Vangelo Gv 10, 1-10: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Se uno entra attraverso di me, sarà salvato».

Vangelo Gv 10, 1-10
Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».


Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato

   Cap. DXVIII. A Gerusalemme, l’incontro con il cieco guarito e il discorso che rivela in Gesù il buon Pastore.

  25 ottobre 1946

 Gesù, entrato in città dalla porta di Erode, sta attraversandola dirigendosi verso il Tiropeo e il borgo di Ofel.
   «Al Tempio ci andiamo?», chiede l’Iscariota. 
   «Sì».
   «Bada a ciò che fai! », ammoniscono in molti. 
   «Non mi fermerò che il tempo della preghiera». 
   «Ti tratterranno».
   «No. Entreremo dalle porte di settentrione e usciremo dalle porte di mezzogiorno, e non faranno a tempo ad organizzarsi per nuocermi. A meno che ci sia sempre alle mie spalle uno che mi sorveglia e indica».
Nessuno ribatte e Gesù prosegue verso il Tempio che appa­re, in cima al suo colle, quasi spettrale nella luce verde gialla­stra di un plumbeo mattino d’inverno, nel quale il sole sorgen­te è soltanto un ricordo che si ostina a tenersi presente cercan­do di aprirsi un varco nella nuvolaglia pesante. Sforzo vano! Lo splendere allegro dell’aurora non è ridotto che ad un rifles­so smorto di un giallo irreale, non diffuso, ma a chiazze miste a toni di piombo venato di verde. E sotto a questa luce i marmi e gli ori del Tempio appaiono smorti, tristi, direi lugubri come rovine emergenti da una zona di morte.
   Gesù lo guarda intensamente nel salire verso la cinta. E guarda i volti dei viandanti mattutini. Per la più parte umile gente: ortolani, pastori con le bestiole da macello, servi o mas­saie diretti ai mercati. Tutta gente che va via silenziosa, rav­volta nei mantelli, un poco curva per difendersi dall’aria vi­brata del mattino. Anche i volti sembrano più pallidi che non come sono solitamente i volti di questa razza. È la luce strana che li fa così verdastri o quasi perlacei nel contorno delle stoffe colorate dei manti, non certo atti nei loro verdi, viola vivo, giallo intenso, a gettare riflessi rosei sui volti. Qualcuno saluta il Maestro, ma non si ferma. Non è ora propizia. Mendichi non ce ne sono ancora a gettare il loro lamentoso grido ai crocicchi e sotto i voltoni che coprono le vie ad ogni poco. L’ora e la sta­gione contribuiscono alla libertà, per Gesù, di andare senza ostacoli.
   Eccoli alla cinta. Entrano. Vanno nell’atrio degli Israeliti. Pregano mentre un suono di trombe, direi di argento per il loro timbro, annuncia certo qualcosa di importante, spargendosi per il colle e mentre un profumo di incenso si sparge soave­mente, soverchiando ogni altro odore meno piacevole che pos­sa sentirsi in cima al Moria, ossia il perpetuo, direi naturale, odore di carne che viene sgozzata e consumata dal fuoco, di farina bruciata, di olio ardente che stagna sempre lassù, più o meno forte ma sempre presente per i continui olocausti.
   Vengono via per altra direzione e cominciano ad essere no­tati dai primi accorrenti al Tempio, da appartenenti allo stes­so, dai cambiavalute e venditori che stanno montando i loro banchi e i loro recinti. Ma sono troppo pochi, e la sorpresa è tale che non sanno agire. Fra loro si scambiano parole di stu­pore: «È tornato!», «Non è andato in Galilea come dicevano», «Ma dove era nascosto, se non fu trovato in nessun luogo?», «Vuole proprio sfidarli», «Che stolto!», «Che santo!», e così via, a seconda dell’animo dei singoli.

 Gesù è già fuori dal Tempio e scende verso la strada che va verso Ofel, quando, all’incrocio con delle vie che salgono a Sion, si imbatte nel cieco nato, guarito da poco, che carico di ceste piene di mele odorose cammina tutto allegro, scherzando con altri giovani ugualmente carichi che vanno in senso oppo­sto al suo.
   Forse al giovane passerebbe inosservato l’incontro, dato che egli ignora il volto di Gesù e quello degli apostoli. Ma Gesù non ignora il volto del miracolato. E lo chiama. Sidonia detto Bartolmai si volge e guarda interrogativamente l’uomo alto e maestoso, nonostante sia vestito umilmente, che lo chiama a nome dirigendosi ad una vietta.
   «Vieni qui», ordina Gesù.
   Il giovane si avvicina senza posare il suo carico, sogguarda Gesù e, credendolo uno desideroso di acquistare le mele, dice: «Il mio padrone le ha già vendute. Ma ne ha ancora, se vuoi. Sono belle e buone. Venute ieri dai pometi di Saron. E se ne comperi molte ne hai un forte sconto, perché…».
   Gesù sorride alzando la destra a porre freno alla parlantina del giovane. E dice: «Non ti ho chiamato per acquistare le me­le, ma per rallegrarmi con te e benedire con te l’Altissimo che ti ha usato grazia».
   «Oh, sì! Io lo faccio di continuo, e per la luce che vedo e per il lavoro che posso fare, aiutando mio padre e mia madre, fi­nalmente. Ho trovato un buon padrone. Non è ebreo, ma è buono. Gli ebrei non mi volevano per… perché sanno che sono stato cacciato dalla sinagoga», dice il giovane posando al suolo le ceste.
   «Ti hanno cacciato? Perché? Che hai fatto?».
   «Io niente. Te lo assicuro. Il Signore ha fatto. Egli in sabato mi ha fatto trovare quell’uomo che si dice sia il Messia, ed Egli mi ha guarito, come Tu vedi. E per questo mi hanno cacciato». 
   «Allora Colui che ti ha guarito non ti ha fatto in tutto un buon servizio», tenta Gesù.
   «Non lo dire, uomo! È una bestemmia la tua! Prima di tutto mi ha mostrato che Dio mi ama, poi mi ha dato la vista… Tu non sai cosa è “vedere”, perché hai sempre visto. Ma uno che non aveva mai visto! Oh!… È… Sono tutte le cose insieme che si hanno con la vista. Io ti dico che quando ho visto, là presso Siloe, ho riso e pianto, ma di gioia, eh? Ho pianto come non avevo pianto nella sventura. Perché ho capito allora quanto essa era grande e quanto buono era l’Altissimo. E poi posso guadagnarmi la vita, e con lavoro decoroso. E poi… – questo è quello che più di tutto spero mi conceda il miracolo avuto – e poi spero poter incontrare l’uomo che si dice Messia e il suo di­scepolo che mi ha…».
«E che faresti allora?».
«Lo vorrei benedire. Lui e il suo discepolo. E vorrei dire al Maestro, che deve venire proprio da Dio, di prendermi per suo servo».
«Come? Per causa sua sei all’anatema, con fatica trovi lavo­ro, puoi essere anche più punito, e vuoi servirlo? Non sai che sono perseguitati tutti coloro che seguono Colui che ti ha gua­rito?».
   «Eh! lo so! Ma Egli è il Figlio di Dio, così si dice fra noi. Per quanto quelli di lassù (e accenna al Tempio) non vogliono che si dica. E non merita lasciare tutto per servire Lui?».

 «Credi tu dunque nel Figlio di Dio e nella sua presenza in Palestina?».
   «Io lo credo. Ma vorrei conoscerlo per credere in Lui non solamente nell’intelletto ma con tutto me stesso. Se Tu sai chi è e dove si trova, dimmelo, perché io vada a Lui e lo veda, e cre­da completamente in Lui, e lo serva».
   «Lo hai veduto già, né c’è bisogno che tu vada a Lui. Quello che tu vedi in questo momento e che ti parla è il Figlio di Dio».
   Io non potrei asserirlo con piena sicurezza, ma mi è parso che nel dire queste parole Gesù abbia quasi avuto una brevis­sima trasfigurazione, divenendo bellissimo e direi splendente. Direi che, per premiare l’umile credente in Lui e confermarlo nella sua fede, abbia, per la durata di un baleno, svelato la sua bellezza futura, voglio dire quella che assumerà dopo la risur­rezione e conserverà nel Cielo, la sua bellezza di creatura uma­na glorificata, di corpo glorificato e fuso all’inesprimibile bel­lezza della Perfezione che è sua. Un attimo, dico. Un baleno. Ma l’angolo semioscuro, dove si sono ridotti per parlare, sotto l’archivolto del vicolo, si illumina stranamente di una lumino­sità che si sprigiona da Gesù che, ripeto, si fa bellissimo.
   Poi torna tutto come prima, meno il giovane che ora è a ter­ra, col viso nella polvere, e che adora dicendo: «Io credo, Si­gnore, mio Dio! ».
   «Alzati. Io sono venuto nel mondo per portare la luce e la conoscenza di Dio e per provare gli uomini e giudicarli. Questo mio tempo è tempo di scelta, di elezione e di selezione. Io sono venuto perché i puri di cuore e d’intenzione, gli umili, i man­sueti, gli amanti della giustizia, della misericordia, della pace, coloro che piangono e quelli che sanno dare alle diverse ric­chezze il loro reale valore e preferire quelle spirituali alle ric­chezze materiali, trovino ciò che il loro spirito anela, e quelli che erano ciechi, perché gli uomini hanno alzato muraglie spesse ad interdire la luce, ossia la conoscenza di Dio, vedano, e quelli che si credono veggenti divengano ciechi… ».

 «Allora Tu odii molta parte degli uomini e non sei buono come dici di essere. Se lo fossi, cercheresti che tutti vedessero, e chi già vede non divenisse cieco», interrompono alcuni fari­sei sopraggiunti dalla via principale e avvicinatisi con altri, cautamente, alle spalle del gruppo apostolico.
   Gesù si volge e li guarda. Non è certo più trasfigurato in dolce bellezza, ora! È un Gesù ben severo quello che fissa sui suoi persecutori i suoi sguardi di zaffiro, e la sua voce non ha più la nota d’oro della letizia, ma è bronzea, e come suono di bronzo è incisiva e severa mentre risponde: «Non sono Io quel­lo che voglio che non vedano la verità coloro che al presente la combattono. Ma sono essi stessi che alzano delle lastre davanti alle loro pupille per non vedere. E si fanno ciechi di loro libera volontà. E il Padre mi ha mandato perché la divisione avvenga e siano veramente noti i figli della Luce e quelli delle Tenebre, coloro che vogliono vedere e coloro che vogliono farsi ciechi».
   «Siamo forse anche noi fra questi ciechi?».
   «Se lo foste e cercaste di vedere, non ne avreste colpa. Ma è perché dite: “Noi ci vediamo”, e poi non volete vedere, che peccate. Il vostro peccato rimane perché non cercate di vedere pur essendo dei ciechi».
   «E cosa dobbiamo vedere?».
   «La Via, la Verità, la Vita. Un cieco nato, come era costui, col suo bastoncello può sempre trovare la porta della sua casa e girare in essa, perché conosce la sua casa. Ma, se fosse porta­to in altri luoghi, non potrebbe en-trare dalla porta della nuova casa, perché non saprebbe dove si trova e darebbe di cozzo contro le muraglie.

 Il tempo della nuova Legge è venuto. Tutto si rinnova e un mondo nuovo, un nuovo popolo, un nuovo regno sorgono. Ora quelli del tempo passato non conoscono tutto questo. Essi co­noscono il loro tempo. Sono come dei ciechi portati in un nuo­vo paese dove è la casa regale del Padre, ma della quale non conoscono l’ubicazione.
   Io sono venuto per condurli ed intro­durli in essa e perché vedano. Ma sono Io stesso la Porta per la quale si accede nella casa paterna, nel Regno di Dio, nella Lu­ce, nella Via, nella Verità, nella Vita. E sono anche Colui che è venuto a radunare il gregge rimasto senza guida e a condurlo in un unico ovile: in quello del Padre. Io so la porta dell’Ovile, perché sono insieme Porta e Pastore. E vi entro e vi esco come e quando voglio. E vi entro liberamente, e dalla porta, perché sono il vero Pastore.
   Quando uno viene a dare alle pecore di Dio altre indicazio­ni, o cerca traviarle portandole ad altre dimore e ad altre vie, non è il buon Pastore, ma è un pastore idolo. E così, chi non entra dalla porta dell’ovile, ma cerca di entrarvi da un’altra parte scavalcando il recinto, non è il pastore ma un ladro e un assassino che vi entra con intento di rubare e di uccidere, per­ché gli agnelli predati non abbiano voce di lamento e non ri­chiamino l’attenzione dei guardiani e del pastore. Anche fra le pecore del gregge d’Israele cercano di insinuarsi dei falsi pa­stori per traviarle fuori dai pascoli, lontane dal Pastore vero. E vi entrano disposti anche a strapparle dal gregge con la violen­za, e all’occorrenza sono anche disposti ad ucciderle e colpirle in tante maniere, perché non parlino dicendo al Pastore le astuzie dei falsi pastori né gridino a Dio di proteggerle contro i loro avversari e gli avversari del Pastore.
   Io sono il buon Pastore e le mie pecore mi conoscono, e mi conoscono coloro che sono in eterno i portinai del vero Ovile. Essi hanno conosciuto Me e il mio Nome e lo hanno detto per­ché fosse noto ad Israele, e mi hanno descritto e preparato le mie vie, e quando la mia voce si è udita, ecco che l’ultimo di es­si mi ha aperto la porta, dicendo al gregge in attesa del vero Pastore, al gregge stretto intorno al suo bastone: “Ecco! Questo è Colui di cui ho detto che viene dietro di me. Uno che mi pre­cede perché esisteva prima di me ed io non lo conoscevo. Ma per questo, perché siate pronti a riceverlo, sono venuto a bat­tezzare con l’acqua, affinché fosse manifestato in Israele”. E le pecore buone hanno sentito la mia voce e, quando le ho chia­mate per nome, esse sono accorse e le ho condotte meco, così come fa un vero pastore noto alle pecore che lo riconoscono al­la voce e lo seguono dovunque egli vada. E quando le ha fatte uscire tutte, cammina davanti ad esse, ed esse gli vanno dietro perché amano la voce del pastore. Mentre non vanno dietro ad uno straniero, ma anzi fuggono lontano da lui perché non lo co­noscono e lo temono. Io pure cammino davanti alle mie pecore per segnare loro la via ed affrontare per primo i pericoli e se­gnalarli al gregge, che voglio condurre in salvo nel mio Regno».

 «Che Israele non è più forse il regno di Dio?».
   «Israele è il luogo da dove il popolo di Dio deve assurgere alla vera Gerusalemme e al Regno di Dio».
   «E il Messia promesso, allora? Quel Messia che Tu asserisci di essere, non deve dunque rendere trionfante Israele, glorioso, padrone del mondo, assoggettando al suo scettro tutti i popoli e vendicandosi, oh!, vendicandosi ferocemente di tutti coloro che lo hanno assoggettato da quando è popolo? Non è vero nul­la di questo, allora? Tu neghi i profeti? Tu dici stolti i rabbi no­stri? Tu… ».
   «Il Regno del Messia non è di questo mondo. Esso è il Regno di Dio, fondato sull’amore. Non altro è. E il Messia non è re di popoli e milizie, ma re di spiriti. Dal popolo eletto verrà il Messia, dalla stirpe regale, e soprattutto da Dio che lo ha gene­rato e mandato. Dal popolo di Israele si è iniziata la fondazio­ne del Regno di Dio, la promulgazione della Legge d’amore, l’annuncio della buona Novella della quale parla il profeta (Isaia 61, 1). Ma il Messia sarà Re del mondo, Re dei re, e il suo Regno non avrà limite e confine, né nel tempo né nello spazio. Aprite gli occhi ed accettate la verità».
   «Non abbiamo capito niente del tuo farneticare. Dici parole senza nesso. Parla e rispondi senza parabole. Sei o non sei il Messia?».
   «E non avete ancora capito? Vi ho detto che sono Porta e Pastore per questo. Finora nessuno ha potuto entrare nel Re­gno di Dio perché esso era murato e senza uscite. Ma ora Io so­no venuto e la porta per entrare in esso è fatta».
   «Oh! Altri hanno detto di essere il Messia, e sono poi stati riconosciuti per dei ladroni e dei ribelli, e la giustizia umana ha punito la loro ribaldine. Chi ci assicura che Tu non sei come essi? Siamo stanchi di soffrire e di far soffrire al popolo il rigo­re di Roma, in grazia di mentitori che si dicono re e fanno al­zare il popolo a sommossa! ».
   «No. Non è esatta la vostra frase. Voi non volete soffrire, ciò è vero. Ma che il popolo soffra non ve ne duole. Tanto è vero che al rigore di chi ci domina unite il vostro rigore, opprimen­do con le decime esose e molte altre cose il popolo minuto. Chi vi assicura che Io non sia un malandrino? Le mie azioni. Non sarò Io quello che fa pesante la mano di Roma. Ma anzi, se mai, Io la alleggerisco consigliando a dominatori e dominati pazienza e umanità. Almeno queste».
   Molta gente – perché ormai molta se ne è aggruppata e sempre cresce, tanto che ne è ingombro il traffico sulla via grande e perciò rifluiscono tutti nel vicoletto, sotto le volte del quale le voci rimbombano – approva dicendo: «Ben detto per le decime! È vero! Egli consiglia a noi sommissione e ai romani pietà».

 I farisei, come sempre, si inveleniscono per le approvazioni della folla e divengono ancor più mordenti nel tono con cui si rivolgono al Cristo. «Rispondi senza tante parole e dimostra che sei il Messia».
   «In verità, in verità Io vi dico che lo sono. Io, Io soltanto so­no la Porta dell’ovile dei Cieli. Chi non passa da Me non può entrare. È vero. Ci sono stati altri falsi Messia, e altri ancora ce ne saranno. Ma l’unico e vero Messia sono Io. Quanti sin qui sono venuti, dicendosi tali, non lo erano, ma erano soltanto la­dri e briganti. E non solo quelli che si facevano chiamare Mes­sia da pochi del loro stesso animo, ma anche altri ancora che, senza darsi quel nome, esigono però un’adorazione che neppu­re al vero Messia viene data. Chi ha orecchie per intendere in­tenda. Però osservate. Né ai falsi Messia né ai falsi pastori e maestri le pecore hanno dato ascolto, perché il loro spirito sen­tiva la falsità della loro voce che voleva mostrarsi dolce ed era crudele. Soltanto dei caproni li hanno seguiti per essere loro compagni nelle ribalderie. Caproni selvatici, indomiti, che non vogliono entrare nell’Ovile di Dio, sotto lo scettro del vero Re e Pastore. Perché questo, ora, si ha in Israele. Che Colui che è il Re dei re diviene il Pastore del gregge, mentre un tempo colui ché era pastore di greggi divenne re, e l’Uno e l’altro vengono da un’unica radice, da quella di Isai, come è detto nelle pro­messe e profezie. (Isaia 11, 1.10; Geremia 23, 5-6)
I falsi pastori non hanno avuto parole sincere né atti di conforto. Essi hanno disperso e torturato il gregge, o lo hanno abbandonato ai lupi, o lo hanno ucciso per trarne profitto ven­dendolo per assicurarsi la vita, o gli hanno sottratto i pascoli per fare di essi dimore di piacere e boschetti per gli idoli. Sa­pete quali sono i lupi? Sono le male passioni, i vizi che gli stes­si falsi pastori hanno insegnato al gregge, praticandoli essi per primi. E sapete quali sono i boschetti degli idoli? Sono i propri egoismi davanti ai quali troppi bruciano incensi. Le altre due cose non hanno bisogno di essere spiegate perché è fin troppo chiaro il sermone. Ma che i falsi pastori così facciano è logico. Non sono che ladri che vengono per rubare, uccidere e distrug­gere, per portare fuori dall’ovile in pascoli infidi, o condurre a falsi ovili che non sono che macelli. Ma quelli che passano da Me sono al sicuro e potranno uscire per andare ai miei pascoli, o rientrare per venire ai miei riposi, e farsi robusti e pingui di succhi santi e sani. Perché Io sono venuto per questo. Perché il mio popolo, le mie pecorelle, sin qui magre e afflitte, abbiano la vita, e vita abbondante, e di pace e letizia. E tanto voglio questo che sono venuto a dar la mia vita perché le mie pecore abbiano la Vita piena e abbondante dei figli di Dio.

 Io sono il Pastore buono. E un pastore quando è buono dà la vita per difendere il suo gregge dai lupi e dai ladroni, men­tre il mercenario, che non ama le pecore ma il denaro che rica­va dal condurle ai pascoli, non si preoccupa che di salvare se stesso e il gruzzolo che ha in seno e, quando vede venire il lupo o il ladrone, fugge, salvo poi tornare a prendere qualche pecora lasciata malviva dal lupo, o dispersa dal ladrone, e uccidere la prima per mangiarla, o vendere come sua la seconda, aumen­tando il gruzzolo e dicendo poi al padrone, con bugiarde lacri­me, che neppure una delle pecore si è salvata. Che importa al mercenario se il lupo azzanna e disperde le pecore, e il ladrone ne fa razzia per portarle al beccaio? Ha forse vegliato su esse mentre crescevano, e faticato per farle robuste? Ma colui che è padrone e sa quanto costi una pecora, quante ore di fatica, quante veglie, quanti sacrifici, le ama ed ha cura di esse che sono il suo bene. Ma Io sono più che un padrone. Io sono il Sal­vatore del mio gregge e so quanto mi costi anche la salvezza di un’anima sola, e perciò sono pronto a tutto pur di salvare un’anima. Essa mi è stata affidata dal Padre mio. Tutte le ani­me mi sono state affidate col comando che Io ne salvi un nu­mero stragrande. Quante più ne riuscirò a strappare alla morte dello spirito, e tanto più il Padre mio avrà gloria. E perciò Io lotto per liberarle da tutti i loro nemici, ossia dal loro io, dal mondo, dalla carne, dal demonio, e dai miei avversari che me le contendono per darmi dolore. Io faccio questo perché cono­sco il pensiero del Padre mio. E il Padre mio mi ha mandato a fare questo perché conosce il mio amore per Lui e per le anime. E anche le pecore del mio gregge conoscono Me e il mio amore, e sentono che Io sono pronto a dare la mia vita per dare ad esse la gioia.
   E ho altre pecorelle. Ma non sono di questo Ovile. Perciò non mi conoscono per ciò che Io sono, e molte ignorano che Io sia e chi Io sia. Pecorelle che a molti fra noi paiono peggio di capre selvagge e riputate indegne di conoscere la Verità e di avere la Vita e il Regno. Eppure non è così. Il Padre vuole an­che queste, e perciò devo avvicinare anche queste, farmi cono­scere, fare conoscere la buona Novella, condurle ai pascoli miei, radunarle. Ed esse pure daranno ascolto alla mia voce perché finiranno ad amarla. E si avrà un solo Ovile sotto un solo Pastore, e il Regno di Dio sarà composto sulla Terra, pron­to ad essere trasportato e accolto nei Cieli, sotto il mio scettro e il mio segno e il mio vero Nome. Il mio vero Nome! È noto a Me soltanto! Ma quando il nu­mero degli eletti sarà completo, e fra inni di tripudio si asside­ranno alla grande cena di nozze dello Sposo con la Sposa, allo­ra il mio Nome sarà conosciuto dai miei eletti che per fedeltà ad Esso si saranno santificati, pur senza conoscere tutta l’estensione e la profondità di ciò che è essere segnati dal mio Nome e premiati per il loro amore ad Esso, né quale sia il pre­mio… Questo Io voglio dare alle mie pecore fedeli. Ciò che è la mia stessa gioia… ».

 Gesù gira uno sguardo lucido di un pianto estatico sui visi rivolti a Lui, e un sorriso gli tremula sul labbro, un sorriso tal­mente spiritualizzato nel volto spiritualizzato che un brivido scuote la folla, che intuisce il rapimento del Cristo in una vi­sione beatifica e il suo desiderio d’amore di vederla compita. Si riprende. Chiude un istante gli occhi, celando il mistero che la sua mente vede e che l’occhio potrebbe troppo tradire, e riprende:
   «Per questo mi ama il Padre, o mio popolo, o mio gregge! Perché per te, per il tuo bene eterno Io do la vita. Poi la ripren­derò. Ma prima la darò perché tu abbia la vita e il tuo Salvato­re a vita di te stesso. E la darò in modo che tu te ne pasca, mu­tandomi da Pastore in pascolo e fonte che daranno cibo e be­vanda, non per quaranta anni come per gli ebrei nel deserto (Esodo 16, 35), ma per tutto il tempo di esilio per i deserti della Terra. Nessu­no, in realtà, mi toglie la vita. Né coloro che amandomi con tutti loro stessi meritano che Io la immoli per loro, né coloro che me la levano per odio smisurato e paura stolta. Nessuno me la potrebbe levare se da Me Io non consentissi a darla e se il Padre non lo permettesse, presi ambedue da un delirio d’amore per l’Umanità colpevole. Da Me stesso Io la dono. E ho il pote­re di riprenderla quando voglio, non essendo conveniente che la Morte possa prevalere sulla Vita. Perciò il Padre mi ha dato questo potere, ed anzi il Padre questo mi ha comandato di fare. E per la mia vita, offerta e consumata, i popoli diverranno un unico popolo: il mio, il Popolo celeste dei figli di Dio, separan­dosi nei popoli le pecore dai caproni e seguendo le pecore il lo­ro Pastore nel Regno della Vita eterna».

10E Gesù, che ha fino allora parlato forte, si volge sottovoce a Sidonia detto Bartolmai, rimasto sempre davanti a Lui con il suo cestone di mele fragranti ai piedi, e gli dice: «Tu hai di­menticato tutto per Me. Ora sarai certamente punito e perderai il posto. Lo vedi? Io ti porto sempre dolore. Per Me hai perduto la sinagoga e ora perderai il padrone… ».
   «E che me ne faccio di tutto ciò, se ho Te? Tu solo hai valore per me. E lascio tutto per seguirti, sol che Tu me lo concedi. Lascia soltanto che porti queste frutta a chi le ha comperate e poi sono con Te».
   «Andiamo insieme. Poi andremo da tuo padre. Perché tu hai un padre e devi onorarlo col chiedergli la sua benedizione».
   «Sì, Signore. Tutto ciò che vuoi. Però insegnami molto per­ché io non so nulla, proprio nulla, neppur leggere e scrivere, perché ero cieco».
   «Non preoccuparti di ciò. La buona volontà ti farà scuola».
   E si avvia per tornare sulla via principale, mentre la folla commenta, discute, litiga anche, incerta fra i diversi pareri che sono sempre i soliti: è Gesù di Nazaret un ossesso o un santo? La folla, discorde, disputa mentre Gesù si allontana.

Facoltativo (e dello stesso periodo della Vita di Gesù Cristo)

   Cap. DXV. Le ragioni del dolore salvifico di Gesù. Elogio dell’ubbidienza e lezione sull’umiltà.

   18 ottobre 1946

 Ma poco può stare Gesù coi suoi pensieri. Giovanni e suo cugino Giacomo, poi Pietro con Simone Zelote, lo raggiungono attirando la sua attenzione sul panorama che si vede dall’alto del colle. E, forse nell’intento di distrarlo, perché è visibilmen­te molto triste, rievocano episodi avvenuti in quelle plaghe che si mostrano ai loro occhi. Il viaggio verso Ascalona… la casa dei contadini del piano di Saron, dove Gesù rese la vista al vecchio padre di Gamala e Giacobbe… il ritiro al Carmelo di Gesù e Giacomo… Cesarea Marittima e la fanciulla Aurea Gal­la… l’incontro con Sintica… i gentili di Joppe… i ladroni pres­so Modin… il miracolo delle messi in casa di Giuseppe d’Ari­matea… la vecchina spigolatrice… Sì, tutte cose che vorrebbe­ro rallegrare… ma nelle quali, per tutti o per Lui solo, c’è mi­sto un filo di pianto e un ricordo di dolore. Se ne accorgono gli stessi apostoli e mormorano: «Veramente in ogni cosa della Terra si trova un dolore. È luogo di espiazione… ».
   Ma giustamente anche Andrea, che si è unito al gruppo in­sieme a Giacomo di Zebedeo, osserva: «Legge giusta per noi peccatori. Ma per Lui perché tanto dolore?».
   Sorge una benevola discussione e si mantiene tale anche quando, attirati dalle voci dei primi, si uniscono al gruppo tut­ti gli altri. Meno Giuda Iscariota che si dà un grande da fare in mezzo a degli umili, ai quali insegna imitando il Maestro nella voce, nel gesto, nel concetto; ma è un’imitazione teatrale, pom­posa, alla quale manca il calore della convinzione, e i suoi ascoltatori glielo dicono anche senza perifrasi, cosa che fa di­ventare nervoso Giuda, il quale rinfaccia loro di essere ottusi e che perciò non capiscono niente. Ed egli dichiara che li lascia perché «non merita gettare le perle della sapienza ai porci».
   E si ferma però, perché gli umili, mortificati, lo pregano di com­patirli, confessandosi «inferiori a lui come un animale è infe­riore ad un uomo»…
   Gesù è distratto, da ciò che dicono intorno a Lui gli undici, per ascoltare ciò che dice Giuda; né ciò che sente lo rallegra di certo… Ma sospira e tace,

 sinché Bartolomeo lo interessa di­rettamente sottoponendogli i diversi punti di vista sulla ragio­ne del perché Egli, innocente di peccato, deve soffrire.
   Bartolomeo dice: «Io sostengo che ciò avviene perché l’uo­mo odia chi è buono. Parlo dell’uomo colpe-vole, ossia della maggioranza. Questa maggioranza comprende che nel parago­ne con chi è senza peccati ancor più risalta la sua colpevolez­za, i suoi vizi, e per stizza di ciò si vendica facendo soffrire il buono».
   «Io invece sostengo che Tu soffri per il contrasto fra la tua perfezione e la nostra miseria. Anche se nessuno ti facesse spregio di sorta, soffriresti ugualmente, perché la tua perfezio­ne deve avere un ribrezzo doloroso dei peccati degli uomini», dice Giuda Taddeo.
   «Io all’opposto sostengo che Tu, non essendo esente da umanità, soffri per lo sforzo di dover trattenere con la tua par­te soprannaturale le rivolte della tua umanità contro i tuoi ne­mici», dice Matteo.
   «E io, certo sbaglierò perché sono uno stolto, dico che soffri invece perché il tuo amore viene respinto. Non soffri di non po­ter punire come il tuo lato umano può desiderare, ma soffri di non potere beneficare come vorresti», dice Andrea.
   «Infine io sostengo che Tu soffri perché devi soffrire tutto il dolore per redimere tutto il dolore. Non essendo in Te predo­minante questa o quella natura, ma ugualmente essendo que­ste due tue nature in Te fuse, con un perfetto equilibrio, per formare la Vittima perfetta. Tanto soprannaturale da poter es­sere valida a placare l’offesa fatta alla Divinità, tanto umana da poter rappresentare l’Umanità e ricondurla alla immacola­tezza del primo Adamo per annullare il passato e generare una nuova umanità. Ricreare un’umanità nuova, secondo il pensie­ro di Dio, ossia un’umanità in cui sia realmente l’immagine e la somiglianza di Dio e il destino dell’uomo: il possesso, il po­ter aspirare al possesso di Dio, nel suo Regno. Devi soffrire so­prannaturalmente, e soffri, per tutto ciò che vedi fare e per ciò che ti circonda, potrei dire, con perpetua offesa a Dio. Devi soffrire umanamente, e soffri, per stroncare le libidini della carne nostra avvelenata da Satana. Con la sofferenza completa delle due perfette nature, Tu annullerai completamente l’offesa a Dio, la colpa dell’uomo», dice lo Zelote.
   Gli altri tacciono. Gesù interroga: «E voi non dite niente? Quale secondo voi la più giusta definizione?».
   Chi dice questa e chi quella. Solo Giacomo d’Alfeo tace in­sieme a Giovanni.
   «E voi due? Non ne approvate nessuna?», stuzzica Gesù.
   «No. Sentiamo in tutte qualcosa di vero, o molto di vero. Ma sentiamo anche che manca la verità più vera».
   «E non la sapete trovare?».
   «Forse io e Giovanni l’avremmo trovata. Ma ci pare quasi bestemmia a dirla perché… Siamo dei buoni israeliti e temia­mo tanto Dio da non poterne quasi dire il Nome. E pensare che, se l’uomo del popolo eletto, l’uomo figlio di Dio non può pronunciare quasi il Nome benedetto e ne crea dei sostituti per nominare il suo Dio, possa Satana osare di nuocere a Dio, ci pare pensiero di bestemmia. Eppure sentiamo che il dolore è sempre attivo verso Te perché Tu sei Dio e Satana ti odia. Te odia come nessun altro. Tu trovi l’odio, fratello mio, perché sei Dio», dice Giacomo.
   «Sì. Trovi l’odio perché sei l’Amore. Non sono i farisei, o i rabbi, non è questo o quello, e per questo o quello, che si alza­no a darti dolore. È l’Odio che investe di sé gli uomini e te li drizza contro lividi di odio, perché col tuo amore Tu strappi troppe prede all’Odio», dice Giovanni.
   «Manca ancora una cosa alle molte definizioni. Cercate la ragione più vera. Quella per la quale sono…», incoraggia Gesù.
   Ma nessuno trova. Pensano, pensano. Si arrendono dicendo: «Non troviamo…».
   «È così semplice. Vi è sempre davanti. Risuona nelle parole dei nostri libri, nelle figure delle nostre storie… Suvvia, cerca­te! In tutte le vostre definizioni c’è del vero, ma manca la pri­ma ragione. Cercatela non nell’oggi, ma nel passato più lonta­no, oltre i profeti, oltre i patriarchi, oltre la creazione dell’Uni­verso…».
   Gli apostoli sono pensierosi… ma non trovano.
   Gesù sorride. Poi dice: «Eppure, se ricordaste le mie parole, trovereste la ragione. Ma non potete tutto ricordare ancora. Però ricorderete un gior­no.

 Ascoltate. Risaliamo insieme il corso dei secoli, sin oltre i limiti del tempo. Chi ha guastato lo spirito dell’uomo, voi lo sapete. È Satana, il Serpente, l’Avversario, il Nemico, l’Odio. Chiamatelo come volete. Ma perché lo ha guastato? Per una grande invidia: quella di vedere l’uomo destinato al Cielo dal quale egli era stato cacciato. Volle per l’uomo l’esilio che egli aveva avuto. Perché era stato cacciato? Per essersi ribellato a Dio. Voi lo sapete. Ma in che? Nell’ubbidienza. Al principio del dolore sta una disubbidienza. E allora, non è anche necessaria­mente logico che, a ristabilire l’ordine, che è sempre gioia, non debba essere un’ubbidienza perfetta? Ubbidire è difficile, spe­cie se è in materia grave. Il difficile dà dolore a chi lo compie. Pensate dunque se Io, che sono stato richiesto dall’Amore se volevo riportare il gaudio ai figli di Dio, non debba soffrire in­finitamente, per compiere l’ubbidienza al Pensiero di Dio. Io dunque devo soffrire per vincere, per cancellare non uno o mil­le peccati, ma lo stesso Peccato per eccellenza, che nello spiri­to angelico di Lucifero, o in quello che animava Adamo, fu e sarà sempre, sino all’ultimo uomo, peccato di disubbidienza a Dio.
Voi uomini dovete ubbidire limitatamente a quel poco – vi pare tanto ma è così poco – che Dio vi richiede. Nella sua giu­stizia vi chiede solamente ciò che potete dare.
   Voi, dei voleri di Dio, sapete quel tanto che potete compiere. Ma Io conosco tut­to il suo Pensiero, per i grandi e i minuti avvenimenti. A Me non sono posti limiti nel conoscere e nell’eseguire. L’amoroso Sacrificatore, l’Abramo divino, non risparmia la sua Vittima e il Figlio suo. È l’Amore insaziato e offeso che esige riparazione e offerta. E vivessi mille e mille anni, nulla sarebbe se non con­sumassi l’Uomo sino all’ultima fibra, così come nulla sarebbe stato se ab eterno non avessi detto: “Sì” al Padre mio, dispo­nendomi ad ubbidire, e come Dio Figlio e come Uomo, al mo­mento trovato giusto dal Padre mio.
   L’ubbidienza è dolore ed è gloria. L’ubbidienza, come lo spirito, non muore mai. In verità vi dico che i veri ubbidienti diverranno dèi, ma dopo una lotta continua contro se stessi, il mondo, Satana. L’ubbidienza è luce. Più si è ubbidienti e più si è luminosi e si vede. L’ubbidienza è pazienza, e più si è ub­bidienti più si sopportano le cose e le persone. L’ubbidienza è umiltà, e più si è ubbidienti più si è umili col prossimo nostro.
L’ubbidienza è carità perché è un atto di amore, e più si è ub­bidienti più gli atti sono numerosi e perfetti. L’ubbidienza è eroicità. E l’eroe dello spirito è il santo, il cittadino dei Cieli, l’uomo divinizzato. Se la carità è la virtù in cui si ritrova Dio Uno e Trino, l’ubbidienza è la virtù in cui si trova Me, il Mae­stro vostro. Fate che il mondo vi riconosca miei discepoli per una ubbidienza assoluta a tutto quanto è santo.

 Chiamate Giuda. Ho da dire qualcosa anche a lui…».
   Giuda accorre. Gesù accenna al panorama che si restringe mano a mano che si discende, e dice:
«Una piccola parabola per voi, maestri futuri di spiriti. Tanto più vedrete quanto più salirete per cammino di perfezio­ne che è arduo e penoso. Noi prima vedevamo le due pianure, filistea e di Saron, coi molti paesi e campi e frutteti, e persino un azzurro lontano che era il grande mare, e il Carmelo verde là in fondo. Ora non vediamo più che poco. L’orizzonte si è ri­stretto e più si restringerà fino a scomparire in fondo alla val­le. Lo stesso avviene di chi scende nello spirito invece di salire. Sempre più limitata si fa la sua virtù e sapienza, e ristretto il suo giudizio fino ad annullarsi. Allora un maestro di spirito è morto alla sua missione. Non discerne più e non guida più. È un cadavere e può corrompere così come si è corrotto. La di­scesa talora invoglia, quasi sempre invoglia, perché in basso sono soddisfazioni del senso. Noi pure scendiamo a valle per trovare riposo e cibo. Ma se ciò è necessario al corpo nostro, non è necessario soddisfare l’appetito del senso e l’infingardia dello spirito con lo scendere nelle valli del sensualismo morale e spirituale. Una sola valle è concesso di toccare: quella dell’umiltà. Ma perché in questa lo stesso Dio scende a rapire lo spirito umile per innalzarlo a Sé. Chi si umilia sarà esaltato. Ogni altra valle è letale, perché allontana dal Cielo».
   «Per questo mi hai chiamato, Maestro?».
   «Per questo. Hai parlato molto con quelli che ti interroga­vano».
   «Sì, e non merita. Sono più duri d’intelletto dei muli».
   «E Io ho voluto deporre un pensiero dove tutto è uscito. Perché tu possa nutrire il tuo spirito». 
   Giuda lo guarda interdetto. Non sa se è dono o rimprovero. Gli altri, che non avevano notato i discorsi dell’Iscariota coi seguaci, non comprendono che Gesù rimprovera Giuda della sua superbia.

 E Giuda preferisce portare prudentemente il discorso su al­tre vie e chiede: «Maestro, cosa pensi Tu? Quei romani, così co­me l’uomo di Petra, potranno mai giungere alla tua dottrina, essi che hanno avuto un così limitato contatto con Te? E quel­l’Alessandro? Se ne è andato… Non lo vedremo più. E questi pure. Si direbbe che in loro c’è un’istintiva ricerca della verità, ma sono immersi fino al collo nel paganesimo. Riusciranno mai a concludere qualcosa di buono?».
   «Vuoi dire a trovare la Verità?».
   «Sì, Maestro».
   «E perché non dovrebbero riuscire?».
   «Perché sono dei peccatori».
   «Ed essi soltanto sono peccatori? Fra noi non ve ne sono?».
   «Molti, lo ammetto. Ma appunto dico che se noi, già nutriti di sapienza e verità da secoli, siamo peccatori e non riusciamo a divenire giusti e seguaci della Verità che Tu rappresenti, co­me potranno farlo loro, saturi di immondezze come sono?».
«Ogni uomo può giungere a raggiungere e possedere la Ve­rità, ossia Dio. Quale che sia il punto dal quale parte per giun­gere ad essa. Quando non ci sia superbia della mente e depra­vazione della carne, ma sincera ri-cerca della Verità e della Lu­ce, purezza di scopo e anelito a Dio, una creatura è sicuramen­te sulla via di Dio».
   «Superbia della mente… e depravazione della carne… Mae­stro… allora…».
   «Continua il tuo pensiero, che è buono».
   Giuda tergiversa, poi dice: «Allora essi non possono rag­giungere Dio, perché sono dei depravati».
   «Non era questo che tu volevi dire, Giuda. Perché hai imba­vagliato il tuo pensiero e la tua coscienza? Oh! come è difficile che l’uomo salga a Dio! E l’ostacolo maggiore è in se stesso, che non vuole confessare e riflettere su se stesso e i suoi difetti. Veramente anche Satana è calunniato molte volte, addebitan­do ad esso ogni causa di rovina spirituale. E calunniato ancor più è Dio, al quale si addebitano tutti gli eventi. Dio non viola la libertà dell’uomo. Satana non può prevalere su una volontà ferma nel Bene. In verità vi dico che settanta volte su cento l’uomo pecca per sua volontà. E – non lo si considera, ma così è – e non risorge dal peccato perché sfugge dall’esaminarsi, e anche se la coscienza, con un imprevisto moto, si drizza in lui e urla la verità che egli non ha voluto meditare, l’uomo soffoca quel grido, annulla quella figura che gli si drizza davanti all’intelletto severa e dolente, altera con sforzo il suo pensiero suggestionato dalla voce accusatrice, e non vuole dire, ad esempio: “Ma allora noi, io, non possiamo raggiungere la Ve­rità, perché abbiamo superbia della mente e corruzione della carne”. Sì, in verità, fra noi non si procede verso la via di Dio, perché fra noi è superbia della mente e corruzione della carne. Una superbia veramente emula di quella satanica, tanto che si giudicano od ostacolano le azioni di Dio, quando sono contra­rie agli interessi degli uomini e dei partiti. E questo peccato farà di molti di Israele i dannati eterni».
   «Non siamo tutti così, però».
   «No. Spiriti buoni ce ne sono ancora, ed in ogni classe. Più numerosi fra gli umili del popolo che fra i dotti ed i ricchi. Ma ci sono. Ma quanti sono? Quanti, rispetto a questo popolo di Palestina che da quasi tre anni evangelizzo e benefico e per il quale mi consumo? Ci sono più stelle in una notte nuvolosa che non spiriti volonterosi di venire al Regno mio in Israele».
   «E i gentili, quei gentili, ci verranno?».
   «Non tutti, ma molti. Anche fra i miei stessi discepoli non tutti saranno perseveranti sino alla fine. Ma non preoccupia­moci dei frutti che infraciditi cadono dal ramo! Cerchiamo, finché si può, di non farli infracidire con la dolcezza, con la fermezza, col rimprovero e col perdono, con la pazienza e la carità. Poi, quando essi dicono “no” a Dio e ai fratelli che li vogliono salvare, e si gettano in braccio alla Morte, a Satana, morendo impenitenti, chiniamo il capo e offriamo a Dio il no­stro dolore di non averlo potuto fare lieto di quell’anima sal­vandogliela. Ogni maestro conosce di queste disfatte. E servo­no esse pure. A tenere mortificato l’orgoglio del maestro d’ani­me e a provare la sua costanza nel ministero. La disfatta non deve stancare la volontà dell’educatore di spiriti. Ma anzi spronarlo a far più e meglio in avvenire».

 «Perché hai detto al decurione che lo rivedrai su un monte? Come fai a saperlo?».
   Gesù guarda Giuda di uno sguardo lungo e strano, misto di mestizia e di sorriso insieme, e dice: «Perché sarà uno dei pre­senti alla mia assunzione e dirà al grande dottore d’Israele una severa parola di verità. E da quel momento inizierà il suo cam­mino sicuro verso la Luce. Ma eccoci a Gabaon. Pietro vada con altri sette ad annunciarmi. Parlerò subito per licenziare chi mi segue dai paesi vicini. Gli altri sosteranno con Me sino a dopo il sabato. Tu, Giuda, resta insieme a Matteo, Simone e Bartolomeo».


(Io non ho riconosciuto nel decurione nessuno dei soldati presenti alla Crocifissione. [il decurioneè il capo del manipolo romano, o graduato, incontrato al capitolo 514]. Ma devo anche dire che, presa dall’osservazione attenta del mio Gesù [nella scena della Crocifissione, scritta in precedenza (il 27 marzo 1945) ma collocata in seguito, al Vol 10 Cap 609], non li ho notati molto. Erano, per me, un gruppo di soldati preposti al servizio. Nulla più. Inoltre, quando avrei potuto osservarli meglio perché «tut­to era compiuto», c’era una luce così non luce che soltanto i vol­ti molto noti potevano essere riconosciuti. Penso però, per le parole di Gesù, che sia quel milite che dice a Gamaliele alcune parole che non ricordo e che non posso controllare, perché sono sola e non posso farmi dare il quaderno della Passione da nes­suno).

   Cap. DXVI. A Gabaon, miracolo del mutolino ed elogio della sapienza come amore a Dio.

   22 ottobre 1946

 In primavera, estate e autunno, Gabaon, messa sul cocuzzo­lo di un dolce e basso colle isolato fra una pianura fertilissima, deve essere una città gentile, ariosa e con un panorama bellis­simo. Le sue case bianche si nascondono quasi fra il verde degli alberi a fogliame perenne, di ogni specie, mescolati ad alberi ora denudati dalla stagione, ma che nella buona stagione devo­no trasformare il colle in una nuvola di petali leggeri e, più tar­di, in un trionfo di frutta. Ora, nel grigiore dell’inverno, mostra le chine rigate dalle viti spoglie e grigie d’ulivi, oppure pezzate di frutteti spogli dai tronchi scuri. Eppure è bella e ariosa, e l’occhio riposa sulla china del colle e sulla pianura arata.
   Gesù va verso una vasta cisterna o pozzo, che mi ricorda un poco quello della Samaritana, e anche En Rogel, e più ancora i serbatoi presso Ebron.
   Molta gente è là. Gente che si affretta a prendere molta acqua per il sabato ormai vicino, gente che fa gli ultimi affari, gente che, avendo già finito le sue occupazio­ni, si dà già al riposo del sabato. In mezzo ad essa sono gli otto apostoli che annunziano il Maestro e che hanno già avuto del successo, perché vedo portare dei malati e radunarsi dei men­dichi e altra gente venire dalle case.
   Quando Gesù mette piede nello spazio dove è la vasca, vi è un mormorio che si tramuta in un grido unanime: «Osanna! Osanna! È fra noi il Figlio di Davide! Benedetta la Sapienza che viene dove fu invocata!».
   «Benedetti voi che la sapete accogliere. Pace! Pace e bene­dizione». E subito si dirige verso i malati e gli storpi o per sciagure o per malattie, verso gli immancabili ciechi, o in via di esserlo, e li guarisce.

 Bello è il miracolo di un mutolino, che la madre gli porge piangendo e che Gesù guarisce con un bacio sulla bocca, e che usa la parola datagli dalla Parola per gridare i due nomi più belli: «Gesù! Mamma!», e dalle braccia della madre, che lo te­neva alto sulla folla, si getta fra le braccia di Gesù stringendo­sigli al collo, finché Gesù lo rende alla madre felice, che spiega a Gesù come questo suo primogenito, destinato nel cuore dei parenti ad esser levita fin da prima che nascesse, potrà esserlo ora che è senza difetti: «Non per me lo avevo chiesto al Signore insieme al mio sposo Gioacchino, ma perché servisse il Signore. E non perché mi chiamasse madre e mi dicesse che mi ama, ho chiesto per lui la parola. I suoi occhi e i suoi baci me lo diceva­no già. Ma la chiedevo perché potesse, come agnello senza di­fetto, essere tutto offerto al Signore a lodarne il suo Nome».
   Al che Gesù risponde: «Il Signore udiva la parola della sua anima perché Egli, come una madre, fa dei sentimenti parole e atti. Ma buono è stato il tuo desiderio e l’Altissimo lo ha accol­to. Ora fa’ di educare il figlio tuo alla lode perfetta, perché sia perfetto nel suo servire il Signore».
   «Sì, Rabbi. Ma dimmi Tu che devo fare».
   «Fa’ che ami il Signore Iddio con tutto se stesso, e sponta­neamente fiorirà nel suo cuore la lode perfetta, e perfetto sarà nel servizio al suo Dio».
   «Bene hai detto, o Rabbi. La Sapienza è sulle tue labbra. Parla, ti prego, a tutti noi», dice un dignitoso gabaonita che si è fatto largo sino a Gesù e lo invita poi nella sinagoga. Certo è il sinagogo.

 Gesù vi si dirige, seguito da tutti, e posto che è impossibile far entrare tutti quelli della città, più quelli che già erano con Gesù, Gesù accetta il consiglio del sinagogo di parlare dal ter­razzo della casa del sinagogo, che è attigua alla sinagoga. Una casa larga e bassa, fasciata da due lati dal verde tenace di una spalliera di gelsomini. E la voce di Gesù, potente e armoniosa, si spande nell’aria calma della sera che scende, e si propaga per la piazza e le tre vie che vi sboccano, mentre un piccolo mare di teste sta a viso alzato ad ascoltare.
   «La donna della vostra città, che ha desiderato la parola per il suo bambino, non per il desiderio di udire dalle labbra del figlio dolci parole, ma perché fosse abile al servizio di Dio, mi ricorda un’altra parola lontana, sgorgata dalle labbra di un grande uomo in questa stessa città. A questa, come a quella della donna vostra, Dio ha annuito, perché in ambedue Egli vi­de una richiesta di giustizia, una giustizia che dovrebbe essere in tutte le preghiere perché esse trovino accoglienza di Dio e grazia. Cosa è necessario durante la vita per ottenere poi il premio eterno, la vera Vita senza fine in una beatitudine senza fine? Occorre amare il Signore con tutto se stesso e il prossimo come se stesso. E questa è la cosa più necessaria per avere ami­co Iddio ed ottenere da Lui grazie e benedizioni. Quando Salo­mone (2 Cronache 1, 3-12; 1 Re 3, 4-15), divenuto re dopo la morte di Davide, assunse di fatto il regno, salì a questa città dove offerse grande sacrificio di ostie. E in quella notte gli apparve l’Altissimo dicendogli: “Chiedimi ciò che desideri da Me”.
   Una grande benignità da parte di Dio. E una grande prova da parte dell’uomo. Perché ad ogni dono corrisponde una grande responsabilità da parte di chi lo rice­ve, responsabilità tanto più grande quanto più il dono è gran­de. E questa è prova del grado di formazione raggiunto dallo spirito. Se uno spirito beneficato da Dio, in luogo di perfezio­narsi, scende verso la materialità, esso ha fallito la prova e mo­stra con questo la sua non formazione, o la sua parziale forma­zione. Due sono le cose che sono indice del valore spirituale dell’uomo: il suo modo di comportarsi nella gioia e quello di comportarsi nel dolore. Soltanto chi è formato in giustizia sa essere umile nella gloria, fedele nella gioia, riconoscente e co­stante anche dopo aver ottenuto, anche quando non desidera più niente. E sa essere paziente e restare amante del suo Dio, mentre le pene si accaniscono, soltanto chi è realmente santo».

 «Maestro, posso chiedere una cosa?», dice uno di Gabaon.
   «Parla».
   «Tutto è vero di ciò che Tu dici. E se ho bene capito, Tu vuoi dire che Salomone superò la prova felicemente. Ma poi peccò (1 Re 11, 1-13). Ora dimmi: perché Dio lo beneficò tanto se poi doveva pecca­re? Certamente il Signore sapeva il futuro peccato del re. E al­lora perché gli disse: “Chiedimi ciò che vuoi”? Fu un bene o un male?».
   «Sempre un bene, perché Dio non fa azioni malvagie».
   «Ma Tu hai detto che ad ogni dono corrisponde una respon­sabilità. Ora, avendo Salomone chiesto e ottenuto la sapien­za…».
   «Aveva la responsabilità di essere sapiente e non lo fu, vuoi dire. È vero. E Io ti dico che certo questo suo mancare alla sa­pienza fu punito e con giustizia. Ma l’atto di Dio di concedergli la chiesta sapienza fu buono. E buono fu l’atto di Salomone di chiedere sapienza e non altre materiali cose. E, posto che Dio è Padre ed è Giustizia, nel momento dell’errore molta parte di errore ha perdonato, avendo presente che il peccatore aveva un tempo amato la Sapienza più di ogni altra cosa e creatura. Un atto avrà diminuito l’altro atto. L’azione buona, fatta antece­dentemente al peccato, resta e vale per il perdono, quando però il peccatore dopo il peccato si pente.
Per questo Io vi dico di non lasciarvi sfuggire occasione di fare azioni buone, onde stiano come monete a
sconto dei vostri peccati, quando, per grazia di Dio, di essi vi pentite.
   Le azioni buone, anche se sembrano passate, e perciò si può erroneamen­te pensare che non lievitino più in noi creando nuovi stimoli e forze a cose buone, sono sempre attive, non foss’altro col ricor­do che risorge dal fondo di un’anima avvilita e suscita un rim­pianto per il tempo in cui si era buoni. E il rimpianto è sovente un primo passo sulla via del ritorno alla Giustizia. Io ho detto che anche un calice d’acqua dato con amore ad un assetato non resta senza premio. (Vedi Vol 4 Cap 265). Un sorso d’acqua è nulla, come valore ma­teriale, ma grande lo fa la carità. E non resta senza premio. Ta­lora il premio può essere un ritorno al Bene che si forma col ri­cordo di quell’atto, delle parole del fratello assetato, dei senti­menti del cuore di allora, del cuore che offriva da bere in nome di Dio e per amore. Ed ecco che Dio, per sequela di ricordi, torna, come un sole che risorge dopo la notte oscura, a splen­dere sull’orizzonte di un povero cuore che lo ha perduto e che, ammaliato dalla sua ineffabile Presenza, si umilia e grida: “Padre, ho peccato! Perdona. Io ti amo di nuovo”.

 L’amore a Dio è sapienza. È la sapienza delle sapienze, perché chi ama tutto conosce e tutto possiede. Qui, mentre la sera scende e il vento della sera fa rabbrividire i corpi nelle ve­sti e agita le fiaccole che avete acceso, Io non sto a dirvi ciò che già sapete: i punti del libro sapienziale dove è descritto come Salomone ottenne la sapienza e la preghiera fatta per ottener­la (Sapienza 9). Ma per mio ricordo, per sentiero sicuro, per luce di guida, vi esorto a meditare col vostro sinagogo quelle pagine. Il libro della Sapienza dovrebbe essere un codice di vita spirituale. Come una mano materna, esso dovrebbe guidarvi e introdurvi nella perfetta conoscenza delle virtù e della mia dottrina. Per­ché la Sapienza mi prepara le vie e fa degli uomini, “di corta vita e incapaci di intendere i giudizi e le leggi, servi e figli di ancelle di Dio”, gli dèi del Paradiso di Dio.
   Cercate anzitutto Sapienza per onorare il Signore e sentirvi dire da Lui, nel giorno eterno: “Giacché hai avuto soprattutto a cuore questo e non ricchezza, beni, gloria, lunga vita, né trionfo sui nemici, ti sia concessa la Sapienza”, ossia Dio stes­so, perché lo Spirito di Sapienza è Spirito di Dio. Cercate anzi­tutto la Sapienza santa e, Io ve lo dico, ogni altra cosa vi verrà data e in modo che nessuno dei grandi del mondo può procu­rarsela. Amate Dio. Preoccupatevi solo di amarlo. Amate il prossimo vostro per onorare Dio. Consacratevi al servizio di Dio, al suo trionfo nei cuori. Convertite chi non è amico di Dio al Signore. Siate santi. Accumulate le opere sante a vostra di­fesa contro le possibili debolezze della creatura. Siate fedeli al Signore. Non criticate né i vivi né i morti. Ma sforzatevi di imitare i buoni e, non per vostra gioia terrena ma per gioia di Dio, chiedete al Signore le grazie e vi saranno date.
   Andiamo. Domani pregheremo insieme e Dio sarà con noi».
   E Gesù li benedice, congedandoli.

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, noi ci affidiamo a Te!

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