Vangelo Mt 5, 33-37 : « Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re ».

Vangelo Mt 5, 33-37
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”; “No, no”; il di più viene dal Maligno».


Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato

   Cap. CLXXII. Quarto discorso della Montagna: il giuramento, la preghiera, il digiuno. Il vecchio Ismaele e Sara.

  26 maggio 1945

 1 Continua il discorso sulla Montagna. Lo stesso luogo e la stessa ora. La folla, meno il romano, è la stessa, forse ancora più numerosa perché molti sono fin sull’inizio dei sentieri che conducono alla valletta. Gesù parla: 
   «Uno degli errori facili nell’uomo è la mancanza di onestà anche verso se stesso. E dato che l’uomo è difficilmente sincero e onesto, ecco che da se stesso si è creato un morso per essere obbligato ad andare per la via che ha detto. Morso che, del resto, egli, come cavallo indomito, presto si sposta modificando a suo piacere l’andare, o si leva del tutto facendo il suo comodo senza più riflessione a ciò che può ricevere di rimprovero da Dio, dagli uomini e dalla sua propria coscienza.
   Questo morso è il giuramento. Ma non è necessario il giuramento fra gli onesti, e Dio, di suo, non ve lo ha insegnato. Anzi vi ha fatto dire: “Non dire falso testimonio” senza altra aggiunta. Perché l’uomo dovrebbe essere schietto senza bisogno di altro che della fedeltà alla sua parola.
   Quando nel Deuteronomio si parla dei voti, anche dei voti che sono una cosa sorta da un cuore che si pensa fuso a Dio o per sentimento di bisogno o per sentimento di riconoscenza, è detto: “La parola uscita una volta dalle tue labbra la devi mantenere, facendo quanto hai promesso al Signore Iddio tuo, quanto di tua volontà e di tua bocca hai detto”. Sempre si parla di parola data, senza altro che la parol
   Colui che sente il bisogno di giurare è perché è già insicuro di se stesso e del concetto del prossimo a suo riguardo. E chi fa giurare testifica con quell’esigenza che diffida della sincerità e onestà del giurante. Come vedete, questa abitudine del giuramento è una conseguenza della disonestà morale dell’uomo. Ed è una vergogna per l’uomo. Doppia vergogna, perché l’uomo non è fedele neppure a questa cosa vergognosa che è il giuramento e irridendosi di Dio, con la stessa facilità con cui si irride del prossimo, giunge a spergiurare con la massima facilità e tranquillità.

 2 Vi può essere creatura più abbietta dello spergiuro? Costui, usando sovente una formula sacra, e chiamando perciò a suo complice e mallevadore Iddio, o usando l’invocazione degli affetti più cari – il padre, la madre, la moglie, i figli, i suoi morti, la sua stessa vita e i suoi organi più preziosi, invocati ad appoggio del suo bugiardo dire – induce il suo prossimo a credergli. Lo conduce perciò in inganno. E’ un sacrilego, un ladro, un traditore, un omicida. Di chi? Ma di Dio, perché mescola la Verità all’infamia della sua menzogna e lo sbeffeggia sfidandolo: “Colpiscimi, smentiscimi, se puoi. Tu sei là, io son qua e me ne rido”.
   Oh! sì! Ridete, ridete pure, o mentitori e beffeggiatori! Ma vi sarà un momento che non riderete, e sarà quando Colui a cui ogni potere è deferito vi apparirà terribile nella sua maestà e solo col suo aspetto vi farà atterriti e solo coi suoi sguardi vi fulminerà, prima, prima ancora che la sua voce vi precipiti nel vostro destino eterno marcandovi della sua maledizione.
   E’ un ladro perché si appropria di una stima che non merita. Il prossimo, scosso dal suo giurare, gliela dona, e il serpente se ne orna fingendosi ciò che non è. E’ un traditore perché col giuramento promette cose che non vuole mantenere. E’ un omicida perché, o uccide l’onore di un suo simile levandogli col falso giuramento la stima del prossimo, o uccide la sua anima, perché lo spergiuro è un abbietto peccatore agli occhi di Dio, i quali, anche se nessun altro vede la verità, la vedono. Dio non si inganna né con false parole, né con ipocrite azioni. Egli vede. Non perde per un attimo di vista ogni singolo uomo. E non vi è munita fortezza, né profonda cantina, dove non possa penetrare il suo sguardo. Anche nell’interno vostro, la fortezza singola che ogni uomo ha intorno al suo cuore, penetra Iddio. E vi giudica non per quello che giurate ma per quello che fate.

 3 Perciò Io, all’ordine che vi fu dato, quando fu messo in auge il giuramento per mettere freno alla menzogna e alla facilità di mancare alla parola data, sostituisco un altro ordine.
   Non dico come gli antichi: “Non spergiurare, ma anzi mantieni i tuoi giuramenti”, ma vi dico: “Non giurate mai”. Né per il Cielo che è trono di Dio, né per la terra che è sgabello ai suoi piedi, né per Gerusalemme e il suo Tempio che sono la città del gran Re e la casa del Signore Iddio nostro.  
   Non giurate né sulle tombe dei trapassati né sui loro spiriti. Le tombe sono piene di scorie di ciò che è inferiore nell’uomo e comune col bruto, gli spiriti lasciateli nella loro dimora. Fate che non soffrano e inorridiscano, se spiriti di giusti che già sono nella precognizione di Dio. E per quanto sia una precognizione, ossia cognizione parziale, perché fino al momento della Redenzione non possederanno Dio nella sua pienezza di splendori, non possono non soffrire del vedervi peccatori. E, se giusti non sono, non aumentate il loro tormento dall’aver ricordato col vostro il loro peccato. Lasciate, lasciate i morti santi nella pace, i morti non santi nelle loro pene. Non levate ai primi, non aggiungete ai secondi. Perché appellarsi ai morti? Non possono parlare. I santi perché la carità loro lo vieta: vi dovrebbero smentire troppe volte. I dannati perché l’Inferno non apre le sue porte e i dannati non aprono le bocche che per maledire, e ogni voce resta soffocata dall’odio di Satana e dei satana, perché i dannati satana sono.    Non giurate né sul capo del padre né su quello della madre, né su quello della sposa e degli innocenti figli. Non ne avete diritto. Sono forse una moneta o una merce? Sono una firma su una carta? Sono più e meno di queste cose. Sono sangue e carne del tuo sangue, uomo, ma sono anche creature libere e tu non le puoi usare come schiave per avallo di un tuo falso. E sono meno di una firma tua propria, perché tu sei intelligente, libero e adulto, e non un interdetto o un pargolo che non sa quello che si fa e che perciò deve essere rappresentato dai parenti. Tu sei tu, un uomo dotato di ragione, e perciò sei responsabile delle tue azioni e devi agire da te, mettendo ad avallo delle tue azioni e delle tue parole la tua onestà e la tua sincerità, la stima che hai saputo suscitare tu nel prossimo, non l’onestà, la sincerità dei parenti e la stima che essi hanno saputo suscitare. Sono responsabili i padri dei figli? Sì, ma finché sono minorenni. Dopo, ognuno è responsabile di se stesso. Non sempre da giusti nascono giusti, né una santa donna è coniugata ad un santo uomo. Perché allora usare per base di garanzia la giustizia di chi vi è congiunto? Ugualmente, da un peccatore possono nascere figli santi e, finché innocenti sono, tutti sono santi. Perché allora invocare un puro per un vostro atto impuro quale è il giuramento che si vuole poi spergiurare?
   Non giurate neppure per la vostra testa, i vostri occhi, e lingua e mani. Non ne avete diritto. Tutto quanto avete è di Dio. Voi non ne siete che i temporanei custodi, i banchieri dei tesori morali o materiali che Dio vi ha concessi. Perché usare allora di ciò che non è vostro? Potete voi aggiungere un capello al vostro capo o mutarne il colore? E se non potete fare questo, perché allora usate la vista, la parola, la libertà delle membra, per convalidare un vostro giuramento? Non sfidate Dio. Potrebbe prendervi in parola e seccare i vostri occhi come può seccare i vostri frutteti, o strapparvi i figli come può svellervi la casa, per ricordarvi che Lui è il Signore e voi i sudditi, e che è maledetto chi si idolatra al punto da ritenersi da più di Dio sfidandolo con la menzogna.

 4 Il vostro parlare sia: sì, sì; e no, no. Non di più. Il di più ve lo suggerisce il Maligno, e per ridere poi di voi che, non potendo tutto ritenere, cadete in menzogna e siete sbeffeggiati e conosciuti per mentitori. Sincerità, figli. Nella parola e nella preghiera.
   Non fate come gli ipocriti che quando pregano amano stare a pregare nelle sinagoghe o sugli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini e lodati come uomini pii e giusti mentre poi, nell’interno delle famiglie, sono colpevoli verso Dio e verso il prossimo. Non riflettete che questo è come uno spergiuro? Perché voi volete sostenere ciò che vero non è allo scopo di conquistarvi una stima che non meritate? La orazione ipocrita ha lo scopo di dire: “In verità io sono un santo. Lo giuro agli occhi di chi mi vede e che non possono mentire di vedermi pregare”. Velo steso sulla malvagità esistente, la preghiera fatta con simili scopi diviene una bestemmia.
   Lasciate che Dio vi proclami santi, e fate che tutta la vostra vita gridi per voi: “Ecco un servo di Dio”. Ma voi, ma voi, per carità di voi, tacete. Non fate della vostra lingua, mossa dalla vostra superbia, un oggetto di scandalo agli occhi degli angeli. Meglio sarebbe diveniste sull’istante muti se non avete la forza di comandare all’orgoglio e alla lingua, autoproclamandovi giusti e gradevoli a Dio. Lasciate ai superbi e ai falsi questa povera gloria! Lasciate ai superbi e ai falsi questa effimera ricompensa. Povera ricompensa! Ma è quale la vogliono, e non ne avranno altra perché più di una non se ne può avere. O quella vera, del Cielo, e che è eterna e giusta. O quella non vera, della terra, che dura quanto la vita dell’uomo e anche meno e che poi, essendo ingiusta, è pagata, oltre la vita, con una ben mortificante punizione.

 5 Udite come dovete pregare e col labbro e col lavoro e con tutto voi stessi, per impulso del cuore che ama, sì, Dio, e Padre lo sente, ma che anche sempre ricorda chi è il Creatore e che è la creatura, e sta con amore riverenziale al cospetto di Dio, sempre, sia che òri o che traffichi, sia che cammini o che riposi, sia che guadagni o che benefichi. Per impulso del cuore, ho detto. E’ la prima ed essenziale qualità. Perché tutto viene dal cuore, e come è il cuore tale è la mente, tale la parola, lo sguardo, l’azione.
   L’uomo giusto dal suo cuore di giusto trae fuori il bene, e più ne trae più ne trova, perché il bene fatto procrea novello bene, così come il sangue che si rinnovella nel circolo delle vene e torna al cuore arricchito di sempre nuovi elementi, tratti dall’ossigeno che ha assorbito e dal succo dei cibi che ha assimilato. Mentre il perverso dal suo buio cuore pieno di frode e di veleni non può che trarre frode e veleno, che sempre più si accrescono, corroborati come sono dalle colpe che si accumulano, come nel buono dalle benedizioni di Dio che si accumulano. Credete pure che è l’esuberanza del cuore quella che trabocca dalle labbra e si rivela nelle azioni.
   Voi fatevi un cuore umile e puro, amoroso, fiducioso, sincero; amate Dio col pudico amore che ha una vergine per lo sposo. In verità vi dico che ogni anima è una vergine sposata all’eterno Amatore, a Dio Signor nostro; questa terra è il tempo del fidanzamento nel quale l’angelo dato a custode di ogni uomo è lo spirituale paraninfo, e tutte le ore della vita e le contingenze della vita altrettante ancelle che preparano il corredo nuziale. L’ora della morte è l’ora delle nozze compiute e allora viene la conoscenza, l’abbraccio, la fusione, e con veste di sposa compiuta l’anima può alzare il suo velo e gettarsi nelle braccia del suo Dio senza che per amare così lo Sposo possa indurre altri allo scandalo.
   Ma per ora, o anime ancora sacrificate nel laccio del fidanzamento con Dio, quando volete parlare allo Sposo, mettetevi nella pace della vostra dimora, e soprattutto nella pace della vostra dimora interiore, e parlate, angelo di carne fiancheggiato dall’angelo custode, al Re degli angeli. Parlate al Padre vostro nel segreto del vostro cuore e della vostra stanza interiore. Lasciate fuori tutto quanto è mondo: e la smania di essere notati e quella di edificare, e gli scrupoli delle lunghe preghiere colme di parole, parole, parole e monotone, e tiepide e scialbe d’amore.

 6 Per carità! Liberatevi dalle misure nel pregare. In verità vi sono alcuni che sprecano più e più ore in un monologo ripetuto con le labbra sole, e che è un vero soliloquio perché neppur l’angelo custode lo ascolta, tanto è rumore vano che egli cerca di rimediare sprofondandosi di suo in ardente orazione per il suo stolto custodito. In verità vi sono alcuni che non userebbero quelle ore diversamente neppure se Dio apparisse loro dicendo: “La salute del mondo dipende dal tuo lasciare questa loquela senz’anima per andare, magari, semplicemente ad attingere dell’acqua ad un pozzo ed a spargere quell’acqua al suolo per amore di Me e dei tuoi simili”. In verità vi sono alcuni che credono più grande il loro monologo all’atto cortese di accogliere un visitatore o a quello caritativo di soccorrere un bisognoso. Sono animi caduti nell’idolatria della preghiera.
   La preghiera è azione d’amore. E amare si può tanto orando che facendo il pane, tanto meditando che assistendo un infermo, tanto compiendo pellegrinaggio al Tempio che accudendo alla famiglia, tanto sacrificando un agnello quanto sacrificando i nostri anche giusti desideri di raccogliersi nel Signore. Basta che uno intrida tutto se stesso e ogni sua azione nell’amore. Non abbiate paura! Il Padre vede. Il Padre comprende. Il Padre ascolta. Il Padre concede. Quante grazie non sono date anche per un solo, vero, perfetto sospiro d’amore! Quanta abbondanza per un sacrificio intimo fatto con amore. Non siate simili ai gentili. Dio non ha bisogno che gli diciate ciò che deve fare perché voi ne abbisognate. Ciò possono dirlo i pagani ai loro idoli che non possono intendere. Non voi a Dio, al vero, spirituale Iddio che non è solo Dio e Re, ma è Padre nostro e sa, prima ancora che voi glielo chiediate, di che avete bisogno.

 7 Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, chi cerca trova, e verrà aperto a chi picchia. Quando un figlio vostro vi tende la manina dicendovi: “Padre, ho fame”, gli date forse un sasso? Gli date un serpente se vi chiede un pesce? No, anzi che date pane e pesce, ma inoltre date carezza e benedizione, perché è dolce ad un padre nutrire la sua creatura e vederne il sorriso felice. Se dunque voi di imperfetto cuore sapete dare buoni doni ai vostri figli solo per l’amore naturale, comune anche all’animale verso la prole, quanto più il Padre vostro che è nei Cieli concederà a coloro che gliele chiedono le cose buone e necessarie al loro bene. Non abbiate paura di chiedere e non abbiate paura di non ottenere!
   Però – ecco che Io vi metto in guardia contro un facile errore – però non fate come i deboli nella fede e nell’amore, i pagani della religione vera – perché anche fra i credenti vi sono pagani la cui povera religione è un groviglio di superstizioni e di fede, un manomesso edificio in cui si sono infiltrate erbe parassitarie d’ogni specie, al punto che esso si sgretola e cade in rovina – i quali, deboli e pagani, sentono morire la fede se non si vedono esauditi. Voi chiedete. E vi pare giusto di chiedere. Infatti per quel momento non sarebbe neanche ingiusta quella grazia.
   Ma la vita non termina in quel momento. E ciò che è bene oggi può essere non bene domani. Voi questo non lo sapete, perché voi sapete solo il presente, ed è una grazia di Dio anche questa. Ma Dio conosce anche il futuro. E molte volte per risparmiarvi una pena maggiore vi lascia non esaudita una preghiera. Nel mio anno di vita pubblica più di una volta ho sentito dei cuori gemere: “Quanto ho sofferto allora, quando Dio non mi ha ascoltato. Ma ora dico: “Fu bene così perché quella grazia mi avrebbe impedito di giungere a quest’ora di Dio”.
   Altri ho sentito dire e dirmi: “Perché, Signore, non mi esaudisci? A tutti lo fai, e a me no?”.
   E pur avendo dolore di veder soffrire, ho dovuto dire: “Non posso”, perché l’esaudirli avrebbe voluto dire mettere un intralcio al loro volo alla vita perfetta.
   Anche il Padre delle volte dice: “Non posso”. Non perché non possa compiere l’atto immediato. Ma perché non lo vuole compiere per conoscenza delle conseguenze future. Udite. Un bambino è malato alle viscere. La madre chiama il medico e il medico dice: “Per guarire occorre digiuno assoluto”. Il bambino piange, strilla, supplica, pare languire. La madre, pietosa sempre, unisce i suoi lamenti a quelli del figlio. Le pare durezza del medico quel divieto assoluto. Le pare che possa nuocere al figlio quel digiuno e quel pianto. Ma il medico resta inesorabile. Infine dice: “Donna, io so, tu non sai. Vuoi perdere tuo figlio o vuoi che io te lo salvi?”. La madre urla: “Voglio che egli viva!”. “E allora” dice il medico “io non posso concedere cibo. Sarebbe la morte”. Anche il Padre dice così, delle volte. Voi, madri pietose del vostro io, non lo volete sentire piangere per negata grazia. Ma Dio dice: “Non posso. Sarebbe il tuo male “Viene il giorno, o viene l’eternità, in cui si giunge a dire: “Grazie, mio Dio, di non avere ascoltato la mia stoltezza!”.

 8 Quanto ho detto per l’orazione dico per il digiuno. Quando digiunate non prendete un’aria melanconica come usano gli ipocriti, che ad arte si sfigurano la faccia acciò il mondo sappia e creda, anche se vero non è, che essi digiunano. Anche essi hanno già avuto, con la lode del mondo, la loro mercede e non ne avranno altra. Ma voi, quando digiunate, prendete un’aria lieta, lavatevi a più acque il volto perché appaia fresco e liscio, ungetevi la barba e profumatevi le chiome, abbiate il sorriso del ben pasciuto sulle labbra. Oh! che in verità non vi è cibo che pasca quanto l’amore! E chi fa digiuno con spirito d’amore, di amore si nutre! In verità vi dico che se anche il mondo vi dirà “vanitosi” e “pubblicani”, il Padre vostro vedrà il vostro segreto eroico e ve ne darà doppia ricompensa. E per il digiuno, e per il sacrificio di non essere lodati per esso.
   Ed ora andate a dare cibo al corpo dopo che l’anima fu nutrita. 

 9 Quei due poverelli restino con noi. Saranno gli ospiti benedetti che daranno sapore al nostro pane. La pace sia con voi».
   E i due poverelli restano. Sono una donna molto scarna e un vecchio molto vecchio. Ma non sono insieme. Il caso li ha riuniti, ed erano rimasti in un angolo avviliti, tendendo inutilmente la mano a quelli che passavano loro davanti.
   Gesù va direttamente verso di loro che non osano venire avanti e li prende per mano portandoli al centro del gruppo dei discepoli, sotto una specie di tenda che Pietro ha drizzato in un angolo e sotto la quale forse si ricoverano nella notte e si riuniscono di giorno nelle ore più calde. E una tettoia di frasche e di… mantelli. Ma serve allo scopo per quanto sia così bassa che Gesù e l’Iscariota, i due più alti, si debbano abbassare per entrarvi. 
   «Ecco il padre ed ecco una sorella. Portate quanto abbiamo. Mentre prendiamo il cibo udremo la loro storia». E personalmente Gesù serve i due vergognosi e ne ascolta la lamentosa narrazione. Solo il vecchio, dopo che la figlia è andata lontano col marito e si è dimenticata del padre. Sola la donna, dopo che la febbre le ha ucciso il marito, ed è malata per giunta. 
   «Il mondo ci sprezza perché poveri siamo» dice il vecchio.
   «Io vado elemosinando per raggranellare di che compiere la Pasqua. Ho ottant’anni. Ho sempre fatto Pasqua e può essere l’ultima questa. Ma non voglio andare in seno ad Abramo con nessun rimorso. Come perdono alla figlia così spero essere perdonato. E voglio fare la mia Pasqua».
   «Lunga è la via, padre».
   «Più lunga è quella del Cielo, se si manca al rito». 
   «Vai solo? Se ti senti male per via?».
   «Mi chiuderà le palpebre l’angelo di Dio».
   Gesù lo carezza sulla testa tremula e bianca e chiede alla donna: «E tu?».
   «Io vado cercando lavoro. Se fossi più pasciuta guarirei dalle febbri. E se fossi guarita potrei lavorare anche ai grani».
   «Credi. che solo il cibo ti guarirebbe?».
   «No. Ci sei anche Tu… Ma io sono una povera cosa, una troppo povera cosa per poter chiedere pietà». 
   «E se ti guarissi, che vorresti dopo?».
   «Nulla più. Avrei avuto già ben più di quanto possa sperare».
   Gesù sorride e le dà un pezzo di pane intinto in un poco di acqua e aceto che fa da bevanda. La donna lo mangia senza parlare e Gesù continua a sorridere.

 10 Il pasto cessa presto. Era così parco! Apostoli e discepoli vanno in cerca d’ombra per le pendici, fra i cespugli. Gesù resta sotto la tenda. Il vecchione si è messo contro la parete erbosa e dorme stanco.
   Dopo un poco la donna, che pure si era allontanata cercando ombra e riposo, viene verso Gesù che le sorride per rincuorarla. Lei viene avanti timida e pure lieta, fin quando quasi è presso la tenda, e poi la vince la gioia e fa gli ultimi passi velocemente, cadendo bocconi con un grido soffocato: «Tu mi hai guarita! Benedetto! È l’ora del grande brivido ed io non l’ho più… Oh!» e bacia i piedi di Gesù.
   «Sei sicura di essere guarita? Io non te l’ho detto. Potrebbe essere un caso… »
   «Oh! no! Ora ho compreso il tuo sorriso nel darmi quel pane. La tua virtù è entrata in me con quel boccone. Io non ho nulla da ricambiarti fuorché il mio cuore. Comanda alla tua serva, Signore, ed ella ti ubbidirà fino alla morte».
   «Sì. Vedi quel vecchio? E’ solo ed è un giusto. Tu avevi un marito e te lo levò la morte. Egli aveva una figlia e gliela levò l’egoismo. E’ peggio. Eppure non impreca. Ma non è giusto che vada solo nelle sue ultime ore. Siigli figlia».
   «Sì, mio Signore».
   «Ma guarda che vuol dire lavorare per due».
   «Sono forte, ora, e lo farò».

 11 «Vai allora là, su quel greppo, e di’ all’uomo che riposa là, a quello vestito di bigio, che venga da Me».
   La donna va sollecita e torna con Simone Zelote.
   «Vieni, Simone. Ti devo parlare. Attendi, donna».
   Gesù si allontana qualche metro.
   «Pensi che Lazzaro avrebbe difficoltà ad accogliere una lavoratrice di più?».
   «Lazzaro? Ma io credo che non sappia neppure quanti sono i suoi servi! Uno più, uno meno!… Ma chi è?».
   «Quella donna. L’ho guarita e…».
   «Basta Maestro, se Tu l’hai sanata è segno che l’ami. Ciò che Tu ami è sacro a Lazzaro, mi impegno per lui».
   «E’ vero. Ciò che Io amo è sacro a Lazzaro. Hai detto bene. E per questo Lazzaro diventerà santo, perché amando ciò che Io amo amerà la perfezione. Voglio unire quel vecchio a quella donna e far fare l’ultima sua Pasqua in letizia a quel patriarca. Voglio molto bene Io ai vecchi santi, e se posso dar loro tramonto sereno sono felice».
   «Vuoi bene anche ai bambini… »
   «Sì, e ai malati… »
   «E a quelli che piangono… »
   «E a quelli che sono soli… »
   «Oh! mio Maestro! Ma non ti accorgi di volere bene a tutti? Anche ai tuoi nemici?».
   «Non me ne accorgo, Simone. Amare è la mia natura. Ecco che il patriarca si sveglia. Andiamo a dirgli che farà la Pasqua con una figlia vicino e senza più bisogno del pane».    Tornano alla tenda dove la donna li attende e vanno tutti e tre dal vecchio che si è seduto e si riallaccia i sandali.
   «Che fai, padre?».
   «Scendo a valle. Spero trovare un ricovero per la notte, e domani mendicherò sulla via, e poi giù, giù, giù, fra un mese, se non muoio, sarò al Tempio».
   «No».
   «Non devo? Perché?».
   «Perché il buon Dio non vuole. Non andrai solo. Questa verrà con te. Ti condurrà dove Io dirò e sarete accolti per amor mio. Farai la tua Pasqua, ma senza fatica. La tua croce l’hai già portata, padre. Posala adesso. E raccogliti solo in orazione di grazie al buon Dio».
   «Ma perché… ma perché… io… io non merito tanto… Tu… una figlia… Più che se mi donassi vent’anni… E dove, dove mi mandi?…» Il vecchio piange fra il cespuglio del suo barbone.
   «Da Lazzaro di Teofilo. Non so se lo conosci».
   «Oh!… io sono dei confini della Siria e ricordo Teofilo. Ma… ma… oh! Figlio benedetto di Dio, lascia che io ti benedica!».
   E Gesù, seduto come è sull’erba, di fronte al vecchione, veramente si curva per lasciare che lo stesso gli imponga, solenne, le mani sul capo, tuonando, con la sua voce cavernosa di vegliardo, l’antica benedizione: «Il Signore ti benedica e custodisca. Il Signore ti mostri la sua faccia e abbia di te misericordia. Il Signore volga a te il suo volto e ti dia la sua pace».
   E Gesù, Simone e la donna rispondono insieme: «E così sia».

   Dalla memoria: Cap. XXXIX. Preparativi per la maggiore età di Gesù e partenza da Nazareth

   25 novembre 1944

  1[…]  Ho avuto da Lui una promessa. Gli dicevo: «Gesù, come mi piacerebbe vedere la cerimonia della tua maggiore età!». E Lui: «Te la darò per prima cosa appena potremo esser “noi” senza che si turbi il mistero. E la metterai dopo la scena della Madre mia, mia maestra e maestra di Giuda e Giacomo, che ti ho data recentemente (29-10). La metterai fra questa e la Disputa al Tempio».

  […].

   19 dicembre 1944

  2Vedo Maria curva su un mastello, meglio, su una conca di terra cotta, che mescola qualcosa che fuma nell’aria fredda e serena che empie l’orto di Nazaret.
   Deve essere pieno inverno, perché, meno gli ulivi, tutte le piante sono brulle e scheletrite. In alto, un cielo tersissimo e anche un bel sole. Ma non tempera la sizza che tira e che fa sbattere fra loro i rami spogli e ondulare le ramette grigie verdi degli ulivi.
  La Madonna è tutta vestita di una pesante veste di un marrone quasi nero e si è legata davanti una rustica tela, come un grembiale, per proteggere la veste. Estrae dalla tinozza il bastone con cui dimenava il contenuto e ne vedo cadere gocce di un bel color arrubinato. Maria osserva, si bagna un dito con le gocce che cadono, prova il colore sul grembiale. Pare soddisfatta.
  Entra in casa ed esce con molte matasse di lana candidissima. Le tuffa una per una nella tinozza, con pazienza e accortezza.

  3Mentre fa questo, entra, venendo dal laboratorio di Giuseppe, sua cognata Maria di Alfeo. Si salutano. Si parlano.
  «Viene bene?», chiede Maria d’Alfeo.
  «Ne ho speranza».
  «Mi ha assicurato quella gentile(Gv 18,28; At 10,28; 11,1-3; 21,27-28)che è proprio la tinta e il modo che usano a Roma. Me lo ha dato proprio perché sei tu e hai fatto quei lavori. Dice che neppure a Roma vi è chi ricama come te. Ti devi essere accecata a farli…».
  Maria sorride e fa un movimento col capo come per dire: «Cose da nulla!».
  La cognata guarda, prima di porgerle a Maria, le ultime matasse di lana.  «Come le hai filate! Paiono capelli tanto sono fini e regolari. Fai tutto bene tu… e come svelta! Queste ultime verranno più chiare?».
  «Sì, per la veste. Il mantello è più scuro».
  Le due donne lavorano insieme alla tinozza. Poi estraggono le matasse di un bel colore porporino e corrono svelte a tuffarle nell’acqua ghiaccia che empie la vaschetta, sotto alla sottile polla che cade con noterelle di risatine sommesse. Sciacquano e sciacquano, poi stendono su delle canne le matasse e le assicurano da ramo a ramo degli alberi.
  «Asciugheranno bene e presto con questo vento», dice la cognata.
  «Andiamo da Giuseppe. C’è fuoco. Devi essere gelata», dice Maria Ss. «Sei stata buona ad aiutarmi. Ho fatto presto e con meno fatica. Te ne sono grata».
  «Oh! Maria! Che non farei per te! Starti vicino è una festa. E poi… è per Gesù tutto questo lavoro. Ed è così caro, tuo Figlio!… Mi sembrerà di essergli anche io mamma se ti aiuterò per la sua festa di maggiorenne».
  Le due donne entrano nel laboratorio, pieno di quell’odore di legni piallati proprio delle officine di falegname.

  4E la visione ha un arresto… per riprendersi all’atto della partenza per Gerusalemme di Gesù dodicenne.
  Egli appare, bellissimo e tanto ben sviluppato da parere un fratello minore della sua giovane Madre. Già le giunge alle spalle con la sua testa bionda e inanellata, le cui chiome, non più corte come nei primi anni di vita, ma lunghe fino a sotto le orecchie, paiono un caschetto d’oro lavorato tutto a lucenti boccoli.
  È vestito di rosso. Un bel rosso di rubino chiaro. Una lunga veste che scende sino ai malleoli scoprendo solo i piedi calzati di sandali. La veste è sciolta, con maniche lunghe e ampie. Al collo, alla base delle maniche, alla balza, una greca tessuta colore su colore, molto bella…
  (nel copiare la visione attendere il resto che sarà sul nuovo quaderno).
 
  20 dicembre 1944.
  Vedo entrare Gesù insieme a sua Mamma nella stanza, dirò così, da pranzo di Nazaret.
  Gesù è un bel fanciullo dodicenne, alto, ben formato, robusto senza esser grasso. Sembra più adulto di quanto non sia, per la sua complessione. È già alto, tanto che raggiunge la spalla della Madre. Ha ancora il viso rotondo e roseo del Gesù fanciullo, viso che poi, con l’età giovanile e virile, si assottiglierà e si farà di un color senza colore, un colore di certi delicati alabastri, appena tendenti al giallo-rosa.
  Gli occhi, anche gli occhi, sono ancora occhi di bambino. Grandi, bene aperti a guardare, e con una scintilla di letizia persa nel serio dello sguardo.Dopo non saranno più così aperti… Le palpebre si caleranno a mezz’occhio per velare il troppo male, che è nel mondo, al Puro e Santo. Solo nei momenti di miracolo saranno aperti e sfavillanti, più ancora di ora… per cacciare i demoni e la morte, per guarire le malattie ed i peccati. E non saranno neppur più con quella scintilla di letizia mescolata alla serietà… La morte e il peccato saranno sempre più presenti e vicini, e con essi la conoscenza, anche umana, della inutilità del sacrificio, per la volontà contraria dell’uomo. Solo in rarissimi momenti di gioia, per essere con dei redenti e specie con dei puri, bambini per lo più, lo faranno brillare di letizia, questo occhio santo e buono.
  Ma ora è con la sua Mamma, in casa sua, e di fronte a Lui è S. Giuseppe che gli sorride con amore, e sono i cuginetti che lo ammirano e la zia Maria d’Alfeo che lo carezza… È felice. Ha bisogno di amore, il mio Gesù, per esser felice. E in questo momento lo ha.
  È vestito di una sciolta veste di lana rosso rubino chiaro. Morbida, di tessitura perfetta nella sua compatta sottigliezza. Al collo, sul davanti, in basso delle maniche lunghe e ampie, e della veste che scende sino a terra, scoprendo appena i piedi calzati di sandali nuovi e molto ben fatti — non le solite suole fissate con striscerelle di cuoio al piede — è una greca, non ricamata, ma tessuta in colore più scuro sul rubino della veste. Deve essere opera della Mamma, perché la cognata l’ammira e la loda.
  I bei capelli biondi sono già più carichi, nella loro tinta, di quando era fanciullino, con scintille di rame nelle volute dei boccoli che terminano sotto le orecchie. Non sono più i ricciolini corti e vaporosi dell’infanzia. Non sono ancora le chiome ondulate e lunghe sino agli omeri, dove terminano in morbido cannolo, dell’età adulta. Ma già tendono più a queste ultime nel colore e nella foggia.

  5«Ecco il Figlio nostro», dice Maria alzando la sua mano destra, nella quale è la mano sinistra di Gesù. Pare lo presenti a tutti e riconfermi la paternità del Giusto, che sorride. E aggiunge: «Benedicilo, Giuseppe, prima di partire per Gerusalemme. Non fu necessaria la rituale benedizione per la sua andata a scuola, primo passo nella vita. Ma, ora che Egli va al Tempio per esser dichiarato maggiorenne, fàllo. E benedici me con Lui. La tua benedizione… (Maria ha un sommesso singhiozzo) fortificherà Lui e darà forza a me di staccarmelo un poco di più…».
  «Maria, Gesù sarà sempre tuo. La formola non inciderà i nostri mutui rapporti. Né io te lo contenderò, questo Figlio a noi caro. Nessuno come te merita di guidarlo nella vita, o mia Santa».
  Maria si curva e prende la mano di Giuseppe e la bacia. È la sposa, oh! quanto rispettosa e amorosa del consorte!
  Giuseppe accoglie quel segno di rispetto e d’amore con dignità, ma poi alza quella baciata mano e la posa sul capo della Sposa e le dice: «Sì. Ti benedico, Benedetta, e Gesù con te. Venite, mie sole gioie, mio onore e scopo». Giuseppe è solenne. A braccia tese e palme volte a terra sopra le due teste chine, ugualmente bionde e sante, pronuncia la benedizione: «Il Signore vi guardi e vi benedica. Abbia di voi misericordia e vi dia pace. Il Signore vi dia la sua benedizione». E poi dice: «E ora andiamo. L’ora è propizia per il viaggio».

  6Maria prende un ampio drappo di un color granata scuro e lo drappeggia sul corpo del Figlio. Come se lo carezza nel farlo!
  Escono, chiudono. Si incamminano. Altri pellegrini vanno per la stessa direzione. Fuori del paese le donne si separano dagli uomini. I bimbi vanno con chi pare loro. Gesù resta con la Mamma.
  I pellegrini vanno, salmodiando per lo più, per le campagne tutte belle nel più lieto tempo di primavera. Freschi prati e fresche biade, e fresche fronde sugli alberi che hanno da poco fiorito. Canti di uomini per i campi e per le vie e canti d’uccelli in amore fra le fronde. Ruscelli limpidi che fan da specchio ai fiori delle rive, agnellini saltellanti presso le madri… Pace e letizia sotto il più bel cielo d’aprile.
  La visione cessa così.

   Cap. XL. L’esame di Gesù maggiorenne al Tempio

   21 dicembre 1944

  1Il Tempio in giorni di festa. Folla che entra ed esce dalle porte di cinta, che traversa cortili, atri e portici, che scompare in questa o quella costruzione sita nei diversi ripiani su cui è disseminato l’agglomerato del Tempio.
   Entra anche, cantando sommessamente dei salmi, la comitiva della famiglia di Gesù. Tutti gli uomini prima, poi le donne. A loro si sono uniti anche altri, forse di Nazaret, forse amici di Gerusalemme. Non so.
   Giuseppe si separa, dopo aver con tutti adorato l’Altissimo dal punto in cui, si capisce, gli uomini potevano farlo (le donne si sono fermate un ripiano più basso) e col Figlio riattraversa, retrocedendo, dei cortili, poi piega da una parte ed entra in una vasta stanza che ha l’aspetto di una sinagoga. Non so come mai. C’erano anche nel Tempio le sinagoghe? Parla con un levita e questo scompare dietro una tenda a righe per tornare poi con dei sacerdoti anziani, credo siano sacerdoti, certo sono maestri nella conoscenza della Legge e destinati perciò ad esaminare i fedeli.

  2Giuseppe presenta Gesù. Prima si sono ambedue profondamente inchinati ai dieci dottori, che si sono seduti dignitosamente su dei bassi sgabelli di legno. «Ecco», dice. «Questo è mio figlio. Da tre lune e dodici giorni è entrato nel tempo che la Legge destina per esser maggiorenni. Ma io voglio che lo sia secondo i precetti d’Israele. Vi prego osservare che per la sua complessione Egli mostra di essere uscito dalla puerizia e dall’età minore. E vi prego esaminarlo benignamente e giustamente per giudicare che quanto qui io, suo padre, asserisco è verità. Io l’ho preparato per quest’ora e per questa sua dignità di figlio della Legge. Egli sa i precetti, le tradizioni, le decisioni, le consuetudini delle fimbrie e delle filatterie, sa recitare le preghiere e le benedizioni quotidiane. Può quindi, conoscendo la Legge in se stessa e nei suoi tre rami dell’Halascia, Midrasc e Aggada, condursi da uomo. Perciò io desidero esser liberato dalla responsabilità delle sue azioni e dei suoi peccati. D’ora in poi Egli sia soggetto ai precetti e sconti di suo le pene per i mancamenti verso di essi. Esaminatelo».
   «Lo faremo. 

   3«Vieni avanti, fanciullo. Il tuo nome?».
  «Gesù di Giuseppe, di Nazareth».
  «Nazareno… Sai dunque leggere?».
  «Sì, rabbi. So leggere le parole scritte e quelle che sono chiuse nelle parole stesse».
  «Come vorresti dire?».
  «Voglio dire che comprendo anche il significato dell’allegoria o del simbolo che si cela sotto l’apparenza, così come la perla non appare ma è nella conchiglia brutta e serrata».
  «Risposta non comune e molto saggia. Raramente si ode ciò su labbra adulte; in un bambino, poi, e nazareno per giunta!…».
  L’attenzione dei dieci si è fatta sveglia. I loro occhi non perdono un istante di vista il bel fanciullo biondo che li guarda sicuro, senza spavalderia, ma senza paura.
  «Tu fai onore al tuo maestro, che, per certo, era assai dotto».
  «La Sapienza di Dio era raccolta nel suo cuore giusto».
  «Ma udite! Te felice, padre di tal figlio!».
  Giuseppe, che è in fondo alla sala, sorride e si inchina.

  4Dànno a Gesù tre rotoli diversi, dicendo: «Leggi quello serrato da nastro d’oro».
  Gesù apre il rotolo e legge. È il Decalogo. Ma, dopo le prime parole, un giudice gli leva il rotolo dicendo: «Prosegui a memoria». Gesù lo dice così sicuro che pare che legga. Ogni volta che nomina il Signore si inchina profondamente.
  «Chi ti ha insegnato ciò? Perché lo fai?».
  «Perché santo è quel Nome e va pronunciato con segno interno ed esterno di rispetto. Al re, che è re per breve tempo, si inchinano i sudditi, e polvere egli è. Al Re dei re, all’altissimo Signore d’Israele, presente anche se non visibile che allo spirito, non si dovrà inchinare ogni creatura, che da Lui dipende con sudditanza eterna?».
  «Bravo! Uomo, noi ti consigliamo di fare istruire il figlio tuo da Hillel o Gamaliele. È nazareno… ma le sue risposte fanno sperare da Esso un nuovo grande dottore».
  «Il figlio è maggiorenne. Farà secondo il suo volere. Io, se sarà volere onesto, non lo contrasterò».

  5«Fanciullo, ascolta. Hai detto: “Ricordati di santificare le feste. Ma non solo per te, ma per tuo figlio e figlia e servo e serva, ma persino per il giumento è detto di non fare, il sabato, lavoro”. Or dimmi, se una gallina depone un uovo in sabato od una pecora figlia, sarà lecito usare quel frutto del suo ventre, oppure sarà considerato obbrobrio?».
  «So che molti rabbi, ultimo il vivente Sciammai, dicono che l’uovo deposto in sabato è contrario al precetto. Ma Io penso che altro è l’uomo e altro è l’animale o chi compie atto animale come è il partorire. Se io obbligo il giumento a lavorare, io compio anche il suo peccato, perché io mi impongo con la sferza a farlo lavorare. Ma se una gallina depone l’uovo maturatosi nella sua ovaia, o una pecora genera il figlio in sabato perché ormai maturo al nascere, no, che tale opera non è peccato, né peccato è, agli occhi di Dio, l’uovo e l’agnello in sabato deposti».
  «Perché mai, se tutto ed ogni lavoro in sabato è peccato?».
  «Perché il concepire e generare corrisponde al volere del Creatore ed è regolato da leggi da Lui date ad ogni creato. Or la gallina non fa che ubbidire a quella legge che dice che, dopo tante ore di formazione, l’uovo è completo e va deposto, e la pecora pure non fa che ubbidire a quelle leggi messe da Colui che tutto fece, il quale stabilì che due volte l’anno, quando ride primavera sui prati in fiore, e quando si spoglia il bosco delle sue fronde e gelo stringe il petto dell’uomo, le pecore andassero ai loro connubi per dar poi, all’opposto tempo, latte, carne e formaggi sostanziosi, nei mesi di più aspra fatica per le messi, o di più sofferente squallore per i geli. Se dunque una pecora, giunto il suo tempo, depone il suo nato, oh! questo ben può esser sacro anche all’altare, perché è frutto di ubbidienza al Creatore».

  6«Io non lo esaminerei oltre. La sua sapienza supera le adulte e stupisce».
  «No. Si è detto capace di comprendere anche i simboli. Udiamolo».
  «Prima dica un salmo, le benedizioni e le preghiere».
  «Anche i precetti».
  «Sì. Di’ i midrasciot».
  Gesù dice sicuro una litania di «non fare questo… non fare quello…». Se noi dovessimo avere ancora tutte queste limitazioni, ribelli come siamo, le assicuro che non si salverebbe più nessuno…
  «Basta. Apri il rotolo dal nastro verde».
  Gesù apre e fa per leggere.
  «Più avanti, più ancora».
  Gesù ubbidisce.
  «Basta. Leggi e spiega, se ti pare che ci sia simbolo».
  «Nella Parola santa raramente manca. Siamo noi che non lo sappiamo vedere e applicare. Leggo: 4° libro dei Re, capo 22°, versetto 10: “Safan, scriba, continuando a riferire al re, disse: ‘Il sommo sacerdote Elcia m’ha dato un libro’. Avendolo Safan letto alla presenza del re, il re, udite le parole della Legge del Signore, si stracciò le vesti e poi diede…”».
  «Vai oltre i nomi».
  «“…quest’ordine: ‘Andate a consultare il Signore per me, per il popolo, per tutto Giuda, riguardo alle parole di questo libro che si è trovato, perché la grande ira di Dio s’è accesa contro di noi perché i padri nostri non ascoltarono le parole di questo libro, in modo da seguirne le prescrizioni’…”».
  «Basta. Il fatto avviene molti secoli lontano da noi. Quale simbolo trovi in un fatto di cronaca antica?».
  «Trovo che non vi è tempo per ciò che è eterno. E eterno è Dio e l’anima nostra, eterni i rapporti fra Dio e l’anima. Perciò, ciò che aveva provocato il castigo allora è la stessa cosa che provoca i castighi ora, e uguali sono gli effetti della colpa».
  «Cioè?».
  «Israele più non sa la Sapienza, la quale viene da Dio. È a Lui, e non ai poveri uomini, che occorre chiedere luce, e luce non si ha se non si ha giustizia e fedeltà a Dio. Perciò si pecca, e Dio, nella sua ira, punisce».
  «Noi non sappiamo più? Ma che dici, fanciullo? E i 613 precetti?».
  «I precetti sono, ma son parole. Li sappiamo ma non li mettiamo in pratica. Perciò non sappiamo. Il simbolo è questo: ogni uomo, in ogni tempo, ha bisogno di consultare il Signore per conoscerne il volere e ad esso attenersi per non attirarne l’ira».

  7«Il fanciullo è perfetto. Neppure il tranello della domanda insidiosa ha turbato la sua risposta. Sia condotto nella vera sinagoga».
  Passano in una stanza più vasta e pomposa. Qui, per prima cosa, gli raccorciano i capelli. I riccioloni vengono raccolti da Giuseppe. Poi gli stringono la veste rossa con una lunga cintura girata a più giri intorno alla vita, gli legano delle striscioline alla fronte, al braccio e al mantello. Le fissano con delle specie di borchie. Poi cantano salmi e Giuseppe loda con una lunga preghiera il Signore e invoca sul Figlio ogni bene.
  La cerimonia ha termine. Gesù esce con Giuseppe. Tornano da dove erano venuti, si riuniscono ai parenti maschi, comperano e offrono un agnello; poi, con la vittima sgozzata, raggiungono le donne.
  Maria bacia il suo Gesù. Pare sia degli anni che non lo vede. Lo guarda, fatto più uomo nella veste e nei capelli, lo carezza…
  Escono e tutto finisce.

   Cap. XLI. La disputa di Gesù nel Tempio coi dottori. L’angoscia della Madre e la risposta del Figlio.

  1Vedo Gesù. È adolescente. Vestito di una tunica che mi sembra di lino candido, lunga sino ai piedi. Su questa si posa e si drappeggia un drappo rettangolare d’un rosso pallido. È a testa nuda, coi capelli lunghi sino a metà orecchie, più carichi di tinta di quando lo vidi bambino. È un fanciullo robusto e molto alto per la sua età che, come dimostra il viso, è molto fanciulla.
   Mi guarda e sorride tendendomi le mani. Un sorriso però che somiglia già a quello che gli vedo da uomo: dolce e piuttosto serio. È solo. Non vedo altro per ora. Sta appoggiato ad un muretto su una stradellina tutta a sali e scendi, sassosa e con una fossa verso il centro che certo in tempo di pioggia si muta in rigagnolo. Ma ora è asciutta perché è giornata serena.
   Mi pare di accostarmi io pure al muretto e di guardare intorno e in basso come fa Gesù. Vedo un agglomerato di case. Un agglomerato disordinato. Le case sono quali alte, quali basse, e vanno in tutti i sensi. Sembra, con un paragone molto povero ma molto somigliante, una manciata di ciottoli bianchi gettata su un terreno scuro. Le vie e viette sono come vene in quel biancore. Qua e là delle piante sporgono dai muri. Molte sono in fiore e molte sono già coperte di foglie novelle. Deve essere primavera.
   A sinistra, rispetto a me che guardo, vi è un grande agglomerato, fatto a tre ordini di terrazze coperte di fabbricati, e torri e cortili e porticati, al centro del quale si alza un più alto, maestoso, ricchissimo fabbricato a cupole tonde, splendenti al sole come fossero coperte di metallo: rame od oro. Il tutto è recinto da una muraglia merlata: come fosse una fortezza. Una torre più alta delle altre, posta a cavalcioni di una via piuttosto stretta e che è in salita, domina nettamente quel vasto agglomerato. Sembra una sentinella severa.
  Gesù guarda fissamente quel luogo. Poi torna a voltarsi, riappoggiando la schiena al muretto, come era prima, e guarda un monticiattolo che sta di fronte all’agglomerato. Un monticiattolo assalito dalle case sino alla base, poi lasciato nudo. Vedo che una via termina là con un arco, oltre il quale non c’è che una via lastricata a pietre quadrangolari, irregolari e sconnesse. Non sono troppo grandi, non come le pietre delle strade consolari romane; sembrano piuttosto le classiche pietre dei vecchi marciapiedi viareggini (non so se ne esistano ancora) ma messe senza connessione. Una stradaccia. Il volto di Gesù si fa tanto serio che io mi fisso a cercare su quel monticiattolo la causa di questa malinconia. Ma non trovo nulla di speciale. È un’altitudine nuda. E basta. In cambio perdo Gesù, perché quando mi volgo non è più lì. E mi assopisco con questa visione.

 Mi guarda e sorride tendendomi le mani. Un sorriso però che somiglia già a quello che gli vedo da uomo: dolce e piuttosto serio. È solo. Non vedo altro per ora. Sta appoggiato ad un muretto su una stradellina tutta a sali e scendi, sassosa e con una fossa verso il centro che certo in tempo di pioggia si muta in rigagnolo. Ma ora è asciutta perché è giornata serena.
 Mi pare di accostarmi io pure al muretto e di guardare intorno e in basso come fa Gesù. Vedo un agglomerato di case. Un agglomerato disordinato. Le case sono quali alte, quali basse, e vanno in tutti i sensi. Sembra, con un paragone molto povero ma molto somigliante, una manciata di ciottoli bianchi gettata su un terreno scuro. Le vie e viette sono come vene in quel biancore. Qua e là delle piante sporgono dai muri. Molte sono in fiore e molte sono già coperte di foglie novelle. Deve essere primavera.
 A sinistra, rispetto a me che guardo, vi è un grande agglomerato, fatto a tre ordini di terrazze coperte di fabbricati, e torri e cortili e porticati, al centro del quale si alza un più alto, maestoso, ricchissimo fabbricato a cupole tonde, splendenti al sole come fossero coperte di metallo: rame od oro. Il tutto è recinto da una muraglia merlata: come fosse una fortezza. Una torre più alta delle altre, posta a cavalcioni di una via piuttosto stretta e che è in salita, domina nettamente quel vasto agglomerato. Sembra una sentinella severa.
 Gesù guarda fissamente quel luogo. Poi torna a voltarsi, riappoggiando la schiena al muretto, come era prima, e guarda un monticiattolo che sta di fronte all’agglomerato. Un monticiattolo assalito dalle case sino alla base, poi lasciato nudo. Vedo che una via termina là con un arco, oltre il quale non c’è che una via lastricata a pietre quadrangolari, irregolari e sconnesse. Non sono troppo grandi, non come le pietre delle strade consolari romane; sembrano piuttosto le classiche pietre dei vecchi marciapiedi viareggini (non so se ne esistano ancora) ma messe senza connessione. Una stradaccia. Il volto di Gesù si fa tanto serio che io mi fisso a cercare su quel monticiattolo la causa di questa malinconia. Ma non trovo nulla di speciale. È un’altitudine nuda. E basta. In cambio perdo Gesù, perché quando mi volgo non è più lì. E mi assopisco con questa visione.

  2…Mi guarda e sorride tendendomi le mani. Un sorriso però che somiglia già a quello che gli vedo da uomo: dolce e piuttosto serio. È solo. Non vedo altro per ora. Sta appoggiato ad un muretto su una stradellina tutta a sali e scendi, sassosa e con una fossa verso il centro che certo in tempo di pioggia si muta in rigagnolo. Ma ora è asciutta perché è giornata serena.
 Mi pare di accostarmi io pure al muretto e di guardare intorno e in basso come fa Gesù. Vedo un agglomerato di case. Un agglomerato disordinato. Le case sono quali alte, quali basse, e vanno in tutti i sensi. Sembra, con un paragone molto povero ma molto somigliante, una manciata di ciottoli bianchi gettata su un terreno scuro. Le vie e viette sono come vene in quel biancore. Qua e là delle piante sporgono dai muri. Molte sono in fiore e molte sono già coperte di foglie novelle. Deve essere primavera.
 A sinistra, rispetto a me che guardo, vi è un grande agglomerato, fatto a tre ordini di terrazze coperte di fabbricati, e torri e cortili e porticati, al centro del quale si alza un più alto, maestoso, ricchissimo fabbricato a cupole tonde, splendenti al sole come fossero coperte di metallo: rame od oro. Il tutto è recinto da una muraglia merlata: come fosse una fortezza. Una torre più alta delle altre, posta a cavalcioni di una via piuttosto stretta e che è in salita, domina nettamente quel vasto agglomerato. Sembra una sentinella severa.
 Gesù guarda fissamente quel luogo. Poi torna a voltarsi, riappoggiando la schiena al muretto, come era prima, e guarda un monticiattolo che sta di fronte all’agglomerato. Un monticiattolo assalito dalle case sino alla base, poi lasciato nudo. Vedo che una via termina là con un arco, oltre il quale non c’è che una via lastricata a pietre quadrangolari, irregolari e sconnesse. Non sono troppo grandi, non come le pietre delle strade consolari romane; sembrano piuttosto le classiche pietre dei vecchi marciapiedi viareggini (non so se ne esistano ancora) ma messe senza connessione. Una stradaccia. Il volto di Gesù si fa tanto serio che io mi fisso a cercare su quel monticiattolo la causa di questa malinconia. Ma non trovo nulla di speciale. È un’altitudine nuda. E basta. In cambio perdo Gesù, perché quando mi volgo non è più lì. E mi assopisco con questa visione.

  3Mi accosto al gruppo dei dottori, dove si è iniziata una disputa[87] teologica. Molta folla fa la stessa cosa.
  Fra i “dottori” vi è un gruppo capitanato da uno chiamato Gamaliele e da un altro, vecchio e quasi cieco, che sostiene Gamaliele nella disputa. Costui, che sento chiamare Hillel (metto l’h perché sento una aspirazione in principio al nome) mi pare maestro o parente di Gamaliele, perché questo lo tratta con confidenza e rispetto insieme. Il gruppo di Gamaliele ha vedute più larghe, mentre un altro gruppo, ed è il più numeroso, è diretto da uno che chiamano Sciammai, ed è dotato di quell’intransigenza astiosa e retriva che il Vangelo tanto bene ci illustra.
  Gamaliele, circondato da un folto gruppo di discepoli, parla della venuta del Messia e, appoggiandosi alla profezia di Daniele, sostiene che il Messia deve ormai essere nato, perché da una decina d’anni circa le settanta settimane profetate sono compiute da quando era uscito il decreto di ricostruzione del Tempio. Sciammai lo combatte asserendo che, se è vero che il Tempio è stato riedificato, è anche vero che la schiavitù di Israele è aumentata, e la pace, che avrebbe dovuto portare seco Colui che i Profeti chiamavano «Principe della Pace», è ben lontana d’essere nel mondo e specie a Gerusalemme, oppressa da un nemico che osa spingere la sua dominazione fin entro il recinto del Tempio, dominato dalla torre Antonia piena di legionari romani, pronti a sedare con la spada ogni tumulto di indipendenza patria.
  La disputa, piena di cavilli, va per le lunghe. Ogni maestro fa sfoggio di erudizione, non tanto per vincere il rivale, quanto per imporsi all’ammirazione degli ascoltatori. È palese questo intento.

  4Dal folto del gruppo dei fedeli esce una fresca voce di fanciullo: «Gamaliele ha ragione».
  Movimento della folla e del gruppo dottorale. Si cerca l’interruttore. Ma non occorre cercarlo. Non si nasconde. Si fa largo da sé e si accosta al gruppo dei “rabbi”. Riconosco il mio Gesù adolescente. È sicuro e franco, con due sfavillanti occhi pieni di intelligenza.
  «Chi sei?», gli chiedono.
  «Un figlio di Israele venuto a compiere ciò che la Legge ordina».
  La risposta ardita e sicura piace e ottiene sorrisi di approvazione e benevolenza. Ci si interessa del piccolo israelita.
  «Come ti chiami?».
  «Gesù di Nazareth».
  La benevolenza si smorza nel gruppo di Sciammai. Ma Gamaliele, più benigno, prosegue il dialogo insieme ad Hillel. Anzi è proprio Gamaliele che con deferenza dice al vecchio: «Chiedi al fanciullo qualcosa».
  «Su cosa fondi la tua sicurezza?», chiede Hillel.
  (Metto i nomi in testa alle risposte per abbreviare e rendere chiaro).
  Gesù: «Sulla profezia che non può errare nell’epoca e sui segni che l’hanno accompagnata quando fu il tempo del suo avverarsi. È vero che Cesare ci domina. Ma il mondo era tanto in pace e la Palestina tanto in calma quando si compirono le settanta settimane, che fu possibile a Cesare ordinare il censimento nei suoi domini. Non lo avrebbe potuto se la guerra fosse stata nell’Impero e le sommosse in Palestina. Come era compìto quel tempo, così si sta compiendo l’altro delle sessantadue più una dal compimento del Tempio, perché il Messia sia unto e si avveri il seguito della profezia per il popolo che non lo volle. Potete avere dubbi? Non ricordate che la stella fu vista dai Savi d’Oriente e che andò a posarsi proprio sul cielo di Betlemme di Giuda e che le profezie e le visioni, da Giacobbe in poi, indicano quel luogo come il destinato ad accogliere la nascita del Messia, figlio del figlio del figlio di Giacobbe, attraverso Davide che era di Betlemme? Non ricordate Balaam? “Una stella nascerà da Giacobbe”. I Savi d’Oriente, che la purezza e la fede rendevano occhi e orecchi aperti, hanno visto la stella e compreso il suo nome: “Messia”, e sono venuti ad adorare la Luce scesa nel mondo».

  5Sciammai, con sguardo livido: «Tu dici che il Messia nacque nel tempo della stella a Betlemme-Efrata?».
  Gesù: «Io lo dico».
  Sciammai: «Allora non vi è più. Non sai, fanciullo, che Erode fece uccidere tutti i nati di donna, da un giorno a due anni d’età, di Betlemme e dintorni? Tu, tanto sapiente nella Scrittura, devi sapere anche questo: “Un grido s’è sentito nell’alto… È Rachele che piange i suoi figli”. Le valli e le cime di Betlemme, che hanno raccolto il pianto di Rachele morente, sono rimaste piene di pianto, e le madri l’hanno ripetuto sui figli uccisi. Fra esse era certo anche la Madre del Messia».
  Gesù: «Ti sbagli, o vecchio. Il pianto di Rachele s’è volto in osanna, perché là dove essa ha dato alla luce il “figlio del suo dolore”, la nuova Rachele ha dato al mondo il Beniamino del Padre celeste, il Figlio della sua destra, Colui che è destinato a riunire il popolo di Dio sotto il suo scettro e a liberarlo dalla più tremenda schiavitù».
  Sciammai: «E come, se Egli fu ucciso?».
  Gesù: «Non hai letto di Elia? Egli fu rapito dal cocchio di fuoco. E non potrà il Signore Iddio aver salvato il suo Emmanuele perché fosse Messia del suo popolo? Egli, che ha aperto il mare davanti a Mosè perché Israele passasse a piede asciutto verso la sua terra, non avrà potuto mandare i suoi angeli a salvare il Figlio suo, il suo Cristo, dalla ferocia dell’uomo? In verità vi dico: il Cristo vive ed è fra voi, e quando sarà la sua ora si manifesterà nella sua potenza». Gesù, nel dire queste parole, che sottolineo, ha nella voce uno squillo che empie lo spazio. I suoi occhi sfavillano più ancora e, con mossa d’imperio e promessa, Egli tende il braccio e la mano destra e li abbassa come per giurare. È un fanciullo, ma è solenne come un uomo.

  6Hillel: «Fanciullo, chi ti ha insegnato queste parole?».
  Gesù: «Lo Spirito di Dio. Non ho maestro umano. Questa è la Parola del Signore che vi parla attraverso le mie labbra».
  Hillel: «Vieni fra noi, che io ti veda da presso, o fanciullo, e la mia speranza si ravvivi a contatto della tua fede e la mia anima si illumini al sole della tua».
  E Gesù viene fatto sedere su un alto sgabello fra Gamaliele e Hillel, e gli vengono porti dei rotoli perché li legga e spieghi. È un esame in piena regola. La folla si accalca e ascolta.
  La voce fanciulla di Gesù legge: «“Consolati, o mio popolo. Parlate al cuore di Gerusalemme, consolatela perché la sua schiavitù è finita… Voce di uno che grida nel deserto: preparate le vie del Signore… Allora apparirà la gloria del Signore…”».
  Sciammai: «Lo vedi, o nazareno! Qui si parla di schiavitù finita. Mai come ora siamo schiavi. Qui si parla di un precursore. Dove è egli? Tu farnetichi».
  Gesù: «Io ti dico che a te più che agli altri va fatto l’invito del Precursore. A te e ai tuoi simili. Altrimenti non vedrai la gloria del Signore né comprenderai la parola di Dio, perché le bassezze, le superbie, le doppiezze ti faranno ostacolo a vedere ed udire».
  Sciammai: «Così parli ad un maestro?».
  Gesù: «Così parlo. E così parlerò sino alla morte. Poiché sopra il mio utile sta l’interesse del Signore e l’amore alla Verità di cui sono Figlio. E ti aggiungo, o rabbi, che la schiavitù di cui parla il Profeta, e di cui Io parlo, non è quella che credi, come la regalità non sarà quella che pensi. Ma sibbene per merito del Messia verrà reso libero l’uomo dalla schiavitù del Male che lo separa da Dio, e il segno del Cristo sarà sugli spiriti, liberati da ogni giogo e fatti sudditi dell’eterno Regno. Tutte le nazioni curveranno il capo, o stirpe di Davide, davanti al Germoglio nato da te e divenuto albero che copre tutta la Terra e si alza al Cielo. E in Cielo e in Terra ogni bocca loderà il suo Nome e piegherà il ginocchio davanti all’Unto di Dio, al Principe della Pace, al Condottiero, a Colui che con Se stesso avrà inebriato ogni anima stanca e saziato ogni anima affamata, al Santo che stipulerà una alleanza fra Terra e Cielo. Non come quella stipulata coi Padri d’Israele quando Dio li trasse d’Egitto trattandoli ancora da servi, ma imprimendo la paternità celeste nello spirito degli uomini con la Grazia nuovamente infusa per i meriti del Redentore, per il quale tutti i buoni conosceranno il Signore e il Santuario di Dio non sarà più abbattuto e distrutto».
  Sciammai: «Ma non bestemmiare, fanciullo! Ricorda Daniele. Egli dice che, dopo l’uccisione del Cristo, il Tempio e la Città saranno distrutti da un popolo e da un condottiero che verrà. E Tu sostieni che il Santuario di Dio non sarà più abbattuto! Rispetta i Profeti!».
  Gesù: «In verità ti dico che vi è Qualcuno che è da più dei Profeti, e tu non lo conosci e non lo conoscerai, perché te ne manca la voglia. E ti dico che quanto ho detto è vero. Non conoscerà più morte il Santuario vero. Ma, come il suo Santificatore, risorgerà a vita eterna e alla fine dei giorni del mondo vivrà in Cielo».

  7Hillel: «Ascolta me, fanciullo. Aggeo dice: ” … Verrà il Desiderato delle genti… Grande sarà allora la gloria di questa casa, e di quest’ultima più della prima “. Vuol forse parlare del Santuario di cui Tu parli?».
   Gesù: «Si, maestro. Questo vuol dire. La tua rettezza ti porta verso la Luce ed Io te lo dico: quando il Sacrificio del Cristo sarà compiuto, a te verrà pace, poiché sei un israelita senza malizia».
   Gamaliele: «Dimmi, Gesù. La pace di cui parlano i Profeti come può sperarsi se a questo popolo verrà distruzione di guerra? Parla e da’ luce anche a me».
   Gesù: «Non ricordi, maestro, cosa dissero coloro che furono presenti la notte della nascita del Cristo? Che le schiere angeliche cantarono: “Pace agli uomini di buona volontà”. Ma questo popolo non ha buona volontà e non avrà pace. Esso misconoscerà il suo Re, il Giusto, il Salvatore, perché lo spera re di umana potenza, mentre Egli è Re dello spirito. Esso non lo amerà, dato che il Cristo predicherà ciò che a questo popolo non piace. Il Cristo non debellerà i nemici coi loro cocchi e i loro cavalli, ma i nemici dell’anima, che piegano a possesso infernale il cuore dell’uomo creato per il Signore. E questa non è la vittoria che Israele si attende da Lui. Egli verrà, Gerusalemme, il tuo Re, cavalcando ” l’asina e l’asinello “, ossia i giusti di Israele e i gentili. Ma l’asinello, Io ve lo dico, sarà a Lui più fedele e lo seguirà precedendo l’asina e crescerà nella via della Verità e della Vita. Israele per la sua mala volontà perderà la pace e soffrirà in sé, per dei secoli, ciò che farà soffrire al suo Re, che sarà da esso ridotto il Re di dolore di cui parla Isaia».

  8Sciammai: «La tua bocca sa insieme di latte e di bestemmia, nazareno. Rispondi: e dove è il Precursore? Quando lo avemmo?».
  Gesù: «Egli è. Non dice Malachia: “Ecco, io mando il mio angelo a preparare davanti a Me la strada; e subito verrà al suo Tempio il Dominatore da voi cercato e l’Angelo del Testamento, da voi bramato”? Dunque il Precursore precede immediatamente il Cristo. Egli già è, come è il Cristo. Se anni passassero fra colui che prepara le vie al Signore e il Cristo, tutte le vie tornerebbero ingombre e contorte. Dio lo sa e predispone che il Precursore anticipi di un’ora sola il Maestro. Quando vedrete questo Precursore, potrete dire: “La missione del Cristo ha inizio”. A te dico: il Cristo aprirà molti occhi e molti orecchi quando verrà a queste vie. Ma non le tue e quelle dei tuoi pari, che gli darete morte per la Vita che vi porta. Ma quando più alto di questo Tempio, più alto del Tabernacolo chiuso nel Santo dei santi, più alto della Gloria sostenuta dai Cherubini, il Redentore sarà sul suo trono e sul suo altare, maledizione ai deicidi e vita ai gentili fluiranno dalle sue mille e mille ferite, perché Egli, o maestro che non sai, non è, lo ripeto, Re di un regno umano, ma di un Regno spirituale, e suoi sudditi saranno unicamente coloro che per suo amore sapranno rigenerarsi nello spirito e, come Giona, dopo esser già nati, rinascere, su altri lidi: “quelli di Dio”, attraverso la spirituale generazione che avverrà per Cristo, il quale darà all’umanità la Vita vera».

  9Sciammai e i suoi accoliti: «Questo nazareno è Satana!».
  Hillel e i suoi: «No. Questo fanciullo è Profeta di Dio. Resta con me, Bambino. La mia vecchiezza trasfonderà quanto sa al tuo sapere, e Tu sarai Maestro del popolo di Dio».
  Gesù: «In verità ti dico che, se molti fossero come tu sei, salute verrebbe ad Israele. Ma la mia ora non è venuta. A Me parlano le voci del Cielo e nella solitudine le devo raccogliere finché non sarà la mia ora. Allora con le labbra e col sangue parlerò a Gerusalemme, e sarà mia la sorte dei Profeti lapidati e uccisi da essa. Ma sopra il mio essere è quello del Signore Iddio, al quale Io sottometto Me stesso come servo fedele per fare di Me sgabello alla sua gloria, in attesa che Egli faccia del mondo sgabello ai piedi del Cristo. Attendetemi nella mia ora. Queste pietre riudranno la mia voce e fremeranno alla mia ultima parola. Beati quelli che in quella voce avranno udito Iddio e crederanno in Lui attraverso ad essa. A questi il Cristo darà quel Regno che il vostro egoismo sogna umano, mentre è celeste, e per il quale Io dico: “Ecco il tuo servo, Signore, venuto a fare la tua volontà. Consumala, perché di compierla Io ardo”».
  E qui, con la visione di Gesù col volto infiammato di ardore spirituale alzato al cielo, le braccia aperte, ritto in piedi fra i dottori attoniti, mi finisce la visione.
 (e sono le 3,30 del 29).

   29 gennaio 1944

 10Avrei qui da dirle due cose che la interessano certo e che avevo deciso di scrivere non appena tornata dal sopore. Ma siccome c’è dell’altro più pressante, scriverò poi.
  […].
  Quello che le volevo dire all’inizio è questa cosa.
  Lei oggi mi diceva come avevo potuto sapere i nomi di Hillel e Gamaliele e quello di Sciammai.
  È la voce che io chiamo «seconda voce» quella che mi dice queste cose. Una voce ancor meno sensibile di quella del mio Gesù e degli altri che dettano. Queste sono voci, gliel’ho detto e glielo ripeto, che il mio udito spirituale percepisce uguali a voci umane. Le sento dolci o irate, forti o leggere, ridenti o meste. Come uno parlasse proprio vicino a me. Mentre questa «seconda voce» è come una luce, una intuizione che parla nel mio spirito. «Nel», non «al» mio spirito. È una indicazione.
  Così, mentre io mi avvicinavo al gruppo dei disputanti e non sapevo chi era quell’illustre personaggio che a fianco di un vecchio disputava con tanto calore, questo «che» interno mi disse: «Gamaliele – Hillel». Sì. Prima Gamaliel e poi Hillel. Non ho dubbi. Mentre pensavo chi erano costoro, questo indicatore interno mi indicò il terzo antipatico individuo proprio mentre Gamaliel lo chiamava a nome. E così ho potuto sapere chi era costui dal farisaico aspetto.[…].

   22 febbraio 1944

 11Dice Gesù:
   […].
  «Torniamo indietro molto, molto. Torniamo al Tempio, dove Io dodicenne sto disputando. Anzi torniamo nelle vie che conducono a Gerusalemme e da Gerusalemme al Tempio.
  Vedi l’angoscia di Maria quando, riunitesi le schiere degli uomini e delle donne, Ella vede che Io non sono con Giuseppe.
  Non alza la voce in rimproveri aspri verso lo sposo. Tutte le donne l’avrebbero fatto. Lo fate per molto meno, dimenticando che l’uomo è sempre il capo di casa. Ma il dolore che traspare dal volto di Maria trafigge Giuseppe più d’ogni rimprovero. Non si abbandona Maria a scene drammatiche. Per molto meno lo fate, amando d’esser notate e compatite. Ma il suo dolore contenuto è così palese, dal tremito che la prende, dal volto che impallidisce, dagli occhi che si dilatano, che commuove più d’ogni scena di pianto e clamore.
  Non sente più fatica, non fame. E il cammino era stato lungo e da tante ore non s’era preso ristoro! Ma Ella lascia tutto. E il giaciglio che si sta preparando e il cibo che sta per essere distribuito. E torna indietro. È sera, scende la notte. Non importa. Ogni passo la riporta verso Gerusalemme. Ferma le carovane, i pellegrini. Interroga. Giuseppe la segue, la aiuta. Un giorno di cammino a ritroso e poi l’affannosa ricerca per la città.
  Dove, dove può essere il suo Gesù? E Dio permette che Ella non sappia per tante ore dove cercarmi. Cercare un bambino nel Tempio era cosa senza giudizio. Che ci doveva fare un bambino nel Tempio? Al massimo, se s’era sperduto per la città ed era tornato là dentro, portato dai suoi piccoli passi, la sua voce piangente avrebbe chiamato la mamma ed attirato l’attenzione degli adulti, dei sacerdoti, i quali avrebbero provveduto a ricercare i genitori con dei bandi messi alle porte. Ma non c’era nessun bando. Nessuno in città sapeva di questo Bambino. Bello? Biondo? Robusto? Eh! ce ne sono tanti! Troppo poco per poter dire: “L’ho visto. Era là e là”!

 12Poi, dopo tre giorni, simbolo di altri tre giorni di angoscia futura, ecco che Maria esausta penetra nel Tempio, scorre i cortili e i vestiboli. Nulla. Corre, corre, la povera Mamma, là dove sente una voce di bimbo. E fin gli agnelli col loro belare le paiono il pianto della sua Creatura che la cerca. Ma Gesù non piange. Ammaestra. Ecco che Maria sente, oltre una barriera di persone, la cara voce che dice: “Queste pietre fremeranno…”. Ella cerca di fendere la calca e vi riesce dopo molto stento. Eccolo, il Figlio, a braccia aperte, ritto fra i dottori.
  Maria è la Vergine prudente. Ma questa volta l’affanno soverchia la sua riservatezza. È una diga che abbatte ogni altra cosa. Corre al Figlio, lo abbraccia, levandolo dallo sgabello e posandolo al suolo, ed esclama: “Oh! perché ci hai fatto questo? Da tre giorni ti andiamo cercando. La tua Mamma sta per morire di dolore, Figlio. Il padre tuo è sfinito di fatica. Perché, Gesù?”.
  Non si chiedono i “perché” a Chi sa. I “perché” del suo modo di agire. Ai vocati non si chiede “perché” lasciano tutto per seguire la voce di Dio. Io ero Sapienza e sapevo. Io ero “vocato” ad una missione e la compivo. Sopra il padre e la madre della Terra vi è Dio, Padre divino. I suoi interessi superano i nostri, i suoi affetti sono superiori ad ogni altro. Io lo dico a mia Madre.
  Termino l’insegnamento ai dottori con l’insegnamento a Maria, Regina dei dottori. Ed Ella non se lo è più dimenticato. Il sole le è tornato nel cuore avendomi per mano, umile e ubbidiente, ma le mie parole le sono pure nel cuore. Molto sole e molte nubi scorreranno nel cielo durante quei ventuno anni in cui sarò ancora sulla Terra. E molta gioia e molto pianto si alternerà nel suo cuore per altri ventuno anni. Ma Ella non chiederà più: “Perché, Figlio mio, ci hai fatto questo?”.
 Imparate, o uomini protervi.

 13Ho istruito e illuminato Io la visione, perché tu non sei in grado di fare di più. […]».

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, io mi affido a Te
e al Tuo Cuore Immacolato: per sempre!

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