Vangelo Mt 1, 16.18-21.24: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa».

Vangelo Mt 1, 16.18-21.24
Dal Vangelo secondo Matteo

Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
“Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore”.


Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Paralleli Vetus e Novus Ordo

   Cap. XXV. Presentazione di Giovanni Battista al Tempio e partenza di Maria. La Passione di Giuseppe

   5-6 aprile 1944

   1Nella notte fra il mercoledì e il giovedì della settimana santa vedo così.
   Da un comodo carro, al quale è legato anche il somarello di Maria, vedo scendere Zaccaria, Elisabetta e Maria con in braccio il piccolo Giovanni, e Samuele con un agnello e una cesta col colombo. Scendono davanti al solito stallaggio, che deve esser la tappa di tutti i pellegrini al Tempio, per depositare le loro cavalcature.
   Maria chiama l’ometto che ne è padrone e chiede se nessun nazareno è giunto nella giornata di ieri o nelle prime ore del mattino. «Nessuno, donna», risponde il vecchietto. Maria resta stupita, ma non aggiunge altro.
   Fa sistemare da Samuele il ciuchino e poi raggiunge i due maturi genitori e spiega il ritardo di Giuseppe: «Sarà stato trattenuto da qualche cosa. Ma oggi verrà certo». Riprende il bambino, che aveva consegnato a Elisabetta, e si avviano al Tempio.

   2Zaccaria è ricevuto con onore dalle guardie e salutato e complimentato da altri sacerdoti. È tutto bello, oggi, Zaccaria nelle sue vesti sacerdotali e nella sua gioia di padre felice. Pare un patriarca. Penso che Abramo gli doveva somigliare quando gioiva di offrire Isacco al Signore.
   Vedo la cerimonia della presentazione del nuovo israelita e la purificazione della madre. Ed è ancor più pomposa di quella di Maria, perché per il figlio di un sacerdote i sacerdoti fanno gran festa. Accorrono in massa e si dànno un gran da fare intorno al gruppetto delle donne e del neonato.
   Anche della gente si è accostata curiosa e odo i commenti. Dato che Maria ha sulle braccia l’infante mentre si avviano al luogo stabilito, la gente la crede la madre.
   Ma una donna dice: «Non può essere. Non vedete che Ella è incinta? Il bambino non ha più di pochi giorni ed Ella è già grossa».
  «Eppure», dice un altro, «non può esser che Ella la madre. L’altra è vecchia. Sarà una parente. Ma madre a quell’età non può essere».
   «Andiamo loro dietro e vedremo chi ha ragione».
  E lo stupore diviene ben grande quando si vede che colei che compie il rito della purificazione è Elisabetta, la quale offre il suo agnellino belante per l’olocausto e il suo colombo per il peccato.
  «La madre è quella. Hai visto?».
  «No!».
  «Sì».
  La gente bisbiglia incredula ancora. Bisbiglia tanto che un «Ssst!» imperioso parte dal gruppo sacerdotale presente al rito. La gente tace un momento, ma bisbiglia più forte quando Elisabetta, raggiante di santo orgoglio, prende il bambino e si inoltra nel Tempio per farne la presentazione al Signore.
  «È proprio quella».
  «È sempre la madre che lo offre».
  «Che miracolo è mai questo?».
  «Che sarà quel bambino concesso in così tarda età a quella donna?».
  «Qual segno è mai questo?».
  «Non sapete?», dice uno che giunge trafelato. «È figlio del sacerdote Zaccaria della stirpe di Aronne, quello che divenne muto mentre offriva l’incenso nel Santuario».
  «Mistero! Mistero! E ora parla di nuovo! La nascita del figlio gli ha slegata la lingua».
  «Quale spirito gli avrà mai parlato e resa morta la sua lingua per abituarlo al silenzio sui segreti di Dio?».
  «Mistero! Quale verità conoscerà Zaccaria?».
  «Sia il figlio suo il Messia atteso da Israele?».
  «In Giudea è nato. Ma non a Betlem e non da una vergine. Messia esser non può».
  «Chi dunque mai?».
  Ma la risposta resta nei silenzi di Dio, e la gente rimane con la sua curiosità.
  Il cerimoniale è compiuto. I sacerdoti festeggiano, ora, anche la madre e il piccino. L’unica poco osservata, anzi schivata quasi con ribrezzo(Gn 17,9-14; Lv 12; Es 13,1-2.11-16; 34,19-20; Nm 3,13; 18,15-16) quando si accorgono del suo stato, è Maria.

  3Finite tutte le felicitazioni, i più tornano sulla via, e Maria vuole tornare allo stallaggio per vedere se è giunto Giuseppe. Non è giunto. Maria resta delusa e pensierosa.
  Elisabetta si preoccupa per Lei. «Fino all’ora sesta possiamo restare, ma poi dobbiamo partire per essere a casa avanti la prima vigilia. È ancor troppo piccino per stare oltre nella notte».
  E Maria, calma e mesta: «Resterò in un cortile del Tempio. Andrò dalle mie maestre… Non so. Qualcosa farò».
  Zaccaria interviene con un progetto subito accettato come buona risoluzione. «Andiamo dai parenti di Zebedeo. Giuseppe certo là ti cerca e, se non avesse a venire là, ti sarà facile trovare chi ti accompagna verso la Galilea, ché in quella casa è un continuo andare e venire di pescatori di Genezareth».
  Prendono il ciuchino e vanno da questi parenti di Zebedeo, i quali altro non sono che quelli dai quali hanno sostato Giuseppe e Maria or sono quattro mesi.
  Le ore passano veloci e Giuseppe non compare. Maria domina il suo cruccio ninnando il piccolo, ma si vede che è pensierosa. Come per nascondere il suo stato, non si è mai levato il manto, nonostante il caldo intenso che fa sudare tutti.

  4Finalmente un gran picchio alla porta annuncia Giuseppe. Il volto di Maria splende rasserenato.
  Giuseppe la saluta, poiché Ella si presenta per prima e lo saluta con riverenza. «La benedizione di Dio su te, Maria!».
  «E su di te, Giuseppe. E lode al Signore che sei venuto! Ecco, Zaccaria ed Elisabetta stavano per partire, per esser a casa avanti notte».
  «Il tuo messo giunse a Nazareth mentre io ero a Cana per dei lavori. Ieri l’altro a sera lo seppi. E subito partii. Ma, per quanto abbia camminato senza sostare, ho fatto tardi, perché s’era perso un ferro all’asinello. Perdona!».
  «Tu perdona per esser stata tanto tempo lontana da Nazareth! Ma, vedi, tanto felici erano d’avermi seco, che ho voluto accontentarli sino ad ora».
  «Bene hai fatto, Donna. Il bambino dove è?».
 Entrano nella stanza dove è Elisabetta che dà il latte a Giovanni avanti di partire. Giuseppe complimenta i genitori per la robustezza del bambino che, staccato dalla mammella per mostrarlo a Giuseppe, strilla e scalcia come lo scorticassero. Ridono tutti davanti alle sue proteste. Anche i parenti di Zebedeo, che sono accorsi portando frutta fresca e latte e pane per tutti e un gran vassoio di pesce, ridono e si uniscono alla conversazione degli altri.

  5Maria parla molto poco. Sta quieta e silenziosa, seduta nel suo angolino con le mani in grembo sotto il suo manto. E, anche quando beve una tazza di latte e mangia un grappolo d’uva dorata con un poco di pane, poco parla e poco si muove. Guarda Giuseppe con un misto di pena e di indagine.
  Anche egli la guarda. E dopo qualche tempo, curvandosi sulla sua spalla, le chiede: «Sei stanca o soffri? Sei pallida e triste».
  «Ho dolore a separarmi da Giovannino. Gli voglio bene. L’ho avuto sul cuore da pochi momenti nato…».
  Giuseppe non chiede altro.
  L’ora della partenza di Zaccaria è venuta. Il carro si ferma alla porta e tutti si avviano ad esso. Le due cugine si abbracciano con amore. Maria bacia e ribacia il piccino prima di deporlo sul grembo della madre, già seduta nel suo carro. Poi saluta Zaccaria e gli chiede la benedizione. Nell’inginocchiarsi davanti al sacerdote, il manto le scivola dalle spalle e le forme le appaiono nella luce intensa del pomeriggio estivo. Non so se Giuseppe le noti in questo momento, intento come è a salutare Elisabetta. Il carro parte.

  6Giuseppe rientra in casa con Maria, che riprende il suo posto nell’angolo semioscuro. «Se non ti spiace viaggiare di notte, io proporrei di partire al tramonto. Il caldo è forte nel giorno. La notte invece è fresca e quieta. Dico per te, per non farti prendere troppo sole. Per me è cosa da nulla stare sotto al solleone. Ma tu…».
  «Come vuoi, Giuseppe. Credo io pure che sia bene andare di notte».
  «La casa è tutta in ordine. E l’orticello. Vedrai che bei fiori! Giungi in tempo per vederli tutti fiorire. Il melo, il fico e la vite sono carichi di frutti come non mai, e il melograno ho dovuto sorreggerlo, tanto ha i rami carichi di frutti così già formati che mai si vide esser tali di questo tempo. L’ulivo, poi… Avrai olio in abbondanza. Ha fatto una fiorita miracolosa e non si è perso un fiore. Tutti sono già piccole ulive. Quando saranno mature, la pianta sembrerà piena di scure perle. Non c’è che il tuo orto così bello in tutta Nazareth. Anche i parenti ne sono stupiti. E Alfeo dice che questo è un prodigio».
  «Le tue cure lo hanno creato».
  «Oh! no! Povero uomo! Che devo aver fatto io? Un poco di cura alle piante ed un poco d’acqua ai fiori… Sai? Ti ho fatto una fonte in fondo, presso la grotta, e vi ho messo una vasca. Così non avrai ad uscire per aver l’acqua. L’ho condotta da quella sorgente che sta sopra all’uliveto di Mattia. È pura e abbondante. Un piccolo rivolo l’ho condotto a te. Ho fatto un piccolo canale ben coperto, e ora viene e canta come un’arpa. Mi doleva che tu andassi alla fonte del paese e ne tornassi carica delle anfore piene d’acqua».
  «Grazie, Giuseppe. Tu sei buono!».
  I due sposi tacciono, ora, come stanchi. E Giuseppe sonnecchia anche. Maria prega.

  7Viene la sera. Gli ospiti insistono perché prima di mettersi in viaggio i due mangino ancora. Giuseppe mangia infatti pane e pesce. Maria solo frutta e latte.
  Poi partono. Montano sui loro ciuchini. Giuseppe ha legato sul suo, come nel venire, il cofano di Maria, e prima che Ella monti sul somarello osserva che la sella sia ben sicura. Vedo che Giuseppe osserva Maria quando monta in sella. Ma non dice nulla.
  Il viaggio ha inizio sotto le prime stelle che cominciano a palpitare in cielo. Si affrettano alle porte per giungervi avanti che siano chiuse, forse. Quando escono da Gerusalemme e prendono la via maestra che va verso la Galilea, le stelle gremiscono ormai tutto il cielo sereno. E un grande silenzio è per la campagna. Solo si sente cantare qualche usignolo e il battere degli zoccoli dei due asinelli sul terreno duro della via arsa dall’estate.

  8Dice Maria:
   «È la vigilia del Giovedì santo. A taluni parrà fuori posto questa visione. Ma il tuo dolore di amante del mio Gesù Crocifisso è nel tuo cuore e vi resta anche se una dolce visione si presenta. Essa è come il tepore che si sviluppa da una fiamma, che è ancora fuoco ma non è già più fuoco. Il fuoco è la fiamma, non il tepore di essa, che ne è unicamente una derivazione. Nessuna visione beatifica o pacifica varrà a toglierti quel dolore dal cuore. E tienilo caro più della tua stessa vita. Perché è il dono più grande che Dio possa concedere ad un credente nel suo Figlio. Inoltre non è la mia, nella sua pace, visione disforme alle ricorrenze di questa settimana.

  9Anche il mio Giuseppe ha avuto la sua Passione. Ed essa è nata in Gerusalemme quando gli apparve il mio stato. Ed essa è durata dei giorni come per Gesù e per me. Né essa fu spiritualmente poco dolorosa. E unicamente per la santità del Giusto che m’era sposo fu contenuta in una forma, che fu talmente dignitosa e segreta che è passata nei secoli poco notata.
  Oh! la nostra prima Passione! Chi può dirne la intima e silenziosa intensità? Chi il mio dolore nel constatare che il Cielo non mi aveva ancora esaudita rivelando a Giuseppe il mistero?
  Che egli lo ignorasse l’avevo compreso vedendolo meco rispettoso come di solito. Se egli avesse saputo che portavo in me il Verbo di Dio, egli avrebbe adorato quel Verbo, chiuso nel mio seno, con atti di venerazione che sono dovuti a Dio e che egli non avrebbe mancato di fare, come io non avrei ricusato di ricevere, non per me, ma per Colui che era in me e che io portavo così come l’Arca dell’alleanza portava il codice di pietra e i vasi della manna.
  Chi può dire la mia battaglia contro lo scoramento, che voleva soverchiarmi per persuadermi che avevo sperato invano nel Signore? Oh! io credo che fu rabbia di Satana! Sentii il dubbio sorgermi alle spalle e allungare le sue branche gelide per imprigionarmi l’anima e fermarla nel suo orare. Il dubbio che è così pericoloso, letale allo spirito. Letale, perché è il primo agente della malattia mortale che ha nome “disperazione” e al quale si deve reagire con ogni forza, per non perire nell’anima e perdere Dio.
  Chi può dire con esatta verità il dolore di Giuseppe, i suoi pensieri, il turbamento dei suoi affetti? Come piccola barca presa in gran bufera, egli era in un vortice di opposte idee, in una ridda di riflessioni l’una più mordente e più penosa dell’altra. Era un uomo, in apparenza, tradito dalla sua donna. Vedeva crollare insieme il suo buon nome e la stima del mondo, per lei si sentiva già segnato a dito e compassionato dal paese, vedeva il suo affetto e la sua stima in me cadere morti davanti all’evidenza di un fatto.

 10 La sua santità qui splende ancor più alta della mia. Ed io ne rendo questa testimonianza con affetto di sposa, perché voglio lo amiate il mio Giuseppe, questo saggio e prudente, questo paziente e buono, che non è separato dal mistero della Redenzione, ma sibbene è ad esso intimamente connesso, perché consumò il dolore per esso e se stesso per esso, salvandovi il Salvatore a costo del suo sacrificio e della sua santità. Fosse stato men santo, avrebbe agito umanamente, denunciandomi come adultera perché fossi lapidata e il figlio del mio peccato perisse con me.
   Fosse stato men santo, Dio non gli avrebbe concesso la sua luce per guida in tal cimento. Ma Giuseppe era santo. Il suo spirito puro viveva in Dio. La carità era in lui accesa e forte. E per la carità vi salvò il Salvatore, tanto quando non mi accusò agli anziani, quanto quando, lasciando tutto con pronta ubbidienza, salvò Gesù in Egitto. 

11Brevi come numero, ma tremendi di intensità i tre giorni della Passione di Giuseppe. E della mia, di questa mia prima passione. Perché io comprendevo il suo soffrire, né potevo sollevarlo in alcun modo per l’ubbidienza al decreto di Dio, che mi aveva detto: “Taci!”.  E quando, giunti a Nazareth, lo vidi andarsene dopo un laconico saluto, curvo e come invecchiato in poco tempo, né venire a me alla sera come sempre usava, vi dico, figli, che il mio cuore pianse con ben acuto duolo. 
   Chiusa nella mia casa, sola, nella casa dove tutto mi ricordava l’Annuncio e l’Incarnazione, e dove tutto mi ricordava Giuseppe a me sposato in una illibata verginità, io ho dovuto resistere allo sconforto, alle insinuazioni di Satana e sperare, sperare, sperare. E pregare, pregare, pregare. E perdonare, perdonare, perdonare al sospetto di Giuseppe, al suo sommovimento di giusto sdegno.  
   Figli, occorre sperare, pregare, perdonare per ottenere che Dio intervenga in nostro favore. Vivete anche voi la vostra passione. Meritata per le vostre colpe. Io vi insegno come superarla e mutarla in gioia. Sperate oltre misura. Pregate senza sfiducia. Perdonate per esser perdonati. Il perdono di Dio sarà la pace che desiderate, o figli.

 12Null’altro per ora vi dirò. Sin dopo il trionfo pasquale sarà silenzio. È la Passione. Compassionate il Redentore vostro. Uditene i lamenti e numeratene ferite e lacrime. Ognuna di esse è scesa per voi e per voi fu patita. Ogni altra visione scompaia davanti a questa che vi ricorda la Redenzione compiuta per voi».

   Cap. XXXIX. Preparativi per la maggiore età di Gesù e partenza da Nazareth

   25 novembre 1944

  1[…]. Ho avuto da Lui una promessa. Gli dicevo: «Gesù, come mi piacerebbe vedere la cerimonia della tua maggiore età!». E Lui: «Te la darò per prima cosa appena potremo esser “noi” senza che si turbi il mistero. E la metterai dopo la scena della Madre mia, mia maestra e maestra di Giuda e Giacomo, che ti ho data recentemente (29-10). La metterai fra questa e la Disputa al Tempio». […].

   19 dicembre 1944

  2Vedo Maria curva su un mastello, meglio, su una conca di terra cotta, che mescola qualcosa che fuma nell’aria fredda e serena che empie l’orto di Nazaret.
   Deve essere pieno inverno, perché, meno gli ulivi, tutte le piante sono brulle e scheletrite. In alto, un cielo tersissimo e anche un bel sole. Ma non tempera la sizza che tira e che fa sbattere fra loro i rami spogli e ondulare le ramette grigie verdi degli ulivi.
  La Madonna è tutta vestita di una pesante veste di un marrone quasi nero e si è legata davanti una rustica tela, come un grembiale, per proteggere la veste. Estrae dalla tinozza il bastone con cui dimenava il contenuto e ne vedo cadere gocce di un bel color arrubinato. Maria osserva, si bagna un dito con le gocce che cadono, prova il colore sul grembiale. Pare soddisfatta.
  Entra in casa ed esce con molte matasse di lana candidissima. Le tuffa una per una nella tinozza, con pazienza e accortezza.

  3Mentre fa questo, entra, venendo dal laboratorio di Giuseppe, sua cognata Maria di Alfeo. Si salutano. Si parlano.
  «Viene bene?», chiede Maria d’Alfeo.
  «Ne ho speranza».
  «Mi ha assicurato quella gentile(Gv 18,28; At 10,28; 11,1-3; 21,27-28)che è proprio la tinta e il modo che usano a Roma. Me lo ha dato proprio perché sei tu e hai fatto quei lavori. Dice che neppure a Roma vi è chi ricama come te. Ti devi essere accecata a farli…».
  Maria sorride e fa un movimento col capo come per dire: «Cose da nulla!».
  La cognata guarda, prima di porgerle a Maria, le ultime matasse di lana.  «Come le hai filate! Paiono capelli tanto sono fini e regolari. Fai tutto bene tu… e come svelta! Queste ultime verranno più chiare?».
  «Sì, per la veste. Il mantello è più scuro».
  Le due donne lavorano insieme alla tinozza. Poi estraggono le matasse di un bel colore porporino e corrono svelte a tuffarle nell’acqua ghiaccia che empie la vaschetta, sotto alla sottile polla che cade con noterelle di risatine sommesse. Sciacquano e sciacquano, poi stendono su delle canne le matasse e le assicurano da ramo a ramo degli alberi.
  «Asciugheranno bene e presto con questo vento», dice la cognata.
  «Andiamo da Giuseppe. C’è fuoco. Devi essere gelata», dice Maria Ss. «Sei stata buona ad aiutarmi. Ho fatto presto e con meno fatica. Te ne sono grata».
  «Oh! Maria! Che non farei per te! Starti vicino è una festa. E poi… è per Gesù tutto questo lavoro. Ed è così caro, tuo Figlio!… Mi sembrerà di essergli anche io mamma se ti aiuterò per la sua festa di maggiorenne».
  Le due donne entrano nel laboratorio, pieno di quell’odore di legni piallati proprio delle officine di falegname.

  4E la visione ha un arresto… per riprendersi all’atto della partenza per Gerusalemme di Gesù dodicenne.
  Egli appare, bellissimo e tanto ben sviluppato da parere un fratello minore della sua giovane Madre. Già le giunge alle spalle con la sua testa bionda e inanellata, le cui chiome, non più corte come nei primi anni di vita, ma lunghe fino a sotto le orecchie, paiono un caschetto d’oro lavorato tutto a lucenti boccoli.
  È vestito di rosso. Un bel rosso di rubino chiaro. Una lunga veste che scende sino ai malleoli scoprendo solo i piedi calzati di sandali. La veste è sciolta, con maniche lunghe e ampie. Al collo, alla base delle maniche, alla balza, una greca tessuta colore su colore, molto bella…
  (nel copiare la visione attendere il resto che sarà sul nuovo quaderno).
 
  20 dicembre 1944.
  Vedo entrare Gesù insieme a sua Mamma nella stanza, dirò così, da pranzo di Nazaret.
  Gesù è un bel fanciullo dodicenne, alto, ben formato, robusto senza esser grasso. Sembra più adulto di quanto non sia, per la sua complessione. È già alto, tanto che raggiunge la spalla della Madre. Ha ancora il viso rotondo e roseo del Gesù fanciullo, viso che poi, con l’età giovanile e virile, si assottiglierà e si farà di un color senza colore, un colore di certi delicati alabastri, appena tendenti al giallo-rosa.
  Gli occhi, anche gli occhi, sono ancora occhi di bambino. Grandi, bene aperti a guardare, e con una scintilla di letizia persa nel serio dello sguardo.Dopo non saranno più così aperti… Le palpebre si caleranno a mezz’occhio per velare il troppo male, che è nel mondo, al Puro e Santo. Solo nei momenti di miracolo saranno aperti e sfavillanti, più ancora di ora… per cacciare i demoni e la morte, per guarire le malattie ed i peccati. E non saranno neppur più con quella scintilla di letizia mescolata alla serietà… La morte e il peccato saranno sempre più presenti e vicini, e con essi la conoscenza, anche umana, della inutilità del sacrificio, per la volontà contraria dell’uomo. Solo in rarissimi momenti di gioia, per essere con dei redenti e specie con dei puri, bambini per lo più, lo faranno brillare di letizia, questo occhio santo e buono.
  Ma ora è con la sua Mamma, in casa sua, e di fronte a Lui è S. Giuseppe che gli sorride con amore, e sono i cuginetti che lo ammirano e la zia Maria d’Alfeo che lo carezza… È felice. Ha bisogno di amore, il mio Gesù, per esser felice. E in questo momento lo ha.
  È vestito di una sciolta veste di lana rosso rubino chiaro. Morbida, di tessitura perfetta nella sua compatta sottigliezza. Al collo, sul davanti, in basso delle maniche lunghe e ampie, e della veste che scende sino a terra, scoprendo appena i piedi calzati di sandali nuovi e molto ben fatti — non le solite suole fissate con striscerelle di cuoio al piede — è una greca, non ricamata, ma tessuta in colore più scuro sul rubino della veste. Deve essere opera della Mamma, perché la cognata l’ammira e la loda.
  I bei capelli biondi sono già più carichi, nella loro tinta, di quando era fanciullino, con scintille di rame nelle volute dei boccoli che terminano sotto le orecchie. Non sono più i ricciolini corti e vaporosi dell’infanzia. Non sono ancora le chiome ondulate e lunghe sino agli omeri, dove terminano in morbido cannolo, dell’età adulta. Ma già tendono più a queste ultime nel colore e nella foggia.

  5«Ecco il Figlio nostro», dice Maria alzando la sua mano destra, nella quale è la mano sinistra di Gesù. Pare lo presenti a tutti e riconfermi la paternità del Giusto, che sorride. E aggiunge: «Benedicilo, Giuseppe, prima di partire per Gerusalemme. Non fu necessaria la rituale benedizione per la sua andata a scuola, primo passo nella vita. Ma, ora che Egli va al Tempio per esser dichiarato maggiorenne, fàllo. E benedici me con Lui. La tua benedizione… (Maria ha un sommesso singhiozzo) fortificherà Lui e darà forza a me di staccarmelo un poco di più…».
  «Maria, Gesù sarà sempre tuo. La formola non inciderà i nostri mutui rapporti. Né io te lo contenderò, questo Figlio a noi caro. Nessuno come te merita di guidarlo nella vita, o mia Santa».
  Maria si curva e prende la mano di Giuseppe e la bacia. È la sposa, oh! quanto rispettosa e amorosa del consorte!
  Giuseppe accoglie quel segno di rispetto e d’amore con dignità, ma poi alza quella baciata mano e la posa sul capo della Sposa e le dice: «Sì. Ti benedico, Benedetta, e Gesù con te. Venite, mie sole gioie, mio onore e scopo». Giuseppe è solenne. A braccia tese e palme volte a terra sopra le due teste chine, ugualmente bionde e sante, pronuncia la benedizione: «Il Signore vi guardi e vi benedica. Abbia di voi misericordia e vi dia pace. Il Signore vi dia la sua benedizione». E poi dice: «E ora andiamo. L’ora è propizia per il viaggio».

  6Maria prende un ampio drappo di un color granata scuro e lo drappeggia sul corpo del Figlio. Come se lo carezza nel farlo!
  Escono, chiudono. Si incamminano. Altri pellegrini vanno per la stessa direzione. Fuori del paese le donne si separano dagli uomini. I bimbi vanno con chi pare loro. Gesù resta con la Mamma.
  I pellegrini vanno, salmodiando per lo più, per le campagne tutte belle nel più lieto tempo di primavera. Freschi prati e fresche biade, e fresche fronde sugli alberi che hanno da poco fiorito. Canti di uomini per i campi e per le vie e canti d’uccelli in amore fra le fronde. Ruscelli limpidi che fan da specchio ai fiori delle rive, agnellini saltellanti presso le madri… Pace e letizia sotto il più bel cielo d’aprile.
  La visione cessa così.

   Cap. XLI. La disputa di Gesù nel Tempio coi dottori. L’angoscia della Madre e la risposta del Figlio.

  1Vedo Gesù. È adolescente. Vestito di una tunica che mi sembra di lino candido, lunga sino ai piedi. Su questa si posa e si drappeggia un drappo rettangolare d’un rosso pallido. È a testa nuda, coi capelli lunghi sino a metà orecchie, più carichi di tinta di quando lo vidi bambino. È un fanciullo robusto e molto alto per la sua età che, come dimostra il viso, è molto fanciulla.
   Mi guarda e sorride tendendomi le mani. Un sorriso però che somiglia già a quello che gli vedo da uomo: dolce e piuttosto serio. È solo. Non vedo altro per ora. Sta appoggiato ad un muretto su una stradellina tutta a sali e scendi, sassosa e con una fossa verso il centro che certo in tempo di pioggia si muta in rigagnolo. Ma ora è asciutta perché è giornata serena.
   Mi pare di accostarmi io pure al muretto e di guardare intorno e in basso come fa Gesù. Vedo un agglomerato di case. Un agglomerato disordinato. Le case sono quali alte, quali basse, e vanno in tutti i sensi. Sembra, con un paragone molto povero ma molto somigliante, una manciata di ciottoli bianchi gettata su un terreno scuro. Le vie e viette sono come vene in quel biancore. Qua e là delle piante sporgono dai muri. Molte sono in fiore e molte sono già coperte di foglie novelle. Deve essere primavera.
   A sinistra, rispetto a me che guardo, vi è un grande agglomerato, fatto a tre ordini di terrazze coperte di fabbricati, e torri e cortili e porticati, al centro del quale si alza un più alto, maestoso, ricchissimo fabbricato a cupole tonde, splendenti al sole come fossero coperte di metallo: rame od oro. Il tutto è recinto da una muraglia merlata: come fosse una fortezza. Una torre più alta delle altre, posta a cavalcioni di una via piuttosto stretta e che è in salita, domina nettamente quel vasto agglomerato. Sembra una sentinella severa.
  Gesù guarda fissamente quel luogo. Poi torna a voltarsi, riappoggiando la schiena al muretto, come era prima, e guarda un monticiattolo che sta di fronte all’agglomerato. Un monticiattolo assalito dalle case sino alla base, poi lasciato nudo. Vedo che una via termina là con un arco, oltre il quale non c’è che una via lastricata a pietre quadrangolari, irregolari e sconnesse. Non sono troppo grandi, non come le pietre delle strade consolari romane; sembrano piuttosto le classiche pietre dei vecchi marciapiedi viareggini (non so se ne esistano ancora) ma messe senza connessione. Una stradaccia. Il volto di Gesù si fa tanto serio che io mi fisso a cercare su quel monticiattolo la causa di questa malinconia. Ma non trovo nulla di speciale. È un’altitudine nuda. E basta. In cambio perdo Gesù, perché quando mi volgo non è più lì. E mi assopisco con questa visione.

 Mi guarda e sorride tendendomi le mani. Un sorriso però che somiglia già a quello che gli vedo da uomo: dolce e piuttosto serio. È solo. Non vedo altro per ora. Sta appoggiato ad un muretto su una stradellina tutta a sali e scendi, sassosa e con una fossa verso il centro che certo in tempo di pioggia si muta in rigagnolo. Ma ora è asciutta perché è giornata serena.
 Mi pare di accostarmi io pure al muretto e di guardare intorno e in basso come fa Gesù. Vedo un agglomerato di case. Un agglomerato disordinato. Le case sono quali alte, quali basse, e vanno in tutti i sensi. Sembra, con un paragone molto povero ma molto somigliante, una manciata di ciottoli bianchi gettata su un terreno scuro. Le vie e viette sono come vene in quel biancore. Qua e là delle piante sporgono dai muri. Molte sono in fiore e molte sono già coperte di foglie novelle. Deve essere primavera.
 A sinistra, rispetto a me che guardo, vi è un grande agglomerato, fatto a tre ordini di terrazze coperte di fabbricati, e torri e cortili e porticati, al centro del quale si alza un più alto, maestoso, ricchissimo fabbricato a cupole tonde, splendenti al sole come fossero coperte di metallo: rame od oro. Il tutto è recinto da una muraglia merlata: come fosse una fortezza. Una torre più alta delle altre, posta a cavalcioni di una via piuttosto stretta e che è in salita, domina nettamente quel vasto agglomerato. Sembra una sentinella severa.
 Gesù guarda fissamente quel luogo. Poi torna a voltarsi, riappoggiando la schiena al muretto, come era prima, e guarda un monticiattolo che sta di fronte all’agglomerato. Un monticiattolo assalito dalle case sino alla base, poi lasciato nudo. Vedo che una via termina là con un arco, oltre il quale non c’è che una via lastricata a pietre quadrangolari, irregolari e sconnesse. Non sono troppo grandi, non come le pietre delle strade consolari romane; sembrano piuttosto le classiche pietre dei vecchi marciapiedi viareggini (non so se ne esistano ancora) ma messe senza connessione. Una stradaccia. Il volto di Gesù si fa tanto serio che io mi fisso a cercare su quel monticiattolo la causa di questa malinconia. Ma non trovo nulla di speciale. È un’altitudine nuda. E basta. In cambio perdo Gesù, perché quando mi volgo non è più lì. E mi assopisco con questa visione.

  2…Mi guarda e sorride tendendomi le mani. Un sorriso però che somiglia già a quello che gli vedo da uomo: dolce e piuttosto serio. È solo. Non vedo altro per ora. Sta appoggiato ad un muretto su una stradellina tutta a sali e scendi, sassosa e con una fossa verso il centro che certo in tempo di pioggia si muta in rigagnolo. Ma ora è asciutta perché è giornata serena.
 Mi pare di accostarmi io pure al muretto e di guardare intorno e in basso come fa Gesù. Vedo un agglomerato di case. Un agglomerato disordinato. Le case sono quali alte, quali basse, e vanno in tutti i sensi. Sembra, con un paragone molto povero ma molto somigliante, una manciata di ciottoli bianchi gettata su un terreno scuro. Le vie e viette sono come vene in quel biancore. Qua e là delle piante sporgono dai muri. Molte sono in fiore e molte sono già coperte di foglie novelle. Deve essere primavera.
 A sinistra, rispetto a me che guardo, vi è un grande agglomerato, fatto a tre ordini di terrazze coperte di fabbricati, e torri e cortili e porticati, al centro del quale si alza un più alto, maestoso, ricchissimo fabbricato a cupole tonde, splendenti al sole come fossero coperte di metallo: rame od oro. Il tutto è recinto da una muraglia merlata: come fosse una fortezza. Una torre più alta delle altre, posta a cavalcioni di una via piuttosto stretta e che è in salita, domina nettamente quel vasto agglomerato. Sembra una sentinella severa.
 Gesù guarda fissamente quel luogo. Poi torna a voltarsi, riappoggiando la schiena al muretto, come era prima, e guarda un monticiattolo che sta di fronte all’agglomerato. Un monticiattolo assalito dalle case sino alla base, poi lasciato nudo. Vedo che una via termina là con un arco, oltre il quale non c’è che una via lastricata a pietre quadrangolari, irregolari e sconnesse. Non sono troppo grandi, non come le pietre delle strade consolari romane; sembrano piuttosto le classiche pietre dei vecchi marciapiedi viareggini (non so se ne esistano ancora) ma messe senza connessione. Una stradaccia. Il volto di Gesù si fa tanto serio che io mi fisso a cercare su quel monticiattolo la causa di questa malinconia. Ma non trovo nulla di speciale. È un’altitudine nuda. E basta. In cambio perdo Gesù, perché quando mi volgo non è più lì. E mi assopisco con questa visione.

  3Mi accosto al gruppo dei dottori, dove si è iniziata una disputa[87] teologica. Molta folla fa la stessa cosa.
  Fra i “dottori” vi è un gruppo capitanato da uno chiamato Gamaliele e da un altro, vecchio e quasi cieco, che sostiene Gamaliele nella disputa. Costui, che sento chiamare Hillel (metto l’h perché sento una aspirazione in principio al nome) mi pare maestro o parente di Gamaliele, perché questo lo tratta con confidenza e rispetto insieme. Il gruppo di Gamaliele ha vedute più larghe, mentre un altro gruppo, ed è il più numeroso, è diretto da uno che chiamano Sciammai, ed è dotato di quell’intransigenza astiosa e retriva che il Vangelo tanto bene ci illustra.
  Gamaliele, circondato da un folto gruppo di discepoli, parla della venuta del Messia e, appoggiandosi alla profezia di Daniele, sostiene che il Messia deve ormai essere nato, perché da una decina d’anni circa le settanta settimane profetate sono compiute da quando era uscito il decreto di ricostruzione del Tempio. Sciammai lo combatte asserendo che, se è vero che il Tempio è stato riedificato, è anche vero che la schiavitù di Israele è aumentata, e la pace, che avrebbe dovuto portare seco Colui che i Profeti chiamavano «Principe della Pace», è ben lontana d’essere nel mondo e specie a Gerusalemme, oppressa da un nemico che osa spingere la sua dominazione fin entro il recinto del Tempio, dominato dalla torre Antonia piena di legionari romani, pronti a sedare con la spada ogni tumulto di indipendenza patria.
  La disputa, piena di cavilli, va per le lunghe. Ogni maestro fa sfoggio di erudizione, non tanto per vincere il rivale, quanto per imporsi all’ammirazione degli ascoltatori. È palese questo intento.

  4Dal folto del gruppo dei fedeli esce una fresca voce di fanciullo: «Gamaliele ha ragione».
  Movimento della folla e del gruppo dottorale. Si cerca l’interruttore. Ma non occorre cercarlo. Non si nasconde. Si fa largo da sé e si accosta al gruppo dei “rabbi”. Riconosco il mio Gesù adolescente. È sicuro e franco, con due sfavillanti occhi pieni di intelligenza.
  «Chi sei?», gli chiedono.
  «Un figlio di Israele venuto a compiere ciò che la Legge ordina».
  La risposta ardita e sicura piace e ottiene sorrisi di approvazione e benevolenza. Ci si interessa del piccolo israelita.
  «Come ti chiami?».
  «Gesù di Nazareth».
  La benevolenza si smorza nel gruppo di Sciammai. Ma Gamaliele, più benigno, prosegue il dialogo insieme ad Hillel. Anzi è proprio Gamaliele che con deferenza dice al vecchio: «Chiedi al fanciullo qualcosa».
  «Su cosa fondi la tua sicurezza?», chiede Hillel.
  (Metto i nomi in testa alle risposte per abbreviare e rendere chiaro).
  Gesù: «Sulla profezia che non può errare nell’epoca e sui segni che l’hanno accompagnata quando fu il tempo del suo avverarsi. È vero che Cesare ci domina. Ma il mondo era tanto in pace e la Palestina tanto in calma quando si compirono le settanta settimane, che fu possibile a Cesare ordinare il censimento nei suoi domini. Non lo avrebbe potuto se la guerra fosse stata nell’Impero e le sommosse in Palestina. Come era compìto quel tempo, così si sta compiendo l’altro delle sessantadue più una dal compimento del Tempio, perché il Messia sia unto e si avveri il seguito della profezia per il popolo che non lo volle. Potete avere dubbi? Non ricordate che la stella fu vista dai Savi d’Oriente e che andò a posarsi proprio sul cielo di Betlemme di Giuda e che le profezie e le visioni, da Giacobbe in poi, indicano quel luogo come il destinato ad accogliere la nascita del Messia, figlio del figlio del figlio di Giacobbe, attraverso Davide che era di Betlemme? Non ricordate Balaam? “Una stella nascerà da Giacobbe”. I Savi d’Oriente, che la purezza e la fede rendevano occhi e orecchi aperti, hanno visto la stella e compreso il suo nome: “Messia”, e sono venuti ad adorare la Luce scesa nel mondo».

  5Sciammai, con sguardo livido: «Tu dici che il Messia nacque nel tempo della stella a Betlemme-Efrata?».
  Gesù: «Io lo dico».
  Sciammai: «Allora non vi è più. Non sai, fanciullo, che Erode fece uccidere tutti i nati di donna, da un giorno a due anni d’età, di Betlemme e dintorni? Tu, tanto sapiente nella Scrittura, devi sapere anche questo: “Un grido s’è sentito nell’alto… È Rachele che piange i suoi figli”. Le valli e le cime di Betlemme, che hanno raccolto il pianto di Rachele morente, sono rimaste piene di pianto, e le madri l’hanno ripetuto sui figli uccisi. Fra esse era certo anche la Madre del Messia».
  Gesù: «Ti sbagli, o vecchio. Il pianto di Rachele s’è volto in osanna, perché là dove essa ha dato alla luce il “figlio del suo dolore”, la nuova Rachele ha dato al mondo il Beniamino del Padre celeste, il Figlio della sua destra, Colui che è destinato a riunire il popolo di Dio sotto il suo scettro e a liberarlo dalla più tremenda schiavitù».
  Sciammai: «E come, se Egli fu ucciso?».
  Gesù: «Non hai letto di Elia? Egli fu rapito dal cocchio di fuoco. E non potrà il Signore Iddio aver salvato il suo Emmanuele perché fosse Messia del suo popolo? Egli, che ha aperto il mare davanti a Mosè perché Israele passasse a piede asciutto verso la sua terra, non avrà potuto mandare i suoi angeli a salvare il Figlio suo, il suo Cristo, dalla ferocia dell’uomo? In verità vi dico: il Cristo vive ed è fra voi, e quando sarà la sua ora si manifesterà nella sua potenza». Gesù, nel dire queste parole, che sottolineo, ha nella voce uno squillo che empie lo spazio. I suoi occhi sfavillano più ancora e, con mossa d’imperio e promessa, Egli tende il braccio e la mano destra e li abbassa come per giurare. È un fanciullo, ma è solenne come un uomo.

  6Hillel: «Fanciullo, chi ti ha insegnato queste parole?».
  Gesù: «Lo Spirito di Dio. Non ho maestro umano. Questa è la Parola del Signore che vi parla attraverso le mie labbra».
  Hillel: «Vieni fra noi, che io ti veda da presso, o fanciullo, e la mia speranza si ravvivi a contatto della tua fede e la mia anima si illumini al sole della tua».
  E Gesù viene fatto sedere su un alto sgabello fra Gamaliele e Hillel, e gli vengono porti dei rotoli perché li legga e spieghi. È un esame in piena regola. La folla si accalca e ascolta.
  La voce fanciulla di Gesù legge: «“Consolati, o mio popolo. Parlate al cuore di Gerusalemme, consolatela perché la sua schiavitù è finita… Voce di uno che grida nel deserto: preparate le vie del Signore… Allora apparirà la gloria del Signore…”».
  Sciammai: «Lo vedi, o nazareno! Qui si parla di schiavitù finita. Mai come ora siamo schiavi. Qui si parla di un precursore. Dove è egli? Tu farnetichi».
  Gesù: «Io ti dico che a te più che agli altri va fatto l’invito del Precursore. A te e ai tuoi simili. Altrimenti non vedrai la gloria del Signore né comprenderai la parola di Dio, perché le bassezze, le superbie, le doppiezze ti faranno ostacolo a vedere ed udire».
  Sciammai: «Così parli ad un maestro?».
  Gesù: «Così parlo. E così parlerò sino alla morte. Poiché sopra il mio utile sta l’interesse del Signore e l’amore alla Verità di cui sono Figlio. E ti aggiungo, o rabbi, che la schiavitù di cui parla il Profeta, e di cui Io parlo, non è quella che credi, come la regalità non sarà quella che pensi. Ma sibbene per merito del Messia verrà reso libero l’uomo dalla schiavitù del Male che lo separa da Dio, e il segno del Cristo sarà sugli spiriti, liberati da ogni giogo e fatti sudditi dell’eterno Regno. Tutte le nazioni curveranno il capo, o stirpe di Davide, davanti al Germoglio nato da te e divenuto albero che copre tutta la Terra e si alza al Cielo. E in Cielo e in Terra ogni bocca loderà il suo Nome e piegherà il ginocchio davanti all’Unto di Dio, al Principe della Pace, al Condottiero, a Colui che con Se stesso avrà inebriato ogni anima stanca e saziato ogni anima affamata, al Santo che stipulerà una alleanza fra Terra e Cielo. Non come quella stipulata coi Padri d’Israele quando Dio li trasse d’Egitto trattandoli ancora da servi, ma imprimendo la paternità celeste nello spirito degli uomini con la Grazia nuovamente infusa per i meriti del Redentore, per il quale tutti i buoni conosceranno il Signore e il Santuario di Dio non sarà più abbattuto e distrutto».
  Sciammai: «Ma non bestemmiare, fanciullo! Ricorda Daniele. Egli dice che, dopo l’uccisione del Cristo, il Tempio e la Città saranno distrutti da un popolo e da un condottiero che verrà. E Tu sostieni che il Santuario di Dio non sarà più abbattuto! Rispetta i Profeti!».
  Gesù: «In verità ti dico che vi è Qualcuno che è da più dei Profeti, e tu non lo conosci e non lo conoscerai, perché te ne manca la voglia. E ti dico che quanto ho detto è vero. Non conoscerà più morte il Santuario vero. Ma, come il suo Santificatore, risorgerà a vita eterna e alla fine dei giorni del mondo vivrà in Cielo».

  7Hillel: «Ascolta me, fanciullo. Aggeo dice: ” … Verrà il Desiderato delle genti… Grande sarà allora la gloria di questa casa, e di quest’ultima più della prima “. Vuol forse parlare del Santuario di cui Tu parli?».
   Gesù: «Si, maestro. Questo vuol dire. La tua rettezza ti porta verso la Luce ed Io te lo dico: quando il Sacrificio del Cristo sarà compiuto, a te verrà pace, poiché sei un israelita senza malizia».
   Gamaliele: «Dimmi, Gesù. La pace di cui parlano i Profeti come può sperarsi se a questo popolo verrà distruzione di guerra? Parla e da’ luce anche a me».
   Gesù: «Non ricordi, maestro, cosa dissero coloro che furono presenti la notte della nascita del Cristo? Che le schiere angeliche cantarono: “Pace agli uomini di buona volontà”. Ma questo popolo non ha buona volontà e non avrà pace. Esso misconoscerà il suo Re, il Giusto, il Salvatore, perché lo spera re di umana potenza, mentre Egli è Re dello spirito. Esso non lo amerà, dato che il Cristo predicherà ciò che a questo popolo non piace. Il Cristo non debellerà i nemici coi loro cocchi e i loro cavalli, ma i nemici dell’anima, che piegano a possesso infernale il cuore dell’uomo creato per il Signore. E questa non è la vittoria che Israele si attende da Lui. Egli verrà, Gerusalemme, il tuo Re, cavalcando ” l’asina e l’asinello “, ossia i giusti di Israele e i gentili. Ma l’asinello, Io ve lo dico, sarà a Lui più fedele e lo seguirà precedendo l’asina e crescerà nella via della Verità e della Vita. Israele per la sua mala volontà perderà la pace e soffrirà in sé, per dei secoli, ciò che farà soffrire al suo Re, che sarà da esso ridotto il Re di dolore di cui parla Isaia».

  8Sciammai: «La tua bocca sa insieme di latte e di bestemmia, nazareno. Rispondi: e dove è il Precursore? Quando lo avemmo?».
  Gesù: «Egli è. Non dice Malachia: “Ecco, io mando il mio angelo a preparare davanti a Me la strada; e subito verrà al suo Tempio il Dominatore da voi cercato e l’Angelo del Testamento, da voi bramato”? Dunque il Precursore precede immediatamente il Cristo. Egli già è, come è il Cristo. Se anni passassero fra colui che prepara le vie al Signore e il Cristo, tutte le vie tornerebbero ingombre e contorte. Dio lo sa e predispone che il Precursore anticipi di un’ora sola il Maestro. Quando vedrete questo Precursore, potrete dire: “La missione del Cristo ha inizio”. A te dico: il Cristo aprirà molti occhi e molti orecchi quando verrà a queste vie. Ma non le tue e quelle dei tuoi pari, che gli darete morte per la Vita che vi porta. Ma quando più alto di questo Tempio, più alto del Tabernacolo chiuso nel Santo dei santi, più alto della Gloria sostenuta dai Cherubini, il Redentore sarà sul suo trono e sul suo altare, maledizione ai deicidi e vita ai gentili fluiranno dalle sue mille e mille ferite, perché Egli, o maestro che non sai, non è, lo ripeto, Re di un regno umano, ma di un Regno spirituale, e suoi sudditi saranno unicamente coloro che per suo amore sapranno rigenerarsi nello spirito e, come Giona, dopo esser già nati, rinascere, su altri lidi: “quelli di Dio”, attraverso la spirituale generazione che avverrà per Cristo, il quale darà all’umanità la Vita vera».

  9Sciammai e i suoi accoliti: «Questo nazareno è Satana!».
  Hillel e i suoi: «No. Questo fanciullo è Profeta di Dio. Resta con me, Bambino. La mia vecchiezza trasfonderà quanto sa al tuo sapere, e Tu sarai Maestro del popolo di Dio».
  Gesù: «In verità ti dico che, se molti fossero come tu sei, salute verrebbe ad Israele. Ma la mia ora non è venuta. A Me parlano le voci del Cielo e nella solitudine le devo raccogliere finché non sarà la mia ora. Allora con le labbra e col sangue parlerò a Gerusalemme, e sarà mia la sorte dei Profeti lapidati e uccisi da essa. Ma sopra il mio essere è quello del Signore Iddio, al quale Io sottometto Me stesso come servo fedele per fare di Me sgabello alla sua gloria, in attesa che Egli faccia del mondo sgabello ai piedi del Cristo. Attendetemi nella mia ora. Queste pietre riudranno la mia voce e fremeranno alla mia ultima parola. Beati quelli che in quella voce avranno udito Iddio e crederanno in Lui attraverso ad essa. A questi il Cristo darà quel Regno che il vostro egoismo sogna umano, mentre è celeste, e per il quale Io dico: “Ecco il tuo servo, Signore, venuto a fare la tua volontà. Consumala, perché di compierla Io ardo”».
  E qui, con la visione di Gesù col volto infiammato di ardore spirituale alzato al cielo, le braccia aperte, ritto in piedi fra i dottori attoniti, mi finisce la visione.
 (e sono le 3,30 del 29).

   29 gennaio 1944

 10Avrei qui da dirle due cose che la interessano certo e che avevo deciso di scrivere non appena tornata dal sopore. Ma siccome c’è dell’altro più pressante, scriverò poi.
  […].
  Quello che le volevo dire all’inizio è questa cosa.
  Lei oggi mi diceva come avevo potuto sapere i nomi di Hillel e Gamaliele e quello di Sciammai.
  È la voce che io chiamo «seconda voce» quella che mi dice queste cose. Una voce ancor meno sensibile di quella del mio Gesù e degli altri che dettano. Queste sono voci, gliel’ho detto e glielo ripeto, che il mio udito spirituale percepisce uguali a voci umane. Le sento dolci o irate, forti o leggere, ridenti o meste. Come uno parlasse proprio vicino a me. Mentre questa «seconda voce» è come una luce, una intuizione che parla nel mio spirito. «Nel», non «al» mio spirito. È una indicazione.
  Così, mentre io mi avvicinavo al gruppo dei disputanti e non sapevo chi era quell’illustre personaggio che a fianco di un vecchio disputava con tanto calore, questo «che» interno mi disse: «Gamaliele – Hillel». Sì. Prima Gamaliel e poi Hillel. Non ho dubbi. Mentre pensavo chi erano costoro, questo indicatore interno mi indicò il terzo antipatico individuo proprio mentre Gamaliel lo chiamava a nome. E così ho potuto sapere chi era costui dal farisaico aspetto.

   22 febbraio 1944

 11Dice Gesù:
  «Torniamo indietro molto, molto. Torniamo al Tempio, dove Io dodicenne sto disputando. Anzi torniamo nelle vie che conducono a Gerusalemme e da Gerusalemme al Tempio.
  Vedi l’angoscia di Maria quando, riunitesi le schiere degli uomini e delle donne, Ella vede che Io non sono con Giuseppe.
  Non alza la voce in rimproveri aspri verso lo sposo. Tutte le donne l’avrebbero fatto. Lo fate per molto meno, dimenticando che l’uomo è sempre il capo di casa. Ma il dolore che traspare dal volto di Maria trafigge Giuseppe più d’ogni rimprovero. Non si abbandona Maria a scene drammatiche. Per molto meno lo fate, amando d’esser notate e compatite. Ma il suo dolore contenuto è così palese, dal tremito che la prende, dal volto che impallidisce, dagli occhi che si dilatano, che commuove più d’ogni scena di pianto e clamore.
  Non sente più fatica, non fame. E il cammino era stato lungo e da tante ore non s’era preso ristoro! Ma Ella lascia tutto. E il giaciglio che si sta preparando e il cibo che sta per essere distribuito. E torna indietro. È sera, scende la notte. Non importa. Ogni passo la riporta verso Gerusalemme. Ferma le carovane, i pellegrini. Interroga. Giuseppe la segue, la aiuta. Un giorno di cammino a ritroso e poi l’affannosa ricerca per la città.
  Dove, dove può essere il suo Gesù? E Dio permette che Ella non sappia per tante ore dove cercarmi. Cercare un bambino nel Tempio era cosa senza giudizio. Che ci doveva fare un bambino nel Tempio? Al massimo, se s’era sperduto per la città ed era tornato là dentro, portato dai suoi piccoli passi, la sua voce piangente avrebbe chiamato la mamma ed attirato l’attenzione degli adulti, dei sacerdoti, i quali avrebbero provveduto a ricercare i genitori con dei bandi messi alle porte. Ma non c’era nessun bando. Nessuno in città sapeva di questo Bambino. Bello? Biondo? Robusto? Eh! ce ne sono tanti! Troppo poco per poter dire: “L’ho visto. Era là e là”!

 12Poi, dopo tre giorni, simbolo di altri tre giorni di angoscia futura, ecco che Maria esausta penetra nel Tempio, scorre i cortili e i vestiboli. Nulla. Corre, corre, la povera Mamma, là dove sente una voce di bimbo. E fin gli agnelli col loro belare le paiono il pianto della sua Creatura che la cerca. Ma Gesù non piange. Ammaestra. Ecco che Maria sente, oltre una barriera di persone, la cara voce che dice: “Queste pietre fremeranno…”. Ella cerca di fendere la calca e vi riesce dopo molto stento. Eccolo, il Figlio, a braccia aperte, ritto fra i dottori.
  Maria è la Vergine prudente. Ma questa volta l’affanno soverchia la sua riservatezza. È una diga che abbatte ogni altra cosa. Corre al Figlio, lo abbraccia, levandolo dallo sgabello e posandolo al suolo, ed esclama: “Oh! perché ci hai fatto questo? Da tre giorni ti andiamo cercando. La tua Mamma sta per morire di dolore, Figlio. Il padre tuo è sfinito di fatica. Perché, Gesù?”.
  Non si chiedono i “perché” a Chi sa. I “perché” del suo modo di agire. Ai vocati non si chiede “perché” lasciano tutto per seguire la voce di Dio. Io ero Sapienza e sapevo. Io ero “vocato” ad una missione e la compivo. Sopra il padre e la madre della Terra vi è Dio, Padre divino. I suoi interessi superano i nostri, i suoi affetti sono superiori ad ogni altro. Io lo dico a mia Madre.
  Termino l’insegnamento ai dottori con l’insegnamento a Maria, Regina dei dottori. Ed Ella non se lo è più dimenticato. Il sole le è tornato nel cuore avendomi per mano, umile e ubbidiente, ma le mie parole le sono pure nel cuore. Molto sole e molte nubi scorreranno nel cielo durante quei ventuno anni in cui sarò ancora sulla Terra. E molta gioia e molto pianto si alternerà nel suo cuore per altri ventuno anni. Ma Ella non chiederà più: “Perché, Figlio mio, ci hai fatto questo?”.
 Imparate, o uomini protervi.

 13Ho istruito e illuminato Io la visione, perché tu non sei in grado di fare di più. ».

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *