per lo stesso motivo. Ora vado. E quando avrò preparato ad ognuno il posto nella Gerusalemme celeste, verrò di nuovo, vi prenderò con Me perché siate con Me dove Io sono, dove non ci sarà più né morte, né lutti, né lacrime, né grida, né fame, né dolore, né tenebre, né arsione, ma solo luce, pace, beatitudine e canto.
Oh! canto dei Cieli altissimi quando i dodici eletti saranno sui troni coi dodici patriarchi delle tribù d’Israele, e nell’ardenza del fuoco dell’amore spirituale canteranno, eretti sul mare della beatitudine, il cantico eterno che avrà ad arpeggio l’eterno alleluia dell’esercito angelico…
25 Io voglio che dove Io sarò voi siate. E voi sapete dove Io vado e ne conoscete la via».
«Ma Signore! Noi non sappiamo nulla. Tu non ci dici dove vai. Come possiamo noi sapere la via da prendere per venire verso Te e abbreviare l’attesa?», chiede Tommaso.
«Io sono la Via, la Verità, la Vita. Me lo avete sentito dire e spiegare più volte, ed in verità alcuni, che neppure sapevano esservi un Dio, si sono incamminati avanti, per la mia via, e sono già avanti di voi. Oh! dove sei tu, pecora spersa di Dio che Io ho ricondotta all’ovile? E dove tu, risorta d’anima?».
«Chi? Di chi parli? Di Maria di Lazzaro? È di là, con tua Madre. La vuoi? O vuoi Giovanna? Certo è nel suo palazzo. Ma, se vuoi, te l’andiamo a chiamare…».
«No. Non loro… Penso a quella che sarà disvelata solo in Cielo… e a Fotinai… (La samaritana, incontrata nei capitoli 143-144 e in 147 del Vol 2, e ricordata in 571 e in 572; l’altra è Aglae, incontrata la prima volta nel capitolo 77 del Vol 1). Esse mi hanno trovato. E non hanno più lasciato la mia via. Ad una ho indicato il Padre come Dio vero e lo spirito come levita in questa individuale adorazione. All’altra, che neppur sapeva di avere uno spirito, ho detto: “Il mio nome è Salvatore, salvo chi ha buona volontà di salvarsi. Io sono Colui che cerca i perduti, che dà la Vita, la Verità e la Purezza. Chi mi cerca mi trova”. E ambedue hanno trovato Iddio… Vi benedico, deboli Eve divenute più forti di Giuditta… Vengo, dove voi siete vengo… Voi mi consolate… Siate benedette!… ».
26 «Mostraci il Padre, Signore, e saremo pari a queste», dice Filippo.
«Da tanto tempo Io sono con voi, e tu, Filippo, non mi hai ancora conosciuto? Chi vede Me vede il Padre mio. Come puoi dunque dire: “Mostraci il Padre”? Non riesci a credere che Io sono nel Padre e il Padre è in Me? Le parole che Io vi dico non le dico da Me. Ma il Padre che dimora in Me compie ogni mia opera. E voi non credete che Io sono nel Padre e Lui è in Me? Che devo dire per farvi credere? Ma se non credete alle parole, credete almeno alle opere.
Io vi dico, e ve lo dico con verità: chi crede in Me farà le opere che Io faccio, e ancor di maggiori ne farà, perché Io vado al Padre. E tutto quanto domanderete al Padre in mio nome Io lo farò, perché il Padre sia glorificato nel suo Figlio. E farò quanto mi domanderete in nome del mio Nome. Il mio Nome è noto, per quello che realmente è, a Me solo, al Padre che mi ha generato e allo Spirito che dal nostro amore procede. E per quel Nome tutto è possibile. Chi pensa al mio Nome con amore mi ama e ottiene.
Ma non basta amare Me, occorre osservare i miei comandamenti per avere il vero amore. Sono le opere
quelle che testificano dei sentimenti. E per questo amore Io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro Consolatore che resti per sempre con voi, Uno su cui Satana e il mondo non può infierire, lo Spirito di Verità che il mondo non può ricevere e non può colpire, perché non lo vede e non lo conosce. Lo deriderà. Ma Egli è tanto eccelso che lo scherno non lo potrà ferire, mentre, pietosissimo sopra ogni misura, sarà sempre con chi lo ama, anche se povero e debole. Voi lo conoscerete, perché già dimora con voi e presto sarà in voi.
27 Io non vi lascerò orfani. Già ve l’ho detto: “Ritornerò a voi”. Ma, prima che sia l’ora di venirvi a prendere per andare nel mio Regno, Io verrò. A voi verrò. Fra poco il mondo non mi vedrà più. Ma voi mi vedete e mi vedrete. Perché Io vivo e voi vivete. Perché Io vivrò e voi pure vivrete. In quel giorno voi conoscerete che Io sono nel Padre mio, e voi in Me ed Io in voi. Perché chi accoglie i miei precetti e li osserva, quello è colui che mi ama, e colui che mi ama sarà amato dal Padre mio e possederà Iddio, perché Dio è carità e chi ama ha in sé Dio. Ed Io lo amerò, perché in lui vedrò Iddio, e mi manifesterò a lui facendomi conoscere nei segreti del mio amore, della mia sapienza, della mia Divinità incarnata. Saranno i miei ritorni fra i figli dell’uomo, che Io amo nonostante siano deboli e anche nemici. Ma costoro saranno solo deboli. Ed Io li fortificherò; dirò loro: “Sorgi!”, dirò: “Vieni fuori!”, dirò: “Seguimi”, dirò: “Odi”, dirò: “Scrivi”… e voi siete fra questi».
«Perché, Signore, Tu ti manifesti a noi e non al mondo?», chiede Giuda Taddeo.
«Perché mi amate e osservate le mie parole. Chi così farà, sarà amato dal Padre e Noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui, in lui. Mentre chi non mi ama non osserva le mie parole e fa secondo la carne e il mondo. Ora sappiate che ciò che Io vi ho detto non è parola di Gesù Nazareno ma parola del Padre, perché Io sono il Verbo del Padre che mi ha mandato. Io vi ho detto queste cose parlando così, con voi, perché voglio lo stesso prepararvi al possesso completo della Verità e Sapienza. Ma ancora non potete capire né ricordare. Però, quando verrà a voi il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà in mio Nome, allora voi potrete capire, ed Egli tutto vi insegnerà, e vi ricorderà quanto Io vi ho detto.
28 Io vi lascio la mia pace. Io vi do la mia pace. Ve la do non come la dà il mondo. E neppure come fino ad ora ve l’ho data: saluto benedetto del Benedetto ai benedetti. Più profonda è la pace che ora vi do. In questo addio. Io vi comunico Me stesso, il mio Spirito di pace, così come vi ho comunicato il mio Corpo e il mio Sangue, perché in voi resti una forza nella imminente battaglia. Satana e il mondo sferrano guerra al vostro Gesù. È la loro ora. Abbiate in voi la Pace, il mio Spirito che è spirito di pace, perché Io sono il Re della pace. Abbiatela per non essere troppo derelitti. Chi soffre con la pace di Dio in sé soffre, ma non bestemmia e dispera.
Non piangete. Avete pure sentito che ho detto: “Vado al Padre e poi tornerò”. Se mi amaste sopra la carne, vi rallegrereste, perché Io vado dal Padre dopo tanto esilio… Vado da Colui che è maggiore di Me e che mi ama. Io ve l’ho detto ora, prima che ciò si compia, così come vi ho detto tutte le sofferenze del Redentore prima di andare ad esse, affinché, quando tutto si compia, voi crediate sempre più in Me. Non turbatevi così! Non sgomentatevi. Il vostro cuore ha bisogno di equilibrio…
29 Poco più ho da parlarvi… e ancora tanto ho da dire! Giunto al termine di questa mia evangelizzazione, mi pare di non avere ancora nulla detto e che tanto, tanto, tanto ancora resti da fare. Il vostro stato aumenta questa mia sensazione. E che dirò allora? Che Io ho mancato al mio ufficio? O che voi siete così duri di cuore che a nulla esso è valso? Dubiterò? No. Mi affido a Dio, e a Lui affido voi, miei diletti. Egli compirà l’opera del suo Verbo. Non sono come un padre che muore e non ha altra luce che l’umana. Io spero in Dio. E pure sentendo in Me urgere tutti i consigli di cui vi vedo bisognosi e sentendo fuggire il tempo, vado tranquillo alla mia sorte. So che sui semi caduti in voi sta per scendere una rugiada che li farà tutti germogliare, e poi verrà il sole del Paraclito, ed essi diverranno albero potente. Sta per venire il principe di questo mondo, colui col quale Io non ho nulla a che fare. E, se non fosse per fine di redenzione, non avrebbe potuto nulla su Me. Ma ciò avviene affinché il mondo conosca che Io amo il Padre e lo amo fino alla ubbidienza di morte, e perciò faccio ciò che mi ha ordinato.
30 È l’ora di andare. Alzatevi. E udite le ultime parole.
Io sono la vera Vite. Il Padre ne è il Coltivatore. Ogni tralcio che non porta frutto Egli lo recide e quello che porta frutto lo pota perché ne porti più ancora. Voi siete già purificati per la mia parola. Rimanete in Me ed Io in voi per continuare ad essere tali. Il tralcio staccato dalla vite non può fare frutto. Così voi se non rimanete in Me. Io sono la Vite e voi i tralci. Colui che resta unito a Me porta abbondanti frutti. Ma se uno si stacca diviene ramo secco e viene buttato nel fuoco e là brucia. Perché, senza l’unione con Me, voi nulla potete fare. Rimanete dunque in Me e le mie parole restino in voi, poi domandate quanto volete e vi sarà fatto. Il Padre mio sarà sempre più glorificato quanto più voi porterete frutto e sarete miei discepoli.
31 Come il Padre mi ha amato, così Io con voi. Rimanete nel mio amore che salva. Amandomi sarete ubbidienti, e l’ubbidienza aumenta il reciproco amore. Non dite che Io mi ripeto. So la vostra debolezza. E voglio che vi salviate. Io vi dico queste cose perché la gioia che vi ho voluto dare sia in voi e sia completa. Amatevi, amatevi! Questo è il mio comandamento nuovo. Amatevi scambievolmente più di quanto ognuno ami se stesso. Non vi è maggior amore di quello di colui che dà la sua vita per i suoi amici. Voi siete i miei amici ed Io do la vita per voi. Fate ciò che Io vi insegno e comando.
Non vi chiamo più servi. Perché il servo non sa ciò che fa il suo padrone, mentre voi sapete ciò che Io faccio. Tutto di Me sapete. Vi ho manifestato non solo Me stesso, ma anche il Padre ed il Paraclito e tutto quanto ho sentito da Dio.
Non siete stati voi che vi siete scelti. Ma Io vi ho scelti e vi ho eletti, perché andiate fra i popoli, e facciate frutto in voi e nei cuori degli evangelizzati, e il vostro frutto rimanga e il Padre vi dia tutto ciò che gli chiederete in mio Nome.
32 Non dite: “E allora, se Tu ci hai scelti, perché hai scelto un traditore? Se tutto Tu sai, perché hai fatto questo?”. Non chiedetevi neppure chi è costui. Non è un uomo. È Satana. L’ho detto all’amico fedele e l’ho lasciato dire dal figlio diletto. È Satana. Se Satana non si fosse incarnato, l’eterno scimmiottatore di Dio, in una carne mortale, questo posseduto non avrebbe potuto sfuggire al mio potere di Gesù. Ho detto: “posseduto”. No. È molto di più: è un annullato in Satana».
«Perché, Tu che hai cacciato i demoni, non lo hai liberato?», chiede Giacomo d’Alfeo.
«Lo chiedi per amore di te, temendo essere tu quello? Non lo temere».
«Io, allora?».
«Io?».
«Io?».
«Tacete. Non dico quel nome. Uso misericordia e voi fate ugualmente».
«Ma perché non lo hai vinto? Non potevi?».
«Potevo. Ma, per impedire a Satana di incarnarsi per uccidermi, avrei dovuto sterminare la razza dell’uomo avanti la Redenzione. Che avrei allora redento?».
«Dimmelo, Signore, dimmelo! ». Pietro è scivolato in ginocchio e scuote freneticamente Gesù come fosse in preda a delirio. «Sono io? Sono io? Mi esamino? Non mi pare. Ma Tu… Tu hai detto che ti rinnegherò… Ed io tremo… Oh! che orrore essere io!…».
«No, Simone di Giona. Non tu».
«Perché mi hai levato il mio nome di “Pietra”? Sono dunque tornato Simone? Lo vedi? Tu lo dici! … Sono io! Ma come ho potuto? Ditelo… ditelo voi… Quando è che ho potuto divenire traditore?… Simone?… Giovanni?… Ma parlate!…».
«Pietro, Pietro, Pietro! Ti chiamo Simone perché penso al primo incontro, quando eri Simone. E penso come sei sempre stato leale dal primo momento. Non sei tu. Lo dico Io: Verità».
«Chi, allora?».
«Ma è Giuda di Keriot! Non lo hai ancora capito?», urla il Taddeo che non riesce più a contenersi.
«Perché non me lo hai detto prima? Perché?», urla anche Pietro.
«Silenzio. È Satana. Non ha altro nome. Dove vai, Pietro?».
«A cercarlo».
«Posa subito quel mantello e quell’arma. O ti devo scacciare e maledire?».
«No, no! Oh! Signor mio! Ma io… ma io… Sono forse malato di delirio, io? Oh! Oh!». Pietro piange, gettato per terra ai piedi di Gesù.
33 «Io vi do comando di amarvi. E di perdonare. Avete capito? Se anche nel mondo è l’odio, in voi sia solo l’amore. Per tutti. Quanti traditori troverete sulla vostra via! Ma non li dovete odiare e rendere loro male per male. Altrimenti il Padre odierà voi. Prima di voi fui odiato e tradito Io. Eppure, voi lo vedete, Io non odio. Il mondo non può amare ciò che non è come esso. Perciò non vi amerà. Se foste suoi, vi amerebbe; ma non siete del mondo, avendovi Io presi da mezzo al mondo. E per questo siete odiati.
Vi ho detto: il servo non è da più del padrone. Se hanno perseguitato Me, perseguiteranno voi pure. Se avranno ascoltato Me, ascolteranno pure voi. Ma tutto faranno per causa del mio Nome, perché non conoscono, non vogliono conoscere Colui che mi ha mandato. Se non fossi venuto e non avessi parlato, non sarebbero colpevoli. Ma ora il loro peccato è senza scusa. Hanno visto le mie opere, udito le mie parole, eppure mi hanno odiato, e con Me il Padre. Perché Io e il Padre siamo una sola Unità con l’Amore. Ma era scritto: (Salmi 35, 19; 69, 5) “Mi odiasti senza ragione”. Però, quando sarà venuto il Consolatore, lo Spirito di verità che dal Padre procede, sarà da Lui resa testimonianza di Me, e voi pure mi testimonierete, perché dal principio foste con Me.
Questo vi dico perché, quando sarà l’ora, non rimaniate accasciati e scandalizzati. Sta per venire il tempo in cui vi cacceranno dalle sinagoghe e in cui chi vi ucciderà penserà di fare culto a Dio con ciò. Non hanno conosciuto né il Padre né Me. In ciò è la loro scusante. Non ve le ho dette così ampie prima di ora, queste cose, perché eravate come bambini pur mo’ nati. Ma ora la madre vi lascia. Io vado. Dovete assuefarvi ad altro cibo. Voglio lo conosciate.
34 Nessuno più mi chiede: “Dove vai?”. La tristezza vi fa muti. Eppure è bene anche per voi che Io me ne vada. Altrimenti non verrà il Consolatore. Io ve lo manderò. E quando sarà venuto, attraverso la sapienza e la parola, le opere e l’eroismo che infonderà in voi, convincerà il mondo del suo peccato deicida e di giustizia sulla mia santità. E il mondo sarà nettamente diviso nei reprobi, nemici di Dio, e nei credenti. Questi saranno più o meno santi, a seconda del loro volere. Ma il giudizio del principe del mondo e dei suoi servi sarà fatto. Di più non posso dirvi, perché ancora non potete intendere. Ma Egli, il divino Paraclito, vi darà la Verità intera, perché non parlerà di Se stesso. Ma dirà tutto quello che avrà udito dalla Mente di Dio e vi annunzierà il futuro. Prenderà ciò che da Me viene, ossia ciò che ancora è del Padre, e ve lo dirà.
Ancora un poco da vedersi. Poi non mi vedrete più. E poi ancora un poco, e poi mi vedrete.
35 Voi mormorate fra voi ed in cuor vostro. Udite una parabola. L’ultima del vostro Maestro.
Quando una donna ha concepito e giunge all’ora del parto, è in grande afflizione perché soffre e geme. Ma quando il piccolo figlio è dato alla luce ed ella lo stringe sul cuore, ogni pena cessa e la tristezza si muta in gioia, perché un uomo è venuto al mondo.
Così voi. Voi piangerete e il mondo riderà di voi. Ma poi la vostra tristezza si muterà in gioia. Una gioia che il mondo mai conoscerà. Voi ora siete tristi. Ma, quando mi rivedrete, il vostro cuore diverrà pieno di un gaudio che nessuno avrà più potere di rapirvi. Una gioia così piena che vi offuscherà ogni bisogno di chiedere e per la mente e per il cuore e per la carne. Solo vi pascerete di rivedermi, dimenticando ogni altra cosa. Ma proprio da allora potrete tutto chiedere in mio Nome, e vi sarà dato dal Padre perché abbiate sempre più gioia. Domandate, domandate. E riceverete.
Viene l’ora in cui potrò parlarvi apertamente del Padre. Sarà perché sarete stati fedeli nella prova e tutto sarà superato. Perfetto quindi il vostro amore, perché vi avrà dato forza nella prova. E quanto a voi mancherà Io ve lo aggiungerò prendendolo dal mio immenso tesoro e dicendo: “Padre, lo vedi. Essi mi hanno amato credendo che Io venni da Te”. Sceso nel mondo, ora lo lascio e vado al Padre, e pregherò per voi».
36 «Oh! ora Tu ti spieghi. Ora sappiamo ciò che vuoi dire e che Tu sai tutto e rispondi senza che nessuno ti interroghi. Veramente Tu vieni da Dio! ».
«Adesso credete? All’ultima ora? È tre anni che vi parlo! Ma già in voi opera il Pane che è Dio e il Vino che è Sangue non venuto da uomo, e vi dà il primo brivido di deificazione. Voi diverrete dèi se sarete perseveranti nel mio amore e nel mio possesso. Non come lo disse Satana ad Adamo ed Eva, ma come Io ve lo dico. È il vero frutto dell’albero del Bene e della Vita. Il Male è vinto in chi se ne pasce, ed è morta la Morte. Chi ne mangia vivrà in eterno e diverrà “dio” nel Regno di Dio. Voi sarete dèi se permarrete in Me. Eppure ecco… pur avendo in voi questo Pane e questo Sangue, poiché sta venendo l’ora in cui sarete dispersi, voi ve ne andrete per vostro conto e mi lascerete solo… Ma non sono solo. Ho il Padre con Me. Padre, Padre! Non mi abbandonare! Tutto vi ho detto… Per darvi pace. La mia pace. Ancora sarete oppressi. Ma abbiate fede. Io ho vinto il mondo».
37 Gesù si alza, apre le braccia in croce e dice con volto luminoso la sublime preghiera al Padre. Giovanni la riporta integralmente. (Nel suo Vangelo: Giovanni 17).
Gli apostoli lacrimano più o meno palesemente e rumorosamente. Per ultimo cantano un inno.
38 Gesù li benedice. Poi ordina: «Mettiamoci i mantelli, ora. E andiamo. Andrea, di’ al capo di casa di lasciare tutto così, per mio volere. Domani… vi farà piacere rivedere questo luogo». Gesù lo guarda. Pare benedire le pareti, i mobili, tutto. Poi si ammantella e si avvia, seguito dai discepoli.
Al suo fianco è Giovanni, al quale si appoggia. «Non saluti la Madre?», gli chiede il figlio di Zebedeo.
«No. È tutto già fatto. Fate, anzi, piano».
Simone, che ha acceso una torcia alla lumiera, illumina l’ampio corridoio che va alla porta. Pietro apre cauto il portone ed escono tutti nella via e poi, facendo giocare un ordigno, chiudono dal di fuori. E si pongono in cammino.
39 Dice Gesù:
«Dall’episodio della Cena, oltre la considerazione della carità di un Dio che si fa Cibo agli uomini, risaltano quattro ammaestramenti principali.
Primo: la necessità per tutti i figli di Dio di ubbidire alla Legge.
La Legge diceva che si doveva per Pasqua consumare l’agnello secondo il rituale dato dall’Altissimo a Mosè, ed Io, Figlio vero del Dio vero, non mi sono riputato, per la mia qualità divina, esente dalla Legge. Ero sulla Terra: Uomo fra gli uomini e Maestro degli uomini. Dovevo perciò fare il mio dovere di uomo verso Dio come e meglio degli altri. I favori divini non esimono dall’ubbidienza e dallo sforzo verso una sempre maggiore santità. Se paragonate la santità più eccelsa alla perfezione divina, la trovate sempre piena di mende, e perciò obbligata a sforzare se stessa per eliminarle e raggiungere un grado di perfezione per quanto più è possibile simile a quello di Dio.
40 Secondo: la potenza della preghiera di Maria.
Io ero Dio fatto Carne. Una Carne che, per essere senza macchia, possedeva la forza spirituale per signoreggiare la carne. Eppure non ricuso, anzi invoco l’aiuto della Piena di Grazia, la quale anche in quell’ora di espiazione avrebbe trovato, è vero, sul suo capo il Cielo chiuso, ma non tanto che non riuscisse a strapparne un angelo, Lei, Regina degli angeli, per il conforto del suo Figlio. Oh! non per Lei, povera Mamma! Anche Lei ha assaporato l’amaro dell’abbandono del Padre, ma per questo suo dolore offerto alla Redenzione m’ha ottenuto di potere superare l’angoscia dell’orto degli Ulivi e di portare a termine la Passione in tutta la sua multiforme asprezza, di cui ognuna era volta a lavare una forma e un mezzo di peccato.
41 Terzo: il dominio su se stessi e la sopportazione dell’offesa, carità sublime su tutte, la possono avere unicamente quelli che fanno vita della loro vita la legge di carità che Io avevo bandita. E non bandita solo, ma praticata realmente.
Cosa sia stato per Me aver meco alla mia tavola il mio Traditore, il dovere darmi ad esso, il dovere umiliarmi ad esso, il dovere dividere con esso il calice di rito e posare le labbra là dove egli le aveva posate, e farle posare a mia Madre, voi non potete pensare. I vostri medici hanno discusso e discutono sulla mia rapida fine e le dànno origine in una lesione cardiaca dovuta alle percosse della flagellazione. Sì, anche per queste il mio cuore divenne malato. Ma lo era già dalla Cena. Spezzato, spezzato nello sforzo di dover subire al mio fianco il mio Traditore. Ho cominciato a morire allora, fisicamente. Il resto non è stato che aumento della già esistente agonia.
Quanto ho potuto fare l’ho fatto perché ero uno con la Carità. Anche nell’ora in cui Dio-Carità si ritirava da Me, ho saputo esser carità, perché ero vissuto, nei miei trentatré anni, di carità. Non si può giungere ad una perfezione, quale si richiede per perdonare e sopportare il nostro offensore, se non si ha l’abito della carità. Io l’avevo, e ho potuto perdonare e sopportare questo capolavoro di Offensore che fu Giuda.
42 Quarto: il Sacramento opera quanto più uno è degno di riceverlo. Se ne è fatto degno con una costante volontà, che spezza la carne e fa signore lo spirito, vincendo le concupiscenze, piegando l’essere alle virtù, tendendolo come arco verso la perfezione delle virtù e soprattutto della carità.
Perché, quando uno ama, tende a far lieto chi ama. Giovanni, che mi amava come nessuno e che era puro, ebbe dal Sacramento il massimo della trasformazione. Cominciò da quel momento ad essere l’aquila, a cui è familiare e facile l’altezza nel Cielo di Dio e l’affissare il Sole eterno. Ma guai a chi riceve il Sacramento senza esserne affatto degno, ma anzi avendo accresciuto la sua sempre umana indegnità con le colpe mortali. Allora esso diviene non germe di preservazione e di vita ma di corruzione e di morte. Morte dello spirito e putrefazione della carne, per cui essa “crepa”, come dice Pietro di quella di Giuda. (Atti 1, 18). Non sparge il sangue, liquido sempre vitale e bello nella sua porpora, ma le sue interiora, nere di tutte le libidini, marciume che si riversa fuori dalla carne marcita come da carogna di animale immondo, oggetto di ribrezzo per i passanti.
La morte del profanatore del Sacramento è sempre la morte di un disperato, e perciò non conosce il placido trapasso proprio di chi è in grazia, né l’eroico trapasso della vittima che soffre acutamente ma con lo sguardo fisso al Cielo e l’anima sicura della pace. La morte del disperato è atroce di contorsioni e di terrori, è una convulsione orrenda dell’anima già ghermita dalla mano di Satana, che la strozza per svellerla dalla carne e che la soffoca col suo nauseabondo fiato.
Questa la differenza fra chi trapassa all’altra vita dopo essersi nutrito in essa di carità, fede, speranza e d’ogni altra virtù e dottrina celeste e del Pane angelico che l’accompagna coi suoi frutti – meglio se con la sua reale presenza – nel viaggio estremo, e chi trapassa dopo una vita di bruto con morte da bruto che la Grazia e il Sacramento non confortano. La prima è la serena fine del santo, a cui la morte apre il Regno eterno. La seconda è la spaventosa caduta del dannato, che si sente precipitare nella morte eterna e conosce in un attimo ciò che ha voluto perdere, né più può riparare. Per uno acquisto, per l’altro spogliamento. Per uno gioia, per l’altro terrore.
Questo è quanto vi date a seconda del vostro credere ed amare, o non credere e deridere il dono mio. E questo è l’insegnamento di questa contemplazione».
Cap. DCII. Verso il Getsemani con undici apostoli. L’agonia spirituale e la cattura.
16 marzo 1945
1 La via è tutta silenziosa. Solo una fontanella che ricade in un bacino di pietra mette un suono in tanto silenzio. Lungo i muri delle case, dal lato d’oriente, vi è ancora oscurità, mentre dall’altro lato la luna comincia a fare bianco il sommo delle case e, dove la via allarga in una piazzetta, ecco che il latteo argenteo della luna scende a far belli anche i ciottoli e la terra della via. Ma sotto i frequenti archivolti che vanno da casa a casa, simili a ponti levatoi od a puntelli a queste vecchie case dalle scarsissime aperture sulle vie, e che in quest’ora sono tutte chiuse e buie come fossero case abbandonate, vi è l’oscurità perfetta, e il rossastro della torcia portata da Simone acquista una singolare vivezza e un’ancora più grande utilità. I visi, in quella luce rossa e mobile, si mostrano con un rilievo netto e, tanti quanti sono, rivelano altrettanti e diversi stati d’animo.
Il più solenne e calmo è quello di Gesù. Per quanto una stanchezza lo invecchi marcandolo di linee che solitamente non ha e che fanno già apparire la futura effigie del suo volto ricomposto nella morte.
Giovanni, che gli è al fianco, gira uno sguardo stupefatto, dolente, su tutto quanto vede. Sembra un fanciullo terrorizzato da qualche racconto udito o da qualche promessa paurosa e che invochi aiuto da chi sa di più di lui. Ma chi gli può dare aiuto?
Simone, che è all’altro fianco di Gesù, ha il viso chiuso, cupo, di chi rimugina in sé pensieri atroci. Ed è ancora l’unico che, dopo Gesù, mostri un aspetto dignitoso.
2 Gli altri, in due gruppi che continuamente si alternano nella loro formazione, sono tutto un fermento. E ogni tanto la voce rauca di Pietro o quella baritonale di Tommaso si elevano con risonanza strana. Poi si riabbassano, come paurosi di quello che dicono. Discutono sul da farsi, e chi propone l’una e chi l’altra cosa. Ma cadono tutte le proposte, perché realmente sta per iniziarsi “l’ora delle tenebre” e i giudizi umani restano oscurati e confusi.
«Bisognava dirmelo prima», arrangola Pietro.
«Ma non uno ha parlato. Non il Maestro…», dice Andrea.
«Sì! Proprio Lui te lo diceva. Ma fratello! Sembra che tu non lo conosca!…», gli risponde Pietro.
«Io sentivo qualche cosa di turbato. E l’ho detto: “Andiamo a morire con Lui”. Ve lo ricordate? Ma, per il nostro santissimo Iddio, se avessi saputo che era Giuda di Simone!…», tuona Tommaso minaccioso.
«E che volevi fare?», chiede Bartolomeo.
«Io? Io farei anche ora se mi aiutaste!».
«Cosa? Partiresti per ucciderlo? E dove?».
«No. Porterei via il Maestro. È più semplice».
«Non verrebbe!».
«Non gli chiederei se verrebbe. Lo rapirei come si rapisce una donna».
«Non sarebbe una malvagia idea!», dice Pietro. E impulsivo torna indietro, si mette nel gruppo dei due figli di Alfeo che con Matteo e Giacomo bisbigliano piano come congiurati. «Sentite, dice Tommaso di portare via Gesù. Tutti insieme. Si potrebbe… dal Get-Samnì per Betfage a Betania e di là… vela per qualche posto. Lo facciamo? Messo in salvo Lui, si torna e si stermina Giuda».
«È inutile. Israele è tutta una trappola», dice Giacomo d’Alfeo.
«Ed ora è prossima a chiudersi. Lo si capiva. Troppo odio!».
«Ma, Matteo! Mi fai rabbia! Avevi più coraggio quando eri peccatore! Di’ tu, Filippo».
Filippo, che viene solo solo e pare monologare fra sé, alza il viso e si ferma. Pietro lo raggiunge e bisbigliano fra loro. Poi raggiungono il gruppo di prima: «Io direi che il posto migliore è nel Tempio», dice Filippo.
«Sei matto?», urlano i cugini, Matteo e Giacomo. «Ma se là lo vogliono morto!».
«Sss! Quanto baccano! So quello che mi dico. Lo cercheranno da per tutto. Ma non lì. Tu e Giovanni avete buone amicizie fra i servi di Anna. Si dà un bel boccone d’oro… e tutto è fatto. Credete! Il posto migliore per nascondere uno ricercato è in casa dei carcerieri».
«Io non lo faccio», dice Giacomo di Zebedeo. «Però, senti anche gli altri. Giovanni per primo. E se poi lo arrestano? Non voglio che si dica che sono io il traditore…».
«Non ci avevo pensato. E allora?». Pietro è annichilito.
«E allora io direi che è pietoso fare una cosa. L’unica che possiamo. Portare via la Madre…», dice Giuda d’Alfeo.
«Già!… Ma… Chi ci va? Che le si dice? Va’ tu, parente».
«Io resto con Gesù. È mio diritto. Va’ tu».
«Io?! Mi sono armato di spada per morire come Eleazaro di Saura. Traverserò legioni per difendere il mio Gesù e colpirò senza ritegno. Se la forza dei più mi ucciderà, non importa. Lo avrò difeso», proclama Pietro.
«Ma sei proprio sicuro che è l’Iscariota?», chiede Filippo al Taddeo.
«Ne sono sicuro. Nessuno di noi ha cuore di serpe. Solo lui… Va’ tu, Matteo, da Maria e dille…».
«Io? Ingannarla? Vederla al mio fianco ignara, e poi?… Ah! no. Sono pronto alla morte, ma non a tradire quella colomba…».
Le voci si mischiano in un sussurro.
3 «Odi? Maestro, noi ti amiamo», dice Simone.
«Lo so. Non ho bisogno di quelle parole per saperlo. E se danno pace al cuore del Cristo esse feriscono la sua anima».
«Perché, Signor mio? Sono parole d’amore».
«Di tutto umano amore. In verità, in questi tre anni non ho fatto nulla, perché voi siete ancora più umani della prima ora. Lievitano in voi tutti i fermenti più fangosi, questa sera. Ma non è colpa vostra…».
«Salvati, Gesù!», geme Giovanni.
«Mi salvo».
«Sì? Oh! Mio Dio, grazie!». Giovanni pare un fiore piegato da arsione e che torni fresco sullo stelo. «Lo dico agli altri. Dove andiamo?».
«Io alla morte. Voi alla Fede».
«Ma non avevi detto ora che ti salvavi?». Il prediletto si accascia di nuovo.
«Mi salvo, infatti, mi salvo. Se non ubbidissi al Padre mi perderei. Ubbidisco. Perciò mi salvo. Ma non piangere così! Sei meno bravo dei discepoli di quel filosofo greco di cui ti parlai un giorno. Essi rimasero presso il maestro morente per cicuta, confortandolo col loro virile dolore. Tu… tu sembri un pargolo che abbia perduto suo padre».
«E non è forse così? Più che se perdessi il padre, io perdo! Perdo Te…».
«Non mi perdi poiché continui a volermi bene. È perduto uno che è da noi separato dalla dimenticanza sulla Terra e dal giudizio di Dio nell’al di là. Ma noi non saremo separati. Mai. Né da questo, né da quello».
Ma Giovanni non intende ragioni.
4 Simone si fa ancora più vicino a Gesù e gli confida sottovoce: «Maestro… io… io e Simon Pietro speravamo di fare qualche cosa di buono… Ma… Tu che sai tutto, dimmi: fra quante ore pensi essere catturato?».
«Non appena la luna è al colmo del suo arco».
Simone ha un atto di dolore e di impazienza, per non dire di stizza. «Allora tutto fu inutile… Maestro, ora ti spiego. Tu hai quasi rimproverato me e Simon Pietro per averti lasciato tanto solo in questi ultimi giorni… Ma eravamo lontani per Te… per amore di Te. Pietro, nella notte del lunedì, impressionato dalle tue parole, è venuto da me mentre dormivo e mi ha detto: “Io e te, di te mi fido, dobbiamo fare qualche cosa per Gesù. Anche Giuda ha detto di volersene occupare”. Oh! perché non abbiamo capito allora? Perché non ci hai detto nulla Tu? Ma, dimmi, a nessuno lo hai detto? Proprio a nessuno? Forse lo hai compreso solo poche ore fa?».
«L’ho sempre saputo. Prima ancora che egli fosse nei discepoli. E perché il suo delitto non fosse perfetto, e nel divino e nell’umano, ho cercato in tutti i modi di allontanarlo da Me. Coloro che vogliono che Io muoia sono i carnefici di Dio. Questo, mio discepolo e amico, è anche il traditore, il carnefice dell’Uomo. Il mio primo carnefice, perché mi ha già fatto morto con lo sforzo di averlo al fianco, alla mensa, e di doverlo proteggere con Me stesso contro voi».
«E nessuno lo sa?».
«Giovanni. Gliel’ho detto alla fine della Cena. Ma che avete fatto?».
«E Lazzaro? Non sa proprio nulla Lazzaro? Oggi fummo da lui, perché egli è venuto di prima mattina, ha sacrificato ed è ripartito senza neppure fermarsi al suo palazzo né andare al Pretorio. Perché lui ci va sempre, per consuetudine presa dal padre. E Pilato, lo sai, c’è in città, in questi giorni…».
«Sì. Tutti ci sono. C’è Roma, la nuova Sionne, con Pilato. C’è Israele con Caifa ed Erode. C’è tutto Israele, perché la Pasqua ha raccolto i figli di questo popolo ai piedi dell’altare di Dio…
5 Hai visto Gamaliele?».
«Sì. Perché questa domanda? Lo devo rivedere anche domani…».
«Gamaliele questa sera è a Betfage. Lo so. Quando saremo giunti al Getsemani tu andrai da Gamaliele e gli dirai: “Fra poco avrai il segno che attendi da ventun’anni”. Null’altro. Poi tornerai coi compagni».
«Ma come lo sai? Oh! Maestro mio, povero Maestro che non hai neppure il conforto di ignorare le opere altrui!».
«Dici bene! Il conforto di ignorare! Povero Maestro! Perché sono più le opere malvagie delle buone. Ma vedo anche quelle buone e ne giubilo».
«Allora Tu sai che…».
«Simone, è la mia ora di passione. Per renderla più completa il Padre mi ritira la luce man mano che si approssima. Fra poco non avrò che tenebre e la contemplazione di ciò che è tenebre: ossia tutti i peccati degli uomini. Non puoi, non potete capire. Nessuno, meno chi sarà a ciò chiamato da Dio per speciale missione, comprenderà questa passione nella grande Passione e, poi che l’uomo è materiale anche nell’amare e nel meditare, ci sarà chi piangerà e soffrirà per le mie battiture, per le torture del Redentore, ma non si misurerà questa spirituale tortura che, credetelo voi che mi udite, sarà la più atroce… Parla, perciò, Simone. Guidami sui sentieri dove la tua amicizia andò per Me, perché Io sono un povero che accieca e che vede fantasmi, non cose reali…».
Giovanni lo stringe e chiede: «Che? Non vedi più il tuo Giovanni?».
«Ti vedo. Ma i fantasmi sorgono dalle nebbie di Satana. Visioni d’incubo e dolore. Tutti siamo avvolti in questo miasma d’inferno, questa sera. In Me cerca di creare viltà, disubbidienza e dolore. In voi creerà delusione e paura. In altri, che pure non sono né paurosi né delinquenti, darà delinquenza e pavidità. In altri, che già sono di Satana, darà il pervertimento soprannaturale. Dico così perché la loro perfezione nel male sarà tale da superare le umane possibilità e raggiungere il perfetto che è sempre nel sopraumano.
6 Parla, Simone».
«Sì. Da martedì non facciamo che andare per sapere, per prevenire, per cercare aiuti».
«E che avete potuto fare?».
«Nulla. O ben poco».
«E il poco sarà “nulla” quando la paura paralizzerà i cuori».
«Mi sono anche urtato con Lazzaro… La prima volta che mi avviene… Urtato, perché mi parve inerte… Lui potrebbe fare. È amico del Governatore. È sempre il figlio di Teofilo! Ma Lazzaro ha respinto ogni mia proposta. L’ho lasciato urlando: “Io penso che l’amico di cui parla il Maestro sia tu. Mi fai orrore!”, e non volevo più tornare da lui… Ma questa mattina egli mi ha chiamato e detto: “Puoi ancora pensare che sia io il suo traditore?”. Io avevo già visto Gamaliele e Giuseppe e Cusa, e Nicodemo e Mannaen, ed infine tuo fratello Giuseppe… e non potevo più credere questo. Gli ho detto: “Perdona, Lazzaro. Ma mi sento la mente sconvolta più di quando ero io stesso un condannato”. Ed è così, Maestro… Io non sono più io… Ma perché sorridi?».
«Perché ciò conferma quanto Io ti ho detto prima. La nebbia di Satana ti avvolge e turba. Che ha risposto Lazzaro?».
«Ha detto: “Ti capisco. Vieni oggi, con Nicodemo. Ho bisogno di vederti”. E sono andato, mentre Simon Pietro è andato dai galilei. Perché tuo fratello, lui, da tanto lontano, ne sa più di noi. Dice che lo ha saputo per caso parlando con un vecchio galileo, amico di Alfeo e Giuseppe, che abita vicino ai mercati».
«Ah!… sì… Un grande amico della casa…».
«Egli è là con Simone e le donne. Vi è anche la famiglia di Cana».
«Ho visto Simone».
«Ebbene, Giuseppe da questo suo amico e amico di uno del Tempio, che è divenuto suo parente per donne, ha saputo che è decisa la tua cattura e ha detto a Pietro: “Io l’ho sempre combattuto. Ma per amore. E finché Egli era ancora forte. Ma, ora che diventa come un bambino in preda dei suoi nemici, io, parente che sempre l’ho amato, sono con Lui. È dovere di sangue e di cuore”».
Gesù sorride, riavendo per un attimo il viso sereno delle ore di gioia.
«E Giuseppe ha detto a Pietro: “I farisei di Galilea sono aspidi come tutti i farisei. Ma la Galilea non è tutta farisei. E qui sono molti galilei che lo amano. Andiamo a dire loro di radunarsi per difenderlo. Non abbiamo che i coltelli. Ma anche i bastoni sono armi, se ben maneggiati. E, se non vengono le milizie romane, avremo presto ragione di quella canaglia vile che sono gli sgherri del Tempio”. E Pietro è andato con lui.
7 Io intanto andavo da Lazzaro. Con Nicodemo. Avevamo deciso di persuadere Lazzaro a venire con noi e ad aprire la sua casa per stare con Te. Ci ha detto: “Devo ubbidire a Gesù e stare qui. A soffrire il doppio…”. È vero?».
«È vero. Io gli ho dato questo ordine».
«Però mi ha dato le spade. Sono sue. Una per me, una per Pietro. Anche Cusa voleva darmi le spade. Ma… Che sono due pezzi di ferro contro tutto un mondo? Cusa non può credere che sia vero quanto Tu dici. Giura che egli non sa nulla e che nella corte non c’è che il pensiero di godere della festa… Un bagordo come al solito. Tanto che egli ha detto a Giovanna di ritirarsi in una loro casa in Giudea. Ma Giovanna vuole rimanere qui. Chiusa nel suo palazzo, come se non ci fosse. Ma non si allontana. È con lei Plautina, Anna, Niche e due dame romane della casa di Claudia. Piangono, pregano e fanno pregare gli innocenti. Ma non è tempo di preghiere. Di sangue è tempo. Io sento tornare vivo lo “zelote” e ardo di uccidere per fare vendetta!…».
«Simone! Se volevo farti morire maledetto, non ti levavo alla desolazione!…». Gesù è severissimo.
«Oh! perdono, Maestro… Perdono! Sono come un ebbro, un delirante».
«E Mannaen che dice?».
«Mannaen dice che non può essere vero e che, se lo fosse, egli ti seguirà anche nel supplizio».
«Come tutti fidate di voi!… Quanta superbia è nell’uomo! E Nicodemo e Giuseppe? Che sanno?».
«Nulla più di me. Tempo fa in una assemblea Giuseppe si prese col Sinedrio, perché li chiamò assassini volendo uccidere un innocente, e disse: “Tutto è illegale qui dentro. Lui dice bene. L’abbominio è nella casa del Signore. Questo altare va distrutto perché profanato”. Non lo lapidarono perché è lui. Ma da allora lo hanno tenuto all’oscuro di tutto. Solo Gamaliele e Nicodemo gli si sono conservati amici. Ma il primo non parla. E il secondo… Né lui né Giuseppe furono più chiamati al Sinedrio per le decisioni più vere. Esso si aduna illegalmente qua e là, ad ore diverse, per paura di loro e di Roma. Ah! dimenticavo!… I pastori. Anche loro sono coi galilei. Ma pochi siamo! Se Lazzaro avesse voluto ascoltarci e venire dal Pretore! Ma non ci ascoltò… Questo abbiamo fatto… Molto… e nulla… e io sono tanto accasciato che vorrei andare per la campagna urlando come uno sciacallo, abbrutendomi in un’orgia, uccidendo come un brigante, pur di levarmi questo pensiero che è “tutto inutile”, come ha detto Lazzaro, come ha detto Giuseppe e Cusa e Mannaen e Gamaliele…». Lo Zelote non sembra più lui…
«Che ha detto il rabbi?».
«Ha detto: “Io non so esattamente i propositi di Caifa. Ma vi dico che solo per il Cristo è profetizzato quanto dite. E siccome io non ammetto in questo profeta il Cristo, non trovo ci sia da agitarsi. Verrà ucciso un uomo, buono, amico di Dio. Ma di quanti suoi simili ha bevuto il sangue Sionne?!”. E poiché noi insistevamo sulla tua divina Natura, ha ripetuto cocciuto: “Quando vedrò il segno, crederò”. Ed ha promesso di astenersi dal votare la tua morte, e anzi, se sarà possibile, di persuadere gli altri a non condannarti. Questo, non più. Non crede! Non crede! Se si potesse giungere a domani… Ma Tu dici di no.
8 Oh! che faremo noi?!».
«Tu andrai da Lazzaro e cercherai di portare con te quanti più puoi. Non solo degli apostoli. Ma anche dei discepoli che troverai vaganti per le vie della campagna. Cerca di vedere i pastori e da’ loro questo ordine. La casa di Betania è più che mai la casa di Betania, la casa della buona ospitalità. Quelli che non hanno coraggio di affrontare l’odio di tutto un popolo si rifugino là. Ad attendere…».
«Ma noi non ti lasceremo».
«Non vi separate… Divisi, sareste un nulla. Uniti, sarete ancora una forza. Simone, promettimi questo. Tu sei pacato, fedele, hai parola e impero anche su Pietro. E hai un grande obbligo con Me. Te lo ricordo per la prima volta, per importi l’ubbidienza. Guarda, siamo al Cedron. Di lì sei salito a Me lebbroso e di lì sei partito mondato. Per quello che ti ho dato, dammi. Dàllo all’Uomo ciò che Io ho dato all’uomo. Ora il lebbroso sono Io…».
«Nooo! Non lo dire!», gemono insieme i due discepoli.
«Così è! Pietro, i fratelli miei saranno i più accasciati. Come un delinquente si sentirà l’onesto mio Pietro e non avrà pace. E i fratelli… Non avranno cuore di guardare la loro e la mia Madre… Te li raccomando…».
«Ed io, Signore, di chi sarò? A me non pensi?».
«O mio fanciullo! Tu sei affidato al tuo amore. È tanto forte che ti guiderà come una madre. Non ti do ordine né guida. Ti lascio sulle acque dell’amore. Sono in te un fiume tanto calmo e profondo che non mi mettono dubbio sul tuo domani. Simone, hai inteso? Promettimi, promettimi!». È penoso vedere Gesù tanto angosciato… Riprende: «Prima che vengano gli altri! Oh! grazie! Sii benedetto!».
9 Tutto il gruppo si riunisce.
«Ora dividiamoci. Io salgo in alto, a pregare. Con Me voglio Pietro, Giovanni e Giacomo. Voi rimanete qui. E, se foste sopraffatti, chiamate. E non temete. Non vi sarà torto un capello. Pregate per Me. Deponete odio e paura. Non sarà che un attimo… e poi la gioia sarà piena. Sorridete. Che Io abbia nel cuore i vostri sorrisi. E ancora grazie di tutto, amici. Addio. Il Signore non vi abbandoni…».
Gesù si separa dagli apostoli e va avanti, mentre Pietro si fa dare da Simone la torcia dopo che questo ha acceso con essa degli sterpi resinosi, che bruciano scoppiettando sul limite dell’uliveto e spandendo un odore di ginepro. Mi fa pena vedere il Taddeo che guarda con uno sguardo talmente intenso e doloroso Gesù che questo si volge e cerca chi lo ha guardato. Ma il Taddeo si nasconde dietro a Bartolomeo e si morde le labbra per frenarsi.
Gesù fa un gesto con la mano, fra la benedizione e l’addio, e poi prosegue il suo cammino. La luna, ormai ben alta, circonda della sua luce la sua alta figura e pare renderla anche più alta, spiritualizzandola, facendone più chiara la veste rossa e più pallido l’oro dei capelli. Dietro a Lui affrettano il passo Pietro con la torcia e i due figli di Zebedeo.
10 Proseguono sino a raggiungere il limite della prima balza del rustico anfiteatro dell’uliveto, a cui fa da entrata la piazzuola irregolare e da gradinate le diverse balze che ascendono a scaglioni di ulivi sul monte, poi Gesù dice: «Fermatevi, attendetemi qui, mentre Io prego. Ma non dormite. Potrei avere bisogno di voi. E, ve lo chiedo per carità, pregate! Il vostro Maestro è molto accasciato».

È infatti di un accasciamento già profondo. Pare già aggravato da un peso. Dove è più il virile Gesù che parlava alle folle, bello, forte, dall’occhio dominatore, il pacato sorriso, la voce sonora e bellissima? Pare già preso da un affanno. È come uno che ha corso o che ha pianto. Ha una voce stanca e affannata. Triste, triste, triste…
Pietro risponde per tutti: «Sta’ tranquillo, Maestro. Vigileremo e pregheremo. Non hai che chiamarci, che verremo».
E Gesù li lascia, mentre i tre si curvano a radunare foglie e sterpi per fare un fuocherello che serva a tenerli desti e anche a combattere la guazza che comincia a scendere abbondante.
11Cammina, volgendo loro le spalle, da occidente a oriente, avendo perciò in faccia la luce lunare. Vedo che un grande dolore fa ancor più dilatato l’occhio, forse è un bistro di stanchezza che lo allarga, forse è l’ombra dell’arco sopraccigliare. Non so. So che ha l’occhio più aperto e incavato. Sale a testa china, solo ogni tanto la alza con un sospiro, come facesse fatica e anelasse, e allora gira il suo occhio tanto triste sul placido uliveto. Fa qualche metro in salita, poi gira intorno ad uno scaglione, che rimane così fra Lui e i tre lasciati più in basso.
Lo scaglione, alto pochi decimetri all’inizio, sale sempre più e dopo poco è alto più di due metri, di modo che ripara completamente Gesù da ogni sguardo più o meno discreto e amico. Gesù prosegue sino ad un grosso masso che ad un certo punto sbarra il sentieruolo, forse messo a sostegno alla costa che in giù scoscende più ripida e nuda sino ad una desolata macia, che precede le mura oltre le quali è Gerusalemme, e in su continua a salire con altri balzi e altri ulivi. Proprio sopra al grosso sasso si spenzola un ulivo tutto nodoso e contorto. Pare un bizzarro punto interrogativo messo dalla natura a chiedere qualche perché. I rami folti sulla cima danno risposta alla domanda del tronco, dicendo ora di sì col piegarsi verso terra, ora di no dimenandosi da destra a manca, sotto un vento lieve che passa a ondate fra le fronde e che a volte sa soltanto di terra, a volte di quell’odore amarognolo dell’ulivo, alle volte di un misto profumo di rose e mughetti che non si sa da dove possa venire. Oltre il sentieruolo, in basso, sono altri ulivi, ed uno, proprio sotto al masso, fenduto da qualche fulmine eppure sopravvissuto, o scosciato per non so che causa, ha del tronco iniziale fatto due tronchi che salgono come le due aste di un grande V in stampatello, e le due chiome si affacciano al di qua e al di là del masso, come volessero vedere e velare nello stesso tempo, o fare ad esso masso una base di un grigio argento tutto pace.
12Gesù si ferma lì. Non guarda la città che appare là in basso, tutta bianca nella luce lunare. Anzi le volge le spalle e prega a braccia aperte a croce, col volto alzato verso il cielo. E non vedo il volto suo perché è nell’ombra, avendo la luna quasi a perpendicolo sul capo, è vero, ma anche la folta ramaglia dell’ulivo fra Lui e la luna, che appena filtra fra foglia e foglia con occhiellini ed aghi di luce in perpetuo movimento.
Una lunga, ardente preghiera. Ogni tanto ha un sospiro e qualche parola più netta. Non è un salmo, non è il Pater. È una preghiera fatta dallo sgorgare del suo amore e del suo bisogno. Un vero discorso fatto al Padre suo. Lo comprendo per le poche parole che afferro: «Tu lo sai… Sono il tuo Figlio… Tutto, ma aiutami… L’ora è venuta… Io non sono più della Terra. Cessa ogni bisogno di aiuto al tuo Verbo… Fa’ che l’Uomo ti soddisfi come Redentore come ti fu ubbidiente la Parola… Ciò che Tu vuoi… Per loro ti chiedo pietà… Li farò salvi? Questo ti chiedo. Voglio così: dal mondo salvi, dalla carne, dal demonio… Posso chiedere ancora? È giusta domanda, Padre mio. Non per Me. Per l’uomo, che è tua creazione e che volle rendere fango anche la sua anima. Io getto nel mio dolore e nel mio Sangue questo fango, perché torni l’incorruttibile essenza dello spirito a Te gradito… Ed è dovunque. Egli è il re questa sera. Nella reggia e nelle case. Fra le milizie e nel Tempio… La città ne è colma, e domani sarà un inferno…».
Gesù si volge, si appoggia con la schiena al masso e incrocia le braccia. Guarda Gerusalemme. Il viso di Gesù si fa sempre più mesto. Mormora: «Pare di neve… ed è tutta un peccato. Anche in essa quanti ho guarito! Quanto ho parlato!… Dove sono quelli che mi parevano fedeli?»…
Gesù curva il capo e guarda fisso il terreno coperto di una erbetta corta e lucida di guazza. Ma, per quanto abbia il capo chino, comprendo che piange, perché delle gocce lucono nel cadere dal volto al suolo. Poi alza il capo, disserra le braccia, le congiunge tenendole al disopra del capo e agitandole così unite.
13Poi si incammina. Torna verso i tre apostoli seduti intorno al loro fuocherello di sterpi. E li trova mezzo addormentati. Pietro si è addossato ad un tronco con le spalle e, con le braccia conserte sul petto, ciondola con la testa nelle prime caligini di un robusto sonno. Giacomo è seduto, con il fratello, su un radicone che affiora e sul quale hanno messo i mantelli per sentirne meno le gobbe, ma, nonostante siano scomodi più di Pietro, sono anche loro sonnecchianti. Giacomo ha abbandonato la testa sulla spalla di Giovanni e questo ha piegato la sua su quella del fratello, come se il dormiveglia li avesse immobilizzati in quella posa.
«Dormite? Non avete saputo vegliare un’ora sola? Ed Io ho tanto bisogno del vostro conforto e delle vostre preghiere!».
I tre sobbalzano confusi. Si sfregano gli occhi. Mormorano una scusa, accusando lo sforzo del digerire come causa prima di questo loro sonnecchiare: «È il vino… il cibo… Ma ora passa. Un momento è stato. Non avevamo voglia di parlare e questo ci ha portati al sonno. Ma ora pregheremo a voce alta e non succederà più».
«Sì. Pregate e vigilate. Anche per voi ne avete bisogno».
«Sì, Maestro. Ti ubbidiremo».
14Gesù torna via. La luna che gli batte in volto, così forte nel suo chiarore d’argento che rende sempre più pallida la veste rossa come la velasse di una polvere bianco lucente, mi fa vedere il suo volto sconfortato, addolorato, invecchiato. Lo sguardo è sempre dilatato, ma pare appannato. La bocca ha una piega di stanchezza.
Torna al suo masso ancor più lento e curvo. Si inginocchia appoggiando le braccia al masso, che non è liscio ma a mezza altezza ha come un seno, quasi fosse stato lavorato apposta così, e su questo breve seno è nata una pianticina, che mi pare di quei fioretti simili a piccoli gigli che ho visto anche in Italia, dalle fogliette piccole, tonde ma dentellate agli orli e polpute e i fiorellini minuti sugli esilissimi steli. Sembrano piccoli fiocchi nevosi spruzzanti il grigio del masso e le fogliette verde scuro. Gesù appoggia le mani lì presso e i fiorellini gli vellicano la guancia, perché Egli appoggia il capo sulle mani giunte e prega. Dopo un poco sente il fresco delle piccole corolle, alza il capo. Le guarda. Le carezza. Parla loro: «Voi siete pure!… Voi mi date ristoro! C’erano anche nella grotticella della Mamma questi fiorellini… e Lei li amava perché diceva: “Quando ero piccina, diceva mio padre: ‘Tu sei un giglio così piccino e tutto pieno di rugiada celeste'”… La Mamma! Oh! Mamma mia!». Ha uno scoppio di pianto. Col capo sulle mani congiunte, ricaduto un poco sui calcagni, lo vedo e l’odo piangere, mentre le mani stringono le dita e le tormentano l’una all’altra. Sento che dice: «Anche a Betlemme… e te li ho portati, Mamma. Ma questi, chi te li porterà più?…».
15Poi riprende a pregare e a meditare. Deve essere ben triste la sua meditazione, angosciosa più che triste, perché per sfuggirla Egli si alza, va avanti e indietro mormorando parole che non afferro, alzando il volto, abbassandolo, gestendo, passandosi sugli occhi, sulle gote, sui capelli, le mani con mosse macchinali e agitate, proprie di chi è in grande angoscia. Dirlo non è niente. Descriverlo è impossibile. Vederlo è andare nella sua angoscia. Gestisce verso Gerusalemme. Poi torna ad alzare le braccia verso il cielo come per invocare aiuto.
Si leva il mantello come avesse caldo. Lo guarda… Ma che vede? I suoi occhi non guardano altro che la sua tortura, e tutto serve a questa tortura, ad aumentarla. Anche il mantello tessuto dalla Madre. Lo bacia e dice: «Perdono, Mamma! Perdono!». Pare lo chieda alla stoffa filata e tessuta dall’amore di mamma… Se lo rimette. È in uno strazio. Vuole pregare per superarlo. Ma con la preghiera tornano i ricordi, le apprensioni, i dubbi, i rimpianti… È una valanga di nomi… città… persone… fatti… Non posso seguirlo perché è veloce e saltuario. È la sua vita evangelica che gli sfila davanti… e gli riporta Giuda traditore.
16È tanto l’affanno che urla, per vincerlo, il nome di Pietro e Giovanni. E dice: «Ora verranno. Sono ben fedeli loro!». Ma “loro” non vengono. Chiama di nuovo. Pare terrorizzato come vedesse chissà che.
Fugge veloce verso il luogo dove è Pietro e i due fratelli. E li trova più comodamente e pesantemente addormentati intorno a poche bragie che, ormai morenti, hanno solo dei zig e zag di rosso fra il grigio della cenere.
«Pietro! Vi ho chiamati tre volte! Ma che fate? Dormite ancora? Ma non sentite quanto soffro? Pregate. Che la carne non vinca, non vi vinca. In nessuno. Se lo spirito è pronto, la carne è debole. Aiutatemi…».
I tre sono più lenti a svegliarsi. Ma infine lo fanno e, con occhi imbambolati, si scusano. Si alzano, prima mettendosi seduti, poi mettendosi proprio ritti.
«Ma guarda!», mormora Pietro. «Non ci è mai accaduto! Deve essere proprio stato quel vino. Era forte. E anche questo fresco. Ci si è coperti per non sentirlo (infatti si erano coperti coi mantelli anche sul capo) e non si è più visto il fuoco, non si è avuto più freddo, ed ecco che il sonno è venuto. Dici che hai chiamato? Eppure non mi pareva di dormire tanto forte… Su, Giovanni, cerchiamo dei rametti, muoviamoci. Ci passerà. Sta’ sicuro, Maestro, che ora poi!… Resteremo in piedi…», e getta una manata di fogliette secche sulle bragie, e soffia finché la fiamma risuscita, e la alimenta con i rami di rovo portati da Giovanni, mentre Giacomo porta un grosso ramo di ginepro, o simile pianta, che ha tagliato da un macchione poco discosto, e lo unisce al resto.
La fiamma si alza alta e gioconda illuminando il povero viso di Gesù. Un viso veramente di una tristezza che non si può guardare senza piangere. Ogni fulgore di quel volto è annullato in una stanchezza mortale. Dice: «Sono in un’angoscia che mi uccide! Oh! sì! L’anima mia è triste sino a morirne. Amici!… Amici! Amici!». Ma, se anche così non dicesse, il suo aspetto direbbe che Egli è proprio come uno che muore, e nel più angoscioso e desolato abbandono. Pare che ogni parola sia un singhiozzo…
Ma i tre sono troppo carichi di sonno. Sembrano quasi ebbri tanto vanno traballando ad occhi semichiusi… Gesù li guarda… Non li mortifica con rimproveri. Scuote il capo, sospira e torna via. Al posto di prima.
17Prega di nuovo in piedi, con le braccia in croce. Poi in ginocchio come prima, col volto curvo sui piccoli fiori. Pensa. Tace… Poi si dà a gemere e singhiozzare forte, quasi prostrato tanto è rilassato sui calcagni. Chiama il Padre. Sempre più affannosamente…
«Oh!», dice. «È troppo amaro questo calice! Non posso! Non posso! È al di sopra di quanto Io posso. Tutto ho potuto! Ma non questo… Allontanalo, Padre, dal tuo Figlio! Pietà di Me!… Che ho fatto per meritarlo?». Poi si riprende e dice: «Però, Padre mio, non ascoltare la mia voce se essa chiede ciò che è contrario alla tua volontà. Non ricordarti che ti sono Figlio, ma solo servo tuo. Non la mia, ma la tua volontà sia fatta».
Rimane così qualche tempo. Poi ha un grido soffocato e alza un viso sconvolto. Un attimo solo, poi piomba al suolo, proprio volto a terra, e resta così. Uno straccio d’uomo su cui preme tutto il peccato del mondo, su cui si abbatte tutta la Giustizia del Padre, su cui scende la tenebra, la cenere, il fiele, quella tremenda, tremenda, tremendissima cosa che è l’abbandono di Dio mentre Satana ci tortura… È l’asfissia dell’anima, è l’essere sepolti vivi in questa carcere che è il mondo, quando non si può più sentire che fra noi e Dio vi è un legame, è l’essere incatenati, imbavagliati, lapidati dalle nostre preghiere stesse che ci ricadono addosso irte di punte e sparse di fuoco, è il dare di cozzo contro un Cielo chiuso in cui non penetrano né voce né sguardi della nostra angoscia, è l’essere “orfani di Dio”, è la pazzia, l’agonia, il dubbio d’essersi sino allora ingannati, è la persuasione di essere scacciati da Dio, di esser dannati. È l’inferno!…
Oh! lo so! e non posso, non posso vedere lo spasimo del mio Cristo, e sapere che esso è un milione di volte più atroce di quello che mi ha consumata lo scorso anno e che, quando mi torna alla mente, mi sconvolge ancora…
Gesù geme, fra rantoli e sospiri proprio d’agonia: «Niente!… Niente!… Via!… La volontà del Padre! Quella! Quella sola!… La tua volontà, Padre. La tua, non la mia… Inutile. Non ho che un Signore: Iddio santissimo. Una legge: l’ubbidienza. Un amore: la redenzione… No. Non ho più Madre. Non ho più vita. Non ho più divinità. Non ho più missione. Inutilmente mi tenti, demonio, con la Madre, la vita, la mia divinità, la mia missione. Ho per madre l’Umanità e l’amo sino a morire per lei. La vita la rendo a Chi me l’ha data e me la chiede, supremo Padrone di ogni vivente. La divinità l’affermo essendo capace di questa espiazione. La missione la compio con la mia morte. Nulla ho più. Fuorché fare la volontà del Signore, mio Dio. Va’ indietro, Satana! L’ho detto la prima e la seconda volta. Lo ridico per la terza: “Padre, se è possibile passi da Me questo calice. Ma però non la mia, la tua volontà sia fatta”. Va’ indietro, Satana. Io sono di Dio».
Poi non parla più altro che per dire fra gli ansiti: «Dio! Dio! Dio!». Lo chiama ad ogni battito di cuore, e pare che ad ogni battito il sangue trabocchi. La stoffa tesa sulle spalle se ne imbibisce e torna scura, nonostante il grande chiarore lunare che lo fascia tutto.
18Pure un chiarore più vivo si forma sul suo capo, sospeso a circa un metro da Lui, un chiarore così vivo che anche il Prostrato lo vede filtrare fra le onde dei capelli, già pesanti di sangue, e il velo che il sangue fa agli occhi. Alza il capo… Splende la luna sul povero volto, e ancora più splende la luce angelica simile a quella del diamante bianco azzurro della stella Venere. E appare tutta la tremenda agonia nel sangue che trasuda dai pori. Le ciglia, i capelli, i baffi, la barba sono aspersi e cospersi di sangue. Sangue cola dalle tempie, sangue sgorga dalle vene del collo, sangue gocciano le mani, e quando Egli tende le mani verso la luce angelica e le ampie maniche scorrono in su, verso i gomiti, appaiono tutti sudanti sangue gli avambracci di Cristo. Nel viso, solo le lacrime fanno due righe nette fra la maschera rossa.
Si torna a levare il mantello e si asciuga le mani, il volto, il collo, gli avambracci. Ma il sudore continua. Egli si preme più e più volte la stoffa sul volto tenendola premuta con le mani, ed ogni volta che cambia posto, sulla stoffa rosso scura appaiono nette le impronte che, umide come sono, sembrano essere nere. L’erba del suolo è rossa di sangue.
Gesù pare prossimo a mancare. Si slaccia la veste al collo come si sentisse soffocare. Si porta la mano al cuore e poi al capo e se l’agita davanti al volto come per farsi vento, tenendo la bocca dischiusa. Si trascina contro il masso, ma più verso lo scrimolo del balzo, e si appoggia con la schiena ad esso, stando con le braccia pendenti lungo il corpo come fosse già morto, la testa penzoloni sul petto. Non si muove più.
La luce angelica decresce piano piano. Poi viene come assorbita nel chiarore lunare.
Gesù riapre gli occhi. Alza a fatica il capo. Guarda. È solo. Ma è meno angosciato. Allunga una mano. Tira a Sé il mantello, lasciato abbandonato sull’erba, e torna ad asciugarsi il volto, le mani, il collo, la barba, i capelli. Prende una larga foglia, nata proprio in riva al ciglio, tutta bagnata di guazza, e con quella finisce di pulirsi, bagnandosi volto e mani e poi asciugandosi da capo. E ripete, ripete con altre foglie, finché ha cancellato le tracce del suo tremendo sudore. Solo la veste, e specie sulle spalle e alle pieghe dei gomiti, al collo e alla cintura, ai ginocchi, è macchiata. Se la guarda e scuote il capo. Guarda anche il mantello. Ma lo vede troppo macchiato. Lo piega e lo pone sul masso, là dove esso fa cuna, presso i fioretti.
Con fatica, come per debolezza, si rigira mettendosi in ginocchio. Prega appoggiando il capo sul mantello, su cui sono già le mani.
19Poi si puntella al masso, si alza e, ancora lievemente barcollando, va dai discepoli. Il suo viso è pallidissimo. Ma non è più turbato. È un viso pieno di divina bellezza, pure essendo esangue e mesto oltre il solito.
I tre dormono saporitamente. Tutti avvolti nei mantelli, sdraiati affatto, presso il fuoco spento, si sentono respirare profondamente in un principio di sonoro russare.
Gesù li chiama. Inutile. Deve chinarsi e scuotere generosamente Pietro.
«Cosa è? Chi mi arresta?», dice questo emergendo, sbalordito e spaventato, dal suo mantello verde scuro.
«Nessuno. Sono Io che ti chiamo».
«È mattina?».
«No. È quasi terminata la seconda vigilia».
Pietro è tutto ingranchito.
Gesù scuote Giovanni, che ha un grido di terrore vedendo su di lui curvo un volto di fantasma tanto è marmoreo. «Oh!… Mi parevi morto!».
Scuote Giacomo, e questo, che crede che sia il fratello che lo chiama, dice: «Hanno preso il Maestro?».
«Non ancora, Giacomo», risponde Gesù. «Ma alzatevi ormai e andiamo. Chi mi tradisce è vicino».
I tre, ancora imbambolati, si alzano. Si guardano intorno… Ulivi, luna, usignoli, venticello, pace… Null’altro. Seguono però Gesù senza parlare. Anche gli altri otto sono più o meno addormentati intorno al fuoco spento.
«Sorgete!», tuona Gesù. «Mentre Satana viene, mostrate all’insonne e ai suoi figli che i figli di Dio non dormono!».
«Sì, Maestro».
«Dove è, Maestro?».
«Gesù, io…».
«Ma che è stato?».
E fra arruffate domande e risposte si rimettono i mantelli…
20Appena in tempo per apparire in ordine alla sbirraglia capitanata da Giuda, che irrompe nella quieta piazzuola illuminandola violentemente con molte torce accese. Sono un’orda di banditi camuffati da soldati, facce da galera torte in ghigni da demoni. Vi è anche qualche campione del Tempio.
Gli apostoli balzano tutti in un angolo. Pietro davanti, e dietro in gruppo gli altri. Gesù resta dove è.
Giuda si accosta sostenendo lo sguardo di Gesù, che è tornato il lampeggiante sguardo dei suoi giorni migliori. E non abbassa il volto. Anzi si fa vicino con un sorriso da iena e lo bacia sulla guancia destra.
«Amico, e che sei venuto a fare? Con un bacio mi tradisci?».
Giuda curva per un attimo la testa, poi la rialza… Morto al rimprovero come ad ogni invito al pentimento. Gesù, dopo le prime parole ancora dette con imponenza di Maestro, prende il tono accorato di chi si rassegna ad una sventura.
21La sbirraglia, con un clamore di urla, viene avanti con funi e bastoni e cerca di impadronirsi degli apostoli, oltre che di Cristo. Meno Giuda Iscariota, si intende.
«Chi cercate?», chiede Gesù calmo e solenne.
«Gesù Nazareno».
«Sono Io». La voce è un tuono. Davanti al mondo assassino e a quello innocente, davanti alla natura e alle stelle, Gesù si rende questa testimonianza, aperta, leale, sicura, direi che è lieto di potersela dare.
Ma, se avesse sprigionato un fulmine, non avrebbe potuto fare di più. Come un fascio di spighe falciate, tutti cadono al suolo. Restano in piedi solo Giuda, Gesù e gli apostoli, che davanti allo spettacolo dei soldati abbattuti riprendono fiato, tanto che si avvicinano a Gesù con delle minacce così esplicite per Giuda che questo fa un balzo, appena in tempo per sfuggire al colpo maestro della spada di Simone, e invano inseguito da pietre e bastoni, lanciatigli dietro dagli apostoli non armati di spada, fugge oltre il Cedron e si infosca nel nero di un viottolo.
«Alzatevi. Chi cercate? Torno a chiedervi».
«Gesù Nazareno».
«Ve l’ho detto che sono Io», dice con dolcezza Gesù. Sì, con dolcezza. «Lasciate dunque liberi questi altri. Io vengo. Riponete le spade e i bastoni. Non sono un ladrone. Stavo sempre fra voi. Perché non mi avete preso allora? Ma questa è la vostra ora e quella di Satana…».
22Ma, mentre parla, Pietro si accosta all’uomo che già tende le funi per legare Gesù e mena un maldestro colpo di spada. Se l’avesse usata di punta, lo sgozzava come un montone. Così non fa che staccargli quasi l’orecchio, che resta penzoloni fra un gran gemere di sangue. L’uomo grida dicendosi morto. Vi è tumulto fra chi vuol venire avanti e chi ha paura vedendo luccicare spade e pugnali.
«Riponete quelle armi. Ve lo comando. Se volessi, avrei gli angeli del Padre a difendermi. E tu, guarisci. Nell’anima per prima cosa, se puoi». E, prima di tendere le mani alle corde, tocca l’orecchio e lo rende sano.
Gli apostoli hanno urli scomposti… Sì. Mi spiace dirlo ma è così. Chi dice una cosa, chi l’altra. Chi urla: «Ci hai traditi!», e chi: «Ma è folle!», e chi dice: «E chi ti può credere?». Chi non urla, fugge…
E Gesù resta solo… Lui e gli sgherri… E incomincia il cammino…
Cap. DCIV. I processi e il rinnegamento di Pietro. Considerazioni su Pilato.
22-25 marzo 1945.
1 Incomincia il doloroso cammino per la stradetta sassosa che conduce dalla piazzetta dove Gesù fu catturato al Cedron e da questo, per altra stradetta, alla città. E subito incominciano i lazzi e le sevizie.
Gesù, legato come è ai polsi e persino alla cintura come fosse un pazzo pericoloso, con i capi delle funi affidati a degli energumeni briachi di odio, è stiracchiato qua e là come un cencio abbandonato all’ira di una torma di cuccioli. Ma, fossero cani coloro che così agiscono, sarebbero ancora scusabili. Invece hanno nome di uomini, sebbene dell’uomo non abbiano altro che l’aspetto. Ed è per dare maggior dolore che hanno pensato a quella legatura di due funi opposte, di cui una si occupa soltanto di imprigionare i polsi, e li sgraffia e sega col suo ruvido attrito, e l’altra, quella della cintura, comprime i gomiti contro il torace, e sega e opprime l’alto dell’addome, torturando il fegato e le reni, dove è fatto un enorme nodo e dove, ogni tanto, chi tiene i capi delle funi dà, con gli stessi, delle sferzate dicendo: «Arri! Via! Trotta, somaro!», e unisce anche dei calci, menati al dietro dei ginocchi del Torturato, che ne barcolla e non cade del tutto solo perché le funi lo tengono in piedi. Ma non evitano però che, stiracchiato verso destra da quello che si occupa delle mani e verso sinistra da quello che tiene la fune della cintura, Gesù vada ad urtare contro muretti e tronchi, e cada duramente contro la spalletta del ponticello per un più crudele strattone, ricevuto quando sta per valicare il ponticello sul Cedron. La bocca contusa sanguina. Gesù alza le mani legate per tergersi il sangue che brutta la barba, e non parla. È veramente l’agnello che non morde chi lo tortura.
Della gente è scesa intanto a prendere selci e ciottoli nel greto, e dal basso inizia una sassaiola sul facile bersaglio. Perché l’andare è stentato sul ponticello stretto e insicuro, su cui la gente si accalca facendo ostacolo a se stessa, e le pietre colpiscono Gesù sul capo, sulle spalle, e non Gesù solo. Ma anche i suoi aguzzini, che reagiscono lanciando bastoni e le stesse pietre. E tutto serve per colpire di nuovo Gesù sul capo e sul collo. Ma il ponte ha ben fine, ed ora la viuzza stretta getta ombre sulla mischia, perché la luna, che inizia il tramonto, non scende in quel vicolo contorto, e molte torce nel parapiglia si sono spente. Ma l’odio fa da lume per vedere il povero Martire, al quale fa da torturatrice anche la sua alta statura. È il più alto di tutti. Facile quindi il percuoterlo, l’acciuffarlo per i capelli obbligandolo a rovesciare violentemente indietro il capo, sul quale viene lanciata una manata di immonda materia, che gli deve per forza andare in bocca e negli occhi dando nausea e dolore.
2 Si inizia la traversata del sobborgo di Ofel, del sobborgo in cui tanto bene e tante carezze Egli ha sparso. La turba vociante richiama i dormenti sulle soglie, e se le donne hanno gridi di dolore e fuggono terrorizzate vedendo l’avvenuto, gli uomini, gli uomini che pure da Lui hanno avuto guarigioni, soccorsi, parole d’Amico, o chinano il capo rimanendo indifferenti, affettando noncuranza per lo meno, o passano dalla curiosità all’astio, al ghigno, all’atto di minaccia, e anche si accodano al corteo per seviziare. Satana è già all’opera…
Un uomo, un marito che vuole seguirlo per offenderlo, viene abbrancato dalla moglie urlante che gli grida: «Vigliacco! Se sei vivo è per Lui, lurido uomo pieno di marciume. Ricordalo!». Ma la donna viene sopraffatta dall’uomo, che la picchia bestialmente gettandola al suolo e che poi corre a raggiungere il Martire, sulla cui testa scaglia un sasso.
Un’altra donna, vecchia, cerca di sbarrare la strada al figlio, che accorre con un volto di iena e con un bastone per colpire lui pure, e gli grida: «Assassino del tuo Salvatore tu non sarai finché io vivo!». Ma la misera, colpita dal figlio con un calcio brutale all’inguine, stramazza gridando: «Deicida e matricida! Per il seno che squarci una seconda volta e per il Messia che ferisci, che tu sia maledetto!».
3 La scena aumenta sempre più in violenza man mano che ci si avvicina alla città.
Prima di giungere alle mura — e già sono aperte le porte, ed i soldati romani con le armi al piede osservano dove e come si svolge il tumulto, pronti ad intervenire se il prestigio di Roma ne fosse leso — vi è Giovanni con Pietro. Io credo che siano giunti lì da una scorciatoia presa valicando il Cedron più su del ponte e precedendo velocemente la turba, che va lenta, tanto da sé si ostacola. Stanno nella penombra di un androne, presso una piazzetta che precede le mura. E hanno sul capo i mantelli a far velo al volto. Ma, quando Gesù giunge, Giovanni lascia cadere il suo mantello e mostra la sua faccia pallida e sconvolta al libero chiarore della luna, che lì ancora fa lume prima di scomparire dietro il colle, che è oltre le mura e che sento designare come Tofet dagli sgherri catturatori. Pietro non osa scoprirsi. Ma però viene avanti per essere visto…
Gesù li guarda… ed ha un sorriso di una bontà infinita. Pietro gira su se stesso e torna nel suo angolo buio, con le mani sugli occhi, curvo, invecchiato, già un cencio d’uomo. Giovanni resta coraggiosamente dove è, e solo quando la turba vociante è passata raggiunge Pietro, lo prende per un gomito, lo guida come fosse un ragazzo che guida il padre cieco, ed entrano ambedue in città dietro alla folla schiamazzante.
Sento le esclamazioni stupite, derisorie, addolorate dei soldati romani. Chi fra essi maledice per essere stato levato dal letto per quel «pecorone stolto»; chi deride i giudei capaci di «prendere una mezza femmina»; chi compassiona la Vittima che «ha sempre visto buona»; e chi dice: «Preferirei mi avessero ucciso che vedere Lui in quelle mani. È un grande. La mia devozione è per due nel mondo: Egli e Roma». «Per Giove!», esclama il più alto in grado. «Io non voglio noie. Ora vado dall’alfiere. Pensi lui a dirlo a chi deve. Non voglio essere mandato a combattere i Germani. Questi ebrei puzzano e sono serpi e rogne. Ma qui è sicura la vita. Ed io sto per finire il tempo, e presso Pompei ho una fanciulla!…».
4 Perdo il resto per seguire Gesù, che procede per la via che fa un arco in salita per andare al Tempio. Ma vedo e comprendo che la casa di Anna, dove lo vogliono portare, è e non è in quel labirintico agglomerato che è il Tempio e che occupa tutto il colle di Sion. Essa ne è agli estremi, presso una serie di muraglioni, che paiono delimitare qui la città e da questo luogo si estendono con portici e cortili per il fianco del monte sino a giungere nel recinto del Tempio vero e proprio, ossia di quello in cui vanno gli israeliti per le loro diverse manifestazioni di culto.
Un alto portone ferrato si apre nella muraglia. A questo accorrono delle iene volonterose e bussano forte. E non appena si apre uno spiraglio irrompono dentro, quasi atterrando e calpestando la serva venuta ad aprire, e lo spalancano tutto perché la turba vociante, con il Catturato al centro, possa entrare. Ed entrata che è, ecco che chiudono e sprangano, paurosi forse di Roma o dei partigiani del Nazareno. I suoi partigiani! Dove sono?…
Percorrono l’atrio di ingresso e poi traversano un ampio cortile, un corridoio, e un altro portico e un nuovo cortile, e trascinano Gesù su per tre scalini, facendogli percorrere quasi di corsa un porticato sopraelevato sul cortile per giungere più presto ad una ricca sala, dove è un uomo anziano vestito da sacerdote.
«Dio ti consoli, Anna», dice colui che pare l’ufficiale, se ufficiale può chiamarsi il manigoldo che ha comandato quei briganti. «Eccoti il colpevole. Alla tua santità l’affido perché Israele sia mondato dalla colpa».
«Dio ti benedica per la tua sagacia e la tua fede».
Bella sagacia! Era bastata la voce di Gesù a farli cadere per terra al Getsemani.
5 «Chi sei Tu?».
«Gesù di Nazaret, il Rabbi, il Cristo. E tu mi conosci. Non ho agito nelle tenebre».
«Nelle tenebre, no. Ma hai traviato le folle con dottrine tenebrose. E il Tempio ha il diritto e il dovere di tutelare l’anima dei figli di Abramo».
«L’anima! Sacerdote di Israele, puoi dire che per l’anima del più piccolo o del più grande di questo popolo tu hai sofferto?».
«E Tu allora? Che hai fatto che possa chiamarsi sofferenza?».
«Che ho fatto? Perché me lo chiedi? Tutto Israele parla. Dalla città santa al più misero borgo anche le pietre parlano per dire quanto ho fatto. Ho dato la vista ai ciechi: la vista degli occhi e del cuore. Ho aperto l’udito ai sordi: alle voci della Terra e alle voci del Cielo. Ho fatto camminare gli storpi e i paralitici, perché iniziassero la marcia verso Dio dalla carne e poi procedessero con lo spirito. Ho mondato i lebbrosi, dalle lebbre che la Legge mosaica segnala e da quelle che rendono infetti presso Dio: i peccati. Ho risuscitato i morti, né dico che grande è il richiamare alla vita una carne, ma grande è redimere un peccatore, e l’ho fatto. Ho soccorso i poveri insegnando agli avidi e ricchi ebrei il precetto santo dell’amore del prossimo e, rimanendo povero nonostante il rio d’oro che mi passò fra le mani, ho asciugato più lacrime Io solo che non tutti voi, possessori di ricchezze. Ho dato infine una ricchezza che non ha nome: la conoscenza della Legge, la conoscenza di Dio, la certezza che siamo tutti uguali e che agli occhi santi del Padre uguale è il pianto o il delitto, sia che siano fatti o versati dal Tetrarca e dal Pontefice, o dal mendicante e dal lebbroso che muore sulla carraia. Questo ho fatto. Nulla più».
6 «Sai che da Te stesso ti accusi? Tu dici: le lebbre che rendono infetti a Dio e non sono segnalate da Mosè. Tu insulti Mosè e insinui che vi sono lacune nella sua Legge…».
«Non sua: di Dio. Così è. Più della lebbra, sventura della carne e che ha un termine, Io dico grave, e tale è, la colpa che è sventura ed eterna dello spirito».
«Tu osi dire che puoi rimettere i peccati. Come lo fai?».
«Se con un poco di acqua lustrale e il sacrificio di un ariete è lecito e credibile annullare una colpa, espiarla ed esserne mondati, come non lo potrà il mio pianto, il mio Sangue e il mio volere?».
«Ma Tu non sei morto. Dove è allora il Sangue?».
«Non sono ancora morto. Ma lo sarò perché è scritto. In Cielo da quando Sionne non era, da quando non era Mosè, da quando non era Giacobbe, da quando non era Abramo, da quando il re del Male morse al cuore l’uomo e lo avvelenò in lui e nei suoi figli. È scritto in Terra nel Libro in cui sono le voci dei profeti. È scritto nei cuori. Nel tuo, in quello di Caifa e dei sinedristi che non mi perdonano, no, questi cuori non mi perdonano di essere buono. Io ho assolto, anticipando sul Sangue. Ora compio l’assoluzione col lavacro in esso».
«Tu ci dici avidi e ignoranti del precetto d’amore…».
«E non è forse vero? Perché mi uccidete? Perché avete paura che Io vi detronizzi. Oh! non temete. Il mio Regno non è di questo mondo. Vi lascio padroni di ogni potere. L’Eterno sa quando dire il “Basta” che vi farà cadere fulminati…».
«Come Doras, eh?».
«Egli morì d’ira. Non per fulmine celeste. Dio lo attendeva dall’altra parte per fulminarlo».
«E lo ripeti a me? Suo parente? Osi?».
«Io sono la Verità. E la Verità non è mai vile».
«Superbo e folle!».
«No: sincero. Mi accusi di farvi offesa. Ma non odiate forse voi tutti? L’un coll’altro vi odiate. Ora l’odio per Me vi unisce. Ma domani, quando mi avrete ucciso, tornerà l’odio fra voi, e più fiero, e vivrete con questa iena alle spalle e questo serpente nel cuore. Io ho insegnato l’amore. Per pietà del mondo. Ho insegnato ad essere non avidi, ad avere misericordia.
7 Di che mi accusi?».
«Di avere messo una dottrina nuova».
«O sacerdote! Israele pullula di nuove dottrine: gli esseni hanno la loro, i sadochiti la loro, i farisei la loro; ognuno ha la sua segreta, che per uno ha nome piacere, per l’altro oro, per l’altro potere; e ognuno ha il suo idolo. Non Io. Io ho ripreso la calpestata Legge del Padre mio, del Dio eterno, e sono tornato a dire semplicemente le dieci proposizioni del Decalogo, asciugandomi i polmoni per farle entrare nei cuori che non le conoscevano più».
«Orrore! Bestemmia! A me, sacerdote, dire questo? Non ha un Tempio, Israele? Siamo come i percossi di Babilonia? Rispondi».
«Questo siete. E più ancora. Vi è un Tempio. Sì. Un edificio. Dio non c’è. È fuggito davanti all’abominio che è nella sua casa. Ma a che mi interroghi tanto, se tanto è decisa la mia morte?».
«Non siamo assassini. Uccidiamo se ne abbiamo il diritto per colpa provata.
8 Ma io ti voglio salvare. Dimmi, e ti salverò. Dove sono i tuoi discepoli? Se Tu me li consegni, io ti lascio libero. Il nome di tutti, e più gli occulti che i palesi. Di’: Nicodemo è tuo? E tuo Giuseppe? E Gamaliele? E Eleazaro? E… Ma di questo lo so… Non occorre. Parla. Parla. Lo sai: ti posso uccidere e salvare. Sono potente».
«Sei fango. Lascio al fango il mestiere della spia. Io sono Luce».
Uno sgherro gli sferra un pugno.
«Io sono Luce. Luce e Verità. Ho parlato apertamente al mondo, ho insegnato nelle sinagoghe e nel Tempio, dove si radunano i giudei, e nulla ho detto in segreto. Lo ripeto. Perché interroghi Me? Interroga quelli che hanno sentito ciò che Io ho detto. Essi lo sanno».
Un altro sgherro gli lascia andare un ceffone urlando: «Così rispondi al Sommo Sacerdote?».
«Ad Anna Io parlo. Il Pontefice è Caifa. E parlo col rispetto dovuto per il vecchio. Ma se ti pare che abbia parlato male, dimostramelo. Se no, perché mi percuoti?».
«Lascialo fare.
9 Io vado da Caifa. Voi tenetelo qui fino a mio comando. E fate che non parli con nessuno». Anna esce.
Non parla, no, Gesù. Neppure con Giovanni, che osa stare sulla porta sfidando tutta la plebe sgherrana. Ma Gesù, senza parole, gli deve dare un comando, perché Giovanni, dopo uno sguardo accorato, esce di lì e lo perdo di vista.
Gesù resta fra gli aguzzini. Colpi di corda, sputi, lazzi, calci, stiracchiate ai capelli, sono quanto gli resta. Finché un servo viene a dire di portare il Prigioniero in casa di Caifa.
E Gesù, sempre legato e malmenato, esce di nuovo sotto il portico, lo percorre fino ad un androne e poi traversa un cortile in cui molta folla si scalda ad un fuoco, perché la notte si è fatta rigida e ventosa in queste prime ore del venerdì. Vi è anche Pietro con Giovanni, mescolati fra la folla ostile. E devono avere un bel coraggio a stare lì… Gesù li guarda e ha un’ombra di sorriso sulla bocca già enfiata dai colpi ricevuti.
Un lungo cammino fra portici e atri e cortili e corridoi. Ma che case avevano questa gente del Tempio?
Ma nel recinto ponteficale la folla non entra. Viene respinta nell’atrio di Anna. Gesù va solo, fra sgherri e sacerdoti.
10Entra in una vasta sala, che pare perdere la sua forma rettangolare per i molti scanni messi a ferro di cavallo su tre pareti, lasciando al centro uno spazio vuoto oltre il quale sono due o tre seggi alzati su predelle.
Mentre Gesù sta per entrare, rabbi Gamaliele lo raggiunge e le guardie danno uno strattone al Prigioniero perché ceda l’entrata al rabbi di Israele. Ma questo, rigido come una statua, ieratico, rallenta e, muovendo appena le labbra senza guardare nessuno, chiede: «Chi sei? Dimmelo». E Gesù dolcemente: «Leggi i profeti e ne avrai risposta. Il segno primo è in essi. L’altro verrà».
Gamaliele raccoglie il suo manto ed entra. E dietro a lui entra Gesù. Mentre Gamaliele va su uno scanno, Gesù viene trascinato al centro dell’aula, di fronte al Pontefice: una faccia da delinquente vera e propria. E si attende finché entrano tutti i membri del Sinedrio.
Poi ha inizio la seduta. Ma Caifa vede due o tre seggi vuoti e chiede: «Dove è Eleazaro? E dove Giovanni?».
Si alza un giovane scriba, credo, si inchina e dice: «Hanno ricusato di venire. Qui è lo scritto».
«Si conservi e si scriva. Ne risponderanno.
11Che hanno i santi membri di questo Consiglio da dire sopra costui?».
«Io parlo. Nella mia casa Egli violò il sabato. Me ne è testimonio Dio se io mento. Ismael ben Fabi non mente mai».
«È vero, accusato?».
Gesù tace.
«Io lo vidi convivere con meretrici note. Fingendosi profeta, aveva fatto del suo covo un lupanare e con donne pagane per colmo. Con me erano Sadoc, Callascebona e Nahum fiduciario di Anna. Dico il vero, Sadoc e Callascebona? Smentitemi, se lo merito».
«Vero è. Vero è».
«Che dici?».
Gesù tace.
«Non mancava occasione per deriderci e farci deridere. La plebe più non ci ama per Lui».
«Li odi? Hai profanato i membri santi».
Gesù tace.
«Quest’uomo è indemoniato. Reduce dall’Egitto, esercita la magia nera».
«Come lo provi?».
«Sulla mia fede e sulle tavole della Legge!».
«Grave accusa. Discolpati».
Gesù tace.
«Illegale è il tuo ministero, lo sai. E passibile di morte. Parla».
«Illegale è questa nostra seduta. Alzati, Simeone, e andiamo», dice Gamaliele.
«Ma rabbi, ammattisci?».
«Rispetto le formule. Lecito non è procedere come procediamo. E ne farò pubblica accusa». E rabbi Gamaliele esce, rigido come una statua, seguito da un uomo sui trentacinque anni che gli somiglia.
12Vi è un poco di tumulto, di cui approfittano Nicodemo e Giuseppe per parlare in favore del Martire.
«Gamaliele ha ragione. Illecita è l’ora e il luogo, e non consistenti le accuse. Può uno accusarlo di noto vilipendio alla Legge? Io gli sono amico e giuro che sempre lo trovai rispettoso alla Legge», dice Nicodemo.
«Ed io pure. E per non sottoscrivere ad un delitto mi copro il capo, non per Lui, ma per noi, ed esco». E Giuseppe fa per scendere dal suo posto e uscire.
Ma Caifa sbraita: «Ah! così dite? Vengano i testimoni giurati, allora. E udite. Poi ve ne andrete».
Entrano due tipi da galera. Sguardi sfuggenti, ghigni crudeli, subdole mosse.
«Parlate».
«Non è lecito udirli insieme», urla Giuseppe.
«Io sono il Sommo Sacerdote. Io ordino. E silenzio!».
Giuseppe dà un pugno su un tavolo e dice: «Si aprano su te le fiamme del Cielo! Da questo momento sappi che l’Anziano Giuseppe è nemico del Sinedrio e amico del Cristo. E con questo passo vado a dire al Pretore che qui si uccide senza ossequio a Roma», ed esce violentemente dando uno spintone ad un magro e giovane scriba che lo vorrebbe trattenere.
Nicodemo, più pacato, esce senza dire parola. E nell’uscire passa davanti a Gesù e lo guarda…
13Nuovo tumulto. Si teme Roma. E la vittima espiatoria è sempre e ancora Gesù.
«Per Te, vedi, tutto questo! Tu corruttore dei migliori giudei. Prostituiti li hai».
Gesù tace.
«Parlino i testimoni», urla Caifa.
«Sì, costui usava il… il… Lo sapevamo… Come si chiama quella cosa?».
«Il tetragramma forse?».
«Ecco! L’hai detto! Evocava i morti. Insegnava ribellione al sabato e profanazione all’altare. Lo giuriamo. Diceva che Egli voleva distruggere il Tempio per riedificarlo in tre giorni con l’aiuto dei demoni».
«No. Diceva: non sarà fabbricato dall’uomo».
Caifa scende dal suo seggio e viene presso Gesù. Piccolo, obeso, brutto, pare un enorme rospo vicino ad un fiore. Perché Gesù, nonostante sia ferito, contuso, sporco e spettinato, è ancora tanto bello e maestoso. «Non rispondi? Che accuse ti fanno! Orrende! Parla, per levare da Te la loro onta».
Ma Gesù tace. Lo guarda e tace.
14«Rispondi a me, allora. Sono il tuo Pontefice. In nome del Dio vivo io ti scongiuro. Dimmi: sei Tu il Cristo, il Figlio di Dio?».
«Tu lo hai detto. Io lo sono. E vedrete il Figliuolo dell’uomo, seduto alla destra della Potenza del Padre, venire sulle nubi del cielo. Del resto, a che mi interroghi? Ho parlato in pubblico per tre anni. Nulla ho detto di occulto. Interroga quelli che mi hanno udito. Essi ti diranno ciò che ho detto e ciò che ho fatto».
Uno dei soldati che lo tengono lo colpisce sulla bocca, facendola sanguinare di nuovo, e urla: «Così rispondi, o satana, al Sommo Pontefice?».
E Gesù, mite, risponde a questo come a quello di prima: «Se ho parlato bene, perché mi percuoti? Se male, perché non mi dici dove erro? Ripeto: Io sono il Cristo, Figlio di Dio. Non posso mentire. Il sommo Sacerdote, l’eterno Sacerdote Io sono. E Io solo porto il vero Razionale su cui è scritto: Dottrina e Verità. E a queste Io sono fedele. Sino alla morte, ignominiosa agli occhi del mondo, santa agli occhi di Dio, e sino alla beata Risurrezione. Io sono l’Unto. Pontefice e Re Io sono. E sto per prendere il mio scettro e con esso, come con ventilabro, mondare l’aia. Questo Tempio sarà distrutto e risorgerà, nuovo, santo. Perché questo è corrotto e Dio lo ha lasciato al suo destino».
«Bestemmiatore!», urlano tutti in coro. «In tre giorni lo farai, folle e posseduto?».
«Non questo. Ma il mio risorgerà, il Tempio del Dio vero, vivo, santo, tre volte santo».
«Anatema!», urlano di nuovo in coro.
Caifa alza la sua voce chioccia, e si strappa le vesti di lino con atti di studiato orrore, e dice: «Che altro abbiamo da udire dai testimoni? La bestemmia è detta. Che dunque facciamo?».
E tutti in coro: «Sia reo di morte».
E con atti di sdegno e di scandalo escono dalla sala, lasciando Gesù alla mercede degli sgherri e della plebaglia dei falsi testimoni, che con schiaffi, con pugni, con sputi, legandogli gli occhi con uno straccio e poi tirandogli violentemente i capelli, lo sbalestrano qua e là a mani legate, di modo che urta contro tavoli, scranni e muri, e intanto gli chiedono: «Chi ti ha percosso? Indovina». E più volte, facendogli sgambetto fra le gambe, lo fanno stramazzare bocconi, e ridono sgangheratamente vedendo come, a mani legate, Egli stenti a rialzarsi.
15Passano così le ore, e i carnefici, stanchi, pensano di prendere un poco di riposo. Portano Gesù in uno sgabuzzino, facendogli attraversare molte corti fra i lazzi della plebe, già folta nel recinto delle case ponteficali.
Gesù giunge nella corte dove è Pietro presso al suo fuoco. E lo guarda. Ma Pietro ne sfugge lo sguardo. Giovanni non c’è più. Io non lo vedo. Penso sia andato via con Nicodemo…
L’alba viene avanti stentata e verdolina. Un ordine è dato: riportare il Prigioniero nella sala del Consiglio per un più legale processo. È il momento che Pietro nega per la terza volta di conoscere il Cristo quando Questi passa, già segnato dai patimenti. E nella luce verdognola dell’alba le lividure sembrano ancor più atroci sul volto terreo, gli occhi più fondi e vitrei, un Gesù offuscato dal dolore del mondo…
Un gallo getta nell’aria appena mossa dell’alba il suo grido irridente, sarcastico, monello. E in questo momento di gran silenzio, che si è fatto all’apparizione del Cristo, non si sente che l’aspra voce di Pietro dire: «Lo giuro, donna. Non lo conosco»: affermazione recisa, sicura, alla quale, come una risata beffarda, subito risponde il birichino canto del galletto.
Pietro ha un sussulto. Gira su se stesso per fuggire e si trova di fronte a Gesù che lo guarda con infinita pietà, con un dolore così accorato e intenso che mi spezza il cuore, come se dopo quello dovessi vedere dissolversi, e per sempre, il mio Gesù. Pietro ha un singhiozzo ed esce barcollando come fosse ebbro. Fugge dietro a due servi che escono nella via e si perde giù per la strada ancora semibuia.
Gesù è riportato nell’aula. E gli ripetono in coro la domanda capziosa: «In nome del Dio vero, di’ a noi: sei il Cristo?».
E, avutane la risposta di prima, lo condannano a morte e dànno ordine di condurlo a Pilato.
16Gesù, scortato da tutti i suoi nemici meno Anna e Caifa, esce ripassando da quei cortili del Tempio in cui tante volte aveva parlato e beneficato e guarito, valica la cinta merlata, entra nelle vie cittadine e, più strascinato che condotto, scende verso la città che si fa rosa in un primo annuncio d’aurora.
Credo che, con l’unico scopo di tormentarlo più a lungo, gli facciano fare un lungo giro vizioso per Gerusalemme, passando ad arte dai mercati, davanti agli stallaggi e agli alberghi colmi di gente per la Pasqua. E tanto le verdure di scarto dei mercati, come gli escrementi degli animali degli stallaggi, divengono proiettili per l’Innocente, il cui volto appare con sempre maggiori lividi e piccole lacerazioni sanguinanti, e velato dalle sudicerie varie che su di esso si sono sparse. I capelli, già appesantiti e lievemente stesi dal sudore sanguigno e resi più opachi, ora pendono spettinati, sparsi di paglie e immondezze, cadenti sugli occhi perché glieli scompigliano per velargli la faccia.
La gente dei mercati, compratori e venditori, lasciano tutto in asso per seguire, e non con amore, l’Infelice. Gli stallieri e i servi degli alberghi escono in massa, sordi ai richiami e agli ordini delle padrone, le quali, a dire il vero, come quasi tutte le altre donne, sono, se non contrarie tutte alle offese, almeno indifferenti al tumulto, e si ritirano brontolando per essere lasciate sole con tanta gente che hanno da servire.
Il codazzo urlante ingrossa così di minuto in minuto e sembra che, per una improvvisa epidemia, animi e fisionomie cambino natura, divenendo, i primi, animi di delinquenti e, le seconde, maschere di ferocia in volti verdi di odio o rossi di ira; e le mani artigliano, e le bocche prendono forma e ululo di lupo, e gli occhi divengono biechi, rossi, strabici come quelli di folli. Solo Gesù è sempre quello, sebbene ormai velato dalle immondezze sparse sul suo corpo e alterato da lividure e gonfiori.
17Ad un archivolto che stringe la via come un anello, mentre tutto si ingorga e rallenta, un grido fende l’aria: «Gesù!». È Elia, il pastore, che cerca di farsi largo roteando un pesante randello. Vecchio, potente, minaccioso e forte, riesce a giungere quasi dal Maestro. Ma la folla, sgominata dall’improvviso assalto, restringe le sue file e separa, respinge, soverchia il solo contro tutta una plebe. «Maestro!», urla mentre il gorgo della folla lo assorbe e respinge.
«Vai!… La Madre… Ti benedico…».
E il corteo supera il punto ristretto. E, come acqua che ritrova il largo dopo una chiusa, si rovescia tumultuando in un ampio viale sopraelevato sopra una depressione fra due colli, ai cui termini sono splendidi palazzi di gran signori.
Torno a vedere il Tempio sull’alto del suo colle e comprendo che il cerchio ozioso fatto fare al Condannato, per darlo in berlina a tutta la città e permettere a tutti di insultarlo, aumentando passo per passo gli insultatori, sta per conchiudersi di nuovo tornando sui luoghi di prima.
18Da un palazzo esce al galoppo un cavaliere. La gualdrappa porpurea sopra il candore del cavallo arabo e l’imponenza del suo aspetto, la spada brandita nuda, e menata di piatto e di taglio su schiene e su teste che sanguinano, lo fanno parere un arcangelo. Quando in un caracollo, in un’impennata del cavallo che corvetta, facendo degli zoccoli un’arma di difesa per se stesso e per il padrone e il più valido degli strumenti di apertura per farsi largo fra la folla, gli cade[10] dal capo il velo di porpora e oro che lo copriva, tenuto stretto da una striscia in oro, riconosco Manaem.
«Indietro!», urla. «Come vi permettete turbare i riposi del Tetrarca?». Ma questo non è che una finta per giustificare il suo intervento e il suo tentativo di giungere a Gesù. «Quest’uomo… lasciatemelo vedere… Scostatevi, o chiamo le guardie…».
La gente, e per la grandine delle piattonate, e per i calci del cavallo, e per la minaccia del cavaliere, si apre, e Manaen raggiunge il gruppo di Gesù e delle guardie del Tempio che lo tengono.
«Via! Il Tetrarca è da più di voi, luridi servi. Indietro. Gli voglio parlare», e lo ottiene caricando con la sua spada il più accanito dei carcerieri.
«Maestro!…».
«Grazie. Ma vai! E Dio ti conforti!». E, come può con le mani legate, Gesù fa un cenno di benedizione.
La folla fischia da lontano e, non appena vede che Manaen si ritira, si vendica d’essere stata respinta con una grandine di pietre e di immondezze sul Condannato.
19Per il viale, che è in salita ed è già tutto tiepido di sole, ci si avvia verso la torre Antonia, la cui mole già appare lontano.
Un grido acuto di donna: «Oh! il mio Salvatore! La mia vita per la sua, o Eterno!», fende l’aria.
Gesù gira il capo e vede, dall’alto della loggia fiorita che incorona una casa molto bella, Giovanna di Cusa fra serve e servi, coi piccoli Maria e Mattia intorno, tendere le braccia al cielo. Ma il Cielo non sente preghiera oggi! Gesù solleva le mani e traccia un gesto di benedicente addio.
«A morte! A morte il bestemmiatore, il corruttore, il satanasso! A morte gli amici di esso», e fischi e sassi vengono frombolati verso l’alta terrazza. Non so se qualcuno sia ferito. Sento un grido acutissimo e poi vedo scomporsi il gruppo e scomparire.
E avanti, avanti, salendo… Gerusalemme mostra le sue case al sole, vuote, svuotate dall’odio che spinge tutta una città, coi suoi effettivi abitanti e coi posticci qui convenuti per la Pasqua, contro un inerme.
20Dei soldati romani, tutto un manipolo, esce di corsa dall’Antonia con le aste puntate contro la plebaglia, che urlando si sperde. Restano in mezzo alla via Gesù con le guardie e i capi dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani del popolo.
«Quest’uomo? Questa sedizione? Ne risponderete a Roma», dice altezzoso un centurione.
«È reo di morte secondo la nostra legge».
«E da quando vi è stato reso l’jus gladii et sanguinis ?», chiede sempre il più anziano dei centurioni, un volto severo, veramente romano, con una guancia divisa da una cicatrice profonda. E parla con lo sprezzo e il ribrezzo con cui avrebbe parlato a galeotti pidocchiosi.
«Lo sappiamo che non lo abbiamo questo diritto. Siamo i fedeli dipendenti di Roma…».
«Ah! Ah! Ah! Sentili, Longino! Fedeli! Dipendenti! Carogne! Le frecce dei miei arcieri vi darei per premio».
«Troppo nobile tal morte! Le schiene dei muli vogliono solo il flagrum!…», risponde con ironica flemma Longino.
I capi dei sacerdoti, scribi e anziani spumano veleno. Ma vogliono ottenere lo scopo loro e tacciono, inghiottono l’offesa senza mostrare di capirla e, inchinandosi ai due capi, chiedono che Gesù sia portato da Ponzio Pilato perché «giudichi e condanni con la ben nota e onesta giustizia di Roma».
«Ah! Ah! Odili! Siamo divenuti più saggi di Minerva… Qui! Date! E marciate avanti! Non si sa mai. Voi siete sciacalli e fetenti. Avervi alle spalle è un pericolo. Avanti!».
«Non possiamo».
«E perché? Quando uno accusa deve essere davanti al giudice coll’accusato. Questa è la regola di Roma».
«La casa di un pagano è immonda agli occhi nostri, e noi già siamo purificati per la Pasqua».
«Oh! miserini! Si contaminano a entrare!… E l’uccisione dell’unico ebreo che uomo sia, e non sciacallo e rettile vostro pari, non vi sporca? Va bene. State dove siete, allora. Non un passo avanti o sarete infilzati sulle aste. Una decuria intorno all’Accusato. Le altre contro questa marmaglia sitente di becco mal lavato».
21Gesù entra nel Pretorio in mezzo ai dieci astati, che fanno un quadrato di alabarde intorno alla sua persona. I due centurioni vanno avanti. Mentre Gesù sosta in un largo atrio, oltre il quale è un cortile che si intravvede dietro una tenda che il vento sommuove, essi scompaiono dietro una porta.
Rientrano col Governatore, vestito di una toga bianchissima sulla quale però è un manto scarlatto. Forse così erano quando rappresentavano ufficialmente Roma. Entra indolentemente, con un sorrisetto scettico sul volto sbarbato, stropiccia fra le mani delle fronde di erba cedrina e le fiuta con voluttà. Va ad una meridiana, si rivolge dopo averla guardata. Getta dei grani d’incenso nel braciere posto ai piedi di un nume. Si fa portare acqua cedrata e si gargarizza la gola. Si rimira la pettinatura tutta a onde in uno specchio di metallo tersissimo. Pare che abbia dimenticato il Condannato che aspetta la sua approvazione per essere ucciso. Farebbe venire l’ira anche alle pietre.
Gli ebrei, posto che l’atrio è tutto aperto sul davanti e sopraelevato di tre alti scalini anche sul vestibolo, che si apre sulla via già sopraelevato di altri tre sulla via stessa, vedono tutto benissimo e fremono. Ma non osano ribellarsi per paura delle aste e dei giavellotti.
Finalmente, dopo avere girato e rigirato per l’ampio luogo, Pilato va diritto incontro a Gesù, lo guarda e chiede ai due centurioni: «Questo?».
«Questo».
«Vengano i suoi accusatori», e va a sedersi sulla sedia posta sulla predella. Sul suo capo le insegne di Roma si incrociano con le loro aquile dorate e la loro sigla potente.
«Non possono venire. Si contaminano».
«Euè!!! Meglio. Eviteremo fiumi d’essenze per levare il caprino al luogo. Fateli avvicinare, almeno. Qui sotto. E badate non entrino, posto che non vogliono farlo. Può essere un pretesto, quest’uomo, per una sedizione».
Un soldato parte per portare l’ordine del Procuratore romano. Gli altri si schierano sul davanti dell’atrio a distanze regolari, belli come nove statue di eroi.
22Vengono avanti i capi dei sacerdoti, scribi e anziani, e salutano con servili inchini e si fermano sulla piazzetta che è al davanti del Pretorio, oltre i tre gradini del vestibolo.
«Parlate e siate brevi. Già in colpa siete per avere turbato la notte e ottenuto l’apertura delle porte con violenza. Ma verificherò. E mandanti e mandatari risponderanno della disubbidienza al decreto». Pilato è andato verso di loro, rimanendo nel vestibolo.
«Noi veniamo a sottoporre a Roma, di cui tu rappresenti il divino Imperatore, il nostro giudizio su costui».
«Quale accusa portate contro di lui? Mi sembra un innocuo…».
«Se non fosse malfattore non te lo avremmo portato». E nella smania di accusare si fanno avanti.
«Respingete questa plebe! Sei passi oltre i tre scalini della piazza. Le due centurie all’armi!».
I soldati ubbidiscono veloci, allineandosi cento sul gradino esterno più alto, con le spalle volte al vestibolo, e cento sulla piazzetta su cui si apre il portone d’ingresso alla dimora di Pilato. Ho detto portone: dovrei dire androne o arco trionfale, perché è una vastissima apertura limitata da un cancello, ora spalancato, che immette nell’atrio per il lungo corridoio del vestibolo largo almeno sei metri, di modo che ben si vede ciò che avviene nell’atrio sopraelevato. Oltre l’ampio vestibolo si vedono le facce bestiali dei giudei guardare minacciose e sataniche verso l’interno, guardare dall’al di là della barriera armata che, gomito a gomito, come per una parata, presenta duecento punte ai conigli assassini.
«Quale accusa portate verso costui, ripeto».
«Ha commesso delitto contro la Legge dei padri».
«E venite a seccare me per questo? Pigliatelo voi e giudicatelo secondo le vostre leggi».
«Noi non possiamo dar morte ad alcuno. Dotti non siamo. Il Diritto ebraico è un pargolo deficiente rispetto al perfetto Diritto di Roma. Come ignoranti e come soggetti di Roma, maestra, abbiamo bisogno…».
«Da quando siete miele e burro?… Ma avete detto una verità, o maestri del mendacio! Di Roma avete bisogno! Sì. Per sbarazzarvi di costui che vi dà noia. Ho compreso». E Pilato ride, guardando il cielo sereno che si inquadra come una rettangolare lastra di cupa turchese fra le marmoree e candide pareti dell’atrio. «Dite: in che ha commesso delitto contro le vostre leggi?».
«Noi abbiamo trovato che costui metteva il disordine nella nostra nazione e che impediva di pagare il tributo a Cesare, dicendosi il Cristo, re dei giudei».
23Pilato ritorna presso Gesù, che è al centro dell’atrio, lasciato là dai soldati, legato ma senza scorta tanto appare netta la sua mansuetudine. E gli chiede: «Sei Tu il re dei giudei?».
«Per te lo chiedi o per insinuazione d’altri?».
«E che vuoi che me ne importi del tuo regno? Son forse io giudeo? La tua nazione e i capi di essa mi ti hanno consegnato perché io giudichi. Che hai fatto? Ti so leale. Parla. È vero che aspiri al regno?».
«Il mio Regno non viene da questo mondo. Se fosse un regno del mondo, i miei ministri e i miei soldati avrebbero combattuto perché i giudei non mi pigliassero. Ma il mio Regno non è della Terra. E tu lo sai che al potere Io non tendo».
«Ciò è vero. Lo so. Mi fu detto. Ma però Tu non neghi d’essere re?».
«Tu lo dici. Io sono Re. Per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla Verità. Chi è amico della Verità ascolta la mia voce».
«E che cosa è la Verità? Sei filosofo? Non serve di fronte alla morte. Socrate morì lo stesso».
«Ma gli servì di fronte alla vita, a ben vivere. E anche a ben morire. E ad andare nella vita seconda senza nome di traditore delle civiche virtù».
«Per Giove!». Pilato lo guarda ammirato qualche momento. Poi lo riprende il sarcasmo scettico. Fa un atto di noia, gli volge le spalle, torna verso i giudei. «Io non trovo in Lui alcuna colpa».
La folla tumultua, presa dal panico di perdere la preda e lo spettacolo del supplizio. E urla: «È un ribelle!», «Un bestemmiatore», «Incoraggia il libertinaggio», «Eccita alla ribellione», «Nega rispetto a Cesare», «Si finge profeta senza esserlo», «Compie magie», «È un satana», «Solleva il popolo con le sue dottrine insegnando in tutta la Giudea, alla quale è venuto dalla Galilea insegnando», «A morte!», «A morte!».
«Galileo è? Galileo sei?». Pilato torna da Gesù: «Lo senti come ti accusano? Discolpati».
Ma Gesù tace.
24Pilato pensa… E decide. «Una centuria, e da Erode costui. Lo giudichi. È suo suddito. Riconosco il diritto del Tetrarca e al suo verdetto sottoscrivo in anticipo. Gli sia detto. Andate».
E Gesù, inquadrato come un manigoldo da cento soldati, riattraversa la città e torna ad incontrare Giuda Iscariota, che già aveva incontrato una volta presso un mercato. Prima mi ero dimenticata di dirlo, presa dal disgusto della zuffa popolana. Lo stesso sguardo di pietà sul traditore…
Ora è più difficile colpirlo con calci e bastoni, ma le pietre e le immondezze non mancano e, se i sassi cadono sonando senza ferire sugli elmi e le corazze romane, ben lasciano un segno colpendo Gesù, che procede col solo vestito, avendo lasciato il mantello nel Getsemani.
Nell’entrare nel fastoso palazzo di Erode, Egli vede Cusa… che non sa guardarlo e che fugge per non vederlo in quello stato, coprendosi il capo col mantello.
25Eccolo nella sala, davanti a Erode. E, dietro Lui, ecco gli scribi e i farisei, che qui si sentono a loro agio, entrare da accusatori mendaci. Solo il centurione con quattro militi lo scortano davanti al Tetrarca.
Questo scende dal suo seggio e gira intorno a Gesù, mentre ascolta le accuse dei nemici suoi. E sorride e beffeggia. Poi finge una pietà e un rispetto che non turbano il Martire come non lo hanno turbato i motteggi.
«Sei grande. Lo so. Ti ho seguito e ho avuto giubilo che Cusa ti fosse amico e Manaem discepolo. Io… le cure di Stato… Ma che desiderio di dirti: grande… di chiederti perdono… L’occhio di Giovanni… la sua voce mi accusano e sempre davanti a me sono. Tu sei il santo che annulla i peccati del mondo. Assolvimi, o Cristo».
Gesù tace.
«Ho sentito che ti accusano di esserti drizzato contro Roma. Ma non sei Tu la verga promessa per percuotere Assur?».
Gesù tace.
«Mi hanno detto che Tu profetizzi la fine del Tempio e di Gerusalemme. Ma non è eterno il Tempio come spirito, essendo voluto da Chi eterno è?».
Gesù tace.
«Sei folle? Hai perduto il potere? Satana ti inceppa la parola? Ti ha abbandonato?». Erode ride, ora.
26Ma poi dà un ordine. E dei servi accorrono portando un levriere dalla gamba spezzata, che guaisce lamentosamente, e uno stalliere ebete dalla testa acquosa, sbavante, un aborto d’uomo, trastullo dei servi. Gli scribi e i sacerdoti fuggono urlando al sacrilegio, quando vedono la barella del cane. Erode, falso e beffardo, spiega: «È il preferito di Erodiade. Dono di Roma. Si è spezzato ieri una zampa ed ella piange. Comanda che guarisca. Fa’ miracolo».
Gesù lo guarda severo. E tace.
«Ti ho offeso? Allora questo. È un uomo, benché di poco sia più che una belva. Dàgli l’intelligenza, Tu, Intelligenza del Padre… Non dici così?». E ride, offensivo.
Altro più severo sguardo di Gesù e silenzio.
«Quest’uomo è troppo astinente e ora è intontito dagli spregi. Vino e donne, qui. E sia slegato».
Lo slegano. E mentre servi, in gran numero, portano anfore e coppe, entrano danzatrici… coperte di niente: una frangia multicolore di lino cinge per unica veste la loro sottile persona, dalla cintura alle anche. Null’altro. Bronzee perché africane, snelle come gazzelle giovinette, iniziano una danza silenziosa e lasciva.
Gesù respinge le coppe e chiude gli occhi senza parlare. La corte di Erode ride davanti al suo sdegno.
«Prendi quella che vuoi. Vivi! Impara a vivere!…», insinua Erode.
Gesù pare una statua. A braccia conserte, occhi serrati, non si scuote neppure quando le impudiche danzatrici lo sfiorano coi loro corpi nudi.
«Basta. Ti ho trattato da Dio e non hai agito da Dio. Ti ho trattato da uomo e non hai agito da uomo. Sei folle. Una veste bianca. Rivestitelo di essa perché Ponzio Pilato sappia che il Tetrarca ha giudicato folle il suo suddito. Centurione, dirai al Proconsole che Erode gli umilia il suo rispetto e venera Roma. Andate».
E Gesù, legato di nuovo, esce, con una tunica di lino, che gli giunge al ginocchio, sopra la rossa veste di lana.
E tornano da Pilato.
27Ora, quando la centuria fende a fatica la folla, che non si è stancata di attendere davanti al palazzo proconsolare — ed è strano vedere tanta folla in quel luogo e nelle vicinanze, mentre il resto della città appare vuoto di popolo — Gesù vede in gruppo i pastori, e sono al completo, ossia Isacco, Gionata, Levi, Giuseppe, Elia, Mattia, Giovanni, Simeone, Beniamino e Daniele, insieme ad un gruppetto di galilei di cui riconosco Alfeo e Giuseppe di Alfeo, insieme a due altri che non conosco ma che direi giudei alla acconciatura. E più oltre, scivolato fin dentro al vestibolo, seminascosto dietro una colonna, insieme ad un romano che direi un servo, vede Giovanni. Sorride a questo e a quelli… I suoi amici… Ma che sono questi pochi, e Giovanna e Manaem e Cusa, in mezzo ad un oceano di odio che bolle?…
28Il centurione saluta Ponzio Pilato e riferisce.
«Qui ancora?! Auf! Maledetta questa razza! Fate avanzare la plebaglia e portate qui l’Accusato. Euè! che noia!».
Va verso la folla, sempre fermandosi a metà vestibolo.
«Ebrei, udite. Mi avete condotto quest’uomo come sobillatore del popolo. Davanti a voi l’ho esaminato e non ho trovato in Lui nessuno dei delitti di cui lo accusate. Erode non più di me ha trovato. E a noi lo ha rimandato. Non merita la morte. Roma ha parlato. Però, per non dispiacervi levandovi il sollazzo, vi darò in cambio Barabba[13]. E Lui lo farò colpire con quaranta colpi di fustigazione. Basta così».
«No, no! Non Barabba! Non Barabba! A Gesù la morte! E morte orrenda! Libera Barabba e condanna il Nazzareno».
«Ma udite! Ho detto fustigazione. Non basta? Lo farò flagellare, allora! È atroce, sapete? Può morire per essa. Che ha fatto di male? Io non trovo nessuna colpa in Lui. E lo libererò».
«Crocifiggi! Crocifiggi! A morte! Protettore dei delinquenti sei! Pagano! Satana tu pure!».
La folla si fa sotto e la prima schiera di soldati ondeggia nell’urto, non potendo usare le aste. Ma la seconda fila, scendendo d’un gradino, rotea le aste e libera i compagni.
«Sia flagellato», ordina Pilato a un centurione.
«Quanto?».
«Quanto ti pare… Tanto è affare finito. E io sono annoiato. Va’».
29Gesù viene tradotto da quattro soldati nel cortile oltre l’atrio. In esso, tutto selciato di marmi colorati, è al centro un’alta colonna simile a quella del porticato. A un tre metri dal suolo essa ha un braccio di ferro sporgente per almeno un metro e terminante in anello. A questa viene legato Gesù con le mani congiunte sull’alto del capo, dopo che fu fatto spogliare. Egli resta unicamente con delle piccole brache di lino e i sandali. Le mani legate ai polsi vengono alzate sino all’anello, di modo che Egli, per quanto sia alto, non poggia al suolo che la punta dei piedi… E deve essere tortura anche questa posizione.
Ho letto non so dove che la colonna era bassa e Gesù stava curvo. Sarà. Io vedo così e così dico.
Dietro a Lui si colloca uno dalla faccia di boia, dal netto profilo ebraico; davanti a Lui, un altro dalla faccia uguale. Sono armati del flagello, fatto di sette strisce di cuoio legate ad un manico e terminanti in un martelletto di piombo. Ritmicamente, come per un esercizio, si dànno a colpire. Uno davanti, l’altro di dietro, di modo che il tronco di Gesù è in una ruota di sferze e di flagelli.
I quattro soldati a cui è consegnato, indifferenti, si sono messi a giocare a dadi con altri tre soldati sopraggiunti. E le voci dei giuocatori si cadenzano sul suono dei flagelli, che fischiano come serpi e poi suonano come sassi gettati sulla pelle tesa di un tamburo, percuotendo il povero corpo così snello e di un bianco d’avorio vecchio, e che diviene prima zebrato di un rosa sempre più vivo, poi viola, poi si orna di rilievi d’indaco gonfi di sangue, e poi si crepa e rompe lasciando colare sangue da ogni parte. E infieriscono specie sul torace e l’addome, ma non mancano i colpi dati alle gambe e alle braccia e fin sul capo, perché non vi fosse brano di pelle senza dolore.
E non un lamento… Se non fosse sostenuto dalla fune, cadrebbe. Ma non cade e non geme. Solo la testa gli pende, dopo colpi e colpi ricevuti, sul petto, come per svenimento.
«Ohé! Fermati! Deve essere ucciso da vivo», urla e motteggia un soldato.
I due boia si fermano e si asciugano il sudore.
«Siamo sfiniti», dicono. «Dateci la paga, che si possa bere per ristorarsi…».
«La forca vi darei! Ma prendete…», e un decurione getta una larga moneta ad ognuno dei due boia.
«Avete lavorato a dovere. Pare un mosaico. Tito, dici che era proprio questo l’amore di Alessandro? Allora gliene daremo notizia perché faccia il lutto. Sleghiamolo un poco».
30Lo slegano e Gesù si accascia al suolo come morto. Lo lasciano là, urtandolo ogni tanto col piede calzato dalle calighe per vedere se geme. Ma Egli tace.
«Che sia morto? Possibile? È giovane e artiere, mi hanno detto… e pare una dama delicata».
«Ora ci penso io», dice un soldato. E lo mette seduto con la schiena alla colonna. Dove Egli era, sono grumi di sangue… Poi va ad una fontanella che chioccola sotto al portico, empie un mastello d’acqua e la rovescia sul capo e sul corpo di Gesù. «Così! Ai fiori fa bene l’acqua».
Gesù sospira profondamente e fa per alzarsi, ma ancora sta ad occhi chiusi.
«Oh! bene. Su, bellino! Che ti aspetta la dama!…».
Ma Gesù inutilmente punta al suolo i pugni nel tentativo di drizzarsi.
«Su! Svelto! Sei debole? Ecco il ristoro», ghigna un altro soldato. E con l’asta della sua alabarda mena una bastonata al viso e coglie Gesù fra lo zigomo destro e il naso, che si mette a sanguinare.
Gesù apre gli occhi, li gira. Uno sguardo velato… Fissa il soldato percuotitore, si asciuga il sangue con la mano, e poi, con molto sforzo, si pone in piedi.
«Vestiti. Non è decenza stare così. Impudico!». Ridono tutti in cerchio intorno a Lui.
Egli ubbidisce senza parlare. Ma mentre si china — e solo Lui sa quello che soffre nel piegarsi al suolo, così contuso come è, e con le piaghe che nel tendersi della pelle si aprono più ancora, e altre che se ne formano per vesciche che si rompono — un soldato dà un calcio alle vesti e le sparpaglia e, ogni volta che Gesù le raggiunge andando barcollante dove esse cadono, un soldato le spinge o le getta in altra direzione. E Gesù, soffrendo acutamente, le insegue senza una parola, mentre i soldati lo deridono oscenamente.
Può finalmente rivestirsi. E rimette anche la veste bianca, rimasta pulita in un angolo. Pare voglia nascondere la sua povera veste rossa, solo ieri tanto bella ed ora lurida di immondizie e macchiata del sangue sudato nel Getsemani. Anzi, prima di mettersi la tunichella corta sulla pelle, con essa si asciuga il volto bagnato e lo deterge così da polvere e sputi. Ed esso, il povero, santo volto, appare pulito, solo segnato da lividi e piccole ferite. E si ravvia i capelli caduti scomposti e la barba per un innato bisogno di essere ordinato nella persona.
E poi si accoccola al sole. Perché trema, il mio Gesù… La febbre comincia a serpeggiare in Lui con i suoi brividi. E anche la debolezza del sangue perduto, del digiuno, del molto cammino, si fa sentire.
31Gli legano di nuovo le mani. E la corda torna a segare là dove è già un rosso braccialetto di pelle scorticata.
«E ora? Che ne facciamo? Io mi annoio!».
«Aspetta. I giudei vogliono un re. Ora glielo diamo. Quello lì…», dice un soldato.
E corre fuori, in un retrostante cortile certo, dal quale torna con un fascio di rami di biancospino selvatico, ancora flessibili perché la primavera tiene relativamente morbidi i rami, ma ben duri nelle spine lunghe e acuminate. Con la daga levano foglie e fioretti, piegano a cerchio i rami e li calcano sul povero capo. Ma la barbara corona ricade sul collo.
«Non ci sta. Più stretta. Levala».
La levano e sgraffiano le guance, risicando di accecarlo, e strappano i capelli nel farlo. La stringono. Ora è troppo stretta e, per quanto la pigino conficcando gli aculei nel capo, essa minaccia di cadere. Via di nuovo strappando altri capelli. La modificano di nuovo. Ora va bene. Davanti è un triplice cordone spinoso. Dietro, dove gli estremi dei tre rami si incrociano, è un vero nodo di spini che entrano nella nuca.
«Vedi come stai bene? Bronzo naturale e rubini schietti. Specchiati, o re, nella mia corazza», motteggia l’ideatore del supplizio.
«Non basta la corona a fare un re. Ci vuole porpora e scettro. Nella stalla è una canna e nella cloaca è una clamide rossa. Prendile, Cornelio».
E, avutele, mettono il sudicio straccio rosso sulle spalle di Gesù e, prima di mettergli fra le mani la canna, gliela dànno sul capo inchinandosi e salutando: «Ave, re dei Giudei», e si sbellicano dalle risa.
Gesù li lascia fare. Si lascia mettere seduto sul «trono» — un mastello capovolto, certo usato per abbeverare i cavalli — si lascia colpire, schernire, senza mai parlare. Li guarda solo… ed è uno sguardo di una dolcezza e di un dolore così atroce che non lo posso sostenere senza sentirne ferita al cuore.
32I soldati smettono lo scherno solo alla voce aspra di un superiore che ordina la traduzione davanti a Pilato del reo. Reo! Di che?
Gesù è riportato nell’atrio, ora coperto da un prezioso velario per il sole. Ha ancora la corona, la clamide e la canna.
«Vieni avanti. Che io ti mostri al popolo».
Gesù, già franto, si raddrizza dignitoso. Oh! che è veramente re!
«Udite, ebrei. Qui è l’uomo. Io l’ho punito. Ma ora lasciatelo andare».
«No, no! Vogliamo vederlo! Fuori! Che si veda il bestemmiatore!».
«Conducetelo fuori. E guardate non sia preso».
E mentre Gesù esce nel vestibolo e si mostra nel quadrato dei soldati, Ponzio Pilato lo accenna colla mano dicendo: «Ecco l’Uomo. Il vostro re. Non basta ancora?».
Il sole di una giornata afosa, che ormai scende quasi diritto perché si è a metà tra terza e sesta, accende e dà risalto agli sguardi e ai volti: sono uomini quelli? No: iene idrofobe. Urlano, mostrano i pugni, chiedono morte…
Gesù sta eretto. E le assicuro che mai ebbe la nobiltà di ora. Neppure quando faceva i più potenti miracoli. Nobiltà di dolore. Ma talmente divino che basterebbe a segnarlo del nome di Dio. Ma per dire quel Nome bisogna essere almeno uomini. E Gerusalemme non ha uomini, oggi. Ma solo demoni.
Gesù gira lo sguardo sulla folla, cerca, trova, nel mare dei visi astiosi, i volti amici. Quanti? Meno di venti amici in migliaia di nemici… E curva il capo colpito da questo abbandono. Una lacrima cade… un’altra… un’altra… La vista del suo pianto non genera pietà, ma ancor più fiero odio.
33Viene riportato nell’atrio.
«Dunque? Lasciatelo andare. È giustizia».
«No. A morte. Crocifiggi».
«Vi do Barabba».
«No. Il Cristo!».
«E allora prendetelo voi. E da voi crocifiggetelo. Perché io non trovo alcuna colpa in Lui per farlo».
«Si è detto Figlio di Dio. La nostra legge commina la morte al reo di tale bestemmia».
Pilato si fa pensoso. Rientra. Si siede sul suo tronetto. Pone una mano alla fronte e il gomito sul ginocchio e scruta Gesù. «Avvicinati», dice.
Gesù va ai piedi della predella.
«È vero? Rispondi».
Gesù tace.
«Da dove vieni? Chi è Dio?».
«È il Tutto».
«E poi? Che vuol dire il Tutto? Che è il Tutto per chi muore? Sei folle… Dio non è. Io sono».
Gesù tace. Ha lasciato cadere la grande parola e poi torna a fasciarsi di silenzio.
34«Ponzio, la liberta di Claudia Procula chiede di entrare. Ha uno scritto per te».
«Domine! Anche le donne ora! Venga».
Entra una romana e si inginocchia porgendo una tavoletta cerata. Deve essere quella su cui Procula prega il marito di non condannare Gesù. La donna si ritira a ritroso mentre Pilato legge.
«Mi si consiglia evitare il tuo omicidio. È vero che sei più di un aruspice? Mi fai paura».
Gesù tace.
«Ma non sai che ho potere di liberarti o di crocifiggerti?».
«Nessun potere avresti, se non ti fosse dato dall’alto. Perciò, chi mi ha dato nelle tue mani è più colpevole di te».
«Chi è? Il tuo Dio? Ho paura…».
Gesù tace.
Pilato è sulle spine. Vorrebbe e non vorrebbe. Teme il castigo di Dio, teme quello di Roma, teme le vendette giudee. Vince un momento la paura di Dio. Va sul davanti dell’atrio e tuona: «Non è colpevole».
«Se lo dici, sei nemico di Cesare. Chi si fa re è suo nemico. Tu vuoi liberare il Nazzareno. Faremo sapere a Cesare questo».
Pilato viene preso dalla paura dell’uomo.
«Lo volete morto, insomma? E sia. Ma il sangue di questo giusto non sia sulle mie mani», e fattosi portare un catino si lava le mani alla presenza del popolo, che pare preso da frenesia mentre urla: «Su noi, su noi il suo sangue. Su noi ricada e sui nostri figli. Non lo temiamo. Alla croce! Alla croce!».
35Ponzio Pilato torna sul tronetto, chiama il centurione Longino e uno schiavo. Dallo schiavo si fa portare una tavola su cui appoggia un cartello e vi fa scrivere: «Gesù Nazareno, Re dei Giudei». E lo mostra al popolo.
«No. Non così. Non re dei Giudei. Ma che ha detto che sarebbe re dei Giudei», così urlano in molti.
«Ciò che ho scritto, ho scritto», dice duro Pilato e, dritto in piedi, stende la mano a palma in avanti e volta in basso e ordina: «Vada alla croce. Soldato, va’. Prepara la croce». (Ibis ad crucem! I, miles, expedi crucem). E scende senza neppure più voltarsi verso la folla in tumulto, né verso il pallido Condannato. Esce dall’atrio…
Gesù resta al centro di esso, sotto la guardia dei soldati, in attesa della croce.
10 marzo 1944. Venerdì.
36Dice Gesù:
«Ti voglio far meditare il punto che si riferisce ai miei incontri con Pilato.
Giovanni, che essendo stato quasi sempre presente, o per lo meno molto prossimo, è il testimone e narratore più esatto, racconta come, uscito dalla casa di Caifa, Io fui portato al Pretorio. E specifica “di mattina presto”. Infatti, lo hai visto, il giorno si iniziava appena. Specifica anche: “essi (i giudei) non entrarono per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua”.
Ipocriti come sempre, essi trovavano pericolo di contaminarsi nel calpestare la polvere della casa di un gentile, ma non trovavano peccato uccidere un Innocente e, coll’animo soddisfatto del delitto compiuto, poterono gustare meglio ancora la Pasqua. Hanno anche ora molti seguaci. Tutti quelli che nell’interno agiscono male e all’esterno professano rispetto alla religione e amore a Dio, sono simili a questi. Formule, formule e non religione vera! Mi fanno ripugnanza e sdegno.
Non entrando i giudei da Pilato, uscì Pilato per udire che avesse la turba vociferante e, esperto come era nel governo e nel giudizio, con un solo sguardo comprese che il reo non ero Io, ma quel popolo ubbriaco di odio. L’incontro dei nostri sguardi fu una reciproca lettura dei nostri cuori. Io giudicai l’uomo per quel che era. Egli giudicò Me per quel che ero. In Me venne per lui della pietà perché era un uomo debole. Ed in lui venne per Me della pietà perché ero un innocente. Cercò di salvarmi dal primo momento. E, dato che unicamente a Roma era deferito e riserbato il diritto di esercitare giustizia verso i malfattori, tentò di salvarmi dicendo: “Giudicatelo secondo la vostra legge”.
37Ipocriti per la seconda volta, i giudei non vollero dare condanna. Vero che Roma aveva diritto di giustizia, ma quando, ad esempio, Stefano venne lapidato, Roma imperava tuttora su Gerusalemme ed essi, ciononostante, definirono e consumarono giudizio e supplizio senza curarsi di Roma. Per Me, di cui avevano non amore ma odio e paura — non mi volevano credere Messia, ma non volevano uccidermi materialmente nel dubbio lo fossi — agirono in maniera diversa e mi accusarono come sobillatore contro la potenza di Roma (voi direste: “ribelle”) per ottenere che Roma mi giudicasse.
Nella loro aula infame, e più volte nei tre anni del mio ministero, mi avevano accusato d’esser bestemmiatore e falso profeta, e come tale avrei dovuto esser da essi lapidato o comunque ucciso. Ma ora, per non compiere materialmente il delitto di cui sentono per istinto che sarebbero puniti, lo fanno compiere a Roma accusandomi d’esser malfattore e ribelle.
Nulla di più facile, quando le folle sono pervertite ed i capi insatanassati, di accusare un innocente per sfogare la loro libidine di ferocia e di usurpazione, e levare di mezzo chi rappresenta un ostacolo e un giudizio. Siamo tornati ai tempi di allora. Il mondo ogni tanto, dopo una incubazione di idee perverse, esplode in queste manifestazioni di pervertimento. Come una immensa gestante, la folla, dopo aver nutrito nel suo seno con dottrine da fiera il suo mostro, lo partorisce perché divori. Divori per primi i migliori e poi divori se stessa.
38Pilato rientra nel Pretorio e mi chiama vicino. E mi interroga.
Egli aveva già sentito parlare di Me. Fra i suoi centurioni c’erano alcuni che ripetevano il mio Nome con amore riconoscente, con le lacrime agli occhi e il sorriso nel cuore, e parlavano di Me come di un benefattore. Nei loro rapporti al Pretore, interrogati su questo Profeta che attirava a Sé le folle e predicava una dottrina nuova in cui si parlava di un regno strano, inconcepibile a mente pagana, essi avevano sempre risposto che ero un mite, un buono che non cercavo onori di questa Terra e che inculcavo e praticavo il rispetto e l’ubbidienza verso coloro che sono le autorità. Più sinceri degli israeliti, essi vedevano e deponevano la verità.
La scorsa domenica egli, attratto dal clamore della folla, si era affacciato sulla via ed aveva visto passare su un’asinella un uomo disarmato, benedicente, circondato da bimbi e da donne. Aveva compreso che non poteva certo essere in quell’uomo un pericolo per Roma.
Vuol dunque sapere se Io sono re. Nel suo ironico scetticismo pagano, voleva ridere un poco su questa regalità che cavalca un asino, che ha per cortigiani dei bambini scalzi, delle donne sorridenti, degli uomini del popolo, di questa regalità che da tre anni predica di non avere attrazioni per le ricchezze ed il potere e che non parla di altre conquiste fuorché quelle dello spirito e di anima. Che è l’anima per un pagano? Neppure i suoi dèi hanno un’anima. E la può avere l’uomo? Anche ora questo re senza corona, senza reggia, senza corte, senza soldati, gli ripete che il suo regno non è di questo mondo. Tanto vero che nessun ministro e nessuna milizia insorge a difendere il suo re ed a strapparlo ai nemici.
Pilato, seduto sul suo seggio, mi scruta, perché Io sono un enigma per lui. Sgomberasse l’anima dalle sollecitudini umane, dalla superbia della carica, dall’errore del paganesimo, comprenderebbe subito Chi sono. Ma come può la luce penetrare dove troppe cose occludono le aperture perché la luce entri?
39Sempre così, figli. Anche ora. Come può entrare Dio e la sua luce là dove non c’è più spazio per loro, e le porte e finestre sono sbarrate e difese dalla superbia, dall’umanità, dal vizio, dall’usura, da tante, tante guardie al servizio di Satana contro Dio?
Pilato non può capire quale sia il mio regno. E, quel che è doloroso, non chiede che Io glielo spieghi. Al mio invito perché egli conosca la Verità, egli, l’indomabile pagano, risponde: «Che cosa è la verità?», e lascia cadere con una alzata di spalle la questione.
Oh! figli, figli miei! Oh! miei Pilati di ora! Anche voi, come Ponzio Pilato, lasciate cadere con una alzata di spalle le questioni più vitali. Vi sembrano cose inutili, sorpassate. Cosa è la Verità? Denaro? No. Donne? No. Potere? No. Salute fisica? No. Gloria umana? No. E allora si lasci perdere. Non merita che si corra dietro ad una chimera. Denaro, donne, potere, buona salute, comodi, onori, queste sono cose concrete, utili, da amarsi e raggiungersi a qualunque scopo. Voi ragionate così. E, peggio di Esaù, barattate i beni eterni per un cibo grossolano che vi nuoce nella salute fisica e che vi nuoce per la salute eterna. Perché non persistete a chiedere: “Cosa è la verità”? Essa, la Verità, non chiede che di farsi conoscere, per istruirvi su di essa. Vi sta davanti come a Pilato e vi guarda con occhi di amore supplicante, implorandovi: “Interrogami. Ti istruirò”.
Vedi come guardo Pilato? Ugualmente guardo voi tutti così. E, se ho sguardo di sereno amore per chi mi ama e chiede le mie parole, ho sguardi di accorato amore per chi non mi ama, non mi cerca, non mi ascolta. Ma amore, sempre amore, perché l’Amore è la mia natura.
40Pilato mi lascia dove sono, senza interrogare di più, e va dai malvagi che hanno la voce più grossa e che si impongono con la loro violenza. E li ascolta, questo sciagurato che non ha ascoltato Me e che ha respinto con una scrollata di spalle il mio invito a conoscere la Verità. Ascolta la Menzogna. L’idolatria, quale che sia la sua forma, è sempre portata a venerare ed accettare la Menzogna, quale che sia. E la Menzogna, accettata da un debole, porta il debole al delitto.
Pure Pilato, sulle soglie del delitto, mi vuole salvare ancora e una e due volte. È qui che mi manda a Erode. Sa bene che il re astuto, che barcamena fra Roma e il suo popolo, agirà in modo da non ledere Roma e da non urtare il popolo ebreo. Ma, come tutti i deboli, allontana di qualche ora la decisione che non si sente di prendere, sperando che la sommossa plebea si calmi.
Io ho detto: “Il vostro linguaggio sia: sì, sì; no, no”. Ma egli non l’ha sentito o, se qualcuno glielo ha ripetuto, ha fatto la solita alzata di spalle. Per vincere nel mondo, per avere onori e lucro, occorre saper fare del sì un no, o del no un sì, a seconda che il buon senso (leggi: senso umano) consigli.
Quanti, quanti Pilati che ha il ventesimo secolo! Dove sono gli eroi del cristianesimo che dicevano sì, costantemente sì alla Verità e per la Verità, e no, costantemente no per la Menzogna? Dove sono gli eroi che sanno affrontare il pericolo e gli eventi con fortezza d’acciaio e con serena prontezza e non dilazionano, perché il Bene va subito compiuto e il Male subito fuggito senza “ma” e senza “se”?
41Al mio ritorno da Erode, ecco la nuova transazione di Pilato: la flagellazione. E che sperava? Non sapeva che la folla è la belva che, quando comincia a vedere il sangue, inferocisce? Ma dovevo esser franto per espiare i vostri peccati di carne. E vengo franto. Non ho più un brano del mio corpo che non sia percosso. Sono l’Uomo di cui parla Isaia. E al supplizio ordinato si aggiunge quello non ordinato, ma creato dalla crudeltà umana, delle spine.
Lo vedete, uomini, il vostro Salvatore, il vostro Re, coronato di dolore per liberarvi il capo da tante colpe che vi fermentano? Non pensate quale dolore ha subito la mia testa innocente per pagare per voi, per i vostri sempre più atroci peccati di pensiero che si tramutano in azione? Voi, che vi offendete anche quando non c’è motivo di farlo, guardate al Re offeso, ed è Dio, col suo ironico manto di porpora lacera, con lo scettro di canna e la corona di spine. È già morente e lo schiaffeggiano ancora con le mani e con gli scherni. Né ve ne muovete a pietà. Come i giudei, continuate a mostrarmi i pugni, a gridare: “Via, via, non abbiamo altro dio che Cesare”, o idolatri che non adorate Dio, ma voi stessi e chi fra voi è più prepotente. Non volete il Figlio di Dio. Per i vostri delitti non vi dà aiuto. Più servizievole è Satana. Volete perciò Satana. Del Figlio di Dio avete paura. Come Pilato. E quando lo sentite incombere su voi con la sua potenza, agitarsi in voi con la voce della coscienza che vi rimprovera in suo nome, chiedete come Pilato: “Chi sei?”.
Chi sono lo sapete. Anche quelli che mi negano sanno che sono e Chi sono. Non mentite. Venti secoli stanno intorno a Me e vi illustrano Chi sono e vi istruiscono sui miei prodigi. È più perdonabile Pilato. Non voi, che avete un retaggio di venti secoli di cristianesimo per sorreggere la vostra fede o per inculcarvela, e non ne volete sapere. Eppure con Pilato fui più severo che con voi. Non risposi. Con voi parlo. E, ciononostante, non riesco a persuadervi che sono Io, che mi dovete adorazione e ubbidienza.
Anche ora mi accusate di esser Io stesso la rovina di Me in voi, perché non vi ascolto. Dite di perdere la fede per questo. Oh! mentitori! Dove l’avete la fede? Dove è il vostro amore? Quando mai pregate e vivete con amore e fede? Siete dei grandi? Ricordatevi che tali siete perché Io lo permetto. Siete degli anonimi fra la folla? Ricordatevi che non vi è altro Dio che Io. Niuno è da più di Me e avanti di Me. Datemi dunque quel culto d’amore che mi spetta ed Io vi ascolterò, perché non sarete più dei bastardi ma dei figli di Dio.
42Ed ecco l’ultimo tentativo di Pilato per salvarmi la vita, dato che la potessi salvare dopo la spietata e illimitata flagellazione. Mi presenta alla folla: “Ecco l’Uomo!”. A lui faccio umanamente pietà. Spera nella pietà collettiva. Ma, davanti alla durezza che resiste ed alla minaccia che avanza, non sa compiere un atto soprannaturalmente giusto, e perciò buono, e dire: “Io libero costui perché è innocente. Voi siete dei colpevoli e, se non vi disperdete, conoscerete il rigore di Roma”. Questo doveva dire se era un giusto, senza calcolare il futuro male che gliene sarebbe venuto.
Pilato è un falso buono. Buono è Longino che, meno potente del Pretore e meno difeso, in mezzo alla via, circondato da pochi soldati e da una moltitudine nemica, osa difendermi, aiutarmi, concedermi di riposare, di confortarmi con le donne pietose, di esser soccorso dal Cireneo e infine di avere la Mamma ai piedi della Croce. Quello fu un eroe della giustizia e divenne per questo un eroe di Cristo.
Sappiatelo, o uomini che vi preoccupate unicamente del vostro bene materiale, che anche ai sensi di questo il vostro Dio interviene quando vi vede fedeli alla giustizia che è emanazione di Dio. Io premio sempre chi agisce con rettezza. Io difendo chi mi difende. Io lo amo e soccorro. Sono sempre Quello che ha detto: “Chi darà un bicchier d’acqua in mio nome avrà ricompensa”. A chi mi dà amore, acqua che disseta il mio labbro di Martire divino, Io do Me stesso, ossia protezione e benedizione».
Cap. DCVIII. La via dolorosa dal Pretorio al Calvario.
26 marzo 1945.
1 Passa qualche tempo così, non più di una mezz’ora, forse anche meno. Poi Longino, incaricato di presiedere all’esecuzione, dà i suoi ordini.
Ma prima che Gesù sia condotto fuori, nella via, per ricevere la croce e mettersi in moto, Longino, che lo ha guardato due o tre volte, con una curiosità che si tinge già di compassione e con l’occhio pratico di chi non è nuovo a certe cose, si accosta a Gesù con un soldato e gli offre un ristoro: una coppa di vino, credo. Perché mesce da una vera borraccia militare un liquido di un biondo-roseo chiaro. «Ti farà bene. Devi avere sete. E fuori c’è sole. E lunga è la via».
Ma Gesù risponde: «Dio ti compensi della tua pietà. Ma non te ne privare».
«Ma io sono sano e forte… Tu… Non mi privo… E poi… volentieri lo farei, se fosse, per darti un conforto… Un sorso… per mostrarmi che non odi i pagani».
Gesù non ricusa più e beve un sorso della bevanda. Ha le mani già slegate, come non ha più canna né clamide, e lo può fare da Sé. E poi rifiuta, nonostante la bevanda fresca e buona dovrebbe essere di un grande ristoro alla febbre che già si manifesta nelle striature rosse che si accendono sulle sue guance pallide e nelle labbra asciutte, screpolate.
«Prendi, prendi. È acqua e miele. Sostiene. Disseta… Mi fai pietà… sì… pietà… Non eri Tu da uccidere fra gli ebrei… Mah!… Io non ti odio… e cercherò di farti soffrire solo il necessario».
Ma Gesù non torna a bere… Ha veramente sete… La tremenda sete degli svenati e dei febbrili… Sa che non è bevanda narcotizzata e berrebbe volentieri. Ma non vuole soffrire meno. Ma io comprendo, come comprendo questo che dico per luce interna, che ancora più che l’acqua melata gli è di ristoro la pietà del romano.
«Dio ti renda in benedizione questo sollievo», dice poi. E ha ancora un sorriso… uno straziante sorriso con la bocca enfiata, ferita, che si piega a fatica, anche perché fra il naso e lo zigomo destro sta enfiando fortemente la forte contusione della bastonata presa nel cortile interno dopo la flagellazione.
2 Sopraggiungono i due ladroni, inquadrati da una decuria per uno di armati.
È l’ora di andare. Longino dà gli ultimi ordini.
Una centuria si dispone in due file distanti un tre metri l’una dall’altra ed esce così nella piazza, su cui un’altra centuria ha formato un quadrato per respingere la folla acciò non ostacoli il corteo. Sulla piazzetta sono già degli uomini a cavallo: una decuria di cavalleria con un giovane graduato che la comanda e con le insegne. Un soldato a piedi tiene per la briglia il morello del centurione. Longino monta in sella e va al suo posto, davanti un due metri dagli undici a cavallo.
Portano le croci. Quelle dei due ladroni sono più corte. Quella di Gesù molto più lunga. Io dico che l’asta verticale non lo è meno di un quattro metri.
Io la vedo portata già formata. Ho letto su questo, quando leggevo… ossia anni fa, che la croce fu composta sulla cima del Golgota e che lungo il cammino i condannati portavano solo i due pali a fascio sulle spalle. Tutto può essere. Ma io vedo una vera croce, ben contesta, solida, perfettamente incastrata nell’incrocio dei due bracci e ben rinforzata con chiodi e bulloni negli stessi. E infatti, se si pensa che era destinata a sostenere un peso non indifferente, quale è il corpo di un adulto, e sostenerlo anche nelle convulsioni finali, non indifferenti, si comprende che non poteva essere fabbricata lì per lì sulla stretta e scomoda cima del Calvario.
Prima di dare la croce a Gesù, gli passano al collo la tavola con la scritta Gesù Nazzareno Re dei Giudei. E la fune che la sostiene si impiglia nella corona, che si sposta e sgraffia dove non è già sgraffiato e penetra in nuovi posti dando nuovo dolore e facendo sgorgare nuovo sangue. La gente ride di sadica gioia, insulta, bestemmia.
Ora sono pronti. E Longino dà l’ordine di marcia. «Per primo il Nazzareno, dietro i due ladroni; una decuria intorno ad ognuno, le altre sette decurie a fare da ala e rinforzo, e sarà responsabile il soldato che fa ferire a morte i condannati».
3 Gesù scende i tre scalini che dal vestibolo portano sulla piazza. E appare subito evidente che Gesù è in condizioni di forte debolezza. Vacilla nello scendere i tre scalini, impicciato dalla croce che preme sulla spalla tutta piagata, dalla tabella della scritta che ballonzola sul davanti e sega sul collo, dagli ondeggiamenti che imprime al corpo la lunga asta della croce, che sobbalza sugli scalini e sulle asperità del suolo.
I giudei ridono, nel vederlo come ubbriaco tentennare, e gridano ai soldati: «Urtatelo. Fatelo cadere. Nella polvere il bestemmiatore!». Ma i soldati fanno soltanto ciò che devono, ossia ordinano al Condannato di mettersi in mezzo alla via e di camminare.
Longino sprona il cavallo, e il corteo si mette in moto lentamente. E Longino vorrebbe anche fare presto, prendendo la via più breve per andare al Golgota, perché non è sicuro della resistenza del Condannato. Ma la teppa scatenata, e chiamarla teppa è ancora un onore, non vuole così. Quelli che sono stati più furbi sono già corsi in avanti, al bivio dove la strada si biforca per andare da una parte verso le mura, dall’altra verso la città, e tumultuano, urlando, quando vedono che Longino tenta pigliare quella delle mura. «Non devi! Non devi! È illegale! La Legge dice che i condannati devono essere visti dalla città dove peccarono!». I giudei in coda al corteo comprendono che là davanti si tenta defraudarli di un diritto e uniscono le loro urla a quelle dei colleghi.
Per amor di pace, Longino piega per la via che va verso la città e ne fa un pezzo. Ma fa anche cenno ad un decurione di venirgli accosto (dico decurione perché è il graduato, ma forse è quello che noi diremmo il suo ufficiale di ordinanza) e gli dice qualche cosa piano. Costui torna indietro al trotto e, man mano che raggiunge ogni capo decuria, trasmette l’ordine. Poi ritorna presso Longino a riferire che è fatto. E infine raggiunge il posto di prima, nella fila dietro a Longino.
4 Gesù procede ansando. Ogni buca della via è un tranello per il suo piede vacillante e una tortura per le sue spalle impiagate, per il suo capo coronato di spine su cui scende a perpendicolo un sole esageratamente caldo, che ogni tanto si nasconde dietro un tendone plumbeo di nubi. Ma che, anche se nascosto, non cessa di ardere. Gesù è congestionato dalla fatica, dalla febbre e dal caldo. Penso che anche la luce e gli urli gli debbano dare tormento. E, se non può tapparsi gli orecchi per non sentire quei gridi sgangherati, socchiude gli occhi per non vedere la strada abbacinante di sole… Ma li deve anche riaprire perché inciampa in sassi e buche, e ogni inciampone è dolore perché smuove bruscamente la croce che urta sulla corona, che si sposta sulla spalla piagata e allarga la piaga e accresce il dolore.
I giudei non possono più colpirlo direttamente. Ma ancora qualche sasso arriva e qualche bastonata. Il primo, specie nelle piazzette piene di folla. Le seconde, invece, nelle svolte, per le stradette tutte a scalini che salgono e scendono, ora uno, ora tre, ora più, per i continui dislivelli della città. Lì, per forza, il corteo rallenta, e c’è sempre qualche volonteroso (!) che sfida le lance romane pur di dare un nuovo tocco al capolavoro di tortura che è ormai Gesù.
I soldati lo difendono come possono. Ma anche per difenderlo lo colpiscono, perché le lunghe aste delle lance, brandite in così poco spazio, lo urtano e lo fanno incespicare. Ma, giunti ad un certo punto, i soldati fanno una manovra impeccabile e, nonostante gli urli e le minacce, il corteo devia bruscamente per una via che va diretta verso le mura, in discesa, una via che abbrevia molto l’andare verso il luogo del supplizio.
Gesù ansa sempre più. Il sudore gli riga il volto insieme al sangue che gli geme dalle ferite della corona di spine. La polvere si appiccica a questo volto bagnato e lo fa maculato di macchie strane. Perché vi è anche vento, ora. Delle folate sincopate a lunghi intervalli, in cui ricade la polvere che la folata ha alzata in vortici, che portano detriti negli occhi e nelle fauci.
Alla porta Giudiziaria sono già ammucchiate persone e persone. Quelli che, previdenti, si sono per tempo scelti un buon posto per vedere. Ma, poco prima di giungere ad essa, Gesù dà già segno di cadere. Solo il pronto intervento di un soldato, sul quale Egli quasi va a cadere, impedisce che Gesù vada per terra. La gentaglia ride e urla: «Lascialo! Diceva a tutti: “Sorgete”. Sorga Lui, ora…».
Oltre la porta è un torrentello e un ponticello. Nuova fatica per Gesù andare su quelle tavole sconnesse, sulle quali rimbalza ancor più fortemente la lunga asta della croce. E nuova miniera di proiettili per i giudei. Volano i sassi del torrente e colpiscono il povero Martire…
5 Ha inizio la salita del Calvario. Una via nuda, senza un filo d’ombra, selciata a pietre sconnesse, che attacca direttamente la salita.
Anche qui, quando leggevo, ho letto che il Calvario era alto pochi metri. Sarà. Non è certo un monte. Ma un colle lo è, e non certo più basso di quello che è, rispetto ai Lungarni, il monte alle Croci, là dove è la basilica di S. Miniato, a Firenze. Qualcuno dirà: «Oh! poca cosa!». Sì, per uno sano e forte è poca cosa. Ma basta avere il cuore debole per sentire se è poca o tanta!… Io so che, dopo che mi si ammalò il cuore, anche se ancora in forma benigna, non potevo più fare quella salita senza soffrirne molto e dovendo sostare ad ogni poco, e non avevo pesi sulle spalle. E Gesù credo che avesse il cuore molto male a posto dopo la flagellazione e il sudore sanguigno… e non contemplo altro che queste due cose.
Gesù soffre perciò acutamente nel salire e col peso della croce che, così lunga come è, deve anche pesare molto.
Trova una pietra sporgente e siccome, sfinito come è, alza ben poco il piede, inciampa e cade sul ginocchio destro, riuscendo però a sorreggersi con la mano sinistra. La gente urla di gioia… Si rialza. Procede. Sempre più curvo e ansante, congestionato, febbrile…
Il cartello che gli ballonzola davanti gli ostacola la vista; la veste lunga che, ora che Lui va curvo, strascica per terra sul davanti, gli ostacola il passo. Inciampa di nuovo e cade sui due ginocchi, ferendosi di nuovo dove è già ferito; e la croce che gli sfugge di mano e cade, dopo averlo percosso fortemente sulla schiena, lo obbliga a chinarsi a rialzarla ed a faticare per porsela sulle spalle di nuovo. Mentre fa questo, appare nettamente visibile sulla spalla destra la piaga fatta dallo sfregamento della croce, che ha aperto le molte piaghe dei flagelli e le ha unificate in una sola che trasuda siero e sangue, di modo che la tunica bianca è in quel luogo tutta macchiata. La gente ha persino degli applausi per la gioia di vederlo cadere così male…
Longino incita a spicciarsi, e i soldati, con colpi di piatto dati con le daghe, sollecitano il povero Gesù a procedere. Si riprende il cammino con una lentezza sempre maggiore, nonostante ogni sollecitazione.
Gesù sembra tutt’affatto ebbro, tanto va barcollando, urtando or l’una or l’altra delle file dei soldati, tenendo tutta la via. E la gente lo nota e urla: «Gli è andata al capo la sua dottrina. Ve’, ve’ come traballa!». E altri, e non sono popolo questi, ma sacerdoti e scribi, sogghignano: «No. Sono i festini in casa di Lazzaro che ancora fanno fumo. Erano buoni? Ora mangia il nostro cibo…», e simili altre frasi.
6 Longino, che si volta ogni tanto, ha pietà e ordina una sosta di qualche minuto. Ed è insultato tanto dalla plebaglia che il centurione ordina alle milizie di caricare. E la folla vile, davanti alle lance che luccicano e minacciano, si allontana urlando e gettandosi qua e là giù per il monte.
È qui che rivedo, fra i pochi rimasti, emergere da dietro una maceria, forse di qualche muretto franato, il gruppetto dei pastori. Desolati, stravolti, polverosi, stracciati, essi chiamano a loro, con la forza degli sguardi, il loro Maestro. Ed Egli gira il capo, li vede… li fissa come fossero volti di angeli, pare dissetarsi e fortificarsi col loro pianto, e sorride… Viene ridato l’ordine di marcia e Gesù passa proprio davanti a loro e ne ode il pianto angoscioso. Torce a fatica il capo da sotto il giogo della croce e ha un nuovo sorriso… I suoi conforti… Dieci volti… una sosta sotto al cocente sole…
E poi subito il dolore della terza completa caduta. E questa volta non è che inciampi. Ma è che cade per subita flessione delle forze, per sincope. Va lungo disteso, battendo il volto sulle pietre sconnesse, rimanendo nella polvere sotto la croce che gli si piega addosso. I soldati cercano rialzarlo. Ma, poiché pare morto, vanno a riferire al centurione. Mentre vanno e vengono, Gesù rinviene, e lentamente, con l’aiuto di due soldati, di cui uno rialza la croce e l’altro aiuta il Condannato a porsi in piedi, si rimette al suo posto. Ma è proprio sfinito.
«Fate che non muoia che sulla croce!», urla la folla.
«Se lo fate morire avanti, ne risponderete al Proconsole, ricordatelo. Il reo deve giungere vivo al supplizio», dicono i capi degli scribi ai soldati.
Questi li fulminano con sguardi feroci, ma per disciplina non parlano.
7 Longino, però, ha la stessa paura dei giudei che il Cristo muoia per via, e non vuole noie. Senza bisogno che nessuno glielo ricordi, sa quale è il suo dovere di preposto alla esecuzione, e provvede. Provvede disorientando i giudei che sono già corsi avanti per la via, raggiunta da tutte le parti del monte, sudando, graffiandosi per passare fra i rari e spinosi cespugli del monte brullo e arso, cadendo sulle macerie che lo ingombrano come fosse un luogo di sbratto per Gerusalemme, senza sentire altra pena fuorché quella di perdere un ansito del Martire, un suo sguardo di dolore, un atto anche involontario di sofferenza, e senza altra paura che non sia quella di non giungere ad avere un buon posto.
Longino dà, dunque, ordine di prendere la via più lunga, che sale a spirale lungo il monte e che perciò è molto meno ripida. Sembra questa un sentiero che a forza di essere percorso si sia mutato in via abbastanza comoda.
Questo incrocio di una via con l’altra avviene ad una metà circa del monte. Ma vedo che più su, per quattro volte, la strada diretta viene tagliata da questa, che va su con molto meno pendenza e molto più lunghezza in compenso. E su questa strada sono persone che salgono, ma che non partecipano all’indegna gazzarra degli ossessi che seguono Gesù per godere dei suoi tormenti. Donne, per la più parte, e piangenti e velate, e qualche gruppetto di uomini, molto sparuto in verità, che, più avanti di molto delle donne, sta per scomparire alla vista quando, nel proseguire, la strada gira il monte.
Qui il Calvario ha una specie di punta nella sua bizzarra struttura, fatta a muso da una parte, mentre dall’altra scoscende. Cercherò dargliene un’idea del suo aspetto preso di profilo. Ma bisogna che volti il foglio, perché qui mi viene male per mancanza di spazio.
Gli uomini scompaiono dietro la punta sassosa e li perdo di vista.
8 La gente che seguiva Gesù urla di rabbia. Era più bello, per essa, vederlo cadere. Con oscene imprecazioni al Condannato e a chi lo conduce, si dà in parte a seguire il corteo giudiziario e parte prosegue quasi di corsa su per la via ripida, per rifarsi, con un ottimo posto sulla vetta, della delusione avuta.
Le donne che vanno piangendo, e sono al punto che segno con la lettera D, si volgono nel sentire gli urli e vedono che il corteo piega per quella parte. Si fermano, allora, addossandosi al monte, per tema di essere gettate giù dalla china dai violenti giudei. Calano ancor più i loro veli sul volto. E vi è chi è completamente velata come una mussulmana, lasciando liberi solo gli occhi nerissimi. Sono vestite molto riccamente ed hanno, a difesa, un vecchio robusto che, tutto ammantellato come è, non distinguo nel volto. Ne vedo solo la barba lunga, e più bianca che nera, sporgere dal mantellone scurissimo.
Quando Gesù giunge alla loro altezza, esse hanno un pianto più alto e si curvano in profondo saluto. Poi si fanno risolutamente avanti. I soldati vorrebbero respingerle con le aste. Ma quella tutta coperta come una mussulmana scosta per un attimo il velo all’alfiere, sopraggiunto a cavallo per vedere che è questo nuovo intoppo, e questo dà ordine di farla passare. Non posso vedere né il volto, né il vestito, perché lo spostamento del velo è fatto con rapidità di lampo e l’abito è tutto nascosto in un mantello lungo fino a terra, pesante, chiuso completamente da una serie di fibbie. La mano, che per un attimo esce da là sotto per spostare il velo, è bianca e bella. Ed è, con gli occhi nerissimi, l’unica cosa che si veda di questa alta matrona, certo influente se è così ubbidita dall’aiutante di Longino.
9 Si accostano a Gesù piangendo e si inginocchiano ai suoi piedi mentre Egli si ferma ansante… e pure sa ancora sorridere a quelle pietose e all’uomo che le scorta, che si scopre per mostrare che è Gionata. Ma questo le guardie non lo fanno passare. Solo le donne.
Una è Giovanna di Cusa. Ed è più disfatta di quando era morente. Di rosso non ha che le righe del pianto, e poi è tutta una faccia di neve con i dolci occhi neri che, così offuscati come sono, sembrano divenuti di un viola scurissimo come certi fiori. Ha in mano un’anfora d’argento e l’offre a Gesù. Ma Egli ricusa. D’altronde, è tanto il suo affanno che non potrebbe neppur bere. Con la mano sinistra si asciuga il sudore e il sangue che gli cade negli occhi e che, scorrendo lungo le guance paonazze e il collo, dalle vene turgide nel battito affannoso del cuore, bagna tutta la veste sul petto.
Un’altra donna, che ha presso una fanciulla servente con uno scrignetto fra le braccia, apre lo scrignetto, ne trae un lino finissimo, quadrato, e lo offre al Redentore. Questo lo accetta. E poiché non può con una mano sola fare da Sé, la pietosa lo aiuta, badando di non urtargli la corona, a posarselo sul volto. E Gesù preme il fresco lino sulla sua povera faccia e ve lo tiene, come ne trovasse un grande ristoro.
Poi rende il lino e parla: «Grazie Giovanna, grazie Niche,… Sara,… Marcella,… Elisa,… Lidia,… Anna,… Valeria,… e tu… Ma… non piangete… su Me… figlie di… Gerusalemme… Ma sui peccati… vostri e su quelli… della vostra città… Benedici… Giovanna… di non avere… più figli… Vedi… è pietà di Dio… non… non avere figli… perché… soffrano di… questo. E anche… tu, Elisabetta… Meglio… come fu… che fra i deicidi… E voi… madri… piangete sui… figli vostri, perché… quest’ora non passerà… senza castigo… E che castigo, se così è per… l’Innocente… Piangerete allora… di avere concepito… allattato e di… avere ancora… i figli… Le madri… di allora… piangeranno perché… in verità vi dico… che sarà fortunato… chi allora… cadrà… sotto le macerie… per primo. Vi benedico… Andate… a casa… pregate… per Me. Addio, Gionata… conducile via…».
E fra un alto clamore di pianto femminile e di imprecazioni giudee Gesù si rimette in moto.
10Gesù è di nuovo tutto bagnato di sudore. Sudano anche i soldati e gli altri due condannati, perché il sole di questo giorno temporalesco è scottante come fiamma e il fianco del monte, arroventato di suo, aumenta il calore solare.
Cosa deve essere questo sole sulla veste di lana di Gesù, posta sulle ferite dei flagelli, è facile pensare e inorridire… Ma Egli non ha mai un lamento. Soltanto, nonostante la via sia molto meno ripida e non abbia quelle pietre sconnesse dell’altra, così pericolose al suo piede che ormai è strascicante, Gesù barcolla sempre più forte, tornando ad urtare da una fila all’altra dei soldati e piegando sempre più verso terra.
Pensano di risolvere la cosa in bene passandogli una fune alla cintura e tenendolo per due capi come fossero redini. Sì. Questo lo sostiene. Ma non lo solleva dal peso. Anzi la fune, urtando nella croce, la fa spostare continuamente sulla spalla e picchiare nella corona, che ormai ha fatto della fronte di Gesù un tatuaggio sanguinante. Inoltre, la fune sfrega alla cintura dove sono tante ferite, e certo le deve rompere di nuovo, tanto che la tunica bianca si colora alla vita di un rosso pallido. Per aiutarlo, lo fanno soffrire più ancora.
11La strada prosegue. Gira il monte, torna quasi sul davanti, verso la strada erta. Qui, nel posto che segno con la lettera M, è Maria con Giovanni. Direi che Giovanni l’ha portata in quel posto ombroso, dietro la china del monte, per darle un poco di ristoro. È la parte più scoscesa del monte. Non vi è che quella via che la costeggia. Sopra e sotto la costa scoscende o si inerpica ripida, e perciò è trascurata dai crudeli. Lì è ombra, perché direi che è il settentrione, e Maria, addossata come è al monte, è riparata dal sole. Sta appoggiata al terriccio. In piedi, ma già esausta, Ella pure ansante, pallida come una morta nel suo abito blu scurissimo, quasi nero. Giovanni la guarda con pietà desolata. Anche egli ha perduto ogni traccia di colore ed è terreo, con due occhi stanchi e sbarrati, spettinato, dalle gote incavate come per malattia.
Le altre donne — Maria e Marta di Lazzaro, Maria d’Alfeo e di Zebedeo, Susanna di Cana, la padrona di casa e altre ancora che non conosco — tutte sono in mezzo alla via e guardano se viene il Salvatore. E, visto giungere Longino, accorrono presso Maria a dare la notizia. E Maria, sorretta per un gomito da Giovanni, si stacca, maestosa nel suo dolore, dalla costa del monte e si pone risolutamente in mezzo alla strada, scansandosi solo per il sopraggiungere di Longino, che dall’alto del suo morello guarda la pallida Donna e il suo accompagnatore biondo, pallido, dai miti occhi di cielo come Lei. E crolla il capo, Longino, mentre la supera seguito dagli undici a cavallo.
Maria cerca passare fra i soldati appiedati. Ma questi, che hanno caldo e fretta, cercano respingerla con le aste, molto più che dalla via selciata volano sassi per protesta contro tante pietà. Sono i giudei, che ancora imprecano per la sosta causata dalle pie donne e dicono: «Presto! Domani è Pasqua. Bisogna finire tutto entro sera! Complici! Derisori della nostra Legge! Oppressori! A morte gli invasori e il loro Cristo! Lo amano! Veh! come lo amano! Ma prendetelo! Mettetelo nel vostro maledetto Urbe! Ve lo cediamo! Non lo vogliamo! Le carogne alle carogne! La lebbre ai lebbrosi!».
12Longino si stanca e sprona il cavallo, seguito dai dieci lancieri, contro la canea insultante, che fugge una seconda volta. Ed è nel fare questo che vede fermo un carretto, certo salito lì dalle ortaglie che sono ai piedi del monte, e che attende col suo carico di insalate che la turba sia passata per scendere verso la città. Penso che un poco di curiosità nel Cireneo e nei suoi figli lo abbia fatto salire fin lì, perché non era proprio necessario per lui di farlo. I due figli, sdraiati sull’alto del mucchio verdolino delle verdure, guardano e ridono dietro i giudei fuggenti. L’uomo invece, un robustissimo uomo sui quaranta-cinquant’anni, ritto presso il ciuchino che spaventato cerca di rinculare, guarda attentamente verso il corteo.
Longino lo squadra. Pensa gli possa far comodo e ordina: «Uomo, vieni qui».
Il Cireneo finge di non sentire. Ma con Longino non si scherza. Ripete l’ordine in un modo tale che l’uomo getta la redine ad un figlio e viene vicino al centurione.
«Vedi quell’uomo?», chiede. E nel dire così si volge per indicare Gesù e vede a sua volta Maria, che supplica i soldati di farla passare. Ne ha pietà e urla: «Fate passare la Donna». Poi torna a parlare al Cireneo: «Non può più procedere così carico. Tu sei forte. Prendi la sua croce e portala per Lui sino alla cima».
«Non posso… Ho l’asino… è riottoso… i ragazzi non sanno tenerlo…».
Ma Longino dice: «Vai, se non vuoi perdere l’asino e acquistare venti colpi di castigo».
Il Cireneo non osa più reagire. Urla ai ragazzi: «Andate a casa e presto. E dite che vengo subito», e poi va da Gesù.
13Lo raggiunge proprio mentre Gesù si volge verso la Madre, che solo ora vede venire verso di Lui, perché procede così curvo e ad occhi quasi chiusi che è come fosse cieco, e grida: «Mamma!».
È la prima parola, da quando è torturato, che esprima il suo soffrire. Perché in quel grido c’è la confessione di tutto e ogni suo tremendo dolore di spirito, di morale e di carne. È il grido straziato e straziante di un bambino che muore solo, fra aguzzini, fra le peggiori torture… e che giunge ad avere paura anche del suo proprio respiro. È il lamento di un fanciullo delirante che è straziato da visioni d’incubo… E vuole la mamma, la mamma, perché solo il suo bacio fresco calma l’ardore della febbre, la sua voce fuga i fantasmi, il suo abbraccio fa meno paurosa la morte…
Maria si porta la mano al cuore, come ne avesse una pugnalata, e ha un lieve vacillamento. Ma si riprende, affretta il passo e, mentre va a braccia tese verso la sua Creatura straziata, grida: «Figlio!». Ma lo dice in maniera tale che chi non ha cuore di iena se lo sente fendere per quel dolore.
Vedo che anche fra i romani vi è un moto di pietà… eppure sono uomini d’arme, non nuovi alle uccisioni, segnati da cicatrici… Ma la parola «Mamma!» e «Figlio!» sono sempre quelle, e per tutti coloro che, ripeto, non sono peggio delle iene, e sono dette e comprese dovunque, e dovunque sollevano onde di pietà…
Il Cireneo ha questa pietà… E poiché vede che Maria non può abbracciare il suo Figlio per via della croce e, dopo avere teso le braccia, le lascia ricadere, persuasa di non poterlo fare — e lo guarda soltanto, volendo sorridere del suo martire sorriso per rincuorarlo, mentre le labbra tremanti bevono il pianto, e Lui, torcendo il capo da sotto il giogo della croce, cerca a sua volta di sorriderle e di inviarle un bacio con le povere labbra ferite e spaccate dalle percosse e dalla febbre — si affretta a levare la croce, e lo fa con delicatezza di padre, per non urtare la corona o strofinare sulle piaghe.
Ma Maria non può baciare la sua Creatura… Anche il tocco più lieve sarebbe tortura sulle carni lacerate, e Maria se ne astiene, e poi… i sentimenti più santi hanno un pudore profondo. E vogliono rispetto o almeno compassione. Qui è curiosità e soprattutto scherno. Si baciano solo le due anime angosciate.
14Il corteo, che si rimette in moto sotto la spinta delle ondate di popolo furente che preme dal fondo, li divide, respingendo la Madre contro il monte, allo scherno di tutto un popolo…
Ora dietro a Gesù è il Cireneo con la croce. E Gesù, libero di quel peso, procede meglio. Ansa fortemente, si porta sovente la mano al cuore, come avesse un grande dolore, una ferita lì, alla regione sterno-cardiaca, e ora che può, non avendo più le mani legate, si respinge i capelli caduti in avanti, tutti collosi di sangue e sudore, fin dietro le orecchie, per sentire aria sul volto cianotico, si slaccia il cordone del collo, per la sofferenza del respiro… Ma può camminare meglio.
Maria si è ritirata con le donne. Si accoda al corteo quando è passato e poi, per una scorciatoia, si dirige alla vetta del monte, sfidando gli improperi della plebe cannibalesca.
Ora che Gesù è libero, si compie abbastanza presto l’ultimo anello del monte, e già si è prossimi alla cima tutta piena di popolo urlante.
Longino si ferma e dà ordine che tutti, inesorabilmente, siano respinti più in basso, perché la cima, luogo di esecuzione, sia libera. E metà centuria eseguisce l’ordine, accorrendo sul posto e respingendo senza pietà chiunque là si trova, usando daghe e aste per questo. Sotto la grandine delle piattonate e delle bastonate, i giudei della cima fuggono. E vorrebbero collocarsi nella sottostante spianata. Ma quelli che già sono in essa non cedono, e fra la gente si accendono risse feroci. Sembrano tutti pazzi.
15Come le ho detto lo scorso anno, il Calvario, nella sua cima, ha la forma di un trapezio irregolare, lievemente più alto nel lato A, dopo il quale il monte scoscende ripido per oltre metà della sua altezza. Su questa piazzuola sono già pronti tre buchi profondi, tappezzati di mattoni o lavagne, costruiti apposta, insomma. Vicino ad essi sono pietre e terra pronte per rincalzare le croci. Altri buchi invece sono stati lasciati pieni di pietre. Si capisce che li svuotano di volta in volta per il numero che serve.
Sotto la cima trapezoidale, dalla parte che il monte non scoscende, vi è una specie di piattaforma degradante dolcemente, che fa una seconda piazzuola. Da questa partono due larghi sentieri che costeggiano la cima, di modo che questa è isolata e sopraelevata di almeno due metri da tutti i lati.
I soldati, che hanno respinto la folla dalla cima, domano, a colpi persuasivi di aste, le risse, e fanno largo perché il corteo possa sfilare senza ostacoli nell’ultimo pezzo di strada, e restano lì a fare ala mentre i tre condannati, inquadrati dai cavalieri e protetti dall’altra metà centuria alle spalle, giungono fino al punto dove vengono fatti fermare: ai piedi del naturale palco sopraelevato che è la cima del Golgota.
16Mentre ciò avviene, scorgo le Marie al punto che segno con un M, e un poco dietro a loro sono Giovanna di Cusa con altre quattro delle dame di prima. Le altre si sono ritirate. E devono averlo fatto da sole, perché Gionata è là, dietro alla sua padrona. Non c’è più quella che noi diciamo Veronica e che Gesù ha detta Niche, e con lei manca la sua servente. E anche quella tutta velata, che fu obbedita dai soldati, non c’è più. Vedo Giovanna, la vecchia chiamata Elisa, Anna (è la padrona di quella casa dove Gesù va alla vendemmia del primo anno[34]) e due che non so identificare meglio.
Dietro queste donne e le Marie vedo Giuseppe e Simone d’Alfeo, e Alfeo di Sara insieme al gruppo dei pastori. Hanno colluttato con chi li voleva respingere insultandoli, e la forza di questi uomini, che l’amore e il dolore moltiplicano, è stata così violenta[35] che hanno vinto, creando un semicerchio libero contro il quale i vilissimi giudei non osano che lanciare grida di morte e tendere i pugni. Ma non di più, perché i bastoni dei pastori sono nodosi e pesanti, e la forza e la mira non manca a questi prodi. E non dico male a dire così. Ci vuole un vero coraggio a stare in pochi, noti per galilei o seguaci del Galileo, contro tutta una popolazione ostile. L’unico punto di tutto il Calvario dove non si bestemmi il Cristo!
Il monte, dai tre lati che scendono non ripidi a valle, è tutto un formicolaio di folla. La terra giallastra e nuda non si vede più. Sotto il sole che va e viene pare un prato fiorito di corolle di tutti i colori, tanto sono fitti i copricapi e i mantelli dei sadici che lo coprono. Oltre torrente, per la via, altra folla; oltre le mura, altra ancora. Sulle terrazze più vicine, altra ancora. Il resto della città nudo… vuoto… silenzioso. Tutto è qui. Tutto l’amore e tutto l’odio. Tutto il Silenzio che ama e perdona. Tutto il Clamore che odia e impreca.
17Mentre gli uomini preposti all’esecuzione preparano i loro strumenti finendo di svuotare le buche, e i condannati aspettano al centro del loro quadrato, i giudei, rifugiati nell’angolo opposto alle Marie, le insultano. Anche la Madre insultano: «A morte i galilei. A morte! Galilei! Galilei! Maledetti! A morte il Bestemmiatore galileo. Inchiodate sulla croce anche il seno che lo ha portato! Via le vipere che partoriscono i demoni! A morte! Mondate Israele dalle femmine congiunte col capro!…».
Longino, che è smontato da cavallo, si volta e vede la Madre… Ordina di far cessare quella gazzarra… La mezza centuria, che era alle spalle dei condannati, carica la marmaglia e sgombera del tutto la seconda piazzuola, mentre i giudei scappano per il monte pestandosi gli uni con gli altri. Smontano anche gli altri soldati, e uno prende gli undici cavalli, oltre quello del centurione, e li porta all’ombra, dietro il costolone B del monte.
Il centurione si avvia verso la vetta. Giovanna di Cusa si fa avanti, lo ferma. Gli dà l’anfora e una borsa. E poi si ritira piangendo, andando contro lo spigolo del monte con le altre.
18In alto è pronto tutto. Vengono fatti salire i condannati. E Gesù passa ancora una volta presso la Madre, che ha un gemito che Ella stessa cerca frenare portandosi il mantello sulla bocca.
I giudei vedono e ridono e deridono. Giovanni, il mite Giovanni, che ha un braccio dietro le spalle di Maria per sorreggerla, si volge con uno sguardo feroce. Ha persino l’occhio fosforescente. Se non avesse da tutelare le donne, io credo che prenderebbe qualcuno dei vili per la gola.
Non appena i condannati sono sul palco fatale, i soldati circondano la piazzuola da tre lati. Non resta vuoto che quello a strapiombo.
Il centurione dà ordine al Cireneo di andarsene. E questi se ne va, a malincuore ora, e non direi per sadismo, ma per amore. Tanto che si ferma presso i galilei, dividendo con essi gli insulti che la folla elargisce a questi sparuti fedeli del Cristo.
I due ladroni gettano al suolo le loro croci bestemmiando. Gesù tace.
La via dolorosa è terminata.
Cap. DCIX. La crocifissione, la morte e la deposizione dalla croce.
27 marzo 1945.
1 Quattro nerboruti uomini, che per l’aspetto mi paiono giudei, e giudei degni della croce più dei condannati, certo della stessa categoria dei flagellatori, saltano da un sentiero sul luogo del supplizio. Sono vestiti di tuniche corte e sbracciate ed hanno in mano chiodi, martelli e funi che mostrano con lazzi ai tre condannati. La folla si agita in un delirio crudele.
Il centurione offre a Gesù l’anfora perché beva la mistura anestetica di vino mirrato. Ma Gesù la rifiuta. I due ladroni invece ne bevono molta. Poi l’anfora, dall’ampia bocca svasata, viene posta presso un grosso sasso, quasi sullo scrimolo della cima.
2 Viene dato l’ordine ai condannati di spogliarsi. I due ladroni lo fanno senza nessun pudore. Anzi si divertono a fare atti osceni verso la folla e specie verso il gruppo sacerdotale, tutto candido nelle sue vesti di lino e che è piano piano tornato sulla piazzetta più bassa, usando della sua qualità per insinuarsi lì. Ai sacerdoti si sono uniti due o tre farisei e altri prepotenti personaggi, che l’odio fa amici. E vedo persone di conoscenza, come il fariseo Giocana e Ismaele, lo scriba Sadoch, Eli di Cafarnao…
I carnefici offrono tre stracci ai condannati perché se li leghino all’inguine. E i ladroni li pigliano con più orrende bestemmie. Gesù, che si spoglia lentamente per lo spasimo delle ferite, lo ricusa. Forse pensa conservare le corte brache che ha tenute anche nella flagellazione. Ma, quando gli viene detto di levarsi anche le stesse, Egli tende la mano per mendicare lo straccio dei boia a difesa della sua nudità. È proprio l’Annichilito fino a dover chiedere uno straccio ai delinquenti.
Ma Maria ha visto e si è sfilata il lungo e sottile telo bianco, che le vela il capo sotto al manto oscuro e nel quale Ella ha già versato tanto pianto. Se lo leva senza far cadere il manto, lo dà a Giovanni perché lo porga a Longino per il Figlio. Il centurione prende il velo senza fare ostacolo e, quando vede che Gesù sta per denudarsi del tutto, stando voltato non verso la folla ma verso la parte vuota di popolo, mostrando così la sua schiena rigata di lividi e di vesciche, sanguinante di ferite aperte o dalle croste oscure, gli porge il lino materno. E Gesù lo riconosce. Se ne avvolge a più riprese il bacino, assicurandoselo per bene perché non caschi… E sul lino, fino allora solo bagnato di pianto, cadono le prime gocce di sangue, perché molte delle ferite, appena coperte di coagulo, nel chinarsi per levarsi i sandali e deporre le vesti si sono riaperte e il sangue riprende a sgorgare.
3 Ora Gesù si volge verso la folla. E si vede così che anche il petto, le braccia, le gambe sono tutte state colpite dai flagelli. All’altezza del fegato è un enorme livido, e sotto l’arco costale sinistro vi sono nette sette righe in rilievo, terminate da sette piccole lacerazioni sanguinanti fra un cerchio violaceo… un colpo feroce di flagello in quella zona tanto sensibile del diaframma. I ginocchi, contusi dalle ripetute cadute, iniziate subito dopo la cattura e terminate sul Calvario, sono neri di ematoma e aperti sulla rotula, specie il destro, in una vasta lacerazione sanguinante.
La folla lo schernisce come in coro: «Oh! Bello! Il più bello dei figli degli uomini! Le figlie di Gerusalemme ti adorano…». E intona, con tono di salmo: «Il mio diletto è candido e rubicondo, distinto fra mille e mille. La sua testa è oro puro, i suoi capelli grappoli di palma, setosi come piuma di corvo. Gli occhi son come due colombe bagnantesi ai ruscelli non d’acqua ma di latte, nel latte della sua orbita. Le sue guance sono aiuole di aromi, le sue labbra porpurei gigli stillanti preziosa mirra. Le sue mani tornite come lavoro d’orafo terminate in rosei giacinti. Il suo tronco è avorio venato di zaffiri. Le sue gambe, perfette colonne di candido marmo su basi d’oro. La sua maestà è come quella del Libano; imponente egli è più dell’alto cedro. La sua lingua è intrisa di dolcezza ed egli è tutto delizia»; e ridono e urlano anche: «Il lebbroso! Il lebbroso! Hai dunque fornicato con un idolo se Dio ti ha così colpito? Hai mormorato contro i santi di Israele come Maria di Mosè, se sei stato così punito? Oh! Oh! il Perfetto! Sei il Figlio di Dio? Ma no! L’aborto di Satana sei! Almeno egli, Mammona, è potente e forte. Tu… sei uno straccio impotente e schifoso».
4 I ladroni sono legati sulle croci e vengono portati al loro posto, uno a destra, uno a sinistra rispetto al posto destinato a Gesù. Urlano, imprecano, maledicono e, specie quando le croci vengono portate presso il buco e li sconquassano facendo segare i polsi dalle funi, le loro bestemmie a Dio, alla Legge, ai romani, ai giudei, sono infernali.
È la volta di Gesù. Egli si stende mite sul legno. I due ladroni erano tanto ribelli che, non bastando a farlo i quattro boia, erano dovuti intervenire dei soldati a tenerli, perché a calci non respingessero gli aguzzini che li legavano per i polsi. Ma per Gesù non c’è bisogno di aiuto. Si corica e mette il capo dove gli dicono di metterlo. Apre le braccia come gli dicono di farlo, stende le gambe come gli ordinano. Si è solo preoccupato di accomodarsi per bene il suo velo. Ora il suo lungo corpo, snello e bianco, spicca sul legno oscuro e sul suolo giallo.
5 Due carnefici gli si siedono sul petto per tenerlo fermo. E io penso che oppressione e che dolore deve aver provato sotto quel peso. Un terzo gli prende il braccio destro, tenendolo con una mano sulla prima porzione dell’avambraccio e l’altra al termine delle dita. Il quarto, che ha già in mano il lungo chiodo acuminato sulla punta quadrangolare nel fusto, terminato in una piastra rotonda e piatta, larga come un soldone dei tempi passati, guarda se il buco già fatto nel legno corrisponde alla giuntura radio-ulnare del polso. Va bene. Il boia appoggia la punta del chiodo al polso, alza il martello e dà il primo colpo.
Gesù, che aveva gli occhi chiusi, all’acuto dolore ha un grido e una contrazione, e spalanca gli occhi nuotanti fra le lacrime. Deve essere un dolore atroce quello che prova… Il chiodo penetra spezzando muscoli, vene, nervi, frantumando ossa…
Maria risponde al grido della sua Creatura torturata con un gemito che ha quasi del lamento di un agnello sgozzato, e si curva, come spezzata, tenendosi la testa fra le mani. Gesù, per non torturarla, non grida più. Ma i colpi ci sono, metodici, aspri, di ferro contro ferro… e si pensa che sotto è un membro vivo quello che li riceve.
La mano destra è inchiodata. Si passa alla sinistra. Il foro non corrisponde al carpo. Allora prendono una fune, legano il polso sinistro e tirano fino a slogare la giuntura e a strappare tendini e muscoli, oltre che lacerare la pelle già segata dalle funi della cattura. Anche l’altra mano deve soffrire, perché è stirata per riflesso, e intorno al suo chiodo si allarga il buco. Ora si arriva appena all’inizio del metacarpo, presso il polso. Si rassegnano e inchiodano dove possono, ossia fra il pollice e le altre dita, proprio al centro del metacarpo. Qui il chiodo entra più facilmente ma con maggiore spasimo, perché deve recidere nervi importanti, tanto che le dita restano inerti, mentre le altre della destra hanno contrazioni e tremiti che denunciano la loro vitalità. Ma Gesù non grida più, ha solo un lamento roco dietro le labbra fortemente chiuse, e lacrime di spasimo cadono per terra dopo esser cadute sul legno.
6 Ora è la volta dei piedi. A un due metri e più dal termine della croce è un piccolo cuneo, appena sufficiente ad un piede. Su questo vengono portati i piedi per vedere se va bene la misura. E dato che è un poco in basso e i piedi arrivano male, stiracchiano per i malleoli il povero Martire. Il legno scabro della croce sfrega così sulle ferite, smuove la corona che si sposta strappando nuovi capelli e minaccia di cadere. Un boia gliela ricalca sul capo con una manata…
Ora, quelli che erano seduti sul petto di Gesù si alzano per spostarsi sui ginocchi, dato che Gesù ha un movimento involontario di ritirare le gambe, vedendo brillare al sole il lunghissimo chiodo, lungo il doppio e largo il doppio di quello usato per le mani. E pesano sui ginocchi scorticati, e premono sui poveri stinchi contusi, mentre gli altri due compiono l’operazione, molto più difficile, dell’inchiodatura di un piede sull’altro, cercando di combinare le due giunture dei tarsi insieme.
Per quanto guardino e tengano fermi i piedi, al malleolo e alle dita, contro il cuneo, il piede sottoposto si sposta per la vibrazione del chiodo, e lo devono schiodare quasi, perché, dopo essere entrato nelle parti molli, il chiodo, già spuntato per avere perforato il piede destro, deve essere portato un poco più in centro. E picchiano, picchiano, picchiano… Non si sente che l’atroce rumore del martello sulla testa del chiodo, perché tutto il Calvario non è che occhi e orecchie tese, per raccogliere atto e rumore e gioirne…
Sul suono aspro del ferro è un lamento in sordina di colomba: il gemere roco di Maria, che sempre più si curva, ad ogni colpo, come se il martello piagasse Lei, la Madre Martire. Ed ha ragione di parere prossima ad essere spezzata da quella tortura. La crocifissione è tremenda. Pari alla flagellazione in spasimo, più atroce a vedersi, perché si vede scomparire il chiodo fra le carni vive. Ma in compenso è più breve. Mentre la flagellazione spossa per la sua durata.
Per me, l’agonia dell’Orto, la flagellazione e la crocifissione sono i momenti più atroci. Mi svelano tutta la tortura del Cristo. La morte mi solleva, perché dico: «È finito!». Ma queste non sono fine. Sono principio a nuove sofferenze.
7 Ora la croce è strascinata presso il buco e rimbalza, scuotendo il povero Crocifisso, sul suolo ineguale. Viene issata la croce, che sfugge per due volte a coloro che la alzano e ricade una volta di schianto, un’altra sul braccio destro della stessa, dando un aspro tormento a Gesù, perché la scossa subita smuove gli arti feriti.
Ma quando poi la croce viene lasciata cadere nel suo buco e, prima di essere assicurata con pietre e terriccio, ondeggia in tutti i sensi, imprimendo continui spostamenti al povero Corpo sospeso a tre chiodi, la sofferenza deve essere atroce. Tutto il peso del corpo si sposta in avanti e in basso, e i buchi si allargano, specie quello della mano sinistra, e si allarga il foro nei piedi mentre il sangue spiccia più forte. E se quello dei piedi goccia lungo le dita per terra e lungo il legno della croce, quello delle mani segue gli avambracci, perché sono più alti al polso che all’ascella per forza della posizione, e riga anche le coste scendendo dall’ascella verso la cintura. La corona, quando la croce ondeggia prima di essere fissata, si sposta, perché il capo ribatte all’indietro, conficcando nella nuca il grosso nodo di spini che termina la pungente corona, e poi torna ad adagiarsi sulla fronte e graffia, graffia senza pietà.
Finalmente la croce è assicurata e non c’è che il tormento dell’essere appeso. Issano anche i ladroni, i quali, una volta messi verticalmente, urlano come fossero scotennati vivi per la tortura delle funi, che segano i polsi e fanno divenire nere le mani, con le vene gonfie come corde.
Gesù tace. La folla non tace più, invece. Ma riprende il suo vocio infernale.
Ora la cima del Golgota ha il suo trofeo e la sua guardia d’onore. Al limite più alto (lato A) la croce di Gesù. Al lato B e C le altre due. Mezza centuria di soldati, con le armi al piede, tutto intorno alla vetta; dentro a questo cerchio d’armati, i dieci appiedati, che giocano a dadi le vesti dei condannati. Ritto in piedi, fra la croce di Gesù e quella di destra, Longino. E pare monti la guardia d’onore al Re Martire. L’altra mezza centuria, in riposo, è agli ordini dell’aiutante di Longino sul sentiero di sinistra e sulla piazzuola più bassa, in attesa di essere adoperata se ce ne sarà bisogno. Nei soldati c’è l’indifferenza quasi totale. Solo qualcuno alza ogni tanto il volto ai crocifissi.
8 Longino invece osserva tutto con curiosità e interesse, confronta e mentalmente giudica. Confronta i crocifissi, e specie il Cristo, e gli spettatori. Il suo occhio penetrante non perde un particolare. E per vedere meglio fa solecchio con la mano, perché il sole gli deve dare noia.
È infatti un sole strano. Di un giallo rosso d’incendio. E poi pare che l’incendio si spenga di colpo per un nuvolone di pece che sorge da dietro le catene giudee e che corre veloce per il cielo, scomparendo dietro ad altri monti. E quando il sole ritorna fuori è così vivo che l’occhio non lo sopporta che male.
Nel guardare vede Maria, proprio sotto il balzo, che tiene alzato verso il Figlio il suo volto straziato. Chiama uno dei soldati che giuocano a dadi e gli dice: «Se la Madre vuole salire col figlio che l’accompagna, venga. Scortala e aiutala».
E Maria con Giovanni, creduto «figlio», sale per la scaletta incisa nella roccia tufacea, credo, e penetra oltre il cordone dei soldati andando ai piedi della croce, ma un poco scosta per essere vista e per vedere il suo Gesù.
La folla le propina subito i più obbrobriosi insulti. Accomunandola nelle bestemmie al Figlio. Ma Ella, con le labbra tremanti e sbiancate, cerca solo di dargli conforto, con un sorriso straziato su cui si asciugano le lacrime che nessuna forza di volontà riesce a trattenere negli occhi.
9 La gente, cominciando dai sacerdoti, scribi, farisei, sadducei, erodiani e simili, si procura lo spasso di fare come un carosello, salendo dalla strada erta, passando lungo il rialzo finale e scendendo per l’altra via, o viceversa. E mentre passano ai piedi della vetta, sulla seconda piazzuola, non mancano di offrire le loro parole blasfeme come omaggio al Morente. Tutta la turpitudine, la crudeltà, l’odio e l’insania di cui sono capaci gli uomini con la lingua, vengono ampiamente testificate da queste bocche d’inferno. I più accaniti sono i membri del Tempio, coi farisei per aiuto.
«Ebbene? Tu, Salvatore dell’uman genere, perché non ti salvi? Ti ha abbandonato il tuo re Belzebù? Ti ha rinnegato?», urlano tre sacerdoti.
E un branco di giudei: «Tu, che non più tardi di or sono cinque giorni, con l’aiuto del Demonio, facevi dire al Padre… ah! ah! ah! che ti avrebbe glorificato, come mai non gli ricordi di mantenere la sua promessa?».
E tre farisei: «Bestemmiatore! Ha salvato gli altri, diceva, con l’aiuto di Dio! E non riesce a salvare Se stesso! Vuoi che ti si creda? E allora fai il miracolo. Non puoi più, eh? Ora hai le mani inchiodate, e sei nudo».
E dei sadducei ed erodiani ai soldati: «Attenti alla malìa, voi che vi siete prese le sue vesti! Ha dentro il segno infernale!».
Una folla in coro: «Scendi dalla croce e ti crederemo. Tu che distruggi il Tempio… Folle!… Guardalo là, il glorioso e santo Tempio d’Israele. È intoccabile, o profanatore! E Tu muori».
Altri sacerdoti: «Blasfemo! Figlio di Dio, Tu? E scendi di lì, allora. Fulminaci, se sei Dio. Non ti temiamo e sputiamo verso Te».
Altri che passano e scrollano il capo: «Non sa che piangere. Salvati, se è vero che sei l’Eletto!».
I soldati: «E salvati, dunque! Incenerisci questa suburra della suburra! Sì! Suburra dell’Impero siete, giudei canaglie. Fàllo! Roma ti metterà in Campidoglio e ti adorerà come un nume!».
I sacerdoti coi loro compari: «Erano più dolci le braccia delle femmine di quelle della croce, non è vero? Ma, guarda, sono già lì pronte a riceverti le tue… (e dicono un termine infame). Ci hai tutta Gerusalemme a farti da pronuba». E fischiano come carrettieri.
Altri lanciando dei sassi: «Muta questi in pane, Tu, moltiplicatore dei pani».
Altri, scimmiottando gli osanna della domenica delle palme, lanciano dei rami e gridano: «Maledetto colui che viene in nome del Demonio! Maledetto il suo regno! Gloria a Sionne che lo recide di fra i vivi!».
Un fariseo si piazza di fronte alla croce, e mostra il pugno facendo le corna e dice: «”Ti affido al Dio del Sinai”, Tu dicesti? Ora il Dio del Sinai ti prepara al fuoco eterno. Perché non chiami Giona a renderti il buon servizio?».
Un altro: «Non rovinare la croce con i colpi della tua testa. Deve servire per i tuoi seguaci. Una intera legione ne morirà sul tuo legno, te lo giuro su Jeové. E per primo ci metterò Lazzaro. Vedremo se Tu lo levi di morte, ora».
«Sì! Sì! Andiamo da Lazzaro. Inchiodiamolo dall’altro lato della croce», e pappagallescamente fanno la parlata lenta di Gesù dicendo: «Lazzaro, amico mio, vieni fuori! Slegatelo e lasciatelo andare!».
«No! Diceva a Marta e Maria, le sue femmine: “Io sono la Risurrezione e la Vita”. Ah! Ah! Ah! La Risurrezione non sa mandare indietro la morte, e la Vita muore!».
10«Ecco là Maria con Marta. Chiediamo dove è Lazzaro e andiamolo a cercare». E si fanno avanti, verso le donne, chiedendo arrogantemente: «Dove è Lazzaro? Al palazzo?».
E Maria Maddalena, mentre le altre terrorizzate fuggono dietro i pastori, si fa avanti, ritrovando nel suo dolore la antica baldanza dei tempi di peccato, e dice: «Andate. Troverete già in palazzo i soldati di Roma e cinquecento armati delle mie terre, che vi castreranno come vecchi caproni destinati al pasto degli schiavi alle macine».
«Sfrontata! Così parli ai sacerdoti?».
«Sacrileghi! Turpi! Maledetti! Volgetevi! Alle spalle avete, io le vedo, le lingue delle fiamme infernali».
I vili si volgono, veramente terrorizzati, tanto è sicura l’affermazione di Maria; ma, se non hanno le fiamme alle spalle, hanno alle reni le ben pontute lance romane. Perché Longino ha dato un ordine e la mezza centuria che era in riposo è entrata in fazione e punge alle natiche i primi che trova. Questi fuggono urlando e la mezza centuria resta a chiudere gli imbocchi delle due strade e a fare baluardo alla piazzuola. I giudei imprecano, ma Roma è la più forte.
La Maddalena riabbassa il suo velo — se lo era alzato per parlare agli insultatori — e torna al suo posto. Le altre si riuniscono a lei.
11Ma il ladrone di sinistra continua gli insulti dalla sua croce. Pare si sia fatto il condensatore di tutte le bestemmie altrui e le snocciola tutte, terminando: «Salvati e salvaci, se vuoi che ti si creda. Il Cristo Tu? Un folle sei! Il mondo è dei furbi e Dio non c’è. Io ci sono. Questo è vero, e per me tutto è lecito. Dio?… Fola! Messa per tenerci quieti. Viva il nostro io! Lui solo è re e dio!».
L’altro ladrone, che è a destra ed ha quasi ai piedi Maria, e la guarda quasi più che non guardi Cristo, e da qualche momento piange mormorando: «la madre», dice: «Taci. Non temi Dio neppure ora che soffri questa pena? Perché insulti chi è buono? È in un supplizio ancor più grande del nostro. E non ha fatto nulla di male».
Ma il ladrone continua le sue imprecazioni.
12Gesù tace. Anelante per lo sforzo della posizione, per la febbre, per lo stato cardiaco e respiratorio, conseguenza della flagellazione subita in forma tanto violenta, e anche dell’angoscia profonda che gli aveva fatto sudar sangue, cerca trovare un sollievo, alleggerendo il peso che grava sui piedi, sospendendosi alle mani e facendo forza con le braccia. Forse lo fa anche per vincere un poco il crampo che già tormenta i piedi e che si tradisce con il tremito muscolare. Ma lo stesso tremore è nelle fibre delle braccia, che sono sforzate in quella posizione e devono essere gelate nelle loro estremità, perché poste più in alto e abbandonate dal sangue, che a fatica giunge ai polsi e poi ne geme dai buchi dei chiodi lasciando senza circolazione le dita. Specie quelle della sinistra sono già cadaveriche e stanno senza moto, ripiegate verso il palmo. Anche le dita dei piedi esprimono il loro tormento. Specie gli alluci, forse perché meno è leso il loro nervo, si alzano, si abbassano, si divaricano.
Il tronco, poi, svela tutta la sua pena col suo movimento, che è veloce ma non profondo, ed affatica senza dare sollievo. Le coste, molto ampie e alte di loro, perché la struttura di questo Corpo è perfetta, sono ora dilatate oltre misura per la posizione assunta dal corpo e per l’edema polmonare che certo si è formato nell’interno. Eppure non servono ad alleggerire lo sforzo respiratorio, tanto che tutto l’addome aiuta col suo muoversi il diaframma, che sempre più si va paralizzando.
E la congestione e l’asfissia aumentano di minuto in minuto, come lo indicano il colorito cianotico che sottolinea le labbra, di un rosso acceso dalla febbre, e le striature di un rosso violaceo, che spennellano il collo lungo le giugulari turgide e si allargano fino sulle guance, verso le orecchie e le tempie, mentre il naso è affilato e esangue, e gli occhi affondano in un cerchio che è livido dove è privo del sangue colato dalla corona.
Sotto l’arco costale sinistro si vede l’urto propagato dalla punta cardiaca, irregolare, ma violento, e ogni tanto, per una convulsione interna, il diaframma ha un fremito profondo che si rivela da una distensione totale della pelle, per quanto può stendersi su quel povero Corpo ferito e morente.
Il Volto ha già l’aspetto che vediamo nelle fotografie della Sindone, col naso deviato e gonfio da una parte; e anche il tenere l’occhio destro quasi chiuso, per il gonfiore che è da questo lato, aumenta la somiglianza. La bocca, invece, è aperta, con la sua ferita sul labbro superiore ormai ridotta ad una crosta.
La sete, data dalla perdita di sangue, dalla febbre e dal sole, deve essere intensa, tanto che Egli, con mossa macchinale, beve le stille del suo sudore e del suo pianto, e anche quelle del sangue che scende dalla fronte fin sui baffi, e si bagna con queste la lingua…
La corona di spine gli vieta di appoggiarsi al tronco della croce per aiutare la sospensione sulle braccia e alleggerire i piedi. Le reni e tutta la spina si arcua verso l’esterno, stando staccato dal tronco della croce dal bacino in su per forza di inerzia che fa pendere in avanti un corpo sospeso come era il suo.
13I giudei, respinti oltre la piazzuola, non cessano di insultare, e il ladrone impenitente fa eco.
L’altro, che ora guarda con sempre maggiore pietà la Madre e piange, lo rimbecca aspramente quando sente che nell’insulto è compresa anche Lei. «Taci. Ricordati che sei nato da una donna. E pensa che le nostre han pianto per causa dei figli. E furono lacrime di vergogna… perché noi siamo delinquenti. Le nostre madri sono morte… Io vorrei poterle chiedere perdono… Ma lo potrò? Era una santa… L’ho uccisa col dolore che le davo… Io sono un peccatore… Chi mi perdona? Madre, in nome del tuo Figlio morente, prega per me».
La Madre alza per un momento il suo viso straziato e lo guarda, questo sciagurato che attraverso al ricordo di sua madre e alla contemplazione della Madre va verso il pentimento, e pare lo carezzi col suo sguardo di colomba.
Disma piange più forte. Cosa che scatena ancora di più gli scherni della folla e del compagno. La prima urla: «Bravo! Pigliati questa per madre. Così ha due figli delinquenti!». E l’altro rincara: «Ti ama perché sei una copia minore del suo beneamato».
14Gesù parla per la prima volta: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!».
Questa preghiera vince ogni timore in Disma. Osa guardare il Cristo e dice: «Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo Regno. Io è giusto che qui soffra. Ma dammi misericordia e pace oltre la vita. Una volta ti ho sentito parlare e, folle, ho respinto la tua parola. Ora me ne pento. E dei miei peccati me ne pento davanti a Te, Figlio dell’Altissimo. Io credo che Tu venga da Dio. Io credo nel tuo potere. Io credo nella tua misericordia. Cristo, perdonami in nome di tua Madre e del tuo Padre santissimo».
Gesù si volge e lo guarda con profonda pietà, ed ha un sorriso ancora bellissimo sulla povera bocca torturata. Dice: «Io te lo dico: oggi tu sarai meco in Paradiso».
Il ladrone pentito si mette calmo e, non sapendo più le preghiere imparate da bambino, ripete come una giaculatoria: «Gesù Nazareno, re dei giudei, pietà di me; Gesù Nazareno, re dei giudei, io spero in Te; Gesù Nazareno, re dei giudei, io credo nella tua Divinità».
L’altro continua nelle sue bestemmie.
15Il cielo si fa sempre più fosco. Ora difficilmente le nubi si aprono per fare passare il sole. Ma anzi si accavallano a più e più strati plumbei, bianchi, verdognoli, si sormontano, si dipanano secondo i giuochi di un vento freddo, che a intervalli scorre il cielo e poi scende sulla terra e poi tace di nuovo, ed è quasi più sinistra l’aria quando tace, afosa e morta, di quando fischia tagliente e veloce.
La luce, prima viva fin oltre misura, si va facendo verdastra. E i volti prendono bizzarri aspetti. I soldati, sotto i loro elmi e nelle loro corazze, prima lucenti ed ora divenute come appannate nella luce verdastra e sotto il cielo di cenere, mostrano i duri profili come scalpellati. I giudei, per la maggioranza bruni di pelle e capelli e barba, paiono degli annegati, tanto il loro volto si fa terreo. Le donne sembrano statue di neve azzurrastra per il pallore esangue che la luce accentua.
Gesù sembra illividire sinistramente come per inizio di decomposizione, quasi fosse già morto. La testa gli comincia a pendere sul petto. Le forze mancano rapidamente. Trema, nonostante la febbre che lo arde. E nella sua debolezza mormora il nome che prima ha solo detto nel fondo del cuore: «Mamma!», «Mamma!». Lo mormora piano, come in un sospiro, quasi fosse già in un lieve delirio che gli impedisca di trattenere quanto la volontà vorrebbe trattenere. E Maria, ogni volta, ha un atto infrenabile di tendere le braccia come per soccorrerlo.
E la gente crudele ride di questi spasimi di chi muore e di chi spasima. Salgono da capo sino a dietro i pastori, che però sono sulla piazzetta bassa, i sacerdoti e gli scribi. E poiché i soldati vorrebbero respingerli, reagiscono dicendo: «Ci stanno questi galilei? Ci stiamo anche noi, che dobbiamo verificare che giustizia sia fatta fino in fondo. E da lontano, in questa luce strana, non possiamo vedere».
Infatti molti cominciano a impressionarsi della luce che sta fasciando il mondo, e qualcuno ha paura. Anche i soldati accennano al cielo e ad una specie di cono, che pare di lavagna tanto è cupo e che si leva come un pino da dietro una vetta. Sembra una tromba marina. Si alza, si alza e pare che generi nubi sempre più nere, quasi fosse un vulcano eruttante fumo e lava.
È in questa luce crepuscolare e paurosa che Gesù dà a Maria Giovanni e a Giovanni Maria. Curva il capo, poiché la Madre si è fatta più sotto alla croce per vederlo meglio, e dice: «Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua Madre».
Maria ha il volto ancor più sconvolto dopo questa parola che è il testamento del suo Gesù, che non ha nulla da dare alla Madre se non un uomo, Egli che per amore dell’Uomo la priva dell’Uomo-Dio, nato da Lei. Ma cerca, la povera Madre, di non piangere che mutamente, perché non può, non può non piangere… Le stille del pianto gemono nonostante ogni sforzo per trattenerle, anche se la bocca ha il suo straziato sorriso, fissato sulle labbra per Lui, per confortare Lui…
Le sofferenze crescono sempre più. E la luce sempre più decresce.
16È in questa luce di fondo marino che emergono, da dietro dei giudei, Nicodemo e Giuseppe, e dicono: «Scansatevi!».
«Non si può. Che volete?», dicono i soldati.
«Passare. Siamo amici del Cristo».
Si voltano i capi dei sacerdoti. «Chi osa professarsi amico del ribelle?», dicono i sacerdoti sdegnati.
E Giuseppe risoluto: «Io, nobile membro del Gran Consiglio, Giuseppe d’Arimatea, l’Anziano, e con me è Nicodemo, capo dei giudei».
«Chi parteggia per il ribelle è ribelle».
«E chi parteggia per gli assassini è assassino, Eleazaro di Anna. Ho vissuto da giusto. E ora vecchio sono e prossimo alla morte. Non voglio divenire ingiusto mentre già il Cielo su me discende e con esso il Giudice eterno».
«E tu, Nicodemo! Mi meraviglio!».
«Io pure. E di una cosa sola: che Israele sia tanto corrotto da non sapere più riconoscere Dio».
«Mi fai ribrezzo».
«Scansati, allora, e lasciami passare. Non chiedo che quello».
«Per contaminarti più ancora?».
«Se non mi sono contaminato a starvi presso, nulla più mi contamina. Soldato, a te la borsa e il segno di lasciapassare». E passa al decurione più vicino una borsa e una tavoletta cerata.
Il decurione osserva e dice ai soldati: «Lasciate passare i due».
E Giuseppe con Nicodemo si avvicinano ai pastori. Non so neppure se Gesù li veda in quella caligine sempre più fitta e con l’occhio che già si vela nell’agonia. Ma essi lo vedono e piangono senza rispetto umano, nonostante ora su di loro si avventino gli improperi sacerdotali.
17Le sofferenze sono sempre più forti. Il corpo ha i primi inarcamenti propri della tetanìa e ogni clamore di folla li esaspera. La morte delle fibre e dei nervi si estende dalle estremità torturate al tronco, rendendo sempre più difficoltoso il moto respiratorio, debole la contrazione diaframmatica e disordinato il movimento cardiaco. Il volto di Cristo passa alternativamente da vampe di rossore intensissimo a pallori verdastri di morente per dissanguamento. La bocca si muove con maggiore fatica, perché i nervi sovraffaticati del collo e del capo stesso, che hanno per decine di volte fatto da leva al corpo tutto puntandosi sulla sbarra trasversa della croce, propagano il crampo anche alle mascelle. La gola, enfiata dalle carotidi ingorgate, deve dolere ed estendere il suo edema alla lingua, che appare ingrossata e lenta nei movimenti. La schiena, anche nei momenti che le contrazioni tetanizzanti non la curvano ad arco completo dalla nuca alle anche, appoggiate come punti estremi al tronco della croce, si arcua sempre più in avanti, perché le membra divengono sempre più pesanti del peso delle carni morte.
La gente vede poco e male queste cose, perché la luce è ormai di un cenere cupo, e solo chi è ai piedi della croce può vedere bene.
18Gesù si affloscia, un certo momento, tutto in avanti e in basso, come già morto; non ansa più, la testa gli pende inerte in avanti, il corpo dalle anche in su è tutto staccato facendo angolo con le braccia alla croce.
Maria ha un grido: «È morto!». Un grido tragico che si propaga nell’aria nera. E Gesù appare realmente morto.
Un altro grido femminile le risponde e nel gruppo delle donne vedo un tramestio. Poi una decina di persone si allontanano sostenendo qualche cosa. Ma non posso vedere chi si allontana così. È troppo poca la luce nebbiosa. Sembra di essere immersi in una nube di cenere vulcanica fittissima.
«Non è possibile», urlano dei sacerdoti e dei giudei. «È una finta per farci andare via. Soldato, pungilo con la lancia. È una buona medicina per ridargli voce». E poiché i soldati non lo fanno, una scarica di pietre e di zolle di terra volano verso la croce, colpendo il Martire e ricadendo sulle corazze romane.
Il farmaco, come ironicamente dicono i giudei, opera il prodigio. Certo qualche sasso ha colpito a segno, forse sulla ferita di una mano, o sul capo stesso, perché miravano in alto. Gesù ha un gemito pietoso e rinviene. Il torace torna a respirare con fatica e la testa a muoversi da destra a manca, cercando un luogo dove posarsi per soffrire meno, senza trovare altro che maggior pena.
19A gran fatica, puntandosi una volta ancora sui piedi torturati, trovando forza nella sua volontà, unicamente in quella, Gesù si irrigidisce sulla croce, torna eretto come fosse un sano nella sua forza completa, alza il volto guardando con occhi bene aperti il mondo steso ai suoi piedi, la città lontana, che appena si intravvede come un biancore incerto nella foschia, e il cielo nero dal quale ogni azzurro ed ogni ricordo di luce sono scomparsi. E a questo cielo chiuso, compatto, basso, simile ad una enorme lastra di lavagna scura, Egli grida a gran voce, vincendo con la forza della volontà, col bisogno dell’anima, l’ostacolo delle mascelle irrigidite, della lingua ingrossata, della gola edematica: «Eloi, Eloi, lamma scebacteni!» (io sento dire così). Deve sentirsi morire, e in un assoluto abbandono del Cielo, per confessare con tal voce l’abbandono paterno.
La gente ride e lo scherza. Lo insulta: «Non sa che farne Dio di Te! I demoni sono maledetti da Dio!».
Altri gridano: «Vediamo se Elia, che Egli chiama, viene a salvarlo».
E altri: «Dategli un poco d’aceto, che si gargarizzi la gola. Fa bene alla voce! Elia o Dio, poiché è incerto ciò che il folle vuole, sono lontani… Ci vuol voce per farsi sentire!», e ridono come iene o come demoni.
Ma nessun soldato dà l’aceto e nessuno viene dal Cielo per dare conforto. È l’agonia solitaria, totale, crudele, anche soprannaturalmente crudele, della Grande Vittima.
Tornano le valanghe di dolore desolato che già l’avevano oppresso nel Getsemani. Tornano le onde dei peccati di tutto il mondo a percuotere il naufrago innocente, a sommergerlo nella loro amaritudine. Torna soprattutto la sensazione, più crocifiggente della croce stessa, più disperante di ogni tortura, che Dio ha abbandonato e che la preghiera non sale a Lui…
Ed è il tormento finale. Quello che accelera la morte, perché spreme le ultime gocce di sangue dai pori, perché stritola le superstiti fibre del cuore, perché termina ciò che la prima cognizione di questo abbandono ha iniziato: la morte. Perché di questo per prima cosa è morto il mio Gesù, o Dio, che lo hai colpito per noi! Dopo il tuo abbandono, per il tuo abbandono, che diventa una creatura? O un folle, o un morto. Gesù non poteva divenire folle, perché la sua intelligenza era divina e, spirituale come è l’intelligenza, trionfava sopra il trauma totale del colpito da Dio. Divenne dunque un morto: il Morto, il santissimo Morto, l’innocentissimo Morto. Morto Lui che era la Vita. Ucciso dal tuo abbandono e dai nostri peccati.
20L’oscurità si fa ancora più fitta. Gerusalemme scompare del tutto. Lo stesso Calvario pare annullarsi nelle sue falde. Solo la cima è visibile, quasi che le tenebre la tengano alta a raccogliere l’unica e l’ultima superstite luce, posandola come per una offerta, col suo trofeo divino, su uno stagno di onice liquida, perché sia vista dall’amore e dall’odio.
E dalla luce non più luce viene la voce lamentosa di Gesù: «Ho sete!».
Vi è infatti un vento che asseta anche i sani. Un vento continuo, ora, violento, pieno di polvere, freddo, pauroso. Penso quale spasimo avrà dato col suo soffio violento ai polmoni, al cuore, alle fauci di Gesù, alle sue membra gelate, intormentite, ferite. Ma proprio tutto si è messo a torturare il Martire.
Un soldato va ad un vaso dove i satelliti del boia hanno messo dell’aceto col fiele, perché col suo amaro aumenti la salivazione nei suppliziati. Prende la spugna immersa nel liquido, la infila su una canna sottile eppure rigida, che è già pronta lì presso, e porge la spugna al Morente.
Gesù si tende avido verso la spugna che viene. Pare un infante affamato che cerchi il capezzolo materno.
Maria, che vede e certo pensa questa cosa, geme, appoggiandosi a Giovanni: «Oh! ed io neppure una stilla di pianto gli posso dare… Oh! seno mio, ché non gemi latte? Oh! Dio, perché, perché così ci abbandoni? Un miracolo per la mia Creatura! Chi mi solleva per dissetarlo del mio sangue, posto che latte non ho?…».
Gesù, che ha succhiato avidamente l’aspra e amara bevanda, torce il capo, avvelenato dal disgusto di essa. Deve, oltretutto, essere come del corrosivo sulle labbra ferite e spaccate.
21Si ritrae, si accascia, si abbandona. Tutto il peso del corpo piomba sui piedi e in avanti. Sono le estremità ferite quelle che soffrono la pena atroce dello slabbrarsi sotto il peso di un corpo che si abbandona. Non più un movimento per sollevare questo dolore. Dal bacino in su, tutto è staccato dal legno, e tale resta.
La testa pende in avanti tanto pesantemente che il collo pare scavato in tre posti: al giugolo, completamente infossato, e di qua e di là dello sternocleidomastoideo. Il respiro è sempre più anelante, ma interciso. È già più un rantolo sincopato che un respiro. Ogni tanto un colpo di tosse penosa porta una schiuma lievemente rosata alle labbra. E le distanze fra una espirazione e l’altra diventano sempre più lunghe. L’addome è già fermo. Solo il torace ha ancora dei sollevamenti, ma faticosi, stentati… La paralisi polmonare si accentua sempre più.
E sempre più fievole, tornando al lamento infantile del bambino, viene l’invocazione: «Mamma!». E la misera mormora: «Sì, tesoro, sono qui». E quando la vista che si vela gli fa dire: «Mamma, dove sei? Non ti vedo più. Anche tu mi abbandoni?», e non è neanche una parola,ma un mormorio che appena è udibile da chi più col cuore che con l’udito raccoglie ogni sospiro del Morente, Ella dice: «No, no, Figlio! Non ti abbandono io! Sentimi, caro… La Mamma è qui, qui è… e solo si tormenta di non poter venire dove Tu sei…».
È uno strazio… E Giovanni piange liberamente. Gesù deve sentire quel pianto. Ma non dice niente. Penso che la morte imminente lo faccia parlare come in delirio e neppure sappia quanto dice e, purtroppo, neppure comprenda il conforto materno e l’amore del Prediletto.
Longino — che inavvertitamente ha lasciato la sua posa di riposo, con le mani conserte sul petto e una gamba accavallata, ora una, ora l’altra, per dare sollievo alla lunga attesa in piedi, e ora invece è rigido sull’attenti, la mano sinistra sulla spada, la destra regolarmente tesa lungo il fianco, come fosse sui gradini del trono imperiale — non vuole commuoversi. Ma il suo volto si altera nello sforzo di vincere l’emozione, e gli occhi hanno un luccicore di pianto che solo la sua ferrea disciplina trattiene.
Gli altri soldati, che giocavano a dadi, hanno smesso e si sono drizzati in piedi, rimettendosi gli elmi che avevano servito ad agitare i dadi, e stanno in gruppo presso la scaletta scavata nel tufo, silenziosi, attenti. Gli altri sono di servizio e non possono mutare posizione. Sembrano statue. Ma qualcuno dei più prossimi, e che sente le parole di Maria, mugola qualcosa fra le labbra e scrolla il capo.
22Un silenzio. Poi, netta nell’oscurità totale, la parola: «Tutto è compiuto!», e poi l’ansito sem