Vangelo Mt 2, 1-12: « Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».

Vangelo Mt 2, 1-12
Dal Vangelo secondo Matteo

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
« Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono ».

Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato

   Cap. XXXIV. Adorazione dei Magi. È “vangelo della fede”.

   28 febbraio 1944

  1Il mio interno ammonitore mi dice:
 «Chiama queste contemplazioni, che avrai e che ti dirò, “i vangeli della fede”, perché a te e agli altri verranno ad illustrare la potenza della fede e dei suoi frutti e a confermarvi nella fede in Dio». 

  2Vedo Betlemme piccola e bianca, raccolta come una chiocciata sotto al lume delle stelle. Due vie principali la tagliano a croce, l’una venendo da oltre il paese, ed è la via maestra che poi prosegue oltre il paese, l’altra andando da un’estremità all’altra dello stesso, ma non oltre. Altre viuzze lo segmentano, questo piccolo paese, senza la più piccola norma di piano stradale come noi lo concepiamo, ma anzi adattandosi al suolo che è a dislivelli ed alle case sorte qua e là, secondo i capricci del suolo e del loro costruttore. Volte quali a destra e quali a manca, chi messa per spigolo, rispetto alla via che le costeggia, obbligano questa ad essere come un nastro che si sgomitola sinuosamente e non un rettilineo che va da qua a là senza deviare. Ogni tanto una piazzetta, sia per un mercato, sia per una fontana, sia perché, costruito qui e là senza regola, è rimasto uno scampolo di suolo sghimbescio su cui non è possibile costruire più nulla.
  Nel punto dove mi pare di sostare particolarmente è proprio una di queste piazzette irregolari. Dovrebbe essere quadrata o quanto meno rettangolare. Invece è venuta un trapezio tanto strano da parere un triangolo acuto smusso nel vertice. Nel lato più lungo — la base del triangolo — vi è un fabbricato largo e basso. Il più largo del paese. Di fuori è un muraglione liscio e nudo, sul quale si aprono appena due portoni, ora ben serrati. Dentro invece, nel suo largo quadrato, si aprono molte finestre al primo piano, mentre sotto vi sono porticati che cingono cortili sparsi di paglia e detriti, con delle vasche per abbeverare cavalli e altri animali. Alle rustiche colonne dei portici sono anelli per tenere legate le bestie, e su un lato vi è una vasta tettoia per ricoverare mandre e cavalcature. Comprendo che è l’albergo di Betlemme.
  Sugli altri due lati uguali sono case e casette, quali precedute e quali no da un poco d’orto, perché fra esse vi è quella che è con la facciata sulla piazza, e quella col retro della casa sulla piazza. Sull’altro lato più stretto, fronteggiante il caravanserraglio, un’unica casetta dalla scaletta esterna che entra a metà facciata nelle camere del piano abitato. Sono tutte chiuse perché è notte. Non vi è nessuno per le vie, data l’ora.

  3Vedo aumentare la luce notturna piovente dal cielo pieno di stelle, così belle nel cielo orientale, così vive e grandi che paiono vicine e che sia facile raggiungerle e toccare quei fiori splendenti nel velluto del firmamento. Alzo lo sguardo per comprendere la fonte di questo aumento di luce. Una stella, di insolita grandezza che la fa parere una piccola luna, si avanza nel cielo di Betlemme. E le altre paiono eclissarsi e farle largo come ancelle al passare della regina, tanto il suo splendore le soverchia e annulla. Dal globo, che pare un enorme zaffiro pallido, acceso internamente da un sole, parte una scia nella quale, al predominante colore dello zaffiro chiaro, si fondono i biondi dei azi, i verdi degli smeraldi, gli opalescenti degli opali, i sanguigni bagliori dei rubini e i dolci scintillii delle ametiste. Tutte le pietre preziose della Terra sono in quella scia, che spazza il cielo con un moto veloce e ondulante come fosse viva. Ma il colore che predomina è quello piovente dal globo della stella: il paradisiaco colore di pallido zaffiro che scende a fare di argento azzurro le case, le vie, il suolo di Betlemme, culla del Salvatore. Non è più la povera città, per noi meno di un paese rurale. È una fantastica città di fiaba in cui tutto è d’argento. E l’acqua delle fonti e delle vasche è di liquido diamante.
  Con un più vivo raggiare di splendori la stella si ferma sulla piccola casa che è sul lato più stretto della piazzetta. Né i suoi abitanti, né i betlemmiti la vedono, perché dormono nelle chiuse case, ma essa accelera i suoi palpiti di luce, e la sua coda vibra e ondeggia più forte tracciando quasi dei semicerchi nel cielo, che si accende tutto per questa rete d’astri che essa trascina, per questa rete piena di preziosi che splendono tingendo dei più vaghi colori le altre stelle, quasi a comunicare loro una parola di gioia.
  La casetta è tutta bagnata da questo fuoco liquido di gemme. Il tetto della breve terrazza, la scaletta di pietra scura, la piccola porta, tutto è come un blocco di puro argento sparso di polvere di diamanti e perle. Nessuna reggia della Terra ha mai avuto od avrà una scala simile a questa, fatta per ricevere il passo degli angeli, fatta per esser usata dalla Madre che è Madre di Dio. I suoi piccoli piedi di Vergine Immacolata possono posarsi su quel candido splendore, i suoi piccoli piedi destinati a posarsi sui gradini del trono di Dio. Ma la Vergine non sa. Essa veglia presso la cuna del Figlio e prega. Nell’anima ha splendori che superano gli splendori di cui la stella decora le cose.

   4Dalla via maestra si avanza una cavalcata. Cavalli bardati ed altri condotti a mano, dromedari e cammelli cavalcati o portanti il loro carico. Il suono degli zoccoli fa un rumore di acqua che frusci e schiaffeggi le pietre di un torrente. Giunti sulla piazza, tutti si fermano. La cavalcata, sotto il raggio della stella, è fantastica di splendore. I finimenti delle ricchissime cavalcature, gli abiti dei loro cavalcatori, i volti, i bagagli, tutto splende unendo e ravvivando il suo splendore di metallo, di cuoio, di seta, di gemma, di pelame, al brillio stellare. E gli occhi raggiano e ridono le bocche, perché un altro splendore si è acceso nei cuori, quello di una gioia soprannaturale.
  Mentre i servi si avviano verso il caravanserraglio con gli animali, tre della carovana smontano dalle rispettive cavalcature, che un servo subito conduce altrove, e a piedi vanno verso la casa. E si prostrano, fronte a terra, a baciare la polvere. Sono tre potenti. Lo dicono le vesti ricchissime. Uno, di pelle molto scura, sceso da un cammello, si avvolge tutto in uno sciamma di candida seta splendente, stretto alla fronte ed alla vita da un cerchio prezioso, da cui pende un pugnale o una spada dall’elsa tempestata di gemme. Gli altri, scesi da due splendidi cavalli, sono vestiti l’uno di una stoffa rigata, bellissima, in cui predomina il color giallo, fatto quest’abito come un lungo domino ornato di cappuccio e di cordone, che paiono un sol lavoro di filigrana d’oro tanto sono trapunti di ricami in oro. Il terzo ha una camicia setosa, che sbuffa da larghe e lunghe brache strette al piede, e si avvolge in uno scialle finissimo, che pare un giardino fiorito tanto sono vivi i fiori che lo decorano tutto. In testa ha un turbante trattenuto da una catenella tutta a castoni di diamanti.
  Dopo avere venerato la casa dove è il Salvatore, si rialzano e vanno al caravanserraglio, dove i servi hanno bussato e fatto aprire.
  E qui cessa la visione. 

  5Che riprende, tre ore dopo, con la scena dell’adorazione dei Magi a Gesù.
  È giorno, ora. Un bel sole splende nel cielo pomeridiano. Un servo dei tre traversa la piazza e sale la scaletta della piccola casa. Entra. Esce. Torna all’albergo.
  Escono i tre Savi, seguiti ognuno dal proprio servo. Traversano la piazza. I rari passanti si volgono a guardare i pomposi personaggi che passano molto lentamente, con solennità. Fra l’entrata del servo e quella dei tre è passato un buon quarto d’ora, che ha dato modo agli abitanti della casetta di prepararsi a ricevere gli ospiti.
  Questi sono ancor più riccamente vestiti della sera avanti. Le sete splendono, le gemme brillano, un gran pennacchio di penne preziose, sparse di scaglie ancor più preziose, tremola e sfavilla sul capo di colui che ha il turbante.
  I servi portano l’uno un cofano tutto intarsiato, le cui rinforzature metalliche sono in oro bulinato; il secondo un lavoratissimo calice, coperto da un ancor più lavorato coperchio tutto d’oro; il terzo una specie di anfora larga e bassa, pure in oro, e tappata da una chiusura fatta a piramide, che al vertice porta un brillante. Devono essere pesanti, perché i servi li portano con fatica, specie quello del cofano.
  I tre montano la scala ed entrano. Entrano in una stanza che va dalla strada al dietro della casa. Si vede l’orticello posteriore da una finestra aperta al sole. Delle porte si aprono nelle due altre pareti, e da queste sbirciano coloro che sono i proprietari: un uomo, una donna e tre o quattro fra giovinetti e bimbi.

  6Maria è seduta col Bambino in grembo ed ha vicino Giuseppe in piedi. Però si alza Ella pure e si inchina quando vede entrare i tre Magi. È tutta vestita di bianco. Così bella nella sua semplice veste candida che la copre dalla radice del collo ai piedi, dalle spalle ai polsi sottili, così bella nella testina coronata di trecce bionde, nel viso che l’emozione fa più vivamente roseo, negli occhi che sorridono con dolcezza, nella bocca che s’apre al saluto: «Dio sia con voi», che i tre si arrestano un istante colpiti. Poi procedono e le si prostrano ai piedi. E la pregano di sedere.
  Essi no, non siedono, per quanto Ella li preghi di farlo. Essi restano in ginocchio, rilassati sui calcagni. Dietro a loro, pure in ginocchio, sono i tre servi. Essi sono subito dopo il limitare. Hanno posato davanti a loro i tre oggetti che portavano, e attendono.
  I tre Savi contemplano il Bambino, che mi pare possa avere dai nove mesi ad un anno, tanto è vispo e robusto. Egli sta seduto in grembo alla Mamma, e sorride e cinguetta con una vocina di uccellino. È vestito tutto di bianco come la Mamma, con sandaletti ai piedini minuscoli. Una vestina molto semplice: una tunichella da cui escono i bei piedini irrequieti, le manine grassottelle che vorrebbero afferrare tutto, e soprattutto la bellissima faccina nella quale splendono gli occhi azzurro cupi, e la bocca fa le fossette ai lati ridendo e scoprendo i primi dentini minuti. I ricciolini sembrano una polvere d’oro tanto sono splendenti e vaporosi.

  7Il più vecchio dei Savi parla per tutti. Spiega a Maria che essi hanno visto, una notte del passato dicembre, accendersi una nuova stella nel cielo, di inusitato splendore. Mai le carte del cielo avevano portato quell’astro e parlato di esso. Il suo nome non era conosciuto, perché essa non aveva nome. Nata allora dal seno di Dio, essa era fiorita per dire agli uomini una verità benedetta, un segreto di Dio. Ma gli uomini non le avevano fatto caso, perché avevano l’anima confitta nel fango. Non alzavano lo sguardo a Dio e non sapevano leggere le parole che Egli traccia, ne sia in eterno benedetto, con astri di fuoco sulla volta dei cieli.
  Essi l’avevano vista e si erano sforzati a capirne la voce. Perdendo contenti il poco sonno che concedevano alle loro membra, dimenticando il cibo, s’erano sprofondati nello studio dello zodiaco. E le congiunzioni degli astri, il tempo, la stagione, il calcolo delle ore passate e delle combinazioni astronomiche avevano a loro detto il nome e il segreto della stella. Il suo nome: «Messia». Il suo segreto: «Essere il Messia venuto al mondo». E si erano partiti per adorarlo. Ognuno all’insaputa dell’altro. Per monti e deserti, per valli e fiumi, viaggiando la notte, erano venuti verso la Palestina, perché la stella andava in tal senso. Per ognuno, da tre punti diversi della Terra, andava in tal senso. E si erano trovati poi oltre il mar Morto. Il volere di Dio li aveva riuniti là, ed insieme avevano proceduto, intendendosi, nonostante ognuno parlasse la sua lingua, e intendendo e potendo parlare la lingua del Paese per un miracolo dell’Eterno.
  E insieme erano andati a Gerusalemme, poiché il Messia doveva essere il Re di Gerusalemme, il Re dei giudei. Ma la stella si era celata, sul cielo di quella città, ed essi avevano sentito frangersi di dolore il loro cuore e si erano esaminati per sapere se avevano demeritato di Dio. Ma avendoli rassicurati la coscienza, si erano rivolti a re Erode per chiedergli in quale reggia era il nato Re dei giudei che essi erano venuti ad adorare. E il re, convocati i principi dei sacerdoti e gli scribi, aveva chiesto dove poteva nascere il Messia. Ed essi avevano risposto: «A Betlemme di Giuda».
  Ed essi erano venuti verso Betlemme e la stella era riapparsa ai loro occhi, lasciata la Città santa, e la sera avanti aveva aumentato gli splendori — il cielo era tutto un incendio — e poi si era fermata, adunando tutta la luce delle altre stelle nel suo raggio, sopra questa casa. Ed essi avevano compreso esser lì il Nato divino. Ed ora lo adoravano, offrendo i loro poveri doni e più che altro offrendo il loro cuore, che mai avrebbe cessato di benedire Iddio della grazia concessa e di amare il suo Nato, di cui vedevano la santa Umanità. Dopo sarebbero tornati a riferire al re Erode, perché egli desiderava adorarlo esso pure.

  8«Ecco intanto l’oro come a re si conviene possedere, ecco l’incenso come a Dio si conviene, ed ecco, o Madre, ecco la mirra, poiché il tuo Nato è Uomo oltre che Dio, e della carne e della vita umana conoscerà l’amarezza e la legge inevitabile del morire. Il nostro amore vorrebbe non dirle, queste parole, e pensarlo eterno anche con la carne come eterno è lo Spirito suo. Ma, o Donna, se le nostre carte, e più le nostre anime, non errano, Egli è, il Figlio tuo, il Salvatore, il Cristo di Dio, e perciò dovrà, per salvare la Terra, levare su Sé il male della Terra, di cui uno dei castighi è la morte. Questa resina è per quell’ora. Perché le carni, che son sante, non conoscano putredine di corruzione e conservino integrità sino alla loro risurrezione. E per questo nostro dono Egli di noi si ricordi, e salvi i suoi servi dando loro il suo Regno». Per intanto, per esserne santificati, Ella, la Madre, dia il suo Pargolo «al nostro amore. Che baciando i suoi piedi scenda in noi benedizione celeste».
 Maria, che ha superato lo sgomento suscitato dalle parole del Sapiente e ha celato la tristezza della funebre evocazione sotto un sorriso, offre il Bambino. Lo pone sulle braccia del più vecchio, che lo bacia e ne è accarezzato, poi lo passa agli altri due.
  Gesù sorride e scherza colle catenelle e le frange dei tre, e guarda curiosamente lo scrigno aperto pieno di una cosa gialla che luccica, e ride vedendo che il sole fa un arcobaleno battendo sul brillante del coperchio della mirra.

  9Poi i tre rendono a Maria il Bambino e si alzano. Si alza anche Maria. Si inchinano a vicenda, dopo che il più giovane ha dato un ordine al servo, che esce. I tre parlano ancora un poco. Non sanno decidersi a staccarsi da quella casa. Lacrime di emozione sono negli occhi. Infine si dirigono all’uscita, accompagnati da Maria e Giuseppe.
  Il Bambino ha voluto scendere e dare la manina al più vecchio dei tre, e cammina così, tenuto per mano da Maria e dal Savio, che si curvano per tenerlo per mano. Gesù ha il passetto ancora incerto dell’infante e ride picchiando i piedini sulla striscia che il sole fa sul pavimento.
  Giunti alla soglia — non si deve dimenticare che la stanza era lunga quanto la casa — i tre si accomiatano inginocchiandosi ancora una volta e baciando i piedini di Gesù. Maria, curva sul Piccino, gli prende la manina e la guida, facendole fare un gesto di benedizione sul capo di ogni singolo Mago. È già un segno di croce(Ez 9,4-6) tracciato dalle ditine di Gesù, guidate da Maria.
  Poi i tre scendono la scala. La carovana è già lì pronta che attende. Le borchie dei cavalli splendono al sole del tramonto. La gente si è affollata sulla piazzetta a vedere l’insolito spettacolo.
  Gesù ride battendo le manine. La Mamma lo ha sollevato e appoggiato al largo parapetto che limita il pianerottolo e lo tiene con un braccio contro il suo petto perché non caschi. Giuseppe è sceso con i tre e regge ad ognuno la staffa mentre salgono sui cavalli e sul cammello.
  Ora servi e padroni sono tutti a cavallo. L’ordine di marcia viene dato. I tre si curvano fin sul collo della cavalcatura in un ultimo saluto. Giuseppe si inchina, Maria pure e torna a guidare la manina di Gesù in un gesto di addio e di benedizione.

10Dice Gesù:
   «Ed ora? Che dirvi ora, o anime che sentite morire la fede? Quei Savi d’oriente non avevano nulla che li assicurasse della verità. Nulla di soprannaturale. Solo il calcolo astronomico e la loro riflessione che una vita integra faceva perfetta. Eppure hanno avuto fede. Fede in tutto: fede nella scienza, fede nella coscienza, fede nella bontà divina.
  Per la scienza hanno creduto al segno della stella nuova, che non poteva che esser “quella”, attesa da secoli dall’umanità: il Messia. Per la coscienza hanno avuto fede nella voce della stessa che, ricevendo “voci” celesti, diceva loro: “È quella stella che segna l’avvento del Messia”. Per la bontà hanno avuto fede che Dio non li avrebbe ingannati e, poiché la loro intenzione era retta, li avrebbe aiutati in ogni modo per giungere allo scopo.
  E sono riusciti. Essi soli, fra tanti studiosi dei segni, hanno compreso quel segno, perché essi soli avevano nell’anima l’ansia di conoscere le parole di Dio con un fine retto, che aveva a principale pensiero quello di dare subito a Dio lode ed onore.

 11Non cercavano un utile proprio. Anzi vanno incontro a fatiche e spese, e nulla chiedono di compenso che sia umano. Chiedono soltanto che Dio di loro si ricordi e li salvi per l’eternità.
  Come non hanno nessun pensiero di futuro compenso umano, così non hanno, quando decidono il viaggio, nessuna umana preoccupazione. Voi vi sareste messi mille cavilli: “Come farò a fare tanto viaggio in paesi e fra popoli di lingua diversa? Mi crederanno o mi imprigioneranno come spia? Che aiuto mi daranno nel passare deserti e fiumi e monti? E il caldo? E il vento degli altipiani? E le febbri stagnanti lungo le zone paludose? E le fiumane gonfiate dalle piogge? E il cibo diverso? E il diverso linguaggio? E… e… e”. Così ragionate voi. Essi non ragionano così. Dicono con sincera e santa audacia: “Tu, o Dio, ci leggi nel cuore e vedi che fine perseguiamo. Nelle tue mani ci affidiamo. Concedici la gioia sovrumana di adorare la tua Seconda Persona fatta Carne per la salute del mondo”.
  Basta. E si mettono in cammino dalle Indie lontane. Dalle catene mongoliche sulle quali spaziano unicamente le aquile e gli avvoltoi e Dio parla col rombo dei venti e dei torrenti e scrive parole di mistero sulle pagine sterminate dei nevai. Dalle terre in cui nasce il Nilo e procede, vena verde azzurra, incontro all’azzurro cuore del Mediterraneo, né picchi, né selve, né arene, oceani asciutti e più pericolosi di quelli marini, fermano il loro andare. E la stella brilla sulle loro notti, negando loro di dormire. Quando si cerca Dio, le abitudini animali devono cedere alle impazienze e alle necessità sopraumane.
  La stella li prende da settentrione, da oriente e da meridione, e per un miracolo di Dio procede per tutti e tre verso un punto, come, per un altro miracolo, li riunisce dopo tante miglia in quel punto, e per un altro dà loro, anticipando la sapienza pentecostale, il dono di intendersi e di farsi intendere così come è nel Paradiso, dove si parla un’unica lingua, quella di Dio.

 12Un unico momento di sgomento li assale quando la stella scompare e, umili perché sono realmente grandi, non pensano che sia per la malvagità altrui che ciò avviene, non meritando i corrotti di Gerusalemme di vedere la stella di Dio. Ma pensano di avere demeritato di Dio loro stessi, e si esaminano con tremore e contrizione già pronta a chiedere perdono.
  Ma la loro coscienza li rassicura. Anime use alla meditazione, hanno una coscienza sensibilissima, affinata da una attenzione costante, da una introspezione acuta, che ha fatto del loro interno uno specchio su cui si riflettono le più piccole larve degli avvenimenti giornalieri. Ne hanno fatto una maestra, una voce che avverte e grida al più piccolo, non dico errore, ma sguardo all’errore, a ciò che è umano, al compiacimento di ciò che èio. Perciò, quando essi si pongono di fronte a questa maestra, a questo specchio severo e nitido, sanno che esso non mentirà. Ora li rassicura ed essi riprendono lena.
  “Oh! dolce cosa sentire che nulla è in noi di contrario a Dio! Sentire che Egli guarda con compiacenza l’animo del figlio fedele e lo benedice. Da questo sentire viene aumento di fede e fiducia, e speranza, e fortezza, e pazienza. Ora è tempesta. Ma passerà, poiché Dio mi ama e sa che lo amo, e non mancherà di aiutarmi ancora”. Così parlano coloro che hanno la pace che viene da una coscienza retta, che è regina di ogni loro azione.

 13Ho detto che erano “umili perché erano realmente grandi”. Nella vostra vita, invece, che avviene? Che uno, non perché è grande, ma perché è più prepotente, e si fa potente per la sua prepotenza e per la vostra idolatria sciocca, non è mai umile. Ci sono dei disgraziati che, solo per essere maggiordomi di un prepotente, uscieri di un ufficio, funzionari in una frazione, servi insomma di chi li ha fatti tali, si dànno delle pose da semidei. E fanno pietà!…
  Essi, i tre Savi, erano realmente grandi. Per virtù soprannaturali per prima cosa, per scienza per seconda cosa, per ricchezza per ultima cosa. Ma si sentono un nulla, polvere sulla polvere della Terra, rispetto al Dio altissimo, che crea i mondi con un suo sorriso e li sparge come chicchi di grano per saziare gli occhi degli angeli coi monili delle stelle.
  Ma si sentono nulla rispetto al Dio altissimo, che ha creato il pianeta su cui vivono e lo ha fatto variato mettendo, Scultore infinito d’opere sconfinate, qua, con una ditata del suo pollice, una corona di dolci colline, e là un’ossatura di gioghi e di picchi, simili a vertebre della Terra, di questo corpo smisurato a cui sono vene i fiumi, bacini i laghi, cuori gli oceani, veste le foreste, veli le nubi, decorazioni i ghiacciai di cristallo, gemme le turchesi e gli smeraldi, gli opali e i berilli di tutte le acque che cantano, con le selve e i venti, il grande coro di laude al loro Signore.
  Ma si sentono nulla nella loro sapienza rispetto al Dio altissimo, da cui la loro sapienza viene e che ha dato loro occhi più potenti di quelle due pupille per cui vedono le cose: occhi dell’anima, che sanno leggere nelle cose la parola non scritta da mano umana, ma incisa dal pensiero di Dio.
  Ma si sentono nulla nella loro ricchezza: atomo rispetto alla ricchezza del Possessore dell’universo, che sparge metalli e gemme negli astri e pianeti e soprannaturali dovizie, inesauste dovizie, nel cuore di chi l’ama.

 14E, giunti davanti ad una povera casa, nella più meschina delle città di Giuda, essi non crollano il capo dicendo: “Impossibile”, ma curvano la schiena, le ginocchia, e specie il cuore, e adorano. Là, dietro quel povero muro, è Dio. Quel Dio che essi hanno sempre invocato, non osando mai, neppur lontanamente, sperare di averlo a vedere. Ma invocato per il bene di tutta l’umanità, per il “loro” bene eterno. Oh! questo solo si auguravano. Di poterlo vedere, conoscere, possedere nella vita che non conosce più albe e tramonti!
  Egli è là, dietro quel povero muro. Chissà se il suo cuore di Bambino, che è pur sempre il cuore di un Dio, non sente questi tre cuori che, proni nella polvere della via, squillano: “Santo, Santo, Santo. Benedetto il Signore Iddio nostro. Gloria a Lui nei Cieli altissimi e pace ai suoi servi. Gloria, gloria, gloria e benedizione”? Essi se lo chiedono con tremore di amore. E per tutta la notte e la seguente mattina preparano con la preghiera più viva lo spirito alla comunione con il Dio-Bambino.
  Non vanno a questo altare, che è un grembo verginale portante l’Ostia divina, come voi vi andate con l’anima piena di sollecitudini umane. Essi dimenticano sonno e cibo e, se prendono le vesti più belle, non è per sfoggio umano ma per fare onore al Re dei re. Nelle regge dei sovrani i dignitari entrano con le vesti più belle. E non dovrebbero essi andare da questo Re con le loro vesti di festa? E quale festa più grande di questa per loro?
  Oh! nelle loro terre lontane, più e più volte si sono dovuti ornare per degli uomini pari a loro. Per far loro festa e onore. Giusto dunque umiliare ai piedi del Re supremo porpore e gioielli, sete e preziose piume. Mettergli ai piedi, ai dolci piccoli piedi, le fibre della Terra, le gemme della Terra, le piume della Terra, i metalli della Terra — sono ancora opera sua — perché esse pure, queste cose della Terra, adorino il loro Creatore. E sarebbero felici se la Creaturina ordinasse loro di stendersi al suolo e fare un vivo tappeto ai suoi passetti di Bambino, e li calpestasse, Egli che ha lasciato le stelle per loro, polvere, polvere, polvere.

 15Umili e generosi. E ubbidienti alle “voci” dell’Alto. Esse comandano di portare doni al Re neonato. Ed essi portano doni. Non dicono: “Egli è ricco e non ne ha bisogno. È Dio e non conoscerà la morte”. Ubbidiscono. E sono coloro che per primi sovvengono la povertà del Salvatore. Come provvido quell’oro per chi domani sarà fuggiasco! Come significativa quella resina a chi presto sarà ucciso! Come pio quell’incenso a chi dovrà sentire il lezzo delle lussurie umane ribollenti intorno alla sua purezza infinita!
  Umili, generosi, ubbidienti e rispettosi l’uno dell’altro. Le virtù generano sempre altre virtù. Dalle virtù volte a Dio, ecco le virtù volte al prossimo. Rispetto, che è poi carità. Al più vecchio è deferito di parlare per tutti, di ricevere per primo il bacio del Salvatore, di sorreggerlo per la manina. Gli altri potranno vederlo ancora. Ma egli no. È vecchio, e prossimo è il suo giorno di ritorno a Dio. Lo vedrà, questo Cristo, dopo la sua straziante morte e lo seguirà, nella scia dei salvati, nel ritorno al Cielo. Ma non lo vedrà più su questa Terra. E allora per suo viatico gli rimanga il tepore della piccola mano, che si affida alla sua già rugosa.
  Nessuna invidia negli altri. Ma anzi un aumento di venerazione per il vecchio sapiente. Ha meritato certo più di loro e per più lungo tempo. Il Dio-Infante lo sa. Ancora non parla, la Parola del Padre, ma il suo atto è parola. E sia benedetta la sua innocente parola, che designa costui come il suo prediletto.

 16Ma, o figli, vi sono altri due insegnamenti da questa visione.
 Il contegno di Giuseppe che sa stare al “suo” posto. Presente come custode e tutore della Purezza e della Santità. Ma non usurpatore dei diritti di queste. È Maria col suo Gesù che riceve omaggi e parole. Giuseppe ne giubila per Lei e non si accora d’esser figura secondaria. Giuseppe è un giusto, è il Giusto. Ed è giusto sempre. Anche in quest’ora. I fumi della festa non gli salgono al capo. Resta umile e giusto.
  È felice di quei doni. Non per sé. Ma perché pensa che con essi potrà fare più comoda la vita alla Sposa e al dolce Bambino. Non vi è avidità in Giuseppe. Egli è un lavoratore e continuerà a lavorare. Ma che “Loro”, i suoi due amori, abbiano agio e conforto. Né lui né i Magi sanno che quei doni serviranno ad una fuga e ad una vita d’esilio, nelle quali le sostanze dileguano come nube percossa dai venti, e ad un ritorno in patria dopo aver tutto perduto, clienti e suppellettili, e salvate solo le mura della casa, protetta da Dio perché là Egli si è congiunto alla Vergine e si è fatto Carne.
  Giuseppe è umile, egli, custode di Dio e della Madre di Dio e Sposa dell’Altissimo, sino a reggere la staffa a questi vassalli di Dio. È un povero legnaiuolo, perché la prepotenza umana ha spogliato gli eredi di Davide dei loro averi regali. Ma è sempre stirpe di re ed ha tratti di re. Anche per lui va detto: “Era umile perché era realmente grande”.

 17Ultimo, soave, indicatore insegnamento.
  È Maria che prende la mano di Gesù, che non sa ancora benedire, e la guida nel gesto santo.
  È sempre Maria che prende la mano di Gesù e la guida. Anche ora. Ora Gesù sa benedire. Ma delle volte la sua mano trafitta cade stanca e sfiduciata, perché sa che è inutile benedire. Voi distruggete la mia benedizione. Cade anche sdegnata, perché voi mi maledite. E allora è Maria che leva lo sdegno a questa mano col baciarla. Oh! il bacio di mia Madre! Chi resiste a quel bacio? E poi prende con le sue dita sottili, ma così amorosamente imperiose, il mio polso e mi forza a benedire.
  Non posso respingere mia Madre. Ma bisogna andare da Lei per farla Avvocata vostra. Essa è la mia Regina prima d’esser la vostra, ed il suo amore per voi ha indulgenze che neppure il mio conosce. Ed Essa, anche senza parole ma con le perle del suo pianto e col ricordo della mia Croce, il cui segno mi fa tracciare nell’aria, perora la vostra causa e mi ammonisce: “Sei il Salvatore. Salva”.

 18Ecco, figli, il “vangelo della fede” nell’apparizione della scena dei Magi. Meditate e imitate. Per il vostro bene».

   Cap. CCCLX. Il malumore degli apostoli a il riposo in una grotta. L’incontro con Rosa di Gerico.

   14 Dicembre 1945

 1 La pianura del lato orientale del Giordano, per le continue piogge, pare divenuta una laguna, specie nel luogo dove si trovano adesso Gesù e gli apostoli. Hanno da poco superato un torrente che scende da una stretta gola delle vicine colline, che sembra facciano tutta una diga ciclopica, dal nord al sud, lungo il Giordano, rotta qua e là da strette vallate dalle quali sgorga l’inevitabile torrente. Sembra che una grande merlettatura di colli sia stata messa da Dio a fare contorno alla grande valle del Giordano, da questa parte. Direi persino una merlettatura monotona, tanto è uguale alle sporgenze, negli aspetti e anche molto nelle altezze.


   Il gruppo apostolico è fra i due ultimi torrenti, straripati per giunta presso le rive, e perciò più ampi di letto, specie quello a sud che è imponente per la massa d’acqua che convoglia dalle montagne e che rumoreggia torbida nell’avviarsi al Giordano, che si sente a sua volta frusciare forte, specie là dove le curve naturali, quasi potrei dire le strozzature che ha di continuo, o la confluenza di un suo emissario, producono un ingorgo d’acque. Orbene, Gesù è fra questo triangolo mozzo, fatto di tre corsi d’acqua in piena, e trarre le gambe da quel pantano non è cosa facile.

 2 L’umore apostolico è più torbido della giornata. Ed è tutto dire. Tutti vogliono dire la loro. E ogni cosa detta cela, sotto apparenza di un consiglio, un rimprovero. È l’ora dei: «Io lo avevo detto», «Se si fosse fatto come consigliavo», ecc. ecc., così urtanti per chi ha commesso un errore ed è già accasciato per averlo fatto.
   Qui si dice: «Era meglio passare il fiume all’altezza di Pella e andare per l’altra parte, che è meno brutta», oppure: «Era bene prenderlo quel carro! Abbiamo fatto i bravi, ma poi…», e anche: «Se rimanevamo sui monti non c’era questo fango!».
   Giovanni dice: «Siete i profeti delle cose fatte. Chi lo prevedeva questo insistere di pioggia?».
   «È il suo tempo. Era da prevedersi», sentenzia Bartolomeo.
   «Gli altri anni non era così, avanti Pasqua. Io venni a voi che il Cedron non era certo pieno, e l’anno passato ebbimo persino dell’asciuttore. Voi, che vi lamentate, non ricordate la sete che ebbimo nella pianura filistea?», dice lo Zelote.
   «Eh! È naturale! Parlano i due saggi e ci dànno la voce!», dice ironico Giuda di Keriot.
   «Tu taci, per favore. Sai solo criticare. Ma al momento buono, quando c’è da parlare con qualche fariseo o simile, sei zitto come avessi la lingua legata», gli dice inquieto il Taddeo.
   «Si. Ha ragione. Perché non hai ribattuto una parola, all’ultimo paese, a quei tre serpenti? Tu lo sapevi che siamo stati anche a Giocala e a Meieron, rispettosi e ossequienti, e che là c’è voluto andare Lui che onora i grandi rabbi defunti. Ma non hai parlato! Tu sai come Egli esige da noi rispetto alla Legge e ai sacerdoti. Ma non hai parlato! Ora parli. Ora, perché c’è da fare della ironia sui migliori di noi e da fare critiche a ciò che fa il Maestro», incalza Andrea che, di solito paziente, oggi è proprio nervoso.
   «Taci tu. Giuda ha torto, lui che è amico di molti, di troppi samaritani…», dice Pietro.
   «Io? Chi sono questi? Fànne il nome, se puoi».
   «Si, caro. Tutti i farisei, sadducei, potenti di cui vanti l’amicizia, e che ti conoscano si vede! Me, non mi salutano mai. Ma tu, sì».
   «Ne sei geloso! Ma io sono uno del Tempio e tu no».
   «Per grazia di Dio sono un pescatore. Sì. E me ne vanto».
   «Un pescatore tanto stolto che non ha saputo nemmeno prevedere questo tempo».
   «No! L’ho detto: “Luna di Nisam e fatta con pioggia vuol acqua che scende a moggia”», sentenzia Pietro.
   «Ah! Qui ti ci volevo! E tu che ne dici, Giuda d’Alfeo? E tu, Andrea? Anche Pietro, il capo critica il Maestro!».
   «Io non critico proprio nessuno. Dico un proverbio».
   «Che, a chi lo intende, è critica e rimprovero».
   «Si… ma tutto ciò non serve ad asciugare la terra, mi pare. Ormai ci siamo e ci dobbiamo stare. Serbiamo il fiato per sradicare i piedi da questo pantano», dice Tommaso.

 3 E Gesù? Gesù tace. Va un poco avanti, sguazzando nella melma, o cercando zolle erbose emergenti. Ma anche quelle basta calpestarle perché schizzino acqua fino a metà stinco, come se il piede avesse premuto una vescica invece di una zolla erbosa. Tace, li lascia parlare, malcontenti, tutt’affatto uomini, niente più che uomini che il minimo disturbo rende irascibili e ingiusti. Ormai è vicino il più meridionale dei fiumi e Gesù, vedendo passare lungo l’argine innondato un uomo su un  mulo, chiede: «Dov’è il ponte?».
   «Più su. Ci passo anche io. L’altro a valle, quello romano, è sott’acqua ormai».
   Altro coro di brontolii… Ma si affrettano a seguire l’uomo che parla con Gesù.
   «Ti conviene, però, buttarti a monte », dice. E termina: «Torna in piano quando trovi il terzo fiume dopo il Yaloc. Allora sarai vicino al guado. Ma fà presto. Non sostare perché il fiume gonfia di ora in ora. Che brutta stagione! Il gelo prima, poi l’acqua. E forte così. Un castigo di Dio. Ma è giusto! Quando non si lapidano i bestemmiatori della Legge, Dio punisce. E noi ne abbiamo di quelli! Tu sei Galileo, non è vero? Allora conoscerai quello di Nazaret che i buoni abbandonano perché causa di ogni male. Le folgori attira con la sua parola! I castighi! Bisogna sentire cosa raccontano di Lui quelli che erano con Lui. Hanno ragione i farisei di perseguitarlo. Chissà che ladrone è! Deve fare paura come un belzebù. Mi era venuta voglia di andarlo a sentire, perché prima mi era stato detto un gran bene di Lui. Ma… erano discorsi di quelli della sua banda. Tutta gente senza scrupoli come Lui. I buoni lo abbandonano. E fanno bene. Io, già, per mio conto, non ci vado più a vederlo. E se il caso me lo porta vicino, lo prendo a sassate, come è dovere contro i bestemmiatori».
   «Lapidami, allora. Sono Io Gesù di Nazaret. Io non fuggo e non ti maledico. Sono venuto per redimere il mondo versando il mio Sangue. Sacrificami, ma diventa giusto».
   Gesù dice questo aprendo un poco le braccia stese verso terra, lo dice lentamente, mitamente e mestamente. Ma se avesse maledetto non avrebbe fatto più impressione all’uomo, che tira così bruscamente le redini che il mulo fa uno scarto e per poco non cade dall’argine del fiume in piena. Gesù si abbranca al morso e trattiene la bestia, in tempo, salvando uomo e mulo.
L’uomo non fa che ripetere: «Tu! Tu!…», e vedendo l’atto che lo salva urla: «Ma ti ho detto che ti avrei lapidato… non capisci?».
   «Ed Io ti dico che ti perdono e che anche per te soffrirò per redimerti. Questo è il Salvatore».
   L’uomo lo guarda ancora, dà una tallonata nel fianco del mulo e parte di corsa. Fugge… Gesù china il capo.

 4 Gli apostoli sentono il bisogno di dimenticare il fango e la pioggia e tutte le altre miserie per consolarlo. Gli si fanno intorno e dicono: «Non ti affliggere! Di briganti non ne abbiamo bisogno. E quello è tale. Perché solo un malvagio può credere vere le calunnie su Te e avere paura di Te».
   «Però», dicono anche, «che imprudenza, Maestro! E se ti faceva del male? Perché dire che eri Tu Gesù di Nazaret?».
   «Perché è la verità… Andiamo verso i monti come ha consigliato. Perderemo un giorno, ma voi uscirete dal pantano».
   «Anche Tu», obbiettano.
   «Oh! per Me non conta. È il pantano delle anime morte quello che mi affatica», e due lacrime gocciano dai suoi occhi.
   «Non piangere, Maestro. Noi brontoliamo, ma ti vogliamo bene. Se possiamo incontrare i tuoi denigratori! Ne faremo vendetta ».
   «Voi perdonerete come Io perdono. Ma lasciatemi piangere. Sono l’Uomo, infine! E l’essere tradito, rinnegato, abbandonato, mi dà dolore!».
   «Guarda noi, guarda noi. Pochi e buoni. Nessuno di noi ti tradirà né ti abbandonerà. Credilo Maestro».
   «Neanche dirle certe cose! È offesa alla nostra anima pensare che noi si possa tradire!», esclama l’Iscariota.
   Ma Gesù è afflitto. Tace, e lente lacrime rotolano sulle gote pallide di un viso stanco e smagrito.
   Si avvicinano ai monti.
   «Saliremo lassù, o costeggeremo le basi? Vi sono paesi a mezza costa. Guarda. Di qua e di là del fiume», gli osservano.
   «La sera scende. Cerchiamo di raggiungere un paese. Questo o quello è indifferente».
   Giuda Taddeo, che ha occhi molto buoni, scruta le pendici. Va vicino a Gesù. Dice: «All’occorrenza ci sono spacchi nel monte. Li vedi là? Ci rifugeremo in quelli. Sarà sempre meglio che nel fango».
   «Faremo fuoco», conforta Andrea.
   «Con la legna umida?», chiede ironico Giuda di Keriot.
   Nessuno gli risponde. Pietro mormora: «Benedico l’Eterno che non ci sono con noi né le donne né Marziam».

 5 Passano il ponte, molto preistorico, che è proprio ai piedi della valle, e prendono il lato meridionale di questa, per una strada mulattiera diretta ad un paese. Le ombre scendono rapide. Tanto che decidono rifugiarsi in una vasta grotta per sfuggire ad un piovasco violento. Forse è una grotta che serve di rifugio ai pastori, perché vi è strame e sudiciume e un rozzo focolare.
   «Come letto non serve. Ma per fare del fuoco…», dice Tommaso accennando le ramaglie trite e sporche, che sono sparse al suolo insieme a felci secche e rami di ginepro o altra pianta simile. E le spinge, con l’aiuto di un bastone, verso il focolare. Le ammucchia e dà fuoco.
Fumo e fetore, insieme a odore di resine e ginepri, si alzano dal fuoco. Eppure è gradito quel calore, e tutti fanno semicerchio mangiando, alla luce mobile delle fiamme, pane e formaggio.
   «Si poteva però tentare al paese», dice Matteo che è roco e infreddato.
   «Oh! senti! Per ripetere la storia di tre sere fa? Qui non ci caccia nessuno. Staremo seduti su quelle legna e faremo fuoco finché potremo.    Ora che ci si vede, ce n’è della legna! Guarda, guarda! Anche paglia!… È proprio un ovile. Certo per l’estate, o per quando trasmigrano.

 6 E di qui? Dove si va? Prendi un ramo acceso, Andrea, che voglio vedere», ordina Pietro che gira in vena di scoperte. Andrea ubbidisce. Si infilano per una stretta fessura che è in una parete della grotta.
   «Badate che non ci siano bestie brutte!», urlano gli altri. «O dei lebbrosi», dice il Taddeo.
   Dopo un momento viene la voce di Pietro. «Venite! Venite! Qui si sta meglio. C’è pulito e asciutto, e ci sono panche di legno, e lagna per bruciare. Ma è una reggia per noi! Portate dei rami accesi, che facciamo subito fuoco».
   Deve essere proprio un ricovero di pastori. E questa è la grotta dove questi in riposo dormono, mentre nell’altra vegliano quelli di guardia a turno il gregge. È una escavazione nel monte, molto più piccola e forse fatta dall’uomo, o per lo meno ampliata e solidificata con pali messi a sorreggere la volta. Una cappa di camino primordiale si spiega a gancio verso la prima grotta per aspirare il fumo che non avrebbe uscita.
   Dei pancacci e della paglia sono contro le pareti, nelle quali sono infissi arpioni per agganciare lucerne e vesti o bisacce.
   «Ma va benone! Su facciamo molto fuoco! Staremo caldi e si asciugheranno i mantelli. Via le cinture; facciamone funi per stendervi sopra i mantelli», ordina Pietro, e poi aggiusta le panche e le paglie e dice: «E ora un po’ per uno si dorme e un po’ per uno si tiene vivo il fuoco. Per vederci e per stare caldi. Che grazia di Dio!».
   Giuda borbotta fra i denti. Pietro si volta risentito. «Rispetto alla grotta di Betlemme, dove il Signore è nato, questa è una reggia. Se c’è nato Lui, potremo starci noi per una notte».
   «Anche è più bella delle grotte di Arsela. Là di bello non c’era che il nostro cuore, più buono di ora», dice Giovanni e si sperde in un suo mistico ricordo.
   «È anche molto migliore di quella che ospitò il Maestro per prepararsi alla predicazione», dice severo lo Zelote guardando l’Iscariota come per dirgli di farla finita.
   Gesù apre la bocca per ultimo: «Ed è senza misura più calda e comoda di quella in cui feci penitenza per te, Giuda di Simone, in questo tebet».
   «Penitenza per me? Perché? Non ce ne era bisogno!».
   «In verità dovremmo Io e te passare la vita in penitenza per liberare te da tutto ciò che ti aggrava. E non basterebbe ancora».
   La sentenza data con pacatezza ma tanto decisa, cade come una folgore nel gruppo sbigottito… Giuda abbassa il viso e si ritira in un angolo. Non ha l’audacia di reagire.

 7 «Io resto sveglio. Al fuoco bado Io. Dormite voi », ordina Gesù dopo qualche tempo.
   E dopo poco allo scoppiettio della legna si unisce il respiro pesante dei dodici stanchi, sdraiati sulle pancacce fra la paglia. E Gesù, se la paglia cade e li lascia scoperti, si alza e la ridiscende sul dormiente, amoroso come una madre. E pure piange mentre contempla i volti ermetici nel sonno di taluni, o placidi, o corrucciati. Guarda l’Iscariota che pare ghignare anche nel sonno, torvo, a pugni stretti… Guarda Giovanni che dorme con una mano sotto la guancia, il viso velato dai capelli biondi, roseo, sereno come un bimbo in cuna. Guarda il volto onesto di Pietro e quello severo di Natanaele, quello butterato dello Zelote, quello aristocratico di suo cugino Giuda, e si ferma a lungo a guardare Giacomo di Alfeo che è un Giuseppe di Nazaret molto giovane. Sorride sentendo i monologhi di Tommaso e di Andrea, che sembra parlino al Maestro. Copre molto Matteo che respira a fatica, prendendo altra paglia per tenerlo caldo e la stende sui piedi di Matteo dopo averla scaldata alla fiamma. Sorride sentendo Giacomo proclamare: «Credete nel Maestro e avrete la vita»… e continuare in una predica a personaggi di sogno. E si china a raccogliere una borsa dove Filippo tiene ricordi cari, mettendogliela piano sotto la testa. E negli intervalli medita e prega…

 8 Il primo a destarsi è lo Zelote. Vede Gesù ancora presso il fuoco acceso nella grotta ben calda. E dal mucchio della legna ridotto a una miseria comprende che sono passate molte ore. Scende dal suo giaciglio e viene in punta di piedi da Gesù. «Maestro non vieni a dormire? Veglio io».
   «È l’alba Simone. Sono andato di là poco fa. Ho visto il cielo che già schiarisce».
   «Ma perché non ci hai chiamati? Sei stanco Tu pure!».
   «Oh! Simone! Avevo tanto bisogno di pensare… e di pregare», e gli appoggia il capo sul petto.
   Lo Zelote, ritto presso Lui seduto, lo carezza e sospira. Chiede: «Pensare a che, Maestro? Tu non hai bisogno di pensare. Tu sai tutto».
   «Pensare non a ciò che devo dire. Ma a ciò che devo fare. Io sono disarmato contro il mondo astuto, perché Io non ho la malizia del mondo e l’astuzia di satana. Ed il mondo mi vince… E sono tanto stanco…».
   «E addolorato. E noi contribuiamo a questo, Maestro buono che non meritiamo di avere. Perdona me ed i compagni. Lo dico per tutti».
   «Vi amo tanto… Soffro tanto… Perché così spesso non mi capite?».

 9 Il loro bisbiglio sveglia Giovanni, che è il più vicino. Apre i suoi occhi celesti, si guarda stupito intorno, poi ricorda e si alza subito, venendo alle spalle dei due che parlano.
   Sente così le parole di Gesù: «Perché tutto l’odio e le incomprensioni divenissero un nulla sopportabile, mi basterebbe il vostro amore, la vostra comprensione… Invece non mi capite… E questa è la mia prima tortura. È pesante! Pesante! Ma non ne avete colpa. Siete uomini… Sarà il vostro dolore non avermi capito quando non potrete più riparare… Per questo, perché allora espierete le superficialità di ora, le meschinità di ora, le ottusità di ora, Io vi perdono e in anticipo dico: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno né il dolore che mi danno”».
   Giovanni scivola sul davanti, e in ginocchio, e abbraccia le ginocchia del suo Gesù afflitto, ed è già prossimo al pianto mentre sussurra: «Oh! Maestro mio!».
   Lo Zelote, che ha sempre sul petto la testa di Gesù, si china a baciarlo sui capelli dicendo: «Eppure ti amiamo tanto! Ma pretenderemmo da Te una capacità di difenderti, di difenderci, di trionfare. Ci avvilisce vederti uomo, soggetto agli uomini, alle intemperie, alla miseria, alla cattiveria, ai bisogni della vita… Stolti siamo. Ma così è. Per noi sei il Re, il Trionfatore, il Dio. Non riusciamo a capire la sublimità della tua abnegazione a tanto per amor nostro. Perché Tu solo sai amare. Noi non sappiamo…».
   «Sì, Maestro. Simone dice bene. Non sappiamo amare come ama Dio: Tu. E ciò che è infinita bontà, infinito amore, lo scambiamo per debolezza e ce ne approfittiamo… Aumenta il nostro amore, aumenta il tuo amore, Tu che ne sei la fonte, fallo straripare come ora straripano i fiumi, imbevici, saturaci, di esso, così come lo sono i prati lungo la valle. Non necessita sapienza, valore, austerità per essere perfetti come Tu vuoi. Basta avere amore… Signore, io me ne confesso per tutti: non sappiamo amare».
   «Voi, i due che più capiscono, vi accusate. Siete l’umiltà. Ma l’umiltà è amore. Ma anche gli altri non hanno che un diaframma per essere come voi. Ed Io lo abbatterò. Perché infatti sono Re, Trionfatore e Dio. In eterno. Ma ora sono l’Uomo. La mia fronte pesa già sotto il supplizio della mia corona. È sempre stata una torturante corona essere l’Uomo… Grazie, amici. Mi avete consolato. Perché questo ha di buono l’essere uomini: avere una madre che ama e degli amici sinceri.

10 Ora destiamo i compagni. Non piove più. I manti sono asciutti. I corpi riposati. Mangiate e pariamo».
   Alza la voce lentamente finché il «partiamo» è un ordine sicuro. Tutti sorgono e si rammaricano di avere sempre dormito mentre Gesù ha vegliato. Si rassettano, mangiano, prendono i mantelli, spengono il fuoco ed escono sul sentiero umido iniziando la discesa fino alla mulattiera che segue la costa, abbastanza in pendenza per non essere un mare di fango.    La luce è ancora poca perché non c’è sole né sereno. Ma sufficiente a vedere.

11 Andrea e i due figli di Alfeo sono avanti a tutti. Ad un certo punto si chinano, guardano e corrono indietro. «C’è una donna! Pare morta! Sbarra il sentiero».
   «Oh! che noia! Si comincia male. Come si fa? Ora bisognerà anche purificarsi!». I primi brontolii del giorno.
   «Andiamo a vedere noi se è morta», dice Tommaso a Giuda Iscariota.
   «Io non ci vengo per niente», risponde l’Iscariota.
   «Vengo io con te, Toma», dice lo Zelote e va avanti.
L’avvicinano, si curvano, e Tommaso corre indietro urlando.
   «È assassinata, forse», dice Giacomo di Zebedeo.
   «Oppure morta di freddo», risponde Filippo.
   Ma Tommaso li raggiunge e grida: «Ha la veste scucita dei lebbrosi…», e pare abbia visto il diavolo tanto è stranito.
   «Ma è morta?», chiedono. «E chi lo sa! Io sono scappato».
   Lo Zelote si rialza e viene sollecito verso Gesù. Dice: « Maestro, una sorella lebbrosa. Non so se è morta. Non direi. Mi sembra che il cuore batta ancora».
   «L’hai toccata?!», urlano molti scostandosi.
   «Si. Non ho paura della lebbra da quando sono di Gesù. E ho pietà perché so cosa è l’essere lebbroso. Forse l’infelice è stata colpita, perché sanguina al capo. Forse era scesa in cerca di cibo. È tremendo, sapete, morire di fame e dovere sfidare gli uomini per avere un pane».
   «È molto sciupata?».
   «No. Anzi non so come è fra i lebbrosi. Non ha scaglie, né piaghe, né cancrene. Forse lo è da poco. Vieni Maestro. Te ne prego. Come per me, abbi pietà della sorella lebbrosa! ».
   «Andiamo. Datemi pane, formaggio e quel poco di vino che ancora abbiamo».
   «Non la farai bere dove noi beviamo!», urla terrorizzato l’Iscariota.
   «Non temere. Berrà dalla mia mano. Vieni, Simone».

12 Vanno avanti… ma la curiosità manda avanti anche gli altri. Senza più noia per l’acqua che è fra il fogliame e che piove sulle teste dai rami scossi, né del musco zuppo, salgono sulla costa per vedere senza essere vicino alla donna. E vedono che Gesù si china, la prende per le ascelle e la trascina seduta contro un masso. La testa pende come fosse morta.
   «Simone, rovesciale il capo, che le possa far scendere in gola un po’ di vino».
Lo Zelote ubbidisce senza paura e Gesù, tenendo alta la zucchetta, fa cadere delle stille di vino fra le labbra socchiuse e livide. E dice: «È gelata, l’infelice! Ed è tutta bagnata».
   «Se non era lebbrosa la potevamo portare dove fummo noi», dice impietosito Andrea.
   «Ci mancherebbe altro!», scatta Giuda.
   «Ma se non è lebbrosa! Non ha segno di lebbra».
   «Ha la veste. Basta quella».
   Il vino agisce intanto. La donna ha un sospiro stanco. Gesù gliene cola in bocca un sorso vedendo che inghiotte. La donna apre due occhi annebbiati e spaventati. Vede degli uomini. Tenta alzarsi e fuggire gridando: «Sono infetta! Sono infetta!». Ma le forze non la soccorrono. Si copre il volto con le mani
gemendo: «Non mi lapidate! Sono scesa perché ho fame… Sono tre giorni che nessuno mi getta nulla…».
   «Qui c’è pane e formaggio. Mangia. Non avere paura. Bevi un po’ di vino dalla mia mano», dice Gesù versandosi nel cavo della mano un po’ di vino e dandoglielo.
   «Ma non hai paura?», dice l’infelice sbalordita.
   «Non ho paura », risponde Gesù. E sorride alzandosi in piedi, ma restando presso la donna che mangia avida il pane e il formaggio.
   Pare una belva affamata. Ansa perfino nell’ansia di nutrirsi.

13 Poi, sedata l’animalità delle viscere vuote, si guarda intorno… Conta a voce alta: «Uno… due… tre… tredici… Ma allora?… Oh! Chi è il Nazareno? Tu, non è vero? Solo Tu puoi avere pietà di una lebbrosa come hai avuto!…». La donna si pone in ginocchio a fatica per la debolezza.
   «Sono Io, sì. Che vuoi? Guarire?».
   «Anche… Ma prima devo dirti una cosa… Io sapevo di Te. Me ne avevano parlato alcuni, passati tanto tempo fa… Tanto? No. Era l’autunno. Ma per un lebbroso… ogni giorno è un anno… Avrei voluto vederti. Ma come potevo venire in Giudea, in Galilea? Mi chiamano “lebbrosa”. Ma non ho che una piaga sul petto, e me l’ha data il marito che mi ha presa vergine e sana, e sano non era. Ma è un grande… e tutto può. Anche dire che io l’avevo tradito venendo a lui malata, e ripudiarmi così, per prendere un’altra donna di cui era invaghito. Mi ha denunciata per lebbrosa, e perché volli scolparmi fui presa a sassate. Era giusto, Signore? Ieri sera un uomo è passato da Betjaboc avvisando che Tu venivi e dicendo venirti incontro per cacciarti. Io c’ero… Discesa fino alle case perché avevo fame. Avrei frugato nei letamai per sfamarmi… Io che ero la “signora” avrei cercato strappare al pollame un poco di impasto inacidito… ».
   Piange… Poi riprende: «L’ansia di trovarti, per Te, per dirti: “Fuggi!; per me, per dirti: “Pietà!”, mi ha fatto dimenticare che, contrariamente alla legge nostra, cani, porci e polli vivono presso le case d’Israele, ma che il lebbroso non può scendere a chiedere un pane, neppure se è una che di lebbrosa ha solo il nome. E mi sono fatta avanti, chiedendo dove eri. Non mi hanno visto subito nell’ombra e mi hanno detto: “Sale per l’argine del fiume”. Ma poi mi hanno vista e mi hanno dato pietre per pane. Sono corsa via, nella notte, per venire incontro a Te, per sfuggire i cani. Avevo fame, avevo freddo, avevo paura. Sono caduta dove mi hai trovata. Qui. Ho creduto di morire. Invece ho trovato Te. Signore, non sono lebbrosa. Ma questa piaga qui alla mammella mi impedisce di tornare fra i viventi. Io non chiedo di tornare Rosa di Gerico come al tempo del padre mio, ma almeno di vivere fra gli uomini e seguire Te. Quelli che mi hanno parlato in ottobre hanno detto che Tu hai discepole e che con loro eri… Ma prima salvati Tu. Non morire, Tu che sei buono!».
   «Io non morirò finché non è il mio tempo. 

14 Và là, a quel masso. Vi è una grotta sicura. Riposati e poi và dal sacerdote». 
   «Perché, Signore?». La donna trema d’ansia.
   Gesù sorride: «Torna la Rosa di Gerico che fiorisce nel deserto e che è sempre viva anche se pare morta. La tua fede ti ha guarita».
   La donna socchiude la veste sul petto, guarda e grida: «Più niente! Oh! Signore, mio Dio!», e cade fronte a terra.
   «Datele pane e cibi. E tu, Matteo, dàlle un paio dei tuoi sandali. Io darò un mantello. Che possa andare, quando sarà ristorata, dal sacerdote. Dàlle anche l’obolo, Giuda. Per le spese di purificazione. L’attenderemo al Getsemani per darla a Elisa. Mi ha chiesto una figlia».
   «No, Signore. Non riposo. Vado. Subito. Subito».
   «Scendi al fiume, allora, lavati, mettiti il manto addosso…».
   «Signore, io lo do alla sorella lebbrosa. Lascia che lo faccia ed io la condurrò da Elisa. Io guarisco una seconda volta, vedendo me in lei, felice», dice lo Zelote.
   «Sia come vuoi. Dàlle quanto serve. Donna, ascolta bene. Andrai a purificarti e poi andrai a Betania, cercherai di Lazzaro e dirai che ti ospiti finché Io vengo. Và in pace».
   «Signore! Quando potrò baciarti i piedi?».
   «Presto. Và. Ma sappi che solo il peccato mi fa ribrezzo. E perdona allo sposo perché per suo mezzo hai trovato Me».
   «È vero. Lo perdono. Vado… Oh! Signore! Non ti fermare qui dove ti odiano. Pensa che ho camminato esausta, per una notte, per venirtelo a dire, e che se invece di Te trovavo altri potevo essere uccisa a sassate come una serpe».
   «Lo ricorderò. Và, donna. Brucia la veste. Accompagnala, Simone. Noi vi seguiremo. Al ponte vi raggiungeremo».

15 Si separano.
   «Però ora bisogna purificarsi. Siamo impuri tutti».
   «Non era lebbra, Giuda di Simone. Io te lo dico».
   «Ebbene, io mi purificherò. Non voglio impurità su di me».
   «Candido giglio!», esclama Pietro.
   «Se non si sente impuro il Signore, vuoi sentitici tu?».
   «E per una che Lui dice non lebbrosa? Ma che aveva, Maestro? Tu hai visto la piaga?».
   «Si. Un frutto della lussuria maschile. Ma non era lebbra. E se l’uomo fosse stato onesto non l’avrebbe scacciata, perché egli era più di lei malato. Ma tutto serve ai lussuriosi per saziare la loro fame. Tu, Giuda, se vuoi và pure. Ci ritroveremo al Getsemani. E purificati! Purificati! Però la prima delle purificazioni è la sincerità. Tu sei ipocrita. Ricordalo. Ma và pure».
   «No, che resto! Se Tu lo dici, io credo. Non sono perciò impuro e resto con Te. Tu vuoi dire che io sono lussurioso e che profittavo del fatto per… Ti dimostro che il mio amore sei Tu».
   Vanno lesti per la discesa.

   15 Dicembre 1945. 
16 Dice Gesù: «Qui metterete la visione del “Miracolo del Giordano in piena”, avuta il 17 settembre 1944».

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

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