In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
C: Parola del Signore. A: Lode a Te o Cristo.
Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’ Paralleli Vetus Ordo
Cap. CDXCIV. La donna adultera e l’ipocrisia dei suoi accusatori. Vari insegnamenti.
20 marzo 1944.
494.1Vedo l’interno del recinto del Tempio, ossia uno dei tanti cortili contornati da porticati. E vedo anche Gesù, il quale, molto ammantellato nel suo manto che lo fascia sopra la veste, non bianca ma rosso cupo (sembra una stoffa di lana pesante), parla a della folla che lo circonda. Direi che è una giornata invernale, perché vedo che tutti sono molto ammantellati, e che faccia piuttosto freddo, perché invece di star fermi tutti camminano alla svelta come per scaldarsi. Vi è del vento che smuove i mantelli e solleva la polvere dei cortili. Il gruppo che si stringe intorno a Gesù, l’unico che stia fermo mentre tutti gli altri, intorno a questo o a quel maestro, vanno avanti e indietro, si fende per lasciar passare un drappello di scribi e farisei gesticolanti e più che mai velenosi. Sprizzano veleno dallo sguardo, dal colore del volto, dalla bocca. Che vipere! Più che condurre, trascinano una donna sui trent’anni, scapigliata, disordinata nelle vesti come chi è stata malmenata, e piangente. La buttano ai piedi di Gesù come fosse un mucchio di cenci o una spoglia morta. E lei resta là, rannicchiata su se stessa, col volto appoggiato alle due braccia, nascosto da esse che le fanno cuscino fra il volto e il suolo. «Maestro, costei è stata colta in flagrante adulterio. Suo marito l’amava, nulla le faceva mancare. Ella era regina nella sua casa. E lei lo ha tradito perché è una peccatrice, una viziosa, un’ingrata, una profanatrice. Adultera è, e come tale va lapidata. Mosé l’ha detto. Nella sua legge lo comanda che queste tali siano lapidate come bestie immonde. E immonde sono. Perché tradiscono la fede e l’uomo che le ama e le cura, perché come terra mai sazia sempre sono affamate di lussuria. Peggio delle meretrici sono, perché senza morso di bisogno danno se stesse per dare cibo alla loro impudicizia. Corrotte sono. Contaminatrici sono. A morte devono esser condannate. Mosè l’ha detto. E Tu, Maestro, che ne dici?».
494.2Gesù, che aveva interrotto di parlare all’arrivo tumultuoso dei farisei e che aveva guardato la muta astiosa con sguardo penetrante e poi aveva chinato lo sguardo sulla donna avvilita, gettata ai suoi piedi, tace. Si è curvato, restando seduto, e con un dito scrive sulle pietre del portico, che la polvere sollevata dal vento copre di terriccio. Quelli parlano e Lui scrive. «Maestro? Parliamo a Te. Ascoltaci. Rispondici. Non hai capito? Questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Nella sua casa. Nel letto dell’uomo suo. Ella lo ha sporcato con la sua libidine». Gesù scrive. «Ma è stolto quest’uomo! Non vedete che non capisce nulla e traccia dei segni sulla polvere come un povero folle?». «Maestro, per il tuo buon nome, parla. La tua sapienza risponda al nostro interrogare. Ti ripetiamo: questa donna non mancava di nulla. Aveva vesti, cibo, amore. E ha tradito». Gesù scrive. «Ha mentito all’uomo che aveva fiducia in lei. Con bocca mendace l’ha salutato e col sorriso l’ha accompagnato alla porta, e poi ha aperto la porta segreta e ha ammesso il suo amante. E mentre il suo uomo era assente per lavorare per lei, essa, come una bestia immonda, s’è avvoltolata nella sua lussuria». «Maestro, è una profanatrice della Legge oltre che del talamo. Una ribelle, una sacrilega, una bestemmiatrice». Gesù scrive. Scrive e cancella lo scritto col piede calzato dal sandalo e scrive più là, girandosi piano su Se stesso per trovare altro spazio. Sembra un bambino che giuochi. Ma quello che scrive non è parola di giuoco. Ha scritto successivamente: «Usuraio», «Falso», «Figlio irriverente», «Fornicatore», «Assassino», «Profanatore della Legge», «Ladro», «Libidinoso», «Usurpatore», «Marito e padre indegno», «Bestemmiatore», «Ribelle a Dio», «Adultero». Scritto e riscritto mentre sempre nuovi accusatori parlano. «Ma insomma, Maestro! Il tuo giudizio. La donna va giudicata. Non può col suo peso contaminare la terra. Il suo fiato è veleno che turba i cuori».
494.3Gesù si alza. Misericordia! Che viso! È un balenare di lampi che si avventano sugli accusatori. Sembra ancor più alto, tanto tiene la testa eretta. Sembra un re sul suo trono, tanto è severo e solenne. Il manto gli è caduto da una spalla e fa un lieve strascico dietro a Lui. Ma Egli non se ne cura. Con volto chiuso e senza la più lontana traccia di sorriso sulla bocca e negli occhi, pianta questi occhi in volto alla folla, che arretra come davanti a due lame ben pontute. Fissa uno per uno. Con una intensità di indagine che fa paura. I fissati cercano di arretrare nella folla e di nascondersi in essa. Il cerchio così si allarga e sgretola come minato da una forza occulta. Infine parla. «Chi di voi è senza peccato scagli sulla donna la prima pietra». E la voce è un tuono accompagnato da un ancor più vivo lampeggiare di sguardi. Gesù ha conserto le braccia sul petto e sta così, ritto come un giudice, in attesa. Il suo sguardo non dà pace. Fruga, penetra, accusa. Prima uno, poi due, poi cinque, poi a gruppi, i presenti si allontanano a capo basso. Non solo gli scribi e i farisei, ma anche quelli che erano prima intorno a Gesù ed altri che si erano accostati per sentire il giudizio e la condanna e che, tanto quelli che questi, si erano uniti per insolentire la colpevole e chiedere la lapidazione. Gesù resta solo con Pietro e Giovanni. Non vedo gli altri apostoli. Gesù si è rimesso a scrivere, mentre la fuga degli accusatori avviene, e ora scrive: «Farisei», «Vipere», «Sepolcri di marciume», «Menzogneri», «Traditori», «Nemici di Dio», «Insultatori del suo Verbo»…
494.4Quando tutto il cortile si è svuotato e un gran silenzio si è fatto, non rimanendo che il fruscio del vento e quello di una fontanella in un angolo, Gesù alza il capo e guarda. Ora il volto si è placato. È mesto, ma non più irato. Dà un’occhiata a Pietro, che si è lievemente allontanato appoggiandosi ad una colonna, ed una a Giovanni che, quasi dietro a Gesù, lo guarda col suo sguardo innamorato. Gesù ha un’ombra di sorriso guardando Pietro e un più vivo sorriso guardando Giovanni. Due sorrisi diversi. Poi guarda la donna, ancora prostrata e piangente ai suoi piedi. L’osserva. Si alza, si riaggiusta il manto come fosse in procinto di mettersi in cammino. Fa un cenno ai due apostoli di avviarsi verso l’uscita. Quando resta solo, chiama la donna. «Donna, ascoltami. Guardami». Ripete il comando, perché essa non osa alzare il viso. «Donna, siamo soli. Guardami». La disgraziata alza un viso su cui pianto e polvere fanno una maschera di avvilimento. «Dove sono, o donna, quelli che ti accusavano?». Gesù parla piano. Con serietà pietosa. Tiene il volto e il corpo lievemente piegati verso terra, verso quella miseria, e gli occhi sono pieni di una espressione indulgente e risanatrice. «Nessuno ti ha condannata?». La donna, fra un singulto e l’altro, risponde: «Nessuno, Maestro». «E neppure Io ti condannerò. Va’. E non peccare più. Va’ alla tua casa. E sappi farti perdonare. Da Dio e dall’offeso. Non abusare della benignità del Signore. Va’». E la aiuta a rialzarsi prendendola per una mano. Ma non la benedice e non le dà la pace. La guarda avviarsi, a capo chino e lievemente barcollante sotto la sua vergogna, e poi, quando è scomparsa, si avvia a sua volta coi due discepoli.
494.5Dice Gesù: «Quello che mi feriva era la mancanza di carità e di sincerità negli accusatori. Non che mentissero nell’accusa. La donna era realmente colpevole. Ma erano insinceri facendosi scandalo di cosa da loro commessa le mille volte e che unicamente una maggior astuzia e una maggior fortuna avevano permesso rimanesse occulta. La donna, al suo primo peccato, era stata meno astuta e meno fortunata. Ma nessuno dei suoi accusatori ed accusatrici — perché anche le donne, se non alzavano la loro parola, la accusavano in fondo al cuore — erano scevri di colpa. Adultero è chi trascende all’atto e chi appetisce all’atto e lo desidera con tutte le sue forze. La lussuria è tanto in chi pecca che in chi desidera peccare. Ricordati, Maria, la prima parola[133] del tuo Maestro, quando ti ho chiamata dall’orlo del precipizio dove eri: “Il male non basta non farlo. Bisogna anche non desiderare di farlo”. Chi accarezza pensieri di senso, e suscita con letture e spettacoli cercati appositamente e con abitudini malsane sensazioni di senso, è ugualmente impuro come chi commette la colpa materialmente. Oso dire: è maggiormente colpevole. Perché va col pensiero contro natura, oltre che contro morale. Non parlo poi di chi trascende a veri atti contro natura. L’unica attenuante di costui è in una malattia organica o psichica. Chi non ha tale scusante è di dieci gradi inferiore alla bestia più lurida. Per condannare con giustizia occorrerebbe essere immuni da colpa. Vi rimando a dettati passati, quando parlo delle condizioni essenziali per esser giudice. A Me non erano ignoti i cuori di quei farisei e di quegli scribi, non quelli di coloro che si erano uniti ad essi nell’inveire contro la colpevole. Peccatori contro Dio e contro il prossimo, erano in loro colpe contro il culto, colpe contro i genitori, colpe contro il prossimo, colpe, soprattutto numerose, contro le mogli loro. Se per un miracolo avessi ordinato al loro sangue di scrivere sulla loro fronte il loro peccato, fra le molte accuse avrebbe imperato quella di “adulteri” di fatto o di desiderio.
494.6Io ho detto[134]: “È quello che viene dal cuore che contamina l’uomo”. E, tolto il mio cuore, non vi era alcuno fra i giudici che avesse il cuore incontaminato. Senza sincerità e senza carità. Neppure l’esser simili a lei nella fame concupiscente li induceva a carità. Io ero che avevo carità per l’avvilita. Io, l’Unico che ne avrei dovuto aver schifo. Ma ricordatevi però questo: che quanto più uno è buono e più è pietoso verso i colpevoli. Non indulge alla colpa per se stessa. Questo no. Ma compatisce i deboli che alla colpa non hanno saputo resistere. L’uomo! Oh! più che canna fragile e vilucchio sottile è facile ad esser piegato dalla tentazione e portato ad avvinghiarsi là dove spera trovare un conforto. Perché molte volte la colpa avviene, specie nel sesso più debole, per questa ricerca di conforto. Perciò Io dico che chi manca di affetto per la sua donna, ed anche per la figlia sua propria, è per novanta parti su cento responsabile della colpa della sua donna o della sua creatura e ne risponderà per esse. Tanto l’affetto stolto, che è soltanto stupido schiavismo di un uomo ad una donna o di un genitore ad una figlia, quanto una trascuratezza d’affetti, o peggio una colpa di propria libidine che porta un marito ad altri amori e dei genitori ad altre cure che non siano i figli, sono fomite ad adulterio e prostituzione e, come tali, sono da Me condannati. Siete esseri dotati di ragione e guidati da una legge divina e da una legge morale. Avvilirsi perciò ad una condotta da selvaggi o da bruti dovrebbe fare orrore alla vostra grande superbia. Ma la superbia, che in questo caso sarebbe anche utile, voi l’avete per ben altre cose.
494.7Ho guardato Pietro e Giovanni in diversa maniera, perché al primo, uomo, ho voluto dire: “Pietro, non mancare tu pure di carità e di sincerità”, e dirgli pure, come a futuro mio Pontefice: “Ricorda quest’ora e giudica come il tuo Maestro, in avvenire”; mentre al secondo, giovane dall’anima di bambino, ho voluto dire: “Tu puoi giudicare e non giudichi perché hai il mio stesso cuore. Grazie, amato, d’esser tanto mio da essere un secondo Me”. Ho allontanato i due prima di chiamare la donna per non aumentare la sua mortificazione con la presenza di due testimoni. Imparate, o uomini senza pietà. Per quanto uno sia colpevole, va sempre trattato con rispetto e carità. Non gioire del suo annichilimento, non accanircisi contro neppure con sguardi curiosi. Pietà, pietà per chi cade! Alla colpevole indico la via da seguirsi per redimersi. Tornare alla sua casa, umilmente chiedere perdono e ottenerlo con una vita retta. Non cedere più alla carne. Non abusare della bontà divina e della bontà umana per non scontare più duramente di ora la duplice o molteplice colpa. Dio perdona, e perdona perché è la Bontà. Ma l’uomo, per quanto Io abbia detto[135]: “Perdona al fratello tuo settanta volte sette”, non sa perdonare due volte. Non le do pace e benedizione perché non era in lei quella completa recisione dal suo peccato che è richiesta per esser perdonati. Nella sua carne, e purtroppo nel suo cuore, non era la nausea per il peccato. Maria di Magdala, sentito il sapore del mio Verbo, aveva avuto disgusto per il peccato ed era venuta a Me con la volontà totale di essere un’altra. In costei era ancora un ondeggiamento fra le voci della carne e dello spirito. Né ella, nel turbamento dell’ora, aveva ancora potuto mettere la scure contro il ceppo della carne e reciderla per andare mutilata del suo peso bramoso al Regno di Dio. Mutilata di ciò che era rovina, ma accresciuta di ciò che è salvezza. Vuoi sapere se si è poi salvata? Non a tutti fui Salvatore. Per tutti lo volli essere, ma non lo fui perché non tutti ebbero la volontà d’esser salvati. E questo è stato uno dei più penetranti strali della mia agonia del Getsemani. Va’ in pace tu, Maria di Maria, e non voler più peccare neppure nelle inezie. Sotto il manto di Maria non stanno che cose pure. Ricordalo. […]».
Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’ Paralleli Novus ordo
Cap. DXXIII. A Gerico. La richiesta a Gesù di giudicare su una donna. La parabola del fariseo e del pubblicano dopo un paragone tra peccatori a malati.
2 novembre 1946
1 Gesù esce dalla casa di Zaccheo. È mattina inoltrata. È con Zaccheo, Pietro e Giacomo di Alfeo. Gli altri apostoli sono forse già sparsi per la campagna per annunciare che il Maestro è in città. Dietro al gruppo di Gesù con Zaccheo e gli apostoli ve ne è un altro, molto… variato per fisionomie, età, vesti. Non è difficile dichiarare con sicurezza che questi uomini appartengono a razze diverse, forse anche antagoniste fra di loro. Ma gli eventi della vita hanno portato questi in questa città palestinese e li hanno riuniti perché dal loro profondo risalissero verso la luce. Sono per lo più volti appassiti di chi ha usato e abusato della vita in più modi, occhi stanchi per la più parte; in altri, sguardi che la lunga abitudine ad occupazioni di… rapina fiscale o di comando brutale ha fatto rapaci o duri, e ogni tanto questo loro antico sguardo riaffiora da sotto un velo dimesso e pensoso che vi ha messo la nuova vita. E ciò avviene specialmente quando qualcuno di Gerico li guarda con sprezzo o borbotta qualche insolenza a loro carico. Poi l’occhio torna stanco, dimesso, e le teste si riabbassano avvilite. Gesù si volta per due volte ad osservarli e, vedendoli indietro, rallentanti il loro passo più si avvicinano al luogo prescelto per parlare, e già pieno di gente, rallenta il suo per attenderli, e infine dice loro: «Passatemi avanti e non temete. Avete sfidato il mondo quando facevate il male; non dovete temerlo ora che vi siete spogliati di esso. Ciò che avete usato per domarlo allora ? l’indifferenza al giudizio del mondo, unica arma per stancarlo di giudicare ? usatelo anche ora, ed esso si stancherà di occuparsi di voi, e vi assorbirà, seppure lentamente, annullandovi nella grande massa anonima che è questo misero mondo, al quale in verità si dà troppo peso». Gli uomini, quindici, ubbidiscono e passano avanti.
2 «Maestro, là sono i malati della campagna», dice Giacomo di Zebedeo andando incontro a Gesù e indicando un angolo tiepido di sole. «Vengo. Gli altri dove sono?». «Fra la gente. Ma già ti hanno visto e stanno venendo. Con loro sono anche Salomon, Giuseppe di Emmaus, Giovanni d’Efeso, Filippo di Arbela. Sono diretti alla casa di quest’ultimo e vengono da Joppe, Lidda e Modin. Hanno seco loro uomini della costa del mare e donne. Ti cercavano, anzi, perché è discordia fra loro sul giudicare una donna. Ma parleranno con Te…». Gesù è infatti presto circondato dagli altri discepoli e salutato con venerazione. Dietro ad essi sono i nuovi attirati alla dottrina di Gesù. Ma non c’è Giovanni d’Efeso, e Gesù ne chiede la ragione. «Si è fermato con una donna e con i parenti della stessa in una casa lontana dalla gente. La donna non si sa se è indemoniata o profetessa. Dice cose meravigliose, a detta di quelli del suo paese. Ma gli scribi che l’hanno ascoltata l’hanno giudicato posseduta. I parenti hanno chiamato gli esorcisti più volte, ma essi non poterono cacciare il demonio parlante che la tiene. Però un di loro disse al padre della donna (è una vedova vergine rimasta in famiglia): “Per tua figlia ci vuole il Messia Gesù. Egli capirà le sue parole e saprà donde vengono. Io ho provato di imporre allo spirito che parla in lei di andarsene in nome di Gesù detto il Cristo. Sempre gli spiriti tenebrosi sono fuggiti quando ho usato questo Nome. Questa volta no. Da questo io dico che, o è lo stesso Belzebù che parla e riesce a resistere anche a quel Nome detto da me, o è lo stesso Spirito di Dio, e perciò non teme essendo che è una cosa sola col Cristo. Io sono convinto più di questo che del primo caso. Ma, per esserne certi, solo il Cristo può giudicare. Egli conoscerà le parole e la loro origine”. E fu malmenato dagli scribi presenti, che lo dissero posseduto lui pure come la donna e come Te. Perdona se dobbiamo dirlo… E degli scribi non ci hanno più lasciati, e sono di guardia alla donna perché vogliono stabilire se può essere avvisata del tuo arrivo. Perché essa dice che conosce il tuo volto e la tua voce, e fra mille e mille ti riconoscerebbe, mentre è provato che essa mai è uscita dal paese, anzi, dalla sua casa da quando, quindici anni or sono, le morì lo sposo la vigilia della festa nuziale; ed è anche provato che mai Tu sei passato dal suo paese che è Betlechi. E gli scribi attendono questa ultima prova per dirla indemoniata.
3 Vuoi vederla subito?». «No. Devo parlare alla gente. E sarebbe troppo chiassoso l’incontro qui, fra le turbe. Va’ a dire a Giovanni d’Efeso e ai parenti della donna, e anche agli scribi, che li attendo tutti all’inizio del tramonto nei boschi lungo il fiume, sul sentiero del guado. Va’». E Gesù, congedato Salomon, che ha parlato per tutti, va dai malati invocanti guarigione e li guarisce. Sono una donna anziana anchilosata dall’artrite, un paralitico, un giovanetto ebete, una fanciulla che direi etica e due malati agli occhi. La gente ha i suoi trillanti gridi di gioia. Ma non è finita ancora la serie dei malati. Una madre si avanza, sfigurata dal dolore, sorretta da due amiche o parenti, e si inginocchia dicendo: «Ho il figlio morente. Non può essere portato qui… Pietà di me!». «Puoi credere senza misura?». «Tutto, o mio Signore!». «E allora torna a casa tua». «A casa mia?… Senza Te?…». La donna lo guarda un momento con affanno, poi comprende. Il povero viso si trasfigura. Grida: «Vado, Signore. E benedetto Te e l’Altissimo che ti ha mandato!». E corre via, più svelta delle stesse sue compagne… Gesù si volge ad uno di Gerico, ad un dignitoso cittadino. «Quella donna è ebrea?». «No. Di nascita almeno, no. Viene da Mileto. Sposa però a uno di noi e da allora nella nostra fede». «Ha saputo credere meglio di molti ebrei», osserva Gesù.
4Poi, salendo sull’alto gradino di una casa, fa il gesto abituale, di aprire le braccia, che precede il suo parlare e serve ad imporre silenzio. Ottenutolo, raccoglie le pieghe del manto, apertosi sul petto nel gesto, e lo tiene fermo con la sinistra mentre abbassa la destra nell’atto di chi giura, dicendo: «Ascoltate, o cittadini di Gerico, le parabole del Signore, e ognuno poi le mediti nel suo cuore e ne tragga la lezione per nutrire il suo spirito. Lo potete fare perché non da ieri, né dalla passata luna, e neppure dall’altro inverno, conoscete la Parola di Dio. Prima che Io fossi il Maestro, Giovanni, mio Precursore, vi aveva preparato al mio venire e, dopo che lo fui, i miei discepoli hanno arato questo suolo sette e sette volte per seminarvi ogni seme che Io avevo loro dato. Dunque potete capire la parola e la parabola.
5 A che paragonerò Io coloro che, dopo essere stati peccatori, poi si convertono? Li paragonerò a malati che guariscono. A che paragonerò gli altri che non hanno pubblicamente peccato, o che, rari più di perle nere, non hanno fatto mai, neppur nel segreto, colpe gravi? Li paragonerò a delle persone sane. Il mondo è composto di queste due categorie. Sia nello spirito che nella carne e sangue. Ma, se uguali sono i paragoni, diverso è il modo del mondo di usare coi malati guariti, che erano malati nella carne, da quello che esso usa coi peccatori convertiti, ossia coi malati dello spirito che tornano in salute. Noi vediamo che quando anche un lebbroso, che è il malato più pericoloso e più isolato perché pericoloso, ottiene la grazia di guarigione, dopo essere stato osservato dal sacerdote e purificato, viene riammesso nel consorzio delle genti, e anzi quelli della sua città lo festeggiano perché guarito, perché risuscitato alla vita, alla famiglia, agli affari. Gran festa in famiglia e in città, quando uno che era lebbroso riesce ad ottenere grazia e a guarire! È una gara fra i famigliari e i cittadini a portargli questo e quello e, se è solo e senza casa o mobili, a offrirgli tetto o mobiglia, e tutti dicono: “È uno prediletto da Dio. Il suo dito lo ha sanato. Facciamogli dunque onore, e onoreremo Colui che lo ha creato e ricreato”. È giusto di fare così. E quando, sventuratamente invece, uno ha i primi segni di lebbra, con che amore angoscioso parenti e amici lo colmano di tenerezze, finché è possibile ancora farlo, quasi per dargli, tutto in una volta, il tesoro di affetti che gli avrebbero dato in molti anni, perché se lo porti seco nel suo sepolcro di vivo. Ma perché allora per gli altri malati non si fa così? Un uomo comincia a peccare, e famigliari e soprattutto concittadini lo vedono? Perché allora non cercano con amore di strapparlo al peccare? Una madre, un padre, una sposa, una sorella ancora lo fanno. Ma è già difficile che lo facciano i fratelli, e non dico poi che lo facciano i figli del fratello del padre o della madre. I concittadini, infine, non sanno che criticare, schernire, insolentire, scandalizzarsi, esagerare i peccati del peccatore, segnarselo a dito, tenerlo discosto come un lebbroso quelli che sono più giusti, farsi suoi complici, per godere alle sue spalle, quelli che giusti non sono. Ma non c’è che ben raramente una bocca, e soprattutto un cuore, che vada dall’infelice con pietà e fermezza, con pazienza e amore soprannaturale, e si affanni a frenarne la discesa nel peccato. E come? Non è forse più grave, veramente grave e mortale la malattia dello spirito? Non priva essa, e per sempre, del Regno di Dio? La prima delle carità verso Dio e verso il prossimo non deve essere questo lavoro di sanare un peccatore per il bene della sua anima e la gloria di Dio? E quando un peccatore si converte, perché quell’ostinatezza di giudizio su di lui, quel quasi rammaricarsi che egli sia tornato alla salute spirituale? Vedete smentiti i vostri pronostici di certa dannazione di un vostro concittadino? Ma dovreste esserne felici, perché Colui che vi smentisce è il misericordioso Iddio, che vi dà una misura della sua bontà a rincuorarvi nelle vostre colpe più o meno gravi. E perché quel persistere a voler vedere sporco, spregevole, degno di stare nell’isolamento, ciò che Dio e la buona volontà di un cuore hanno fatto netto, ammirevole, degno della stima dei fratelli, anzi della loro ammirazione? Ma ben giubilate anche se un vostro bue, un vostro asino o cammello, o la pecora del gregge, o il colombo preferito guariscono da una malattia! Ben giubilate se un estraneo, che appena ricordate a nome per averne sentito parlare al tempo in cui fu isolato perché lebbroso, torna guarito! E perché allora non giubilate per queste guarigioni di spirito, per queste vittorie di Dio? Il Cielo giubila quando un peccatore si converte. Il Cielo: Dio, gli angeli purissimi, quelli che non sanno cosa è peccare. E voi, voi uomini, volete essere più intransigenti di Dio?
6 Fate, fate giusto il vostro cuore e riconoscete il Signore non soltanto come presente fra le nuvole d’incenso e i canti del Tempio, nel luogo dove solamente la santità del Signore, nel Sommo Sacerdote, deve entrare, e dovrebbe essere santa come il nome lo indica. Ma anche nel prodigio di questi spiriti risorti, di questi altari riconsacrati, sui quali l’Amore di Dio scende coi suoi fuochi ad accendere il sacrificio». Gesù viene interrotto dalla madre di prima, che con gridi di benedizione lo vuole adorare. Gesù la ascolta e benedice e la rimanda a casa, riprendendo il discorso interrotto. «E se da un peccatore, che un tempo vi ha dato spettacolo di scandalo, ricevete ora spettacoli di edificazione, non vogliate schernire ma imitare. Perché nessuno è mai tanto perfetto da essere impossibile che un altro lo ammaestri. E il Bene è sempre lezione che va accolta, anche se colui che lo pratica un tempo era oggetto di riprovazione. Imitate e aiutate. Perché, così facendo, glorificherete il Signore e dimostrerete che avete capito il suo Verbo. Non vogliate essere come quelli che in cuor vostro criticate perché le loro azioni non corrispondono alle loro parole. Ma fate che ogni vostra buona azione sia il coronamento di ogni vostra buona parola. E allora veramente sarete guardati e ascoltati benevolmente dall’Eterno.
7 Udite quest’altra parabola, per comprendere quali sono le cose che hanno valore agli occhi di Dio. Essa vi insegnerà a correggervi da un pensiero non buono che è in molti cuori. I più degli uomini si giudicano da se stessi e, posto che solo un uomo su mille è veramente umile, così avviene che l’uomo si giudica perfetto, lui solo perfetto, mentre nel prossimo nota cento e cento peccati. Un giorno due uomini, andati a Gerusalemme per affari, salirono al Tempio, come si conviene ad ogni buon israelita ogni qualvolta pone piede nella Città Santa. Uno era un fariseo. L’altro un pubblicano. Il primo era venuto per riscuotere il fitto di alcuni empori e per fare i conti con i suoi fattori, che abitavano nelle vicinanze della città. L’altro per versare le imposte riscosse e per invocare pietà in nome di una vedova che non poteva pagare la tassazione della barca e delle reti, perché la pesca, fatta dal figlio maggiore, le era appena sufficiente per dare da mangiare ai molti altri figli. Il fariseo, prima di salire al Tempio, era passato dai tenutari degli empori e, gettato uno sguardo in essi empori, vistili pieni di merci e di compratori, si era compiaciuto in se stesso e poi aveva chiamato il tenutario del luogo e gli aveva detto: “Vedo che i tuoi commerci vanno bene”. “Sì, per grazia di Dio. Sono contento del mio lavoro. Ho potuto aumentare le merci e spero di farlo ancora di più. Ho migliorato il luogo, e l’anno veniente non avrò le spese dei banchi e scaffali, e perciò avrò più guadagno”. “Bene! Bene! Ne sono felice! Quanto paghi tu per questo luogo?”. “Cento didramme al mese. È caro, ma la posizione è buona…”. “Lo hai detto. La posizione è buona. Perciò io ti raddoppio il fitto’’. “Ma signore”, esclamò il negoziante. “In tal maniera tu mi levi ogni utile!”. “È giusto. Devo forse io arricchire te? E sul mio? Presto. O tu mi dai duemilaquattrocento didramme, e subito, o ti caccio fuori e mi tengo la merce. Il luogo è mio e ne faccio ciò che voglio” . Così al primo, così al secondo e al terzo dei suoi affittuari, ad ognuno raddoppiando il prezzo, sordo ad ogni preghiera. E perché il terzo, carico di figli, volle fare resistenza, chiamò le guardie e fece porre i sigilli di sequestro, cacciando fuori l’infelice. Poi, nel suo palazzo, esaminò i registri dei fattori, trovando di che punirli come fannulloni e sequestrando loro la parte che si erano tenuta di diritto. Uno aveva il figlio morente, e per le molte spese aveva venduto una parte del suo olio per pagare le medicine. Non aveva dunque che dare all’esoso padrone. “Abbi pietà di me, padrone. Il mio povero figlio sta per morire, e dopo farò dei lavori straordinari per rifonderti ciò che ti sembra giusto. Ma ora, tu lo comprendi, non posso”. “Non puoi? Io ti farò vedere se puoi o non puoi”. E, andato col povero fattore nel frantoio, lo privò anche di quel resto d’olio che l’uomo si era tenuto per il misero cibo e per alimentare la lampada che permetteva di vegliare il figlio nella notte. Il pubblicano invece, andato dal suo superiore e versate le imposte riscosse, si sentì dire: “Ma qui mancano trecentosettanta assi. Come mai ciò?”. “Ecco, ora ti dico. Nella città è una vedova con sette figli. Il primo solo è in età di lavorare. Ma non può andare lontano da riva con la barca, perché le sue braccia sono deboli ancora per il remo e la vela, e non può pagare un garzone di barca. Stando vicino a riva, poco pesca, e il pescato basta appena a sfamare quelle otto infelici persone. Non ho avuto cuore di esigere la tassa”. “Comprendo. Ma la legge è legge. Guai se si sapesse che essa è pietosa! Tutti troverebbero ragioni per non pagare. Il giovinetto cambi mestiere e venda la barca se non possono pagare” . “È il loro pane futuro… ed è il ricordo del padre”. “Comprendo. Ma non si può transigere”. “Va bene. Ma io non posso pensare otto infelici privati dell’unico bene. Pago io i trecentosettanta assi”.
8 Fatte queste cose, i due salirono al Tempio e, passando presso il gazofilacio, il fariseo trasse con ostentazione una voluminosa borsa dal seno e la scosse sino all’ultimo picciolo nel Tesoro. In quella borsa erano le monete prese in più ai negozianti e il ricavato dell’olio levato al fattore e subito venduto ad un mercante. Il pubblicano invece gettò un pugnello di piccioli, dopo aver levato quanto gli era necessario al ritorno al suo luogo. L’uno a l’altro dettero perciò quanto avevano. Anzi, in apparenza, il più generoso fu il fariseo, perché dette fino all’ultimo dei piccioli che aveva seco. Però occorre riflettere che nel suo palazzo egli aveva altre monete e aveva crediti aperti presso dei ricchi cambiavalute. Indi andarono davanti al Signore. Il fariseo proprio avanti, presso il limite dell’atrio degli Ebrei, verso il Santo; il pubblicano in fondo, quasi sotto la volta che portava nel cortile delle Donne, e stava curvo, schiacciato dal pensiero della sua miseria rispetto alla Perfezione divina. E pregavano l’uno e l’altro. Il fariseo, ben ritto, quasi insolente, come fosse il padrone del luogo e fosse lui che si degnasse di ossequiare un visitatore, diceva: “Ecco che sono venuto a venerarti nella Casa che è la nostra gloria. Sono venuto benché senta che Tu sei in me, perché io sono giusto. So esserlo. Però, per quanto sappia che soltanto per mio merito sono tale, ti ringrazio, come è legge, di ciò che sono. Io non sono rapace, ingiusto, adultero, peccatore come quel pubblicano che ha gettato contemporaneamente a me un pugnello di piccioli nel Tesoro. Io, lo hai visto, ti ho dato tutto quanto avevo meco. Quell’esoso, invece, ha fatto due parti e a Te ha dato la minore. L’altra, certamente, la terrà per le gozzoviglie e le femmine. Ma io sono puro. Non mi contamino io. Io sono puro e giusto, digiuno due volte alla settimana, pago le decime di quanto possiedo. Sì. Sono puro, giusto e benedetto, perché santo. Ricòrdatelo, o Signore”. Il pubblicano, dal suo angolo remoto, senza osare di alzare lo sguardo verso le porte preziose dell’hecal, (luogo santo ed era la sala che nel Tempio di Gerusalemme precedeva il debir [sarà menzionato al capitolo 534] o Santo dei santi [menzionato spesso], dove era custodita l’Arca e dove poteva entrare soltanto il Sommo Sacerdote una volta all’anno), e battendosi il petto, pregava così: “Signore, io non son degno di stare in questo luogo. Ma Tu sei giusto e santo, e me lo concedi ancora perché sai che l’uomo è peccatore e, se non viene da Te, diviene un demonio. Oh! mio Signore! Vorrei onorarti notte e giorno, e devo per tante ore essere schiavo del mio lavoro. Lavoro rude che mi avvilisce, perché è dolore al mio prossimo più infelice. Ma devo ubbidire ai miei superiori, perché è il mio pane. Fa’, o mio Dio, che io sappia temperare il dovere verso i superiori con la carità verso i miei poveri fratelli, perché nel mio lavoro non trovi la mia condanna. Ogni lavoro è santo se operato con carità. Tieni la tua carità sempre presente al mio cuore perché io, miserabile qual sono, sappia compatire i miei soggetti, come Tu compatisci me, gran peccatore. Avrei voluto onorarti di più, o Signore. Tu lo sai. Ma ho pensato che levare il denaro destinato al Tempio per sollevare otto cuori infelici fosse cosa migliore che versarlo nel gazofilacio e poi far versare lacrime di desolazione a otto innocenti infelici. Però se ho sbagliato fammelo comprendere, o Signore, e io ti darò fino all’ultimo picciolo, e tornerò al paese a piedi mendicando un pane. Fammi capire la tua giustizia. Abbi pietà di me, o Signore, perché io sono un gran peccatore”.
9 Questa la parabola. In verità, in verità vi dico che, mentre il fariseo uscì dal Tempio con un nuovo peccato aggiunto a quelli già fatti avanti di salire al Moria, il pubblicano uscì di là giustificato, e la benedizione di Dio lo accompagnò a casa sua e restò in essa. Perché egli era stato umile e misericordioso, e le sue azioni erano state ancor più sante delle sue parole. Mentre il fariseo solo a parole e all’esterno era buono, mentre nel suo interno era e faceva opere da satana per superbia e durezza di cuore, e Dio lo odiava perciò. Chi si esalta sarà sempre, prima o poi, umiliato. Se non qui nell’altra vita. E chi si umilia sarà esaltato, specie lassù nel Cielo, ove si vedono le azioni degli uomini nella loro vera verità. Vieni, Zaccheo. Venite voi che siete con lui. E voi, miei apostoli e discepoli. Vi parlerò ancora in privato». E, avvolgendosi nel mantello, torna alla casa di Zaccheo.
(da “I Quaderni del 1945-50”, 8 maggio 1947, di Maria Valtorta)
Dice Maria Ss. di Fatima
«Ti ho dato la vista intellettiva di ciò che è un Rosario ben detto: pioggia di rose sul mondo. Ad ogni Ave che un’anima amante dice con amore e con fede io lascio cadere una grazia. Dove? Da per tutto: sui giusti a farli più giusti, sui peccatori per ravvederli. Quante! Quante grazie piovono per le Ave del Rosario! Rose bianche, rosse, oro.
Rose bianche dei misteri gaudiosi, rosse dei dolorosi, d’oro dei gloriosi. Tutte rose potenti di grazie per i meriti del mio Gesù. Perché sono i suoi meriti infiniti che dànno valore a ogni orazione. Tutto è e avviene, di ciò che è buono e santo, per Lui. Io spargo, ma Egli avvalora. Oh! Benedetto mio Bambino e Signore!
Vi do le rose candide dei meriti grandissimi della perfetta, perché divina – e perfetta perché volontariamente voluta conservare tale dall’Uomo – Innocenza di mio Figlio. Vi do le rose porpuree degli infiniti meriti della Sofferenza di mio Figlio, così volonterosamente consumata per voi. Vi do le rose d’oro della sua perfettissima Carità. Tutto di mio Figlio vi do, e tutto di mio Figlio vi santifica e salva. Oh! io sono nulla, io scompaio nel suo fulgore, io compio solo il gesto di dare, ma Egli, Egli solo è l’inesauribile fonte di tutte le grazie!».
Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo: “Come riuscire a sfamarli di pane qui, in un deserto?”.
Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’ Paralleli Vetus Ordo
Cap. DLXXVI. Verso Doco l’incontro con il giovane ricco.
7 marzo 1947
1 È un’altra mattina bellissima d’aprile. La terra e il firmamento spiegano tutte le loro primaverili bellezze. Si respira luce, canto, profumo, tanto l’aria è satura di luminosità, di voci di festa e d’amore, di fragranze. Deve esser scesa nella notte una breve pioggia che ha reso scure e senza polvere le strade, senza con ciò farle fangose, ed ha pulito steli e foglie che ora tremolano, tutte scintillanti e monde, ad una dolce brezza che scende dai monti verso questa fertile piana, che preannuncia Gerico. Dalle rive del Giordano salgono continuamente persone che hanno traghettato dall’altra sponda, oppure hanno seguito la strada che costeggia il fiume, venendo su questa che punta direttamente su Gerico e su Doco, come indicano i segnali stradali. E ai molti ebrei, che si dirigono da ogni parte a Gerusalemme per il rito, si mescolano mercanti di altri luoghi, e pastori e pastori con gli agnelli dei sacrifici, belanti ignari. Molti riconoscono e salutano Gesù. Sono, questi, ebrei della Perea e Decapoli e di luoghi anche più lontani. Ve ne è un gruppo di Cesarea Paneade. E sono pastori che, per essere piuttosto nomadi dietro i greggi, hanno conoscenza del Maestro, incontrato o annunciato a loro dai discepoli.
2 Uno si prostra e gli dice: «Posso offrirti l’agnello?». «Non te lo levare, uomo. È il tuo guadagno questo». «Oh! è la mia riconoscenza. Tu non ti ricordi di me. Io sì. Sono uno che Tu hai guarito guarendo tanti. Mi hai rinsaldato l’osso della coscia che nessuno guariva e mi teneva infermo. Te lo do volentieri l’agnello. Il più bello. Questo. Per il banchetto di letizia. Lo so che per l’olocausto sei tenuto alla spesa. Ma per la letizia! Tanta ne hai data a me. Prendilo, Maestro». «Ma sì, prendilo. Saranno denari che risparmieremo. O meglio, sarà possibilità di mangiare, perché con tutte le prodigalità che si fanno io non ho più denaro», dice l’Iscariota. «Prodigalità? Ma se da Sichem non si è più speso uno spicciolo!», dice Matteo. «Insomma, io non ho più denaro. Gli ultimi li detti a Merode». «Uomo, ascolta», dice Gesù al pastore per porre fine alle parole di Giuda. «Io non vado per ora a Gerusa- lemme e non posso portare con Me l’agnello. Altrimenti lo accetterei per mostrarti che gradisco il tuo dono». «Ma poi andrai in città. Ti fermerai per le feste. Avrai un ricovero. Dimmi dove ed io consegnerò ai tuoi amici…». «Non ho nulla di questo… Ma a Nobe ho un vecchio e povero amico. Ascoltami bene: il dì dopo il sabato pasquale tu andrai all’alba a Nobe e dirai a Giovanni, l’anziano di Nobe (tutti te lo indicheranno): “Questo agnello te lo manda Gesù di Nazaret, tuo amico, perché tu festeggi questo giorno con banchetto di letizia, perché più grande letizia di oggi non c’è per i veri amici del Cristo”. Lo farai?». «Se così vuoi, lo farò». «E mi farai felice. Non prima del dì dopo il sabato. Ricorda bene. E ricorda le parole che ti ho detto. Ora va’ e la pace sia con te. E serba il tuo cuore stabile in essa pace nei giorni futuri. Ricorda anche questo e continua a credere nella mia Verità. Addio» .
3 Della gente si è accostata ad ascoltare il dialogo e si dirada solo quando il pastore, rimettendo in moto il suo gregge, la obbliga a sparpagliarsi. Gesù segue il gregge, approfittando della scia aperta da esso. La gente bisbiglia: «Ma allora va proprio a Gerusalemme? Ma non sa che c’è il bando per Lui?». «Eh! ma nessuno può vietare ad un figlio della Legge di presentarsi al Signore per la Pasqua. È colpevole forse di pubblico reato? No. Perché, se lo fosse, il Preside lo avrebbe fatto imprigionare come Barabba». E altri: «Hai sentito? Non ha ricovero né amici a Gerusalemme. Che tutti lo abbiano abbandonato? Anche il risorto? Bella riconoscenza!». «Taci là! Quelle due sono le sorelle di Lazzaro. Io sono delle campagne di Magdala e le conosco bene. Se le sorelle sono con Lui, segno è che la famiglia di Lazzaro gli è fedele». «Forse non osa entrare in città». «Ha ragione». «Dio lo perdonerà se sta fuori di essa». «Non è colpa sua se non può salire al Tempio». «La sua prudenza è saggia. Se venisse preso, tutto sarebbe finito prima della sua ora». «Certo non è ancor pronto per la sua proclamazione a re nostro, ed Egli non vuole essere preso». «Si dice che, mentre lo si sapeva ad Efraim, Egli sia andato in ogni luogo, sin presso le tribù nomadi, per prepararsi i seguaci e le milizie e cercare protezioni». «Chi te lo ha detto?». «Sono le solite menzogne. Egli è il Re santo e non il re da milizie». «Forse farà la Pasqua supplementare. Allora è più facile passare inosservato. Il Sinedrio è sciolto dopo le feste, e tutti i sinedristi vanno alle loro case per la mietitura. Sino a Pentecoste non si raduna di nuovo». «E, via che siano i sinedristi, chi volete che gli faccia del male? Sono loro gli sciacalli!». «Uhm! che Egli si usi tanta prudenza? Cosa troppo da uomo! Egli è da più che un uomo e non avrà prudenza vile». «Vile? Perché? Nessuno può dir vile chi si risparmia per la sua missione». «Vile sempre, perché ogni missione è sempre inferiore a Dio. Perciò il culto a Dio deve avere la precedenza su ogni altra cosa». Queste le parole che vanno da bocca a bocca. Gesù mostra di non sentire.
4 Giuda d’Alfeo si ferma per attendere le donne e, sopraggiunte che siano – esse erano col ragazzo, indietro una trentina di passi – dice a Elisa: «Avete dato molto a Sichem dopo che partimmo!». «Perché?». «Perché Giuda non ha più un picciolo. I tuoi sandali, o Beniamino, non verranno. È destino così. A Tersa non si poté entrare e, anche avessimo potuto, il non aver denaro avrebbe impedito ogni acquisto… Dovrai entrare a Gerusalemme così…». «Prima c’è Betania», dice Marta con un sorriso. «E prima c’è Gerico e la mia casa», dice Niche pure sorridendo. «E prima di tutto ci sono io. Io ho promesso e io farò. Viaggio di esperienze questo! Ho provato cosa è non avere una didramma. E ora proverò cosa è dover vendere un oggetto per bisogno», dice Maria di Magdala. «E che vuoi vendere, Maria, se non porti più gioielli?», chiede Marta alla sorella. «Le mie grosse forcine d’argento. Sono tante. Ma per tenere a posto questo inutile peso possono bastare quelle di ferro. Le venderò. Gerico è piena di gente che compra queste cose. E oggi è giorno di mercato, e così domani e sempre per queste ricorrenze». «Ma sorella!». «Che? Ti scandalizzi pensando che mi si possa credere povera tanto da dover vendere le forcine d’argento? Oh! vorrei averti dato sempre di questi scandali! Peggio era quando, senza bisogno, vendevo me stessa al vizio altrui e mio». «Ma taci! C’è il ragazzo, che non sa!». «Non sa ancora. Forse non sa ancora che io ero la peccatrice. Domani lo saprebbe da chi mi odia perché non sono più tale, e certo con particolari quali il mio peccato non ebbe pur essendo tanto grande. Meglio dunque che lo sappia da me e veda quanto può il Signore che lo ha accolto: fare di una peccatrice una pentita, di un morto un risorto, di me morta nello spirito, di Lazzaro morto nel corpo, due viventi. Perché questo ha fatto a noi il Rabbi, o Beniamino. Ricordalo sempre e amalo con tutto il tuo cuore, perché Egli è veramente il Figlio di Dio».
5 Un inpo lungo la via ha fermato Gesù e gli apostoli, e le donne li raggiungono. Gesù dice: «Andate avanti voi, verso Gerico, ed anche entrateci, se volete. Io vado a Doco con questi. Al tramonto sarò con voi». «Oh! perché ci allontani? Non siamo stanche», protestano tutte. «Perché vorrei che voi intanto, almeno alcune, avvisaste i discepoli che Io sarò da Niche domani». «Se è così, Signore, noi andiamo. Vieni Elisa, e tu Giovanna, e tu Susanna e Marta. Prepareremo ogni cosa», dice Niche. «E io e il ragazzo. Faremo i nostri acquisti. Benedicici, Maestro. E vieni presto. Tu, Madre, resti?», dice Maria di Magdala. «Sì. Col Figlio mio». Si separano. Con Gesù restano soltanto le tre Marie: la Madre, sua cognata Maria Cleofe e Maria Salome. E Gesù lascia la via di Gerico per una via secondaria che va a Doco.
6 E da poco è per essa quando, da una carovana che viene non so da dove – una ricca carovana che certo viene da lontano perché ha le donne montate sui cammelli, chiuse nelle tremolanti berline o palanchini legati sulle schiene gibbute, e gli uomini a cavallo di focosi cavalli o di altri cammelli – si stacca un giovane e facendo inginocchiare il suo cammello scivola giù di sella, andando verso Gesù. Un servo, accorso, gli tiene la bestia per le briglie. Il giovane si prostra davanti a Gesù e, dopo il profondo saluto, gli dice: «Filippo di Canata, figlio di veri israeliti e rimasto tale, io sono. Discepolo di Gamaliele sinché la morte del padre mio non mi fece capo dei suoi commerci. Ti ho sentito più di una volta. So le tue azioni. Aspiro ad una vita migliore per avere quella vita eterna che Tu assicuri possesso di chi crea il tuo Regno in sé. Dimmi dunque, Maestro buono, che dovrò fare per avere la vita eterna?». «Perché mi chiami buono? Solo Dio è buono». «Tu sei il Figlio di Dio, buono come il Padre tuo. Oh! dimmi, che devo fare?». «Per entrare nella vita eterna osserva i comandamenti». «Quali, mio Signore? Gli antichi o i tuoi?». «Negli antichi sono già i miei, i miei non mutano gli antichi. Essi sono sempre: adorare di amor vero l’unico vero Dio e rispettare le leggi del culto, non uccidere, non rubare, non commettere adulterio, non attestare il falso, onorare padre e madre, non danneggiare il prossimo ma anzi amarlo come ami te stesso. Facendo così, avrai la vita eterna». «Maestro, tutte queste cose le ho osservate dalla mia fanciullezza». Gesù lo guarda con occhio d’amore e dolcemente gli chiede: «E non ti paiono sufficienti ancora?». «No, Maestro. Cosa grande è il Regno di Dio in noi e nell’altra vita. Infinito dono è Dio che a noi si dona. Io sento che tutto è poco, di ciò che è dovere, rispetto al Tutto, all’Infinito perfetto che si dona e che penso si debba ottenere con cose più grandi di quelle che sono comandate per non dannarsi ed essergli graditi». «Tu dici bene. Per essere perfetto ti manca ancora una cosa. Se vuoi essere perfetto come vuole il Padre nostro dei Cieli, va’, vendi quanto hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in Cielo che ti farà diletto al Padre, che ha dato il suo Tesoro per i poveri della Terra. Poi vieni e seguimi». Il giovane si rattrista, si fa pensieroso. Poi si alza in piedi dicendo: «Ricorderò il tuo consiglio…», e si allontana tristemente.
7 Giuda ha un sorrisetto ironico e mormora: «Non sono io solo ad amare il denaro!». Gesù si volge e lo guarda… e poi guarda gli altri undici visi che gli sono intorno, poi sospira: «Come difficilmente un ricco entrerà nel Regno dei Cieli, la cui porta è stretta, ed erta è la via, e non possono percorrerla ed entrare coloro che sono caricati dei pesi voluminosi delle ricchezze! Per entrare lassù non ci vogliono che tesori di virtù, immateriali, e sapersi separare da tutto quanto è attaccamento alle cose del mondo e vanità». Gesù è molto triste… Gli apostoli si sogguardano fra loro… Gesù riprende, guardando la carovana del giovane ricco che si allontana: «In verità vi dico che è più facile che un cammello passi per una cruna d’ago che non per un ricco di entrare nel Regno di Dio». «Ma allora chi mai potrà salvarsi? La miseria fa sovente peccatori, per invidie e poco rispetto a ciò che è d’altri, e per sfiducia verso la Provvidenza… La ricchezza è di ostacolo alla perfezione… E allora? Chi potrà salvarsi?». Gesù li guarda e dice loro: «Quello che è impossibile agli uomini è possibile a Dio, perché a Dio tutto è possibile. Basta che l’uomo lo aiuti, il suo Signore, con la sua buona volontà. È buona volontà accettare il consiglio avuto e sforzarsi di giungere alla libertà dalle ricchezze. Ad ogni libertà, per seguire Dio. Perché la vera libertà dell’uomo è questa: seguire le voci che Dio gli sussurra al cuore e i suoi comandi, non essere schiavo né di se stesso, né del mondo, né del rispetto umano, e perciò non schiavi di Satana. Usare della splendida libertà di arbitrio che Dio ha dato all’uomo per volere liberamente e solamente il Bene, e conseguire così la vita eterna luminosissima, libera, beata. Neppur della propria vita bisogna essere schiavi, se per secondare la stessa noi si deve fare resistenza a Dio. Ve l’ho detto: (Vedi Vol 4 Cap 265) “Colui che perderà la sua vita per amor mio e per servire Iddio, costui la salverà in eterno”».
8«Ecco! Noi abbiamo lasciato ogni cosa per seguirti, anche le più lecite. Che ce ne verrà dunque? Entreremo allora nel tuo Regno?», chiede Pietro. «In verità, in verità vi dico che coloro che mi avranno seguito in tal modo e che mi seguiranno – perché c’è sempre tempo a riparare alle accidie e alle colpe sin qui fatte, sempre tempo sinché si è sulla Terra e si hanno davanti dei giorni nei quali poter riparare al mal fatto – costoro saranno con Me nel Regno mio. In verità vi dico che voi, che mi avete seguito nella rigenerazione, siederete sopra i troni a giudicare le tribù della Terra insieme al Figlio dell’uomo seduto sul trono della sua gloria. In verità ancora vi dico che non vi sarà nessuno che, avendo per amor del mio Nome lasciato casa, campi, padre, madre, fratelli, sposa, figli e sorelle, per spargere la Buona Novella e continuarmi, non riceva il centuplo in questo tempo e la vita eterna nel secolo futuro». «Ma se perdiamo tutto, come possiamo centuplicare il nostro avere?», chiede Giuda di Keriot. «Torno a dire: ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio. E Dio darà il centuplo di gaudio spirituale a coloro che da uomini del mondo seppero farsi figli di Dio, ossia uomini spirituali. Essi godranno il vero gaudio, qui e oltre la Terra. E ancor vi dico che non tutti quelli che sembrano i primi, e primi dovrebbero essere avendo più di tutti ricevuto, saranno tali. E non tutti quelli che sembrano ultimi, e men che ultimi, non essendo in apparenza miei discepoli e neppur del Popolo eletto, saranno gli ultimi. In verità molti da primi diverranno ultimi, e molti ultimi, infimi, diverranno primi…
9 Ma ecco là Doco. Andate avanti tutti, meno Giuda di Keriot e Simone Zelote. Andate ad annunciarmi a quelli che possono aver bisogno di Me». E Gesù attende con i due trattenuti di unirsi alle tre Marie, che li seguono a qualche metro di distanza.
Liturgia Novus Ordo: Mc 8, 1-10.
Vangelo Novus Ordo Mc 8, 1-10 Dal Vangelo secondo Marco
In quei giorni, poiché vi era di nuovo molta folla e non avevano da mangiare, Gesù chiamò a sé i discepoli e disse loro: “Sento compassione per la folla; ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. Se li rimando digiuni alle loro case, verranno meno lungo il cammino; e alcuni di loro sono venuti da lontano”. Gli risposero i suoi discepoli: “Come riuscire a sfamarli di pane qui, in un deserto?”. Domandò loro: “Quanti pani avete?”. Dissero: “Sette”. Ordinò alla folla di sedersi per terra. Prese i sette pani, rese grazie, li spezzò e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero; ed essi li distribuirono alla folla. Avevano anche pochi pesciolini; recitò la benedizione su di essi e fece distribuire anche quelli. Mangiarono a sazietà e portarono via i pezzi avanzati: sette sporte. Erano circa quattromila. E li congedò. Poi salì sulla barca con i suoi discepoli e subito andò dalle parti di Dalmanutà.
C: Parola del Signore. A: Lode a Te o Cristo.
Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’ Paralleli Novus ordo
Cap. CCCLIII. La seconda moltiplicazione dei pani e il miracolo della moltiplicazione della Parola.
24 Maggio 1944, ore 2 ant.ne della Pentecoste.
1Una serena visione. Vedo un posto che non è certo pianura. Non è neppure montagna. Dei monti sono ad oriente ma lontani alquanto. Poi c’è una valletta ed altre elevazioni più basse e piatte. Dei pianori erbosi. Sembra che siano le prime pendici di un gruppo collinoso. Il terreno è piuttosto arsiccio e nudo d’alberi. Vi è della corta e rada erba sparsa fra un terreno ciottoloso. Qua e là qualche ciuffetto molto basso di cespugli spinosi. Ad occidente l’orizzonte si allarga ampio e luminoso. Non vedo altro, come natura. È ancora giorno, ma direi che comincia la sera, perché l’occidente è rosso per il tramonto mentre i monti a oriente sono già violacei nella luce che diviene crepuscolare. Un principio di crepuscolo che fa più nere le spaccature profonde e appena violette le parti più elevate. Gesù è ritto su un grosso pietrone e parla a molta, ma molta folla sparsa sul pianoro. I discepoli lo circondano. Egli, ancor più alto perché il suo rustico piedestallo lo eleva, domina la folla di tutte le età e condizioni sociali che gli sta intorno. Deve aver compito dei miracoli, perché sento che dice: «Non a Me ma a Chi mi ha mandato dovete offrire lode e riconoscenza. E la lode non è quella che esce come suono di vento da labbra distratte. Ma è quella che sale dal cuore ed è il sentimento vero del vostro cuore. Questa è gradita a Dio. I guariti amino il Signore di un amore di fedeltà. E lo amino i parenti dei guariti. Del dono della salute riconquistata non fatene cattivo uso. Più che delle malattie del corpo, abbiate paura di quelle del cuore. E non vogliate peccare. Perché ogni peccato è una malattia. E ve ne sono tali che possono dare la morte. Ora dunque, o voi tutti che ora giubilate non distruggete la benedizione di Dio col peccato. Cesserebbe il giubilo vostro perché le maleazioni levano la pace, e dove non è pace non è giubilo. Ma siate santi. Siate perfetti come il Padre vostro vuole. Lo vuole perché vi ama, e a coloro che ama vuol dare un Regno. Ma nel suo Regno santo non entrano che coloro che la fedeltà alla Legge rende perfetti. La pace di Dio sia con voi».
2 E Gesù tace. Incrocia le braccia sul petto e con le braccia così conserte osserva la turba che gli sta intorno. Poi guarda in giro. Alza gli occhi al cielo sereno e che si fa sempre più scuro per la luce che decresce. Pensa. Scende dal suo masso. Parla ai discepoli. «Ho pietà di questa gente. Mi segue da tre giorni. Non ha più provviste seco. Siamo lontani da ogni paese. Temo che i più deboli soffrano troppo se Io li rimando senza nutrirli». «E come vuoi fare, Maestro? Tu lo dici: siamo lontani da ogni paese. In questo luogo deserto dove trovare pane? E chi ci darebbe tanto denaro da comperarlo per tutti?». «Non avete nulla con voi?». «Abbiamo pochi pesci e qualche pezzo di pane. L’avanzo del nostro cibo. Ma non basta a nessuno. Se Tu lo dai ai vicini succede una sommossa. Privi noi e non fai del bene a nessuno». E’ Pietro che parla. «Portatemi quanto avete». Portano una cestella con dentro sette tozzi di pane. Non sono neppure pani interi. Paiono grosse fette tagliate da grandi pagnotte. I pesciolini, poi, sono una manciata di povere bestioline abbruciacchiate dalla fiamma. «Fate sedere questa folla a cerchi di cinquanta e che stia ferma e zitta se vuol mangiare». I discepoli, parte salendo su delle pietre e parte circolando fra la gente, si dànno un gran da fare per mettere l’ordine chiesto da Gesù. Dài e dài, ci riescono. Qualche bambino piagnucola perché ha fame e sonno, qualche altro frigna perché, per farlo ubbidire, la mamma, o qualche altro parente, gli ha amministrato uno schiaffo.
3Gesù prende i pani, non tutti, naturalmente: due, uno per mano, e li offre, poi li posa e benedice. Prende i pesciolini, sono così pochi che stanno quasi tutti nel cavo delle sue lunghe mani. Offre essi pure e li posa e benedice essi pure. «E ora prendete, girate fra la folla e date ad ognuno, con abbondanza». I discepoli ubbidiscono. Gesù, ritto in piedi, bianca figura dominante questo popolo di seduti in larghi circoli che coprono tutto il pianoro, osserva e sorride. I discepoli vanno e vanno, sempre più lontano. Dànno e dànno. E sempre la cesta è piena di cibo. La gente mangia mentre la sera cala, e vi è un grande silenzio e una grande pace.
4 Dice Gesù:
«Ecco un’altra cosa che darà noia ai dottori difficili. L’applicazione che Io faccio a questa visione evangelica. Non ti faccio meditare sulla mia potenza e bontà. Non sulla fede e ubbidienza dei discepoli. Nulla di questo. Ti voglio far vedere l’analogia dell’episodio con l’opera dello Spirito Santo. Vedi: Io do la mia parola. Do tutto quanto potete capire e perciò assimilare per farne cibo all’anima. Ma voi siete tanto resi tardi dalla fatica e dall’inedia che non potete assimilare tutto il nutrimento che è nella mia parola. Ve ne occorrerebbe molta, molta, molta. Ma non sapete riceverne molta. Siete tanto poveri di di forze spirituali! Vi fa peso senza darvi sangue e forza. Ed ecco che allora lo Spirito opera il miracolo per voi. Il miracolo spirituale della moltiplicazione della Parola. Ve ne illumina, e perciò la moltiplica, tutti i più riposti significati, di modo che voi, senza gravarvi di un peso che vi schiaccerebbe senza corroborarvi, ve ne nutrite e non cadete più affranti lungo il deserto della vita. Sette pani e pochi pesci! Ho predicato tre anni e, come dice il mio diletto Giovanni (Giovanni 21, 25), “se si dovessero scrivere tutte le parole e i miracoli che ho detto e compiuto per dare a voi un cibo abbondante, capace di portarvi senza debolezze sino al Regno, non basterebbe la Terra a contenere i volumi”. Ma se anche ciò fosse stato fatto, non avreste potuto leggere tale mole di libri. Non leggete neppure, come dovreste, il poco che di Me è stato scritto. L’unica cosa che dovreste conoscere, come conoscete le parole più necessarie sin dalla più tenera età. E allora l’Amore viene e moltiplica. Anche Egli, Uno con Me e col Padre, ha “pietà di voi che morite di fame” e, come un miracolo che si ripete da secoli, raddoppia, decuplica, centuplica i significati, le luci, il nutrimento di ogni mia parola. Ecco così un tesoro senza fondo di celeste cibo. Esso vi è offerto dalla Carità. Attingetene senza paura. Più il vostro amore attingerà in esso e più esso, frutto dell’Amore, aumenterà la sua onda.
5Dio non conosce limiti nelle sue ricchezze e nelle sue possibilità. Voi siete relativi. Egli no. È infinito. In tutte le sue opere. Anche in questa di potervi dare in ogni ora, in ogni evento, quelle luci che vi abbisognano in quel dato istante. E come nel giorno di Pentecoste lo spirito effuso sugli apostoli rese la loro parola comprensibile a Parti, Medi, Sciti, Cappadoci, Pontici e Frigi, e simile a lingua natìa ad Egizi e Romani, Grici e Libici, così ugualmente Esso vi darà conforto se piangete, consiglio se credete, compartecipazione di gioia se gioite, con la stessa Parola. Oh! che realmente se lo Spirito vi illustra: “Và in pace e non voler peccare”, questa frase è premio per chi non ha peccato, incoraggiamento all’ancora debole che non vuole peccare, perdono al colpevole che si pente, rimprovero temperato di misericordia a colui che non ha che una larva di pentimento. E non è che una frase. Delle più semplici. Ma quante ce ne sono nel mio Vangelo! Quante che sono come bocci in fiore, che dopo un’acquata e un sole d’aprile si aprono fitti sul ramo, dove prima ve ne era solo uno fiorito, e lo coprono tutto con gioia di chi li mira! Riposa, ora. La pace dell’Amore sia con te».
Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Giovanni
– Catturarono Gesù e lo legarono In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi. Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
– Lo condussero prima da Anna Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno. Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».
Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote. Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro. E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono». Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.
Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento. Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto». Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?». Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?». Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.
– Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono! Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?». Egli lo negò e disse: «Non lo sono». Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?». Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.
– Il mio regno non è di questo mondo Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?». Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato». Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno». Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?».
E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.
– Salve, re dei Giudei! Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi.
Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna». Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».
Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».
All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».
– Via! Via! Crocifiggilo! Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà. Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare». Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.
– Lo crocifissero e con lui altri due Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».
– Si sono divisi tra loro le mie vesti I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte». E i soldati fecero così.
– Ecco tuo figlio! Ecco tua madre! Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.
(Qui si genuflette e di fa una breve pausa)
– E subito ne uscì sangue e acqua Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».
– Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.
C: Parola del Signore. A: Lode a Te o Cristo.
Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato
PASSIONE E MORTE DI GESU’
Cap. DCI. Passione e Morte di Gesù. Introduzione
10 febbraio 1944
1Dice Gesù: «Ed ora vieni. Per quanto tu sia questa sera come uno prossimo a spirare, vieni, ché Io ti conduca verso le mie sofferenze. Lungo sarà il cammino che dovremo fare insieme, perché nessun dolore mi fu risparmiato. Non dolore della carne, non della mente, non del cuore, non dello spirito. Tutti li ho assaggiati, di tutti mi sono nutrito, di tutti dissetato, fino a morirne. Se tu appoggiassi sul mio labbro la tua bocca, sentiresti che essa ancora conserva l’amarezza di tanto dolore. Se tu potessi vedere la mia Umanità nella sua veste, ora fulgida, vedresti che quel fulgore emana dalle mille e mille ferite che coprirono con una veste di porpora viva le mie membra lacerate, dissanguate, percosse, trafitte per amore di voi. Ora è fulgida la mia Umanità. Ma fu un giorno che fu simile a quella d’un lebbroso, tanto era percossa ed umiliata. L’Uomo-Dio, che aveva in Sé la perfezione della bellezza fisica, perché Figlio di Dio e della Donna senza macchia, apparve allora, agli occhi di chi lo guardava con amore, con curiosità o con occhio sprezzante, brutto: un “verme”, come dice Davide, l’obbrobrio degli uomini, il rifiuto della plebe. L’amore per il Padre e per le creature del Padre mio mi ha portato ad abbandonare il mio corpo a chi mi percoteva, ad offrire il mio volto a chi mi schiaffeggiava e sputacchiava, a chi credeva fare opera meritoria strappandomi le chiome, svellendomi la barba, trapassandomi la testa con le spine, rendendo complice anche la terra e i suoi frutti dei tormenti inflitti al suo Salvatore, slogandomi le membra, scoprendo le mie ossa, strappandomi le vesti e dando così alla mia purezza la più grande delle torture, configgendomi ad un legno e innalzandomi come agnello sgozzato sugli uncini di un beccaio, e abbaiando, intorno alla mia agonia, come torma di lupi famelici che l’odore del sangue fa ancora più feroci. Accusato, condannato, ucciso. Tradito, rinnegato, venduto. Abbandonato anche da Dio perché su Me erano i delitti che m’ero addossato. Reso più povero del mendico derubato da briganti, perché non mi fu lasciata neppur la veste per coprire la mia livida nudità di martire. Non risparmiato neppur oltre la morte dall’insulto di una ferita e dalle calunnie dei nemici. Sommerso sotto il fango di tutti i vostri peccati, precipitato sino in fondo al buio del dolore, senza più luce del Cielo che rispondesse al mio sguardo morente, né voce divina che rispondesse al mio invocare estremo.
2 Isaia la dice la ragione di tanto dolore: “Veramente Egli ha preso su di Sé i nostri mali ed ha portato i nostri dolori”. I nostri dolori! Sì, per voi li ho portati! Per sollevare i vostri, per addolcirli, per annullarli, se mi foste stati fedeli. Ma non avete voluto esserlo. E che ne ho avuto? Mi avete “guardato come un lebbroso, un percosso da Dio”. Sì, era su Me la lebbra dei vostri peccati infiniti, era su Me come una veste di penitenza, come un cilicio; ma come non avete visto tralucere Dio, nella sua infinita carità, da quella veste indossata per voi sulla sua santità? “Piagato per le nostre iniquità, trafitto per le nostre scelleratezze” dice Isaia, che coi suoi occhi profetici vedeva il Figlio dell’uomo divenuto tutta una lividura per sanare quelle degli uomini. E fossero state unicamente ferite alla mia carne! Ma ciò che più m’avete ferito fu il sentimento e lo spirito. Dell’uno e dell’altro avete fatto zimbello e bersaglio; e mi avete colpito nell’amicizia, che avevo posto in voi, attraverso Giuda; nella fedeltà, che speravo da voi, attraverso Pietro che rinnega; nella riconoscenza per i miei benefici, attraverso coloro che mi gridavano: “Muori!”, dopo che Io li avevo risorti da tante malattie; attraverso l’amore, per lo strazio inflitto a mia Madre; attraverso alla religione, dichiarandomi bestemmiatore di Dio, Io che per lo zelo della causa di Dio m’ero messo nelle mani dell’uomo incarnandomi, patendo per tutta la vita e abbandonandomi alla ferocia umana senza dire parola o lamento. Sarebbe bastato un volgere di occhi per incenerire accusatori, giudici e carnefici. Ma ero venuto volontariamente per compiere il sacrificio, e come agnello, perché ero l’Agnello di Dio e lo sono in eterno, mi sono lasciato condurre per essere spogliato e ucciso e per fare della mia Carne la vostra Vita. Quando fui innalzato ero già consumato da patimenti senza nome, con tutti i nomi. Ho cominciato a morire a Betlemme nel vedere la luce della Terra, così angosciosamente diversa per Me che ero il Vivente del Cielo. Ho continuato a morire nella povertà, nell’esilio, nella fuga, nel lavoro, nell’incomprensione, nella fatica, nel tradimento, negli affetti strappati, nelle torture, nelle menzogne, nelle bestemmie. Questo ha dato l’uomo a Me che venivo a riunirlo con Dio!
3 Maria, guarda il tuo Salvatore. Non è bianco nella veste e biondo nel capo. Non ha lo sguardo di zaffiro che tu gli conosci. Il suo vestito è rosso di sangue, è lacero e coperto di immondezze e di sputi. Il suo volto è tumefatto e stravolto, il suo sguardo velato dal sangue e dal pianto, e ti guarda attraverso la crosta di questi e della polvere che appesantiscono le palpebre. Le mie mani — lo vedi? — sono già tutte una piaga e attendono la piaga ultima. Guarda, piccolo Giovanni, come mi guardò tuo fratello Giovanni. Dietro il mio andare restano impronte sanguigne. Il sudore dilava il sangue che geme dalle lacerazioni dei flagelli, che ancor resta dall’agonia dell’Orto. La parola esce, nell’anelito dell’affanno di un cuore già morente per tortura d’ogni nome, dalle labbra arse e contuse. D’ora in poi mi vedrai sovente così. Sono il Re del Dolore e verrò a parlarti del dolore mio con la mia veste regale. Seguimi, nonostante la tua agonia. Saprò, poiché sono il Pietoso, mettere davanti alle tue labbra, attossicate dal mio dolore, anche il miele profumato di più serene contemplazioni. Ma devi ancor più preferire queste di sangue, perché per esse tu hai la Vita e con esse porterai altri alla Vita. Bacia la mia mano sanguinosa e vigila meditando su Me Redentore».
4 Vedo Gesù così come Egli si descrive. Questa sera, dalle 19 in poi (sono le 1,15 dell’11, ormai) sono proprio in agonia.
5Mi dice Gesù questa mattina, 11 febbraio, alle 7,30: «Ieri sera non ho voluto che parlarti di Me penante, perché ho iniziato la descrizione e visione dei miei dolori. Ieri sera è stata l’introduzione. Ed eri così sfinita, amica mia! Ma, prima che l’agonia torni, ti devo fare un dolce rimprovero. Ieri mattina sei stata egoista. Hai detto al Padre: “Speriamo che io duri, perché la mia fatica è la più grande”. No. La sua è la più grande, perché è faticosa e non compensata dalla beatitudine del vedere e dall’avere Gesù presente, come tu hai, anche con la sua santa Umanità. Non essere mai egoista, neppure nelle cose minime. Una discepola, un piccolo Giovanni, deve essere umilissimo e caritatevolissimo come il suo Gesù. Ed ora vieni a stare con Me. “I fiori sono apparsi… il tempo di potare è venuto… si è sentita nelle campagne la voce della tortorella…”. E sono i fiori nati nelle pozze del Sangue del tuo Cristo. E Colui che sarà reciso come ramo potato è il Redentore. E la voce della tortora, che chiama la sposa al suo convito di nozze dolorose e sante, è la mia che ti ama. Sorgi e vieni, come dice la Messa d’oggi. Vieni a contemplare ed a soffrire. È il dono che concedo ai prediletti
Cap. DCII. Verso il Getsemani con undici apostoli. L’agonia spirituale e la cattura.
16 marzo 1945
1 La via è tutta silenziosa. Solo una fontanella che ricade in un bacino di pietra mette un suono in tanto silenzio. Lungo i muri delle case, dal lato d’oriente, vi è ancora oscurità, mentre dall’altro lato la luna comincia a fare bianco il sommo delle case e, dove la via allarga in una piazzetta, ecco che il latteo argenteo della luna scende a far belli anche i ciottoli e la terra della via. Ma sotto i frequenti archivolti che vanno da casa a casa, simili a ponti levatoi od a puntelli a queste vecchie case dalle scarsissime aperture sulle vie, e che in quest’ora sono tutte chiuse e buie come fossero case abbandonate, vi è l’oscurità perfetta, e il rossastro della torcia portata da Simone acquista una singolare vivezza e un’ancora più grande utilità. I visi, in quella luce rossa e mobile, si mostrano con un rilievo netto e, tanti quanti sono, rivelano altrettanti e diversi stati d’animo. Il più solenne e calmo è quello di Gesù. Per quanto una stanchezza lo invecchi marcandolo di linee che solitamente non ha e che fanno già apparire la futura effigie del suo volto ricomposto nella morte. Giovanni, che gli è al fianco, gira uno sguardo stupefatto, dolente, su tutto quanto vede. Sembra un fanciullo terrorizzato da qualche racconto udito o da qualche promessa paurosa e che invochi aiuto da chi sa di più di lui. Ma chi gli può dare aiuto? Simone, che è all’altro fianco di Gesù, ha il viso chiuso, cupo, di chi rimugina in sé pensieri atroci. Ed è ancora l’unico che, dopo Gesù, mostri un aspetto dignitoso.
2 Gli altri, in due gruppi che continuamente si alternano nella loro formazione, sono tutto un fermento. E ogni tanto la voce rauca di Pietro o quella baritonale di Tommaso si elevano con risonanza strana. Poi si riabbassano, come paurosi di quello che dicono. Discutono sul da farsi, e chi propone l’una e chi l’altra cosa. Ma cadono tutte le proposte, perché realmente sta per iniziarsi “l’ora delle tenebre” e i giudizi umani restano oscurati e confusi. «Bisognava dirmelo prima», arrangola Pietro. «Ma non uno ha parlato. Non il Maestro…», dice Andrea. «Sì! Proprio Lui te lo diceva. Ma fratello! Sembra che tu non lo conosca!…», gli risponde Pietro. «Io sentivo qualche cosa di turbato. E l’ho detto: “Andiamo a morire con Lui”. Ve lo ricordate? Ma, per il nostro santissimo Iddio, se avessi saputo che era Giuda di Simone!…», tuona Tommaso minaccioso. «E che volevi fare?», chiede Bartolomeo. «Io? Io farei anche ora se mi aiutaste!». «Cosa? Partiresti per ucciderlo? E dove?». «No. Porterei via il Maestro. È più semplice». «Non verrebbe!». «Non gli chiederei se verrebbe. Lo rapirei come si rapisce una donna». «Non sarebbe una malvagia idea!», dice Pietro. E impulsivo torna indietro, si mette nel gruppo dei due figli di Alfeo che con Matteo e Giacomo bisbigliano piano come congiurati. «Sentite, dice Tommaso di portare via Gesù. Tutti insieme. Si potrebbe… dal Get-Samnì per Betfage a Betania e di là… vela per qualche posto. Lo facciamo? Messo in salvo Lui, si torna e si stermina Giuda». «È inutile. Israele è tutta una trappola», dice Giacomo d’Alfeo. «Ed ora è prossima a chiudersi. Lo si capiva. Troppo odio!». «Ma, Matteo! Mi fai rabbia! Avevi più coraggio quando eri peccatore! Di’ tu, Filippo». Filippo, che viene solo solo e pare monologare fra sé, alza il viso e si ferma. Pietro lo raggiunge e bisbigliano fra loro. Poi raggiungono il gruppo di prima: «Io direi che il posto migliore è nel Tempio», dice Filippo. «Sei matto?», urlano i cugini, Matteo e Giacomo. «Ma se là lo vogliono morto!». «Sss! Quanto baccano! So quello che mi dico. Lo cercheranno da per tutto. Ma non lì. Tu e Giovanni avete buone amicizie fra i servi di Anna. Si dà un bel boccone d’oro… e tutto è fatto. Credete! Il posto migliore per nascondere uno ricercato è in casa dei carcerieri». «Io non lo faccio», dice Giacomo di Zebedeo. «Però, senti anche gli altri. Giovanni per primo. E se poi lo arrestano? Non voglio che si dica che sono io il traditore…». «Non ci avevo pensato. E allora?». Pietro è annichilito. «E allora io direi che è pietoso fare una cosa. L’unica che possiamo. Portare via la Madre…», dice Giuda d’Alfeo. «Già!… Ma… Chi ci va? Che le si dice? Va’ tu, parente». «Io resto con Gesù. È mio diritto. Va’ tu». «Io?! Mi sono armato di spada per morire come Eleazaro di Saura. Traverserò legioni per difendere il mio Gesù e colpirò senza ritegno. Se la forza dei più mi ucciderà, non importa. Lo avrò difeso», proclama Pietro. «Ma sei proprio sicuro che è l’Iscariota?», chiede Filippo al Taddeo. «Ne sono sicuro. Nessuno di noi ha cuore di serpe. Solo lui… Va’ tu, Matteo, da Maria e dille…». «Io? Ingannarla? Vederla al mio fianco ignara, e poi?… Ah! no. Sono pronto alla morte, ma non a tradire quella colomba…». Le voci si mischiano in un sussurro.
3 «Odi? Maestro, noi ti amiamo», dice Simone. «Lo so. Non ho bisogno di quelle parole per saperlo. E se danno pace al cuore del Cristo esse feriscono la sua anima». «Perché, Signor mio? Sono parole d’amore». «Di tutto umano amore. In verità, in questi tre anni non ho fatto nulla, perché voi siete ancora più umani della prima ora. Lievitano in voi tutti i fermenti più fangosi, questa sera. Ma non è colpa vostra…». «Salvati, Gesù!», geme Giovanni. «Mi salvo». «Sì? Oh! Mio Dio, grazie!». Giovanni pare un fiore piegato da arsione e che torni fresco sullo stelo. «Lo dico agli altri. Dove andiamo?». «Io alla morte. Voi alla Fede». «Ma non avevi detto ora che ti salvavi?». Il prediletto si accascia di nuovo. «Mi salvo, infatti, mi salvo. Se non ubbidissi al Padre mi perderei. Ubbidisco. Perciò mi salvo. Ma non piangere così! Sei meno bravo dei discepoli di quel filosofo greco di cui ti parlai un giorno. Essi rimasero presso il maestro morente per cicuta, confortandolo col loro virile dolore. Tu… tu sembri un pargolo che abbia perduto suo padre». «E non è forse così? Più che se perdessi il padre, io perdo! Perdo Te…». «Non mi perdi poiché continui a volermi bene. È perduto uno che è da noi separato dalla dimenticanza sulla Terra e dal giudizio di Dio nell’al di là. Ma noi non saremo separati. Mai. Né da questo, né da quello». Ma Giovanni non intende ragioni.
4 Simone si fa ancora più vicino a Gesù e gli confida sottovoce: «Maestro… io… io e Simon Pietro speravamo di fare qualche cosa di buono… Ma… Tu che sai tutto, dimmi: fra quante ore pensi essere catturato?». «Non appena la luna è al colmo del suo arco». Simone ha un atto di dolore e di impazienza, per non dire di stizza. «Allora tutto fu inutile… Maestro, ora ti spiego. Tu hai quasi rimproverato me e Simon Pietro per averti lasciato tanto solo in questi ultimi giorni… Ma eravamo lontani per Te… per amore di Te. Pietro, nella notte del lunedì, impressionato dalle tue parole, è venuto da me mentre dormivo e mi ha detto: “Io e te, di te mi fido, dobbiamo fare qualche cosa per Gesù. Anche Giuda ha detto di volersene occupare”. Oh! perché non abbiamo capito allora? Perché non ci hai detto nulla Tu? Ma, dimmi, a nessuno lo hai detto? Proprio a nessuno? Forse lo hai compreso solo poche ore fa?». «L’ho sempre saputo. Prima ancora che egli fosse nei discepoli. E perché il suo delitto non fosse perfetto, e nel divino e nell’umano, ho cercato in tutti i modi di allontanarlo da Me. Coloro che vogliono che Io muoia sono i carnefici di Dio. Questo, mio discepolo e amico, è anche il traditore, il carnefice dell’Uomo. Il mio primo carnefice, perché mi ha già fatto morto con lo sforzo di averlo al fianco, alla mensa, e di doverlo proteggere con Me stesso contro voi». «E nessuno lo sa?». «Giovanni. Gliel’ho detto alla fine della Cena. Ma che avete fatto?». «E Lazzaro? Non sa proprio nulla Lazzaro? Oggi fummo da lui, perché egli è venuto di prima mattina, ha sacrificato ed è ripartito senza neppure fermarsi al suo palazzo né andare al Pretorio. Perché lui ci va sempre, per consuetudine presa dal padre. E Pilato, lo sai, c’è in città, in questi giorni…». «Sì. Tutti ci sono. C’è Roma, la nuova Sionne, con Pilato. C’è Israele con Caifa ed Erode. C’è tutto Israele, perché la Pasqua ha raccolto i figli di questo popolo ai piedi dell’altare di Dio…
5 Hai visto Gamaliele?». «Sì. Perché questa domanda? Lo devo rivedere anche domani…». «Gamaliele questa sera è a Betfage. Lo so. Quando saremo giunti al Getsemani tu andrai da Gamaliele e gli dirai: “Fra poco avrai il segno che attendi da ventun’anni”. Null’altro. Poi tornerai coi compagni». «Ma come lo sai? Oh! Maestro mio, povero Maestro che non hai neppure il conforto di ignorare le opere altrui!». «Dici bene! Il conforto di ignorare! Povero Maestro! Perché sono più le opere malvagie delle buone. Ma vedo anche quelle buone e ne giubilo». «Allora Tu sai che…». «Simone, è la mia ora di passione. Per renderla più completa il Padre mi ritira la luce man mano che si approssima. Fra poco non avrò che tenebre e la contemplazione di ciò che è tenebre: ossia tutti i peccati degli uomini. Non puoi, non potete capire. Nessuno, meno chi sarà a ciò chiamato da Dio per speciale missione, comprenderà questa passione nella grande Passione e, poi che l’uomo è materiale anche nell’amare e nel meditare, ci sarà chi piangerà e soffrirà per le mie battiture, per le torture del Redentore, ma non si misurerà questa spirituale tortura che, credetelo voi che mi udite, sarà la più atroce… Parla, perciò, Simone. Guidami sui sentieri dove la tua amicizia andò per Me, perché Io sono un povero che accieca e che vede fantasmi, non cose reali…». Giovanni lo stringe e chiede: «Che? Non vedi più il tuo Giovanni?». «Ti vedo. Ma i fantasmi sorgono dalle nebbie di Satana. Visioni d’incubo e dolore. Tutti siamo avvolti in questo miasma d’inferno, questa sera. In Me cerca di creare viltà, disubbidienza e dolore. In voi creerà delusione e paura. In altri, che pure non sono né paurosi né delinquenti, darà delinquenza e pavidità. In altri, che già sono di Satana, darà il pervertimento soprannaturale. Dico così perché la loro perfezione nel male sarà tale da superare le umane possibilità e raggiungere il perfetto che è sempre nel sopraumano.
6 Parla, Simone». «Sì. Da martedì non facciamo che andare per sapere, per prevenire, per cercare aiuti». «E che avete potuto fare?». «Nulla. O ben poco». «E il poco sarà “nulla” quando la paura paralizzerà i cuori». «Mi sono anche urtato con Lazzaro… La prima volta che mi avviene… Urtato, perché mi parve inerte… Lui potrebbe fare. È amico del Governatore. È sempre il figlio di Teofilo! Ma Lazzaro ha respinto ogni mia proposta. L’ho lasciato urlando: “Io penso che l’amico di cui parla il Maestro sia tu. Mi fai orrore!”, e non volevo più tornare da lui… Ma questa mattina egli mi ha chiamato e detto: “Puoi ancora pensare che sia io il suo traditore?”. Io avevo già visto Gamaliele e Giuseppe e Cusa, e Nicodemo e Mannaen, ed infine tuo fratello Giuseppe… e non potevo più credere questo. Gli ho detto: “Perdona, Lazzaro. Ma mi sento la mente sconvolta più di quando ero io stesso un condannato”. Ed è così, Maestro… Io non sono più io… Ma perché sorridi?». «Perché ciò conferma quanto Io ti ho detto prima. La nebbia di Satana ti avvolge e turba. Che ha risposto Lazzaro?». «Ha detto: “Ti capisco. Vieni oggi, con Nicodemo. Ho bisogno di vederti”. E sono andato, mentre Simon Pietro è andato dai galilei. Perché tuo fratello, lui, da tanto lontano, ne sa più di noi. Dice che lo ha saputo per caso parlando con un vecchio galileo, amico di Alfeo e Giuseppe, che abita vicino ai mercati». «Ah!… sì… Un grande amico della casa…». «Egli è là con Simone e le donne. Vi è anche la famiglia di Cana». «Ho visto Simone». «Ebbene, Giuseppe da questo suo amico e amico di uno del Tempio, che è divenuto suo parente per donne, ha saputo che è decisa la tua cattura e ha detto a Pietro: “Io l’ho sempre combattuto. Ma per amore. E finché Egli era ancora forte. Ma, ora che diventa come un bambino in preda dei suoi nemici, io, parente che sempre l’ho amato, sono con Lui. È dovere di sangue e di cuore”». Gesù sorride, riavendo per un attimo il viso sereno delle ore di gioia. «E Giuseppe ha detto a Pietro: “I farisei di Galilea sono aspidi come tutti i farisei. Ma la Galilea non è tutta farisei. E qui sono molti galilei che lo amano. Andiamo a dire loro di radunarsi per difenderlo. Non abbiamo che i coltelli. Ma anche i bastoni sono armi, se ben maneggiati. E, se non vengono le milizie romane, avremo presto ragione di quella canaglia vile che sono gli sgherri del Tempio”. E Pietro è andato con lui.
7 Io intanto andavo da Lazzaro. Con Nicodemo. Avevamo deciso di persuadere Lazzaro a venire con noi e ad aprire la sua casa per stare con Te. Ci ha detto: “Devo ubbidire a Gesù e stare qui. A soffrire il doppio…”. È vero?». «È vero. Io gli ho dato questo ordine». «Però mi ha dato le spade. Sono sue. Una per me, una per Pietro. Anche Cusa voleva darmi le spade. Ma… Che sono due pezzi di ferro contro tutto un mondo? Cusa non può credere che sia vero quanto Tu dici. Giura che egli non sa nulla e che nella corte non c’è che il pensiero di godere della festa… Un bagordo come al solito. Tanto che egli ha detto a Giovanna di ritirarsi in una loro casa in Giudea. Ma Giovanna vuole rimanere qui. Chiusa nel suo palazzo, come se non ci fosse. Ma non si allontana. È con lei Plautina, Anna, Niche e due dame romane della casa di Claudia. Piangono, pregano e fanno pregare gli innocenti. Ma non è tempo di preghiere. Di sangue è tempo. Io sento tornare vivo lo “zelote” e ardo di uccidere per fare vendetta!…». «Simone! Se volevo farti morire maledetto, non ti levavo alla desolazione!…». Gesù è severissimo. «Oh! perdono, Maestro… Perdono! Sono come un ebbro, un delirante». «E Mannaen che dice?». «Mannaen dice che non può essere vero e che, se lo fosse, egli ti seguirà anche nel supplizio». «Come tutti fidate di voi!… Quanta superbia è nell’uomo! E Nicodemo e Giuseppe? Che sanno?». «Nulla più di me. Tempo fa in una assemblea Giuseppe si prese col Sinedrio, perché li chiamò assassini volendo uccidere un innocente, e disse: “Tutto è illegale qui dentro. Lui dice bene. L’abbominio è nella casa del Signore. Questo altare va distrutto perché profanato”. Non lo lapidarono perché è lui. Ma da allora lo hanno tenuto all’oscuro di tutto. Solo Gamaliele e Nicodemo gli si sono conservati amici. Ma il primo non parla. E il secondo… Né lui né Giuseppe furono più chiamati al Sinedrio per le decisioni più vere. Esso si aduna illegalmente qua e là, ad ore diverse, per paura di loro e di Roma. Ah! dimenticavo!… I pastori. Anche loro sono coi galilei. Ma pochi siamo! Se Lazzaro avesse voluto ascoltarci e venire dal Pretore! Ma non ci ascoltò… Questo abbiamo fatto… Molto… e nulla… e io sono tanto accasciato che vorrei andare per la campagna urlando come uno sciacallo, abbrutendomi in un’orgia, uccidendo come un brigante, pur di levarmi questo pensiero che è “tutto inutile”, come ha detto Lazzaro, come ha detto Giuseppe e Cusa e Mannaen e Gamaliele…». Lo Zelote non sembra più lui… «Che ha detto il rabbi?». «Ha detto: “Io non so esattamente i propositi di Caifa. Ma vi dico che solo per il Cristo è profetizzato quanto dite. E siccome io non ammetto in questo profeta il Cristo, non trovo ci sia da agitarsi. Verrà ucciso un uomo, buono, amico di Dio. Ma di quanti suoi simili ha bevuto il sangue Sionne?!”. E poiché noi insistevamo sulla tua divina Natura, ha ripetuto cocciuto: “Quando vedrò il segno, crederò”. Ed ha promesso di astenersi dal votare la tua morte, e anzi, se sarà possibile, di persuadere gli altri a non condannarti. Questo, non più. Non crede! Non crede! Se si potesse giungere a domani… Ma Tu dici di no.
8 Oh! che faremo noi?!». «Tu andrai da Lazzaro e cercherai di portare con te quanti più puoi. Non solo degli apostoli. Ma anche dei discepoli che troverai vaganti per le vie della campagna. Cerca di vedere i pastori e da’ loro questo ordine. La casa di Betania è più che mai la casa di Betania, la casa della buona ospitalità. Quelli che non hanno coraggio di affrontare l’odio di tutto un popolo si rifugino là. Ad attendere…». «Ma noi non ti lasceremo». «Non vi separate… Divisi, sareste un nulla. Uniti, sarete ancora una forza. Simone, promettimi questo. Tu sei pacato, fedele, hai parola e impero anche su Pietro. E hai un grande obbligo con Me. Te lo ricordo per la prima volta, per importi l’ubbidienza. Guarda, siamo al Cedron. Di lì sei salito a Me lebbroso e di lì sei partito mondato. Per quello che ti ho dato, dammi. Dàllo all’Uomo ciò che Io ho dato all’uomo. Ora il lebbroso sono Io…». «Nooo! Non lo dire!», gemono insieme i due discepoli. «Così è! Pietro, i fratelli miei saranno i più accasciati. Come un delinquente si sentirà l’onesto mio Pietro e non avrà pace. E i fratelli… Non avranno cuore di guardare la loro e la mia Madre… Te li raccomando…». «Ed io, Signore, di chi sarò? A me non pensi?». «O mio fanciullo! Tu sei affidato al tuo amore. È tanto forte che ti guiderà come una madre. Non ti do ordine né guida. Ti lascio sulle acque dell’amore. Sono in te un fiume tanto calmo e profondo che non mi mettono dubbio sul tuo domani. Simone, hai inteso? Promettimi, promettimi!». È penoso vedere Gesù tanto angosciato… Riprende: «Prima che vengano gli altri! Oh! grazie! Sii benedetto!».
9 Tutto il gruppo si riunisce. «Ora dividiamoci. Io salgo in alto, a pregare. Con Me voglio Pietro, Giovanni e Giacomo. Voi rimanete qui. E, se foste sopraffatti, chiamate. E non temete. Non vi sarà torto un capello. Pregate per Me. Deponete odio e paura. Non sarà che un attimo… e poi la gioia sarà piena. Sorridete. Che Io abbia nel cuore i vostri sorrisi. E ancora grazie di tutto, amici. Addio. Il Signore non vi abbandoni…». Gesù si separa dagli apostoli e va avanti, mentre Pietro si fa dare da Simone la torcia dopo che questo ha acceso con essa degli sterpi resinosi, che bruciano scoppiettando sul limite dell’uliveto e spandendo un odore di ginepro. Mi fa pena vedere il Taddeo che guarda con uno sguardo talmente intenso e doloroso Gesù che questo si volge e cerca chi lo ha guardato. Ma il Taddeo si nasconde dietro a Bartolomeo e si morde le labbra per frenarsi. Gesù fa un gesto con la mano, fra la benedizione e l’addio, e poi prosegue il suo cammino. La luna, ormai ben alta, circonda della sua luce la sua alta figura e pare renderla anche più alta, spiritualizzandola, facendone più chiara la veste rossa e più pallido l’oro dei capelli. Dietro a Lui affrettano il passo Pietro con la torcia e i due figli di Zebedeo.
10 Proseguono sino a raggiungere il limite della prima balza del rustico anfiteatro dell’uliveto, a cui fa da entrata la piazzuola irregolare e da gradinate le diverse balze che ascendono a scaglioni di ulivi sul monte, poi Gesù dice: «Fermatevi, attendetemi qui, mentre Io prego. Ma non dormite. Potrei avere bisogno di voi. E, ve lo chiedo per carità, pregate! Il vostro Maestro è molto accasciato».
È infatti di un accasciamento già profondo. Pare già aggravato da un peso. Dove è più il virile Gesù che parlava alle folle, bello, forte, dall’occhio dominatore, il pacato sorriso, la voce sonora e bellissima? Pare già preso da un affanno. È come uno che ha corso o che ha pianto. Ha una voce stanca e affannata. Triste, triste, triste… Pietro risponde per tutti: «Sta’ tranquillo, Maestro. Vigileremo e pregheremo. Non hai che chiamarci, che verremo». E Gesù li lascia, mentre i tre si curvano a radunare foglie e sterpi per fare un fuocherello che serva a tenerli desti e anche a combattere la guazza che comincia a scendere abbondante.
11Cammina, volgendo loro le spalle, da occidente a oriente, avendo perciò in faccia la luce lunare. Vedo che un grande dolore fa ancor più dilatato l’occhio, forse è un bistro di stanchezza che lo allarga, forse è l’ombra dell’arco sopraccigliare. Non so. So che ha l’occhio più aperto e incavato. Sale a testa china, solo ogni tanto la alza con un sospiro, come facesse fatica e anelasse, e allora gira il suo occhio tanto triste sul placido uliveto. Fa qualche metro in salita, poi gira intorno ad uno scaglione, che rimane così fra Lui e i tre lasciati più in basso. Lo scaglione, alto pochi decimetri all’inizio, sale sempre più e dopo poco è alto più di due metri, di modo che ripara completamente Gesù da ogni sguardo più o meno discreto e amico. Gesù prosegue sino ad un grosso masso che ad un certo punto sbarra il sentieruolo, forse messo a sostegno alla costa che in giù scoscende più ripida e nuda sino ad una desolata macia, che precede le mura oltre le quali è Gerusalemme, e in su continua a salire con altri balzi e altri ulivi. Proprio sopra al grosso sasso si spenzola un ulivo tutto nodoso e contorto. Pare un bizzarro punto interrogativo messo dalla natura a chiedere qualche perché. I rami folti sulla cima danno risposta alla domanda del tronco, dicendo ora di sì col piegarsi verso terra, ora di no dimenandosi da destra a manca, sotto un vento lieve che passa a ondate fra le fronde e che a volte sa soltanto di terra, a volte di quell’odore amarognolo dell’ulivo, alle volte di un misto profumo di rose e mughetti che non si sa da dove possa venire. Oltre il sentieruolo, in basso, sono altri ulivi, ed uno, proprio sotto al masso, fenduto da qualche fulmine eppure sopravvissuto, o scosciato per non so che causa, ha del tronco iniziale fatto due tronchi che salgono come le due aste di un grande V in stampatello, e le due chiome si affacciano al di qua e al di là del masso, come volessero vedere e velare nello stesso tempo, o fare ad esso masso una base di un grigio argento tutto pace.
12Gesù si ferma lì. Non guarda la città che appare là in basso, tutta bianca nella luce lunare. Anzi le volge le spalle e prega a braccia aperte a croce, col volto alzato verso il cielo. E non vedo il volto suo perché è nell’ombra, avendo la luna quasi a perpendicolo sul capo, è vero, ma anche la folta ramaglia dell’ulivo fra Lui e la luna, che appena filtra fra foglia e foglia con occhiellini ed aghi di luce in perpetuo movimento. Una lunga, ardente preghiera. Ogni tanto ha un sospiro e qualche parola più netta. Non è un salmo, non è il Pater. È una preghiera fatta dallo sgorgare del suo amore e del suo bisogno. Un vero discorso fatto al Padre suo. Lo comprendo per le poche parole che afferro: «Tu lo sai… Sono il tuo Figlio… Tutto, ma aiutami… L’ora è venuta… Io non sono più della Terra. Cessa ogni bisogno di aiuto al tuo Verbo… Fa’ che l’Uomo ti soddisfi come Redentore come ti fu ubbidiente la Parola… Ciò che Tu vuoi… Per loro ti chiedo pietà… Li farò salvi? Questo ti chiedo. Voglio così: dal mondo salvi, dalla carne, dal demonio… Posso chiedere ancora? È giusta domanda, Padre mio. Non per Me. Per l’uomo, che è tua creazione e che volle rendere fango anche la sua anima. Io getto nel mio dolore e nel mio Sangue questo fango, perché torni l’incorruttibile essenza dello spirito a Te gradito… Ed è dovunque. Egli è il re questa sera. Nella reggia e nelle case. Fra le milizie e nel Tempio… La città ne è colma, e domani sarà un inferno…». Gesù si volge, si appoggia con la schiena al masso e incrocia le braccia. Guarda Gerusalemme. Il viso di Gesù si fa sempre più mesto. Mormora: «Pare di neve… ed è tutta un peccato. Anche in essa quanti ho guarito! Quanto ho parlato!… Dove sono quelli che mi parevano fedeli?»… Gesù curva il capo e guarda fisso il terreno coperto di una erbetta corta e lucida di guazza. Ma, per quanto abbia il capo chino, comprendo che piange, perché delle gocce lucono nel cadere dal volto al suolo. Poi alza il capo, disserra le braccia, le congiunge tenendole al disopra del capo e agitandole così unite.
13Poi si incammina. Torna verso i tre apostoli seduti intorno al loro fuocherello di sterpi. E li trova mezzo addormentati. Pietro si è addossato ad un tronco con le spalle e, con le braccia conserte sul petto, ciondola con la testa nelle prime caligini di un robusto sonno. Giacomo è seduto, con il fratello, su un radicone che affiora e sul quale hanno messo i mantelli per sentirne meno le gobbe, ma, nonostante siano scomodi più di Pietro, sono anche loro sonnecchianti. Giacomo ha abbandonato la testa sulla spalla di Giovanni e questo ha piegato la sua su quella del fratello, come se il dormiveglia li avesse immobilizzati in quella posa. «Dormite? Non avete saputo vegliare un’ora sola? Ed Io ho tanto bisogno del vostro conforto e delle vostre preghiere!». I tre sobbalzano confusi. Si sfregano gli occhi. Mormorano una scusa, accusando lo sforzo del digerire come causa prima di questo loro sonnecchiare: «È il vino… il cibo… Ma ora passa. Un momento è stato. Non avevamo voglia di parlare e questo ci ha portati al sonno. Ma ora pregheremo a voce alta e non succederà più». «Sì. Pregate e vigilate. Anche per voi ne avete bisogno». «Sì, Maestro. Ti ubbidiremo».
14Gesù torna via. La luna che gli batte in volto, così forte nel suo chiarore d’argento che rende sempre più pallida la veste rossa come la velasse di una polvere bianco lucente, mi fa vedere il suo volto sconfortato, addolorato, invecchiato. Lo sguardo è sempre dilatato, ma pare appannato. La bocca ha una piega di stanchezza. Torna al suo masso ancor più lento e curvo. Si inginocchia appoggiando le braccia al masso, che non è liscio ma a mezza altezza ha come un seno, quasi fosse stato lavorato apposta così, e su questo breve seno è nata una pianticina, che mi pare di quei fioretti simili a piccoli gigli che ho visto anche in Italia, dalle fogliette piccole, tonde ma dentellate agli orli e polpute e i fiorellini minuti sugli esilissimi steli. Sembrano piccoli fiocchi nevosi spruzzanti il grigio del masso e le fogliette verde scuro. Gesù appoggia le mani lì presso e i fiorellini gli vellicano la guancia, perché Egli appoggia il capo sulle mani giunte e prega. Dopo un poco sente il fresco delle piccole corolle, alza il capo. Le guarda. Le carezza. Parla loro: «Voi siete pure!… Voi mi date ristoro! C’erano anche nella grotticella della Mamma questi fiorellini… e Lei li amava perché diceva: “Quando ero piccina, diceva mio padre: ‘Tu sei un giglio così piccino e tutto pieno di rugiada celeste'”… La Mamma! Oh! Mamma mia!». Ha uno scoppio di pianto. Col capo sulle mani congiunte, ricaduto un poco sui calcagni, lo vedo e l’odo piangere, mentre le mani stringono le dita e le tormentano l’una all’altra. Sento che dice: «Anche a Betlemme… e te li ho portati, Mamma. Ma questi, chi te li porterà più?…».
15Poi riprende a pregare e a meditare. Deve essere ben triste la sua meditazione, angosciosa più che triste, perché per sfuggirla Egli si alza, va avanti e indietro mormorando parole che non afferro, alzando il volto, abbassandolo, gestendo, passandosi sugli occhi, sulle gote, sui capelli, le mani con mosse macchinali e agitate, proprie di chi è in grande angoscia. Dirlo non è niente. Descriverlo è impossibile. Vederlo è andare nella sua angoscia. Gestisce verso Gerusalemme. Poi torna ad alzare le braccia verso il cielo come per invocare aiuto. Si leva il mantello come avesse caldo. Lo guarda… Ma che vede? I suoi occhi non guardano altro che la sua tortura, e tutto serve a questa tortura, ad aumentarla. Anche il mantello tessuto dalla Madre. Lo bacia e dice: «Perdono, Mamma! Perdono!». Pare lo chieda alla stoffa filata e tessuta dall’amore di mamma… Se lo rimette. È in uno strazio. Vuole pregare per superarlo. Ma con la preghiera tornano i ricordi, le apprensioni, i dubbi, i rimpianti… È una valanga di nomi… città… persone… fatti… Non posso seguirlo perché è veloce e saltuario. È la sua vita evangelica che gli sfila davanti… e gli riporta Giuda traditore.
16È tanto l’affanno che urla, per vincerlo, il nome di Pietro e Giovanni. E dice: «Ora verranno. Sono ben fedeli loro!». Ma “loro” non vengono. Chiama di nuovo. Pare terrorizzato come vedesse chissà che. Fugge veloce verso il luogo dove è Pietro e i due fratelli. E li trova più comodamente e pesantemente addormentati intorno a poche bragie che, ormai morenti, hanno solo dei zig e zag di rosso fra il grigio della cenere. «Pietro! Vi ho chiamati tre volte! Ma che fate? Dormite ancora? Ma non sentite quanto soffro? Pregate. Che la carne non vinca, non vi vinca. In nessuno. Se lo spirito è pronto, la carne è debole. Aiutatemi…». I tre sono più lenti a svegliarsi. Ma infine lo fanno e, con occhi imbambolati, si scusano. Si alzano, prima mettendosi seduti, poi mettendosi proprio ritti. «Ma guarda!», mormora Pietro. «Non ci è mai accaduto! Deve essere proprio stato quel vino. Era forte. E anche questo fresco. Ci si è coperti per non sentirlo (infatti si erano coperti coi mantelli anche sul capo) e non si è più visto il fuoco, non si è avuto più freddo, ed ecco che il sonno è venuto. Dici che hai chiamato? Eppure non mi pareva di dormire tanto forte… Su, Giovanni, cerchiamo dei rametti, muoviamoci. Ci passerà. Sta’ sicuro, Maestro, che ora poi!… Resteremo in piedi…», e getta una manata di fogliette secche sulle bragie, e soffia finché la fiamma risuscita, e la alimenta con i rami di rovo portati da Giovanni, mentre Giacomo porta un grosso ramo di ginepro, o simile pianta, che ha tagliato da un macchione poco discosto, e lo unisce al resto. La fiamma si alza alta e gioconda illuminando il povero viso di Gesù. Un viso veramente di una tristezza che non si può guardare senza piangere. Ogni fulgore di quel volto è annullato in una stanchezza mortale. Dice: «Sono in un’angoscia che mi uccide! Oh! sì! L’anima mia è triste sino a morirne. Amici!… Amici! Amici!». Ma, se anche così non dicesse, il suo aspetto direbbe che Egli è proprio come uno che muore, e nel più angoscioso e desolato abbandono. Pare che ogni parola sia un singhiozzo… Ma i tre sono troppo carichi di sonno. Sembrano quasi ebbri tanto vanno traballando ad occhi semichiusi… Gesù li guarda… Non li mortifica con rimproveri. Scuote il capo, sospira e torna via. Al posto di prima.
17Prega di nuovo in piedi, con le braccia in croce. Poi in ginocchio come prima, col volto curvo sui piccoli fiori. Pensa. Tace… Poi si dà a gemere e singhiozzare forte, quasi prostrato tanto è rilassato sui calcagni. Chiama il Padre. Sempre più affannosamente… «Oh!», dice. «È troppo amaro questo calice! Non posso! Non posso! È al di sopra di quanto Io posso. Tutto ho potuto! Ma non questo… Allontanalo, Padre, dal tuo Figlio! Pietà di Me!… Che ho fatto per meritarlo?». Poi si riprende e dice: «Però, Padre mio, non ascoltare la mia voce se essa chiede ciò che è contrario alla tua volontà. Non ricordarti che ti sono Figlio, ma solo servo tuo. Non la mia, ma la tua volontà sia fatta». Rimane così qualche tempo. Poi ha un grido soffocato e alza un viso sconvolto. Un attimo solo, poi piomba al suolo, proprio volto a terra, e resta così. Uno straccio d’uomo su cui preme tutto il peccato del mondo, su cui si abbatte tutta la Giustizia del Padre, su cui scende la tenebra, la cenere, il fiele, quella tremenda, tremenda, tremendissima cosa che è l’abbandono di Dio mentre Satana ci tortura… È l’asfissia dell’anima, è l’essere sepolti vivi in questa carcere che è il mondo, quando non si può più sentire che fra noi e Dio vi è un legame, è l’essere incatenati, imbavagliati, lapidati dalle nostre preghiere stesse che ci ricadono addosso irte di punte e sparse di fuoco, è il dare di cozzo contro un Cielo chiuso in cui non penetrano né voce né sguardi della nostra angoscia, è l’essere “orfani di Dio”, è la pazzia, l’agonia, il dubbio d’essersi sino allora ingannati, è la persuasione di essere scacciati da Dio, di esser dannati. È l’inferno!… Oh! lo so! e non posso, non posso vedere lo spasimo del mio Cristo, e sapere che esso è un milione di volte più atroce di quello che mi ha consumata lo scorso anno e che, quando mi torna alla mente, mi sconvolge ancora… Gesù geme, fra rantoli e sospiri proprio d’agonia: «Niente!… Niente!… Via!… La volontà del Padre! Quella! Quella sola!… La tua volontà, Padre. La tua, non la mia… Inutile. Non ho che un Signore: Iddio santissimo. Una legge: l’ubbidienza. Un amore: la redenzione… No. Non ho più Madre. Non ho più vita. Non ho più divinità. Non ho più missione. Inutilmente mi tenti, demonio, con la Madre, la vita, la mia divinità, la mia missione. Ho per madre l’Umanità e l’amo sino a morire per lei. La vita la rendo a Chi me l’ha data e me la chiede, supremo Padrone di ogni vivente. La divinità l’affermo essendo capace di questa espiazione. La missione la compio con la mia morte. Nulla ho più. Fuorché fare la volontà del Signore, mio Dio. Va’ indietro, Satana! L’ho detto la prima e la seconda volta. Lo ridico per la terza: “Padre, se è possibile passi da Me questo calice. Ma però non la mia, la tua volontà sia fatta”. Va’ indietro, Satana. Io sono di Dio». Poi non parla più altro che per dire fra gli ansiti: «Dio! Dio! Dio!». Lo chiama ad ogni battito di cuore, e pare che ad ogni battito il sangue trabocchi. La stoffa tesa sulle spalle se ne imbibisce e torna scura, nonostante il grande chiarore lunare che lo fascia tutto.
18Pure un chiarore più vivo si forma sul suo capo, sospeso a circa un metro da Lui, un chiarore così vivo che anche il Prostrato lo vede filtrare fra le onde dei capelli, già pesanti di sangue, e il velo che il sangue fa agli occhi. Alza il capo… Splende la luna sul povero volto, e ancora più splende la luce angelica simile a quella del diamante bianco azzurro della stella Venere. E appare tutta la tremenda agonia nel sangue che trasuda dai pori. Le ciglia, i capelli, i baffi, la barba sono aspersi e cospersi di sangue. Sangue cola dalle tempie, sangue sgorga dalle vene del collo, sangue gocciano le mani, e quando Egli tende le mani verso la luce angelica e le ampie maniche scorrono in su, verso i gomiti, appaiono tutti sudanti sangue gli avambracci di Cristo. Nel viso, solo le lacrime fanno due righe nette fra la maschera rossa. Si torna a levare il mantello e si asciuga le mani, il volto, il collo, gli avambracci. Ma il sudore continua. Egli si preme più e più volte la stoffa sul volto tenendola premuta con le mani, ed ogni volta che cambia posto, sulla stoffa rosso scura appaiono nette le impronte che, umide come sono, sembrano essere nere. L’erba del suolo è rossa di sangue. Gesù pare prossimo a mancare. Si slaccia la veste al collo come si sentisse soffocare. Si porta la mano al cuore e poi al capo e se l’agita davanti al volto come per farsi vento, tenendo la bocca dischiusa. Si trascina contro il masso, ma più verso lo scrimolo del balzo, e si appoggia con la schiena ad esso, stando con le braccia pendenti lungo il corpo come fosse già morto, la testa penzoloni sul petto. Non si muove più. La luce angelica decresce piano piano. Poi viene come assorbita nel chiarore lunare. Gesù riapre gli occhi. Alza a fatica il capo. Guarda. È solo. Ma è meno angosciato. Allunga una mano. Tira a Sé il mantello, lasciato abbandonato sull’erba, e torna ad asciugarsi il volto, le mani, il collo, la barba, i capelli. Prende una larga foglia, nata proprio in riva al ciglio, tutta bagnata di guazza, e con quella finisce di pulirsi, bagnandosi volto e mani e poi asciugandosi da capo. E ripete, ripete con altre foglie, finché ha cancellato le tracce del suo tremendo sudore. Solo la veste, e specie sulle spalle e alle pieghe dei gomiti, al collo e alla cintura, ai ginocchi, è macchiata. Se la guarda e scuote il capo. Guarda anche il mantello. Ma lo vede troppo macchiato. Lo piega e lo pone sul masso, là dove esso fa cuna, presso i fioretti. Con fatica, come per debolezza, si rigira mettendosi in ginocchio. Prega appoggiando il capo sul mantello, su cui sono già le mani.
19Poi si puntella al masso, si alza e, ancora lievemente barcollando, va dai discepoli. Il suo viso è pallidissimo. Ma non è più turbato. È un viso pieno di divina bellezza, pure essendo esangue e mesto oltre il solito. I tre dormono saporitamente. Tutti avvolti nei mantelli, sdraiati affatto, presso il fuoco spento, si sentono respirare profondamente in un principio di sonoro russare. Gesù li chiama. Inutile. Deve chinarsi e scuotere generosamente Pietro. «Cosa è? Chi mi arresta?», dice questo emergendo, sbalordito e spaventato, dal suo mantello verde scuro. «Nessuno. Sono Io che ti chiamo». «È mattina?». «No. È quasi terminata la seconda vigilia». Pietro è tutto ingranchito. Gesù scuote Giovanni, che ha un grido di terrore vedendo su di lui curvo un volto di fantasma tanto è marmoreo. «Oh!… Mi parevi morto!». Scuote Giacomo, e questo, che crede che sia il fratello che lo chiama, dice: «Hanno preso il Maestro?». «Non ancora, Giacomo», risponde Gesù. «Ma alzatevi ormai e andiamo. Chi mi tradisce è vicino». I tre, ancora imbambolati, si alzano. Si guardano intorno… Ulivi, luna, usignoli, venticello, pace… Null’altro. Seguono però Gesù senza parlare. Anche gli altri otto sono più o meno addormentati intorno al fuoco spento. «Sorgete!», tuona Gesù. «Mentre Satana viene, mostrate all’insonne e ai suoi figli che i figli di Dio non dormono!». «Sì, Maestro». «Dove è, Maestro?». «Gesù, io…». «Ma che è stato?». E fra arruffate domande e risposte si rimettono i mantelli…
Cap. DCIII. Riflessioni sull’agonia nel Getsemani e premessa agli altri dolori della Passione.
15 febbraio 1944.
1 Dice Gesù: «La sofferenza della mia agonia spirituale tu l’hai contemplata nella sera del Giovedì. Hai visto il tuo Gesù accasciarsi come uomo colpito a morte che sente fuggire la vita attraverso le ferite che lo svenano, o come creatura soverchiata da un trauma psichico superiore alle sue forze. Ne hai visto le fasi crescenti, di questo trauma, culminate nell’effusione sanguigna, provocata dallo squilibrio circolatorio causato dallo sforzo di vincermi e di resistere al peso che mi si era abbattuto sopra. Io ero, sono, il Figlio del Dio altissimo. Ma ero anche il Figlio dell’uomo. Da queste pagine voglio che sgorghi nitida questa mia duplice natura, ugualmente totale e perfetta. Della mia Divinità vi fa fede la mia parola, la quale ha accenti che solo un Dio può avere. Della mia Umanità i bisogni, le passioni, le sofferenze che vi presento e che patii nella mia carne di vero Uomo, proposta a modello della vostra umanità, così come vi istruisco lo spirito con la mia dottrina di vero Dio. Tanto la mia santissima Divinità come la mia perfettissima Umanità, nel corso dei secoli e per l’azione disgregante della “vostra” umanità imperfetta, sono risultate menomate, svisate nella loro illustrazione. Avete resa irreale la mia Umanità, l’avete resa inumana, così come avete resa piccola la mia figura divina, negandola in tante parti che non vi faceva comodo riconoscere o che non potevate più riconoscere con i vostri spiriti, menomati dalle tabi del vizio e dell’ateismo, dell’umanismo, del razionalismo. Io vengo, in quest’ora tragica, prodromo di universali sventure, vengo a rinfrescarvi nella mente la mia duplice figura di Dio e di Uomo, perché voi la conosciate quale Essa è, perché voi la riconosciate dopo tanto oscurantismo con cui l’avete coperta ai vostri spiriti, perché voi la amiate e torniate ad Essa e vi salviate per mezzo di Essa. È la figura del vostro Salvatore, e chi la conoscerà e l’amerà sarà salvo.
2 In questi giorni ti ho fatto conoscere le mie sofferenze fisiche. Esse hanno torturato la mia Umanità. Ti ho fatto conoscere le mie sofferenze morali, connesse, intrecciate, fuse a quelle della Madre mia, così come sono le inestricabili liane delle foreste equatoriali, che non si possono separare per reciderne una sola, ma che si deve spezzarle con un unico colpo d’accetta per aprirsi il varco, uccidendole insieme; così come sono le vene di un corpo, che non se ne può privare di sangue una perché un unico umore le empie; così, meglio ancora, così come non si può impedire che nella creatura, che si forma nel seno della madre, entri la morte se la madre muore, perché è la vita, il calore, il nutrimento, il sangue della madre quello che, con ritmo sonante sul moto del materno cuore, penetra, attraverso le interne membrane, sino al nascituro e lo completa alla vita. Ella, oh! Ella, la pura Madre mia, mi ha portato non solo per i nove mesi con cui ogni femmina d’uomo porta il frutto dell’uomo, ma per tutta la vita. I nostri cuori erano uniti da spirituali fibre e hanno palpitato insieme sempre, e non c’era lacrima materna che cadesse senza rigarmi il cuore del suo salso, e non c’era mio interno lamento che non risuonasse in Lei svegliando il suo dolore. Vi fa pena la madre di un figlio destinato alla morte per morbo insanabile, la madre di un condannato al supplizio dal rigore dell’umana giustizia. Ma pensate a questa Madre mia, che dal momento in cui mi ha concepito ha tremato pensando che ero il Condannato, a questa Madre che quando m’ha dato il primo bacio sulle carni morbide e rosee di neonato ha sentito le future piaghe della sua Creatura, a questa Madre che avrebbe dato dieci, cento, mille volte la sua vita per impedirmi di divenire Uomo e di giungere al momento dell’Immolazione, a questa Madre che sapeva e che doveva desiderare quell’ora tremenda per accettare la volontà del Signore, per la gloria del Signore, per bontà verso l’Umanità. No, non vi è stata agonia più lunga, e finita in un dolore più grande, di quella della Madre mia.
3 E non vi è stato un dolore più grande, più completo del mio. Ero Uno col Padre. Egli mi aveva dall’eternità amato come solo Dio può amare. Si era compiaciuto di Me ed aveva trovato in Me la sua divina gioia. Ed Io l’avevo amato come solo un Dio può amare, e trovato nell’unione con Lui la mia gioia divina. Gli ineffabili rapporti che legano ab eterno il Padre col Figlio non possono esservi spiegati neppure dalla mia parola, perché, se essa è perfetta, la vostra intelligenza non lo è, e non potete comprendere e conoscere ciò che è Dio finché non siete seco Lui nel Cielo. Ebbene, Io sentivo, come acqua che monta e preme contro una diga, crescere, ora per ora, il rigore del Padre verso di Me. A testimonianza contro gli uomini-bruti, che non volevano comprendere chi ero, Egli aveva aperto, durante il tempo della mia vita pubblica, tre volte il Cielo: al Giordano, al Tabor e in Gerusalemme nella vigilia della Passione. Ma l’aveva fatto per gli uomini, non per dare sollievo a Me. Io ormai ero l’Espiatore. Molte volte, Maria, Dio fa conoscere agli uomini un suo servo perché essi ne siano scossi e trascinati, attraverso esso, a Lui, ma ciò avviene anche attraverso il dolore di quel servo. È desso che paga in proprio, mangiando il pane amaro del rigore di Dio, i conforti e la salvezza dei fratelli. Non è vero? Le vittime d’espiazione conoscono il rigore di Dio. Poi viene la gloria. Ma dopo che la Giustizia è placata. Non è come per il mio Amore, che alle sue vittime dà i suoi baci. Io sono Gesù, Io sono il Redentore, Colui che ha sofferto e sa, per personale esperienza, cosa sia il dolore d’esser guardato con severità da Dio ed essere abbandonato da Lui, e non sono mai severo, e non abbandono mai. Consumo ugualmente, ma in un incendio d’amore.
4 Più l’ora dell’espiazione si avvicinava e più Io sentivo allontanarsi il Padre. Sempre più separato dal Padre, la mia Umanità si sentiva sempre meno sorretta dalla Divinità di Dio. E ne soffrivo in tutte le maniere. La separazione da Dio porta seco paura, porta seco attaccamento alla vita, porta seco languore, stanchezza, tedio. Più è profonda e più sono forti queste sue conseguenze. Quando è totale, porta disperazione. E quanto più chi, per un decreto di Dio, la prova senza averla meritata, più ne soffre, perché lo spirito vivo sente la recisione da Dio così come una carne viva sente la recisione di un arto. È uno stupore doloroso, accasciante, che chi non l’ha provato non intende. Io l’ho provato. Tutto ho dovuto conoscere per potere di tutto perorare presso il Padre in vostro favore. Anche le vostre disperazioni. Oh, Io l’ho provato cosa vuol dire: “Sono solo. Tutti mi hanno tradito, abbandonato. Anche il Padre, anche Dio non m’aiuta più”. Ed è per questo che opero misteriosi prodigi di grazia presso i poveri cuori che la disperazione soverchia, e che chiedo ai miei prediletti di bere il mio calice così amaro di esperienza, perché essi, coloro che naufragano nel mare della disperazione, non ricusino la croce che offro per àncora e per salvezza, ma vi si afferrino ed Io li possa portare alla beata riva dove non vive che pace.
5 Nella sera del Giovedì, Io solo so se avrei avuto bisogno del Padre! Ero uno spirito già agonizzante per lo sforzo di aver dovuto superare i due più grandi dolori di un uomo: l’addio ad una madre amatissima, la vicinanza dell’amico infedele. Erano due piaghe che mi bruciavano il cuore. Una col suo pianto, l’altra col suo odio. Avevo dovuto spezzare il mio pane col mio Caino. Avevo dovuto parlargli da amico per non accusarlo agli altri, della cui violenza non ero sicuro, e per impedire un delitto, inutile d’altronde poiché tutto era già segnato nel gran libro della vita: e la mia Morte santa, ed il suicidio di Giuda. Inutili altre morti riprovate da Dio. Nessuno altro sangue che non fosse il mio doveva esser sparso, e sparso non fu. Il capestro strozzò quella vita chiudendo nel sacco immondo del corpo del traditore il suo sangue impuro venduto a Satana, sangue che non doveva mescolarsi, cadendo sulla Terra, al Sangue purissimo dell’Innocente. Sarebbero bastate quelle due piaghe a fare di Me un agonizzante nel mio Io. Ma ero l’Espiatore, la Vittima, l’Agnello. L’agnello, prima d’esser immolato, conosce il marchio rovente, conosce le percosse, conosce lo spogliamento, conosce la vendita al beccaio. Solo per ultimo conosce il gelo del coltello che penetra nella gola e svena e uccide. Prima deve lasciare tutto: il pascolo dove è cresciuto, la madre al cui petto si è nutrito e scaldato, i compagni con cui ha vissuto. Tutto. Io ho conosciuto tutto: Io, Agnello di Dio.
6 Perciò è venuto Satana, mentre il Padre si ritirava nei Cieli. Era già venuto all’inizio della mia missione, a tentarmi per sviarmi da essa. Ora tornava. Era la sua ora. L’ora della tregenda satanica. Torme e torme di demoni erano quella notte sulla Terra, per portare a termine la seduzione nei cuori e farli pronti a volere il domani l’uccisione del Cristo. Ogni sinedrista aveva il suo, e il suo Erode, e il suo Pilato, e il suo ogni singolo giudeo che avrebbe invocato su lui il mio Sangue. Anche gli apostoli avevano il loro tentatore al fianco, che li assopiva mentre Io languivo, che li preparava alla viltà. Osserva il potere della purezza. Giovanni, il puro, si liberò primo fra tutti della grinfia demoniaca e tornò subito presso il suo Gesù e lo comprese nel suo inespresso desiderio, e mi condusse Maria. Ma Giuda aveva Lucifero, ed Io avevo Lucifero. Egli nel cuore, Io al fianco. Eravamo i due principali personaggi della tragedia, e Satana si occupava personalmente di noi. Dopo aver condotto Giuda al punto di non potere più retrocedere, si volse a Me. Con la sua astuzia perfetta, mi presentò le torture della carne con un verismo insuperabile. Anche nel deserto aveva cominciato dalla carne. Lo vinsi pregando. Lo spirito signoreggiò le paure della carne. Mi presentò allora l’inutilità del mio morire, l’utilità di vivere per Me stesso senza occuparmi degli uomini ingrati. Vivere ricco, felice, amato. Vivere per la Madre mia, per non farla soffrire. Vivere per portare a Dio con un lungo apostolato tanti uomini, i quali, una volta Io morto, m’avrebbero dimenticato, mentre se fossi stato Maestro non per tre anni ma per lustri e lustri avrebbero finito ad immedesimarsi della mia dottrina. I suoi angeli mi avrebbero aiutato a sedurre gli uomini. Non vedevo che gli angeli di Dio non intervenivano nell’aiutarmi? Dopo, Dio mi avrebbe perdonato vedendo la messe di credenti che gli avrei portato. Anche nel deserto m’aveva indotto a tentare Iddio con l’imprudenza. Lo vinsi con la preghiera. Lo spirito signoreggiò la tentazione morale.
7 Mi presentò l’abbandono di Dio. Egli, il Padre, non mi amava più. Ero carico dei peccati del mondo. Gli facevo ribrezzo. Era assente, mi lasciava solo. Mi abbandonava al ludibrio di una folla feroce. E non mi concedeva neppure il suo divino conforto. Solo, solo, solo. In quell’ora non c’era che Satana presso il Cristo. Dio e gli uomini erano assenti, perché non mi amavano. Mi odiavano o erano indifferenti. Io pregavo per coprire col mio orare le parole sataniche. Ma la preghiera non saliva più a Dio. Ricadeva su Me come le pietre della lapidazione e mi schiacciava sotto la sua macia. La preghiera, che per Me era sempre carezza data al Padre, voce che saliva, ed alla quale rispondeva carezza e parola paterna, ora era morta, pesante, invano lanciata contro i Cieli chiusi. Allora sentii l’amaro del fondo del calice. Il sapore della disperazione. Era questo che voleva Satana. Portarmi a disperare per fare di Me un suo schiavo. Ho vinto la disperazione e l’ho vinta con le sole mie forze, perché ho voluto vincerla. Con le sole mie forze di Uomo. Non ero più che l’Uomo. E non ero più che un uomo non più aiutato da Dio. Quando Dio aiuta è facile sollevare anche il mondo e sostenerlo come giocattolo di bimbo. Ma quando Dio non aiuta più, anche il peso di un fiore ci è faticoso. Ho vinto la disperazione, e Satana suo creatore, per servire Dio e voi dandovi la Vita. Ma ho conosciuto la Morte. Non la morte fisica del crocifisso — quella fu meno atroce — ma la Morte totale, cosciente, del lottatore che cade, dopo aver trionfato, col cuore spezzato e il sangue che si stravasa nel trauma di uno sforzo superiore al possibile. Ed ho sudato sangue. Ho sudato sangue per essere fedele alla volontà di Dio.
8 Ecco perché l’angelo del mio dolore mi ha prospettato la speranza di tutti i salvati per il mio sacrificio come medicina al mio morire. I vostri nomi! Ognuno m’è stato una stilla di farmaco infuso nelle vene per ridare loro tono e funzione, ognuno m’è stato vita che torna, luce che torna, forza che torna. Nelle inumane torture, per non urlare il mio dolore di Uomo, e per non disperare di Dio e dire che Egli era troppo severo e ingiusto verso la sua Vittima, Io mi sono ripetuto i vostri nomi. Io vi ho visti. Io vi ho benedetti da allora. Da allora vi ho portati nel cuore. E quando è per voi venuta la vostra ora di essere sulla Terra, Io mi sono proteso dai Cieli ad accompagnare la vostra venuta, giubilando al pensiero che un nuovo fiore di amore era nato nel mondo e che avrebbe vissuto per Me. Oh! miei benedetti! Conforto del Cristo morente! La Madre, il Discepolo, le Donne pietose erano intorno al mio morire, ma voi pure c’eravate. I miei occhi morenti vedevano, insieme al volto straziato della Mamma mia, i vostri visi amorosi, e si sono chiusi così, beati di chiudersi perché vi avevano salvati, o voi che meritate il Sacrificio di un Dio».
16 febbraio 1944.
9Dice Gesù: «Hai conosciuto ormai tutti i dolori che hanno preceduto la Passione propriamente detta. Ora ti farò conoscere i dolori della Passione in atto. Quei dolori che più colpiscono la vostra mente quando li meditate. Ma li meditate molto poco. Troppo poco. Non riflettete a quanto mi siete costati e di quale tortura è fatta la vostra salvezza. Voi che vi lamentate di una scorticatura, di un urto contro uno spigolo, di un male di capo, non pensate che Io ero tutto una piaga, che quelle piaghe erano invelenite da molte cose, che le cose stesse servivano a tormento del loro Creatore, perché torturavano il già torturato Dio-Figlio senza rispetto a Colui che, Padre del creato, le aveva formate. Ma le cose non erano colpevoli. Era ancora e sempre l’uomo il colpevole. Il colpevole dal giorno che ascoltò Satana nel Paradiso terrestre. Non spine, non tossico, non ferocia avevano sino a quel momento le cose del creato per l’uomo creatura eletta. Dio lo aveva fatto re, questo uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, e nel suo paterno amore non aveva voluto che le cose potessero essere insidiose all’uomo. Satana mise l’insidia. Nel cuore dell’uomo per prima. Poi essa partorì all’uomo, colla punizione del peccato, triboli e spine.
10Ed ecco che Io, l’Uomo, ho dovuto soffrire anche per le cose e dalle cose, oltre che dalle persone. Queste mi dettero insulti e sevizie; quelle ne furono arma. La mano che Dio aveva fatto all’uomo per distinguerlo dai bruti, la mano che Dio aveva insegnato all’uomo ad usare, la mano che Dio aveva messo in rapporto con la mente rendendola esecutrice dei comandi della mente, questa parte di voi così perfetta e che avrebbe dovuto aver solo carezze per il Figlio di Dio, dal quale aveva avuto solo carezze e guarigione se era malata, si rivoltò contro il Figlio di Dio e lo colpì di guanciate, di pugni, si armò di flagelli, si fece tenaglia per strappare capelli e barba, e maglio per conficcare i chiodi. I piedi dell’uomo, che avrebbero dovuto unicamente correre solerti ad adorare il Figlio di Dio, furono veloci per venire a catturarmi, a sospingermi e trascinarmi per le vie dai miei carnefici, e per colpirmi di calci come non è lecito fare con un mulo restio. La bocca dell’uomo, che avrebbe dovuto usare della parola, la parola che è dote data unicamente all’uomo su tutti gli animali creati, per lodare e benedire il Figlio di Dio, si empì di bestemmie e menzogne e gettò queste, insieme con la sua bava, contro la mia persona. La mente dell’uomo, quella che è la prova della sua origine celeste, stancò se stessa per escogitare tormenti di un raffinato rigore.
11L’uomo, tutto l’uomo usò di se stesso, nelle sue singole parti, per torturare il Figlio di Dio. E chiamò la terra, con le sue forme, ad aiuto nel torturare. Fece, delle pietre dei torrenti, proiettili per ferirmi; dei rami delle piante, randelli per percuotermi; della ritorta canapa, laccio per trascinarmi, segandomi le carni; delle spine, una corona di pungente fuoco al mio capo stanco; dei minerali, un esasperato flagello; della canna, uno strumento di tortura; delle pietre delle vie, un’insidia al piede vacillante di Colui che saliva, morendo, per morire crocifisso. E alle cose della terra si unirono le cose del cielo. Il freddo dell’alba al mio corpo già esausto dell’agonia dell’orto, il vento che esaspera le ferite, il sole che aumenta arsione e febbre e porta mosche e polvere, che abbacina gli occhi stanchi a cui le mani prigioniere non possono far riparo. E alle cose del cielo si uniscono le fibre concesse all’uomo per rivestire la sua nudità: nel cuoio che diviene flagello, nella lana della veste che si attacca alle aperte piaghe dei flagelli e dà tortura di confricamento e di lacerazione ad ogni mossa.
12Tutto, tutto, tutto ha servito per tormentare il Figlio di Dio. Egli, per cui tutte le cose sono state create, nell’ora in cui era l’Ostia offerta a Dio ebbe tutte le cose nemiche. Non ha avuto sollievo, Maria, il tuo Gesù da nessuna cosa. Come vipere inferocite, tutto quanto è si volse a mordermi le carni e ad accrescere il patire. Questo occorrerebbe pensare quando soffrite e, paragonando le vostre imperfezioni alla mia perfezione e il mio dolore al vostro, riconoscere che il Padre ama voi come non amò Me in quell’ora, ed amarlo perciò con tutti voi stessi, come Io l’ho amato nonostante il suo rigore».
Cap. DCIV. I processi e il rinnegamento di Pietro. Considerazioni su Pilato.
22-25 marzo 1945.
1 Incomincia il doloroso cammino per la stradetta sassosa che conduce dalla piazzetta dove Gesù fu catturato al Cedron e da questo, per altra stradetta, alla città. E subito incominciano i lazzi e le sevizie. Gesù, legato come è ai polsi e persino alla cintura come fosse un pazzo pericoloso, con i capi delle funi affidati a degli energumeni briachi di odio, è stiracchiato qua e là come un cencio abbandonato all’ira di una torma di cuccioli. Ma, fossero cani coloro che così agiscono, sarebbero ancora scusabili. Invece hanno nome di uomini, sebbene dell’uomo non abbiano altro che l’aspetto. Ed è per dare maggior dolore che hanno pensato a quella legatura di due funi opposte, di cui una si occupa soltanto di imprigionare i polsi, e li sgraffia e sega col suo ruvido attrito, e l’altra, quella della cintura, comprime i gomiti contro il torace, e sega e opprime l’alto dell’addome, torturando il fegato e le reni, dove è fatto un enorme nodo e dove, ogni tanto, chi tiene i capi delle funi dà, con gli stessi, delle sferzate dicendo: «Arri! Via! Trotta, somaro!», e unisce anche dei calci, menati al dietro dei ginocchi del Torturato, che ne barcolla e non cade del tutto solo perché le funi lo tengono in piedi. Ma non evitano però che, stiracchiato verso destra da quello che si occupa delle mani e verso sinistra da quello che tiene la fune della cintura, Gesù vada ad urtare contro muretti e tronchi, e cada duramente contro la spalletta del ponticello per un più crudele strattone, ricevuto quando sta per valicare il ponticello sul Cedron. La bocca contusa sanguina. Gesù alza le mani legate per tergersi il sangue che brutta la barba, e non parla. È veramente l’agnello che non morde chi lo tortura. Della gente è scesa intanto a prendere selci e ciottoli nel greto, e dal basso inizia una sassaiola sul facile bersaglio. Perché l’andare è stentato sul ponticello stretto e insicuro, su cui la gente si accalca facendo ostacolo a se stessa, e le pietre colpiscono Gesù sul capo, sulle spalle, e non Gesù solo. Ma anche i suoi aguzzini, che reagiscono lanciando bastoni e le stesse pietre. E tutto serve per colpire di nuovo Gesù sul capo e sul collo. Ma il ponte ha ben fine, ed ora la viuzza stretta getta ombre sulla mischia, perché la luna, che inizia il tramonto, non scende in quel vicolo contorto, e molte torce nel parapiglia si sono spente. Ma l’odio fa da lume per vedere il povero Martire, al quale fa da torturatrice anche la sua alta statura. È il più alto di tutti. Facile quindi il percuoterlo, l’acciuffarlo per i capelli obbligandolo a rovesciare violentemente indietro il capo, sul quale viene lanciata una manata di immonda materia, che gli deve per forza andare in bocca e negli occhi dando nausea e dolore.
2 Si inizia la traversata del sobborgo di Ofel, del sobborgo in cui tanto bene e tante carezze Egli ha sparso. La turba vociante richiama i dormenti sulle soglie, e se le donne hanno gridi di dolore e fuggono terrorizzate vedendo l’avvenuto, gli uomini, gli uomini che pure da Lui hanno avuto guarigioni, soccorsi, parole d’Amico, o chinano il capo rimanendo indifferenti, affettando noncuranza per lo meno, o passano dalla curiosità all’astio, al ghigno, all’atto di minaccia, e anche si accodano al corteo per seviziare. Satana è già all’opera… Un uomo, un marito che vuole seguirlo per offenderlo, viene abbrancato dalla moglie urlante che gli grida: «Vigliacco! Se sei vivo è per Lui, lurido uomo pieno di marciume. Ricordalo!». Ma la donna viene sopraffatta dall’uomo, che la picchia bestialmente gettandola al suolo e che poi corre a raggiungere il Martire, sulla cui testa scaglia un sasso. Un’altra donna, vecchia, cerca di sbarrare la strada al figlio, che accorre con un volto di iena e con un bastone per colpire lui pure, e gli grida: «Assassino del tuo Salvatore tu non sarai finché io vivo!». Ma la misera, colpita dal figlio con un calcio brutale all’inguine, stramazza gridando: «Deicida e matricida! Per il seno che squarci una seconda volta e per il Messia che ferisci, che tu sia maledetto!».
3 La scena aumenta sempre più in violenza man mano che ci si avvicina alla città. Prima di giungere alle mura — e già sono aperte le porte, ed i soldati romani con le armi al piede osservano dove e come si svolge il tumulto, pronti ad intervenire se il prestigio di Roma ne fosse leso — vi è Giovanni con Pietro. Io credo che siano giunti lì da una scorciatoia presa valicando il Cedron più su del ponte e precedendo velocemente la turba, che va lenta, tanto da sé si ostacola. Stanno nella penombra di un androne, presso una piazzetta che precede le mura. E hanno sul capo i mantelli a far velo al volto. Ma, quando Gesù giunge, Giovanni lascia cadere il suo mantello e mostra la sua faccia pallida e sconvolta al libero chiarore della luna, che lì ancora fa lume prima di scomparire dietro il colle, che è oltre le mura e che sento designare come Tofet dagli sgherri catturatori. Pietro non osa scoprirsi. Ma però viene avanti per essere visto… Gesù li guarda… ed ha un sorriso di una bontà infinita. Pietro gira su se stesso e torna nel suo angolo buio, con le mani sugli occhi, curvo, invecchiato, già un cencio d’uomo. Giovanni resta coraggiosamente dove è, e solo quando la turba vociante è passata raggiunge Pietro, lo prende per un gomito, lo guida come fosse un ragazzo che guida il padre cieco, ed entrano ambedue in città dietro alla folla schiamazzante. Sento le esclamazioni stupite, derisorie, addolorate dei soldati romani. Chi fra essi maledice per essere stato levato dal letto per quel «pecorone stolto»; chi deride i giudei capaci di «prendere una mezza femmina»; chi compassiona la Vittima che «ha sempre visto buona»; e chi dice: «Preferirei mi avessero ucciso che vedere Lui in quelle mani. È un grande. La mia devozione è per due nel mondo: Egli e Roma». «Per Giove!», esclama il più alto in grado. «Io non voglio noie. Ora vado dall’alfiere. Pensi lui a dirlo a chi deve. Non voglio essere mandato a combattere i Germani. Questi ebrei puzzano e sono serpi e rogne. Ma qui è sicura la vita. Ed io sto per finire il tempo, e presso Pompei ho una fanciulla!…».
4 Perdo il resto per seguire Gesù, che procede per la via che fa un arco in salita per andare al Tempio. Ma vedo e comprendo che la casa di Anna, dove lo vogliono portare, è e non è in quel labirintico agglomerato che è il Tempio e che occupa tutto il colle di Sion. Essa ne è agli estremi, presso una serie di muraglioni, che paiono delimitare qui la città e da questo luogo si estendono con portici e cortili per il fianco del monte sino a giungere nel recinto del Tempio vero e proprio, ossia di quello in cui vanno gli israeliti per le loro diverse manifestazioni di culto. Un alto portone ferrato si apre nella muraglia. A questo accorrono delle iene volonterose e bussano forte. E non appena si apre uno spiraglio irrompono dentro, quasi atterrando e calpestando la serva venuta ad aprire, e lo spalancano tutto perché la turba vociante, con il Catturato al centro, possa entrare. Ed entrata che è, ecco che chiudono e sprangano, paurosi forse di Roma o dei partigiani del Nazareno. I suoi partigiani! Dove sono?… Percorrono l’atrio di ingresso e poi traversano un ampio cortile, un corridoio, e un altro portico e un nuovo cortile, e trascinano Gesù su per tre scalini, facendogli percorrere quasi di corsa un porticato sopraelevato sul cortile per giungere più presto ad una ricca sala, dove è un uomo anziano vestito da sacerdote. «Dio ti consoli, Anna», dice colui che pare l’ufficiale, se ufficiale può chiamarsi il manigoldo che ha comandato quei briganti. «Eccoti il colpevole. Alla tua santità l’affido perché Israele sia mondato dalla colpa». «Dio ti benedica per la tua sagacia e la tua fede». Bella sagacia! Era bastata la voce di Gesù a farli cadere per terra al Getsemani.
5 «Chi sei Tu?». «Gesù di Nazaret, il Rabbi, il Cristo. E tu mi conosci. Non ho agito nelle tenebre». «Nelle tenebre, no. Ma hai traviato le folle con dottrine tenebrose. E il Tempio ha il diritto e il dovere di tutelare l’anima dei figli di Abramo». «L’anima! Sacerdote di Israele, puoi dire che per l’anima del più piccolo o del più grande di questo popolo tu hai sofferto?». «E Tu allora? Che hai fatto che possa chiamarsi sofferenza?». «Che ho fatto? Perché me lo chiedi? Tutto Israele parla. Dalla città santa al più misero borgo anche le pietre parlano per dire quanto ho fatto. Ho dato la vista ai ciechi: la vista degli occhi e del cuore. Ho aperto l’udito ai sordi: alle voci della Terra e alle voci del Cielo. Ho fatto camminare gli storpi e i paralitici, perché iniziassero la marcia verso Dio dalla carne e poi procedessero con lo spirito. Ho mondato i lebbrosi, dalle lebbre che la Legge mosaica segnala e da quelle che rendono infetti presso Dio: i peccati. Ho risuscitato i morti, né dico che grande è il richiamare alla vita una carne, ma grande è redimere un peccatore, e l’ho fatto. Ho soccorso i poveri insegnando agli avidi e ricchi ebrei il precetto santo dell’amore del prossimo e, rimanendo povero nonostante il rio d’oro che mi passò fra le mani, ho asciugato più lacrime Io solo che non tutti voi, possessori di ricchezze. Ho dato infine una ricchezza che non ha nome: la conoscenza della Legge, la conoscenza di Dio, la certezza che siamo tutti uguali e che agli occhi santi del Padre uguale è il pianto o il delitto, sia che siano fatti o versati dal Tetrarca e dal Pontefice, o dal mendicante e dal lebbroso che muore sulla carraia. Questo ho fatto. Nulla più».
6 «Sai che da Te stesso ti accusi? Tu dici: le lebbre che rendono infetti a Dio e non sono segnalate da Mosè. Tu insulti Mosè e insinui che vi sono lacune nella sua Legge…». «Non sua: di Dio. Così è. Più della lebbra, sventura della carne e che ha un termine, Io dico grave, e tale è, la colpa che è sventura ed eterna dello spirito». «Tu osi dire che puoi rimettere i peccati. Come lo fai?». «Se con un poco di acqua lustrale e il sacrificio di un ariete è lecito e credibile annullare una colpa, espiarla ed esserne mondati, come non lo potrà il mio pianto, il mio Sangue e il mio volere?». «Ma Tu non sei morto. Dove è allora il Sangue?». «Non sono ancora morto. Ma lo sarò perché è scritto. In Cielo da quando Sionne non era, da quando non era Mosè, da quando non era Giacobbe, da quando non era Abramo, da quando il re del Male morse al cuore l’uomo e lo avvelenò in lui e nei suoi figli. È scritto in Terra nel Libro in cui sono le voci dei profeti. È scritto nei cuori. Nel tuo, in quello di Caifa e dei sinedristi che non mi perdonano, no, questi cuori non mi perdonano di essere buono. Io ho assolto, anticipando sul Sangue. Ora compio l’assoluzione col lavacro in esso». «Tu ci dici avidi e ignoranti del precetto d’amore…». «E non è forse vero? Perché mi uccidete? Perché avete paura che Io vi detronizzi. Oh! non temete. Il mio Regno non è di questo mondo. Vi lascio padroni di ogni potere. L’Eterno sa quando dire il “Basta” che vi farà cadere fulminati…». «Come Doras, eh?». «Egli morì d’ira. Non per fulmine celeste. Dio lo attendeva dall’altra parte per fulminarlo». «E lo ripeti a me? Suo parente? Osi?». «Io sono la Verità. E la Verità non è mai vile». «Superbo e folle!». «No: sincero. Mi accusi di farvi offesa. Ma non odiate forse voi tutti? L’un coll’altro vi odiate. Ora l’odio per Me vi unisce. Ma domani, quando mi avrete ucciso, tornerà l’odio fra voi, e più fiero, e vivrete con questa iena alle spalle e questo serpente nel cuore. Io ho insegnato l’amore. Per pietà del mondo. Ho insegnato ad essere non avidi, ad avere misericordia.
7 Di che mi accusi?». «Di avere messo una dottrina nuova». «O sacerdote! Israele pullula di nuove dottrine: gli esseni hanno la loro, i sadochiti la loro, i farisei la loro; ognuno ha la sua segreta, che per uno ha nome piacere, per l’altro oro, per l’altro potere; e ognuno ha il suo idolo. Non Io. Io ho ripreso la calpestata Legge del Padre mio, del Dio eterno, e sono tornato a dire semplicemente le dieci proposizioni del Decalogo, asciugandomi i polmoni per farle entrare nei cuori che non le conoscevano più». «Orrore! Bestemmia! A me, sacerdote, dire questo? Non ha un Tempio, Israele? Siamo come i percossi di Babilonia? Rispondi». «Questo siete. E più ancora. Vi è un Tempio. Sì. Un edificio. Dio non c’è. È fuggito davanti all’abominio che è nella sua casa. Ma a che mi interroghi tanto, se tanto è decisa la mia morte?». «Non siamo assassini. Uccidiamo se ne abbiamo il diritto per colpa provata.
8 Ma io ti voglio salvare. Dimmi, e ti salverò. Dove sono i tuoi discepoli? Se Tu me li consegni, io ti lascio libero. Il nome di tutti, e più gli occulti che i palesi. Di’: Nicodemo è tuo? E tuo Giuseppe? E Gamaliele? E Eleazaro? E… Ma di questo lo so… Non occorre. Parla. Parla. Lo sai: ti posso uccidere e salvare. Sono potente». «Sei fango. Lascio al fango il mestiere della spia. Io sono Luce». Uno sgherro gli sferra un pugno. «Io sono Luce. Luce e Verità. Ho parlato apertamente al mondo, ho insegnato nelle sinagoghe e nel Tempio, dove si radunano i giudei, e nulla ho detto in segreto. Lo ripeto. Perché interroghi Me? Interroga quelli che hanno sentito ciò che Io ho detto. Essi lo sanno». Un altro sgherro gli lascia andare un ceffone urlando: «Così rispondi al Sommo Sacerdote?». «Ad Anna Io parlo. Il Pontefice è Caifa. E parlo col rispetto dovuto per il vecchio. Ma se ti pare che abbia parlato male, dimostramelo. Se no, perché mi percuoti?». «Lascialo fare.
9 Io vado da Caifa. Voi tenetelo qui fino a mio comando. E fate che non parli con nessuno». Anna esce. Non parla, no, Gesù. Neppure con Giovanni, che osa stare sulla porta sfidando tutta la plebe sgherrana. Ma Gesù, senza parole, gli deve dare un comando, perché Giovanni, dopo uno sguardo accorato, esce di lì e lo perdo di vista. Gesù resta fra gli aguzzini. Colpi di corda, sputi, lazzi, calci, stiracchiate ai capelli, sono quanto gli resta. Finché un servo viene a dire di portare il Prigioniero in casa di Caifa. E Gesù, sempre legato e malmenato, esce di nuovo sotto il portico, lo percorre fino ad un androne e poi traversa un cortile in cui molta folla si scalda ad un fuoco, perché la notte si è fatta rigida e ventosa in queste prime ore del venerdì. Vi è anche Pietro con Giovanni, mescolati fra la folla ostile. E devono avere un bel coraggio a stare lì… Gesù li guarda e ha un’ombra di sorriso sulla bocca già enfiata dai colpi ricevuti. Un lungo cammino fra portici e atri e cortili e corridoi. Ma che case avevano questa gente del Tempio? Ma nel recinto ponteficale la folla non entra. Viene respinta nell’atrio di Anna. Gesù va solo, fra sgherri e sacerdoti.
10Entra in una vasta sala, che pare perdere la sua forma rettangolare per i molti scanni messi a ferro di cavallo su tre pareti, lasciando al centro uno spazio vuoto oltre il quale sono due o tre seggi alzati su predelle. Mentre Gesù sta per entrare, rabbi Gamaliele lo raggiunge e le guardie danno uno strattone al Prigioniero perché ceda l’entrata al rabbi di Israele. Ma questo, rigido come una statua, ieratico, rallenta e, muovendo appena le labbra senza guardare nessuno, chiede: «Chi sei? Dimmelo». E Gesù dolcemente: «Leggi i profeti e ne avrai risposta. Il segno primo è in essi. L’altro verrà». Gamaliele raccoglie il suo manto ed entra. E dietro a lui entra Gesù. Mentre Gamaliele va su uno scanno, Gesù viene trascinato al centro dell’aula, di fronte al Pontefice: una faccia da delinquente vera e propria. E si attende finché entrano tutti i membri del Sinedrio. Poi ha inizio la seduta. Ma Caifa vede due o tre seggi vuoti e chiede: «Dove è Eleazaro? E dove Giovanni?». Si alza un giovane scriba, credo, si inchina e dice: «Hanno ricusato di venire. Qui è lo scritto». «Si conservi e si scriva. Ne risponderanno.
11Che hanno i santi membri di questo Consiglio da dire sopra costui?». «Io parlo. Nella mia casa Egli violò il sabato. Me ne è testimonio Dio se io mento. Ismael ben Fabi non mente mai». «È vero, accusato?». Gesù tace. «Io lo vidi convivere con meretrici note. Fingendosi profeta, aveva fatto del suo covo un lupanare e con donne pagane per colmo. Con me erano Sadoc, Callascebona e Nahum fiduciario di Anna. Dico il vero, Sadoc e Callascebona? Smentitemi, se lo merito». «Vero è. Vero è». «Che dici?». Gesù tace. «Non mancava occasione per deriderci e farci deridere. La plebe più non ci ama per Lui». «Li odi? Hai profanato i membri santi». Gesù tace. «Quest’uomo è indemoniato. Reduce dall’Egitto, esercita la magia nera». «Come lo provi?». «Sulla mia fede e sulle tavole della Legge!». «Grave accusa. Discolpati». Gesù tace. «Illegale è il tuo ministero, lo sai. E passibile di morte. Parla». «Illegale è questa nostra seduta. Alzati, Simeone, e andiamo», dice Gamaliele. «Ma rabbi, ammattisci?». «Rispetto le formule. Lecito non è procedere come procediamo. E ne farò pubblica accusa». E rabbi Gamaliele esce, rigido come una statua, seguito da un uomo sui trentacinque anni che gli somiglia.
12Vi è un poco di tumulto, di cui approfittano Nicodemo e Giuseppe per parlare in favore del Martire. «Gamaliele ha ragione. Illecita è l’ora e il luogo, e non consistenti le accuse. Può uno accusarlo di noto vilipendio alla Legge? Io gli sono amico e giuro che sempre lo trovai rispettoso alla Legge», dice Nicodemo. «Ed io pure. E per non sottoscrivere ad un delitto mi copro il capo, non per Lui, ma per noi, ed esco». E Giuseppe fa per scendere dal suo posto e uscire. Ma Caifa sbraita: «Ah! così dite? Vengano i testimoni giurati, allora. E udite. Poi ve ne andrete». Entrano due tipi da galera. Sguardi sfuggenti, ghigni crudeli, subdole mosse. «Parlate». «Non è lecito udirli insieme», urla Giuseppe. «Io sono il Sommo Sacerdote. Io ordino. E silenzio!». Giuseppe dà un pugno su un tavolo e dice: «Si aprano su te le fiamme del Cielo! Da questo momento sappi che l’Anziano Giuseppe è nemico del Sinedrio e amico del Cristo. E con questo passo vado a dire al Pretore che qui si uccide senza ossequio a Roma», ed esce violentemente dando uno spintone ad un magro e giovane scriba che lo vorrebbe trattenere. Nicodemo, più pacato, esce senza dire parola. E nell’uscire passa davanti a Gesù e lo guarda…
13Nuovo tumulto. Si teme Roma. E la vittima espiatoria è sempre e ancora Gesù. «Per Te, vedi, tutto questo! Tu corruttore dei migliori giudei. Prostituiti li hai». Gesù tace. «Parlino i testimoni», urla Caifa. «Sì, costui usava il… il… Lo sapevamo… Come si chiama quella cosa?». «Il tetragramma forse?». «Ecco! L’hai detto! Evocava i morti. Insegnava ribellione al sabato e profanazione all’altare. Lo giuriamo. Diceva che Egli voleva distruggere il Tempio per riedificarlo in tre giorni con l’aiuto dei demoni». «No. Diceva: non sarà fabbricato dall’uomo». Caifa scende dal suo seggio e viene presso Gesù. Piccolo, obeso, brutto, pare un enorme rospo vicino ad un fiore. Perché Gesù, nonostante sia ferito, contuso, sporco e spettinato, è ancora tanto bello e maestoso. «Non rispondi? Che accuse ti fanno! Orrende! Parla, per levare da Te la loro onta». Ma Gesù tace. Lo guarda e tace.
14«Rispondi a me, allora. Sono il tuo Pontefice. In nome del Dio vivo io ti scongiuro. Dimmi: sei Tu il Cristo, il Figlio di Dio?». «Tu lo hai detto. Io lo sono. E vedrete il Figliuolo dell’uomo, seduto alla destra della Potenza del Padre, venire sulle nubi del cielo. Del resto, a che mi interroghi? Ho parlato in pubblico per tre anni. Nulla ho detto di occulto. Interroga quelli che mi hanno udito. Essi ti diranno ciò che ho detto e ciò che ho fatto». Uno dei soldati che lo tengono lo colpisce sulla bocca, facendola sanguinare di nuovo, e urla: «Così rispondi, o satana, al Sommo Pontefice?». E Gesù, mite, risponde a questo come a quello di prima: «Se ho parlato bene, perché mi percuoti? Se male, perché non mi dici dove erro? Ripeto: Io sono il Cristo, Figlio di Dio. Non posso mentire. Il sommo Sacerdote, l’eterno Sacerdote Io sono. E Io solo porto il vero Razionale su cui è scritto: Dottrina e Verità. E a queste Io sono fedele. Sino alla morte, ignominiosa agli occhi del mondo, santa agli occhi di Dio, e sino alla beata Risurrezione. Io sono l’Unto. Pontefice e Re Io sono. E sto per prendere il mio scettro e con esso, come con ventilabro, mondare l’aia. Questo Tempio sarà distrutto e risorgerà, nuovo, santo. Perché questo è corrotto e Dio lo ha lasciato al suo destino». «Bestemmiatore!», urlano tutti in coro. «In tre giorni lo farai, folle e posseduto?». «Non questo. Ma il mio risorgerà, il Tempio del Dio vero, vivo, santo, tre volte santo». «Anatema!», urlano di nuovo in coro. Caifa alza la sua voce chioccia, e si strappa le vesti di lino con atti di studiato orrore, e dice: «Che altro abbiamo da udire dai testimoni? La bestemmia è detta. Che dunque facciamo?». E tutti in coro: «Sia reo di morte». E con atti di sdegno e di scandalo escono dalla sala, lasciando Gesù alla mercede degli sgherri e della plebaglia dei falsi testimoni, che con schiaffi, con pugni, con sputi, legandogli gli occhi con uno straccio e poi tirandogli violentemente i capelli, lo sbalestrano qua e là a mani legate, di modo che urta contro tavoli, scranni e muri, e intanto gli chiedono: «Chi ti ha percosso? Indovina». E più volte, facendogli sgambetto fra le gambe, lo fanno stramazzare bocconi, e ridono sgangheratamente vedendo come, a mani legate, Egli stenti a rialzarsi.
15Passano così le ore, e i carnefici, stanchi, pensano di prendere un poco di riposo. Portano Gesù in uno sgabuzzino, facendogli attraversare molte corti fra i lazzi della plebe, già folta nel recinto delle case ponteficali. Gesù giunge nella corte dove è Pietro presso al suo fuoco. E lo guarda. Ma Pietro ne sfugge lo sguardo. Giovanni non c’è più. Io non lo vedo. Penso sia andato via con Nicodemo… L’alba viene avanti stentata e verdolina. Un ordine è dato: riportare il Prigioniero nella sala del Consiglio per un più legale processo. È il momento che Pietro nega per la terza volta di conoscere il Cristo quando Questi passa, già segnato dai patimenti. E nella luce verdognola dell’alba le lividure sembrano ancor più atroci sul volto terreo, gli occhi più fondi e vitrei, un Gesù offuscato dal dolore del mondo… Un gallo getta nell’aria appena mossa dell’alba il suo grido irridente, sarcastico, monello. E in questo momento di gran silenzio, che si è fatto all’apparizione del Cristo, non si sente che l’aspra voce di Pietro dire: «Lo giuro, donna. Non lo conosco»: affermazione recisa, sicura, alla quale, come una risata beffarda, subito risponde il birichino canto del galletto. Pietro ha un sussulto. Gira su se stesso per fuggire e si trova di fronte a Gesù che lo guarda con infinita pietà, con un dolore così accorato e intenso che mi spezza il cuore, come se dopo quello dovessi vedere dissolversi, e per sempre, il mio Gesù. Pietro ha un singhiozzo ed esce barcollando come fosse ebbro. Fugge dietro a due servi che escono nella via e si perde giù per la strada ancora semibuia. Gesù è riportato nell’aula. E gli ripetono in coro la domanda capziosa: «In nome del Dio vero, di’ a noi: sei il Cristo?». E, avutane la risposta di prima, lo condannano a morte e dànno ordine di condurlo a Pilato.
16Gesù, scortato da tutti i suoi nemici meno Anna e Caifa, esce ripassando da quei cortili del Tempio in cui tante volte aveva parlato e beneficato e guarito, valica la cinta merlata, entra nelle vie cittadine e, più strascinato che condotto, scende verso la città che si fa rosa in un primo annuncio d’aurora. Credo che, con l’unico scopo di tormentarlo più a lungo, gli facciano fare un lungo giro vizioso per Gerusalemme, passando ad arte dai mercati, davanti agli stallaggi e agli alberghi colmi di gente per la Pasqua. E tanto le verdure di scarto dei mercati, come gli escrementi degli animali degli stallaggi, divengono proiettili per l’Innocente, il cui volto appare con sempre maggiori lividi e piccole lacerazioni sanguinanti, e velato dalle sudicerie varie che su di esso si sono sparse. I capelli, già appesantiti e lievemente stesi dal sudore sanguigno e resi più opachi, ora pendono spettinati, sparsi di paglie e immondezze, cadenti sugli occhi perché glieli scompigliano per velargli la faccia. La gente dei mercati, compratori e venditori, lasciano tutto in asso per seguire, e non con amore, l’Infelice. Gli stallieri e i servi degli alberghi escono in massa, sordi ai richiami e agli ordini delle padrone, le quali, a dire il vero, come quasi tutte le altre donne, sono, se non contrarie tutte alle offese, almeno indifferenti al tumulto, e si ritirano brontolando per essere lasciate sole con tanta gente che hanno da servire. Il codazzo urlante ingrossa così di minuto in minuto e sembra che, per una improvvisa epidemia, animi e fisionomie cambino natura, divenendo, i primi, animi di delinquenti e, le seconde, maschere di ferocia in volti verdi di odio o rossi di ira; e le mani artigliano, e le bocche prendono forma e ululo di lupo, e gli occhi divengono biechi, rossi, strabici come quelli di folli. Solo Gesù è sempre quello, sebbene ormai velato dalle immondezze sparse sul suo corpo e alterato da lividure e gonfiori.
17Ad un archivolto che stringe la via come un anello, mentre tutto si ingorga e rallenta, un grido fende l’aria: «Gesù!». È Elia, il pastore, che cerca di farsi largo roteando un pesante randello. Vecchio, potente, minaccioso e forte, riesce a giungere quasi dal Maestro. Ma la folla, sgominata dall’improvviso assalto, restringe le sue file e separa, respinge, soverchia il solo contro tutta una plebe. «Maestro!», urla mentre il gorgo della folla lo assorbe e respinge. «Vai!… La Madre… Ti benedico…». E il corteo supera il punto ristretto. E, come acqua che ritrova il largo dopo una chiusa, si rovescia tumultuando in un ampio viale sopraelevato sopra una depressione fra due colli, ai cui termini sono splendidi palazzi di gran signori. Torno a vedere il Tempio sull’alto del suo colle e comprendo che il cerchio ozioso fatto fare al Condannato, per darlo in berlina a tutta la città e permettere a tutti di insultarlo, aumentando passo per passo gli insultatori, sta per conchiudersi di nuovo tornando sui luoghi di prima. 18Da un palazzo esce al galoppo un cavaliere. La gualdrappa porpurea sopra il candore del cavallo arabo e l’imponenza del suo aspetto, la spada brandita nuda, e menata di piatto e di taglio su schiene e su teste che sanguinano, lo fanno parere un arcangelo. Quando in un caracollo, in un’impennata del cavallo che corvetta, facendo degli zoccoli un’arma di difesa per se stesso e per il padrone e il più valido degli strumenti di apertura per farsi largo fra la folla, gli cade[10] dal capo il velo di porpora e oro che lo copriva, tenuto stretto da una striscia in oro, riconosco Manaem. «Indietro!», urla. «Come vi permettete turbare i riposi del Tetrarca?». Ma questo non è che una finta per giustificare il suo intervento e il suo tentativo di giungere a Gesù. «Quest’uomo… lasciatemelo vedere… Scostatevi, o chiamo le guardie…». La gente, e per la grandine delle piattonate, e per i calci del cavallo, e per la minaccia del cavaliere, si apre, e Manaen raggiunge il gruppo di Gesù e delle guardie del Tempio che lo tengono. «Via! Il Tetrarca è da più di voi, luridi servi. Indietro. Gli voglio parlare», e lo ottiene caricando con la sua spada il più accanito dei carcerieri. «Maestro!…». «Grazie. Ma vai! E Dio ti conforti!». E, come può con le mani legate, Gesù fa un cenno di benedizione. La folla fischia da lontano e, non appena vede che Manaen si ritira, si vendica d’essere stata respinta con una grandine di pietre e di immondezze sul Condannato.
19Per il viale, che è in salita ed è già tutto tiepido di sole, ci si avvia verso la torre Antonia, la cui mole già appare lontano. Un grido acuto di donna: «Oh! il mio Salvatore! La mia vita per la sua, o Eterno!», fende l’aria. Gesù gira il capo e vede, dall’alto della loggia fiorita che incorona una casa molto bella, Giovanna di Cusa fra serve e servi, coi piccoli Maria e Mattia intorno, tendere le braccia al cielo. Ma il Cielo non sente preghiera oggi! Gesù solleva le mani e traccia un gesto di benedicente addio. «A morte! A morte il bestemmiatore, il corruttore, il satanasso! A morte gli amici di esso», e fischi e sassi vengono frombolati verso l’alta terrazza. Non so se qualcuno sia ferito. Sento un grido acutissimo e poi vedo scomporsi il gruppo e scomparire. E avanti, avanti, salendo… Gerusalemme mostra le sue case al sole, vuote, svuotate dall’odio che spinge tutta una città, coi suoi effettivi abitanti e coi posticci qui convenuti per la Pasqua, contro un inerme.
20Dei soldati romani, tutto un manipolo, esce di corsa dall’Antonia con le aste puntate contro la plebaglia, che urlando si sperde. Restano in mezzo alla via Gesù con le guardie e i capi dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani del popolo. «Quest’uomo? Questa sedizione? Ne risponderete a Roma», dice altezzoso un centurione. «È reo di morte secondo la nostra legge». «E da quando vi è stato reso l’jus gladii et sanguinis ?», chiede sempre il più anziano dei centurioni, un volto severo, veramente romano, con una guancia divisa da una cicatrice profonda. E parla con lo sprezzo e il ribrezzo con cui avrebbe parlato a galeotti pidocchiosi. «Lo sappiamo che non lo abbiamo questo diritto. Siamo i fedeli dipendenti di Roma…». «Ah! Ah! Ah! Sentili, Longino! Fedeli! Dipendenti! Carogne! Le frecce dei miei arcieri vi darei per premio». «Troppo nobile tal morte! Le schiene dei muli vogliono solo il flagrum!…», risponde con ironica flemma Longino. I capi dei sacerdoti, scribi e anziani spumano veleno. Ma vogliono ottenere lo scopo loro e tacciono, inghiottono l’offesa senza mostrare di capirla e, inchinandosi ai due capi, chiedono che Gesù sia portato da Ponzio Pilato perché «giudichi e condanni con la ben nota e onesta giustizia di Roma». «Ah! Ah! Odili! Siamo divenuti più saggi di Minerva… Qui! Date! E marciate avanti! Non si sa mai. Voi siete sciacalli e fetenti. Avervi alle spalle è un pericolo. Avanti!». «Non possiamo». «E perché? Quando uno accusa deve essere davanti al giudice coll’accusato. Questa è la regola di Roma». «La casa di un pagano è immonda agli occhi nostri, e noi già siamo purificati per la Pasqua». «Oh! miserini! Si contaminano a entrare!… E l’uccisione dell’unico ebreo che uomo sia, e non sciacallo e rettile vostro pari, non vi sporca? Va bene. State dove siete, allora. Non un passo avanti o sarete infilzati sulle aste. Una decuria intorno all’Accusato. Le altre contro questa marmaglia sitente di becco mal lavato».
21Gesù entra nel Pretorio in mezzo ai dieci astati, che fanno un quadrato di alabarde intorno alla sua persona. I due centurioni vanno avanti. Mentre Gesù sosta in un largo atrio, oltre il quale è un cortile che si intravvede dietro una tenda che il vento sommuove, essi scompaiono dietro una porta. Rientrano col Governatore, vestito di una toga bianchissima sulla quale però è un manto scarlatto. Forse così erano quando rappresentavano ufficialmente Roma. Entra indolentemente, con un sorrisetto scettico sul volto sbarbato, stropiccia fra le mani delle fronde di erba cedrina e le fiuta con voluttà. Va ad una meridiana, si rivolge dopo averla guardata. Getta dei grani d’incenso nel braciere posto ai piedi di un nume. Si fa portare acqua cedrata e si gargarizza la gola. Si rimira la pettinatura tutta a onde in uno specchio di metallo tersissimo. Pare che abbia dimenticato il Condannato che aspetta la sua approvazione per essere ucciso. Farebbe venire l’ira anche alle pietre. Gli ebrei, posto che l’atrio è tutto aperto sul davanti e sopraelevato di tre alti scalini anche sul vestibolo, che si apre sulla via già sopraelevato di altri tre sulla via stessa, vedono tutto benissimo e fremono. Ma non osano ribellarsi per paura delle aste e dei giavellotti. Finalmente, dopo avere girato e rigirato per l’ampio luogo, Pilato va diritto incontro a Gesù, lo guarda e chiede ai due centurioni: «Questo?». «Questo». «Vengano i suoi accusatori», e va a sedersi sulla sedia posta sulla predella. Sul suo capo le insegne di Roma si incrociano con le loro aquile dorate e la loro sigla potente. «Non possono venire. Si contaminano». «Euè!!! Meglio. Eviteremo fiumi d’essenze per levare il caprino al luogo. Fateli avvicinare, almeno. Qui sotto. E badate non entrino, posto che non vogliono farlo. Può essere un pretesto, quest’uomo, per una sedizione». Un soldato parte per portare l’ordine del Procuratore romano. Gli altri si schierano sul davanti dell’atrio a distanze regolari, belli come nove statue di eroi.
22Vengono avanti i capi dei sacerdoti, scribi e anziani, e salutano con servili inchini e si fermano sulla piazzetta che è al davanti del Pretorio, oltre i tre gradini del vestibolo. «Parlate e siate brevi. Già in colpa siete per avere turbato la notte e ottenuto l’apertura delle porte con violenza. Ma verificherò. E mandanti e mandatari risponderanno della disubbidienza al decreto». Pilato è andato verso di loro, rimanendo nel vestibolo. «Noi veniamo a sottoporre a Roma, di cui tu rappresenti il divino Imperatore, il nostro giudizio su costui». «Quale accusa portate contro di lui? Mi sembra un innocuo…». «Se non fosse malfattore non te lo avremmo portato». E nella smania di accusare si fanno avanti. «Respingete questa plebe! Sei passi oltre i tre scalini della piazza. Le due centurie all’armi!». I soldati ubbidiscono veloci, allineandosi cento sul gradino esterno più alto, con le spalle volte al vestibolo, e cento sulla piazzetta su cui si apre il portone d’ingresso alla dimora di Pilato. Ho detto portone: dovrei dire androne o arco trionfale, perché è una vastissima apertura limitata da un cancello, ora spalancato, che immette nell’atrio per il lungo corridoio del vestibolo largo almeno sei metri, di modo che ben si vede ciò che avviene nell’atrio sopraelevato. Oltre l’ampio vestibolo si vedono le facce bestiali dei giudei guardare minacciose e sataniche verso l’interno, guardare dall’al di là della barriera armata che, gomito a gomito, come per una parata, presenta duecento punte ai conigli assassini. «Quale accusa portate verso costui, ripeto». «Ha commesso delitto contro la Legge dei padri». «E venite a seccare me per questo? Pigliatelo voi e giudicatelo secondo le vostre leggi». «Noi non possiamo dar morte ad alcuno. Dotti non siamo. Il Diritto ebraico è un pargolo deficiente rispetto al perfetto Diritto di Roma. Come ignoranti e come soggetti di Roma, maestra, abbiamo bisogno…». «Da quando siete miele e burro?… Ma avete detto una verità, o maestri del mendacio! Di Roma avete bisogno! Sì. Per sbarazzarvi di costui che vi dà noia. Ho compreso». E Pilato ride, guardando il cielo sereno che si inquadra come una rettangolare lastra di cupa turchese fra le marmoree e candide pareti dell’atrio. «Dite: in che ha commesso delitto contro le vostre leggi?». «Noi abbiamo trovato che costui metteva il disordine nella nostra nazione e che impediva di pagare il tributo a Cesare, dicendosi il Cristo, re dei giudei».
23Pilato ritorna presso Gesù, che è al centro dell’atrio, lasciato là dai soldati, legato ma senza scorta tanto appare netta la sua mansuetudine. E gli chiede: «Sei Tu il re dei giudei?». «Per te lo chiedi o per insinuazione d’altri?». «E che vuoi che me ne importi del tuo regno? Son forse io giudeo? La tua nazione e i capi di essa mi ti hanno consegnato perché io giudichi. Che hai fatto? Ti so leale. Parla. È vero che aspiri al regno?». «Il mio Regno non viene da questo mondo. Se fosse un regno del mondo, i miei ministri e i miei soldati avrebbero combattuto perché i giudei non mi pigliassero. Ma il mio Regno non è della Terra. E tu lo sai che al potere Io non tendo». «Ciò è vero. Lo so. Mi fu detto. Ma però Tu non neghi d’essere re?». «Tu lo dici. Io sono Re. Per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla Verità. Chi è amico della Verità ascolta la mia voce». «E che cosa è la Verità? Sei filosofo? Non serve di fronte alla morte. Socrate morì lo stesso». «Ma gli servì di fronte alla vita, a ben vivere. E anche a ben morire. E ad andare nella vita seconda senza nome di traditore delle civiche virtù». «Per Giove!». Pilato lo guarda ammirato qualche momento. Poi lo riprende il sarcasmo scettico. Fa un atto di noia, gli volge le spalle, torna verso i giudei. «Io non trovo in Lui alcuna colpa». La folla tumultua, presa dal panico di perdere la preda e lo spettacolo del supplizio. E urla: «È un ribelle!», «Un bestemmiatore», «Incoraggia il libertinaggio», «Eccita alla ribellione», «Nega rispetto a Cesare», «Si finge profeta senza esserlo», «Compie magie», «È un satana», «Solleva il popolo con le sue dottrine insegnando in tutta la Giudea, alla quale è venuto dalla Galilea insegnando», «A morte!», «A morte!». «Galileo è? Galileo sei?». Pilato torna da Gesù: «Lo senti come ti accusano? Discolpati». Ma Gesù tace.
24Pilato pensa… E decide. «Una centuria, e da Erode costui. Lo giudichi. È suo suddito. Riconosco il diritto del Tetrarca e al suo verdetto sottoscrivo in anticipo. Gli sia detto. Andate». E Gesù, inquadrato come un manigoldo da cento soldati, riattraversa la città e torna ad incontrare Giuda Iscariota, che già aveva incontrato una volta presso un mercato. Prima mi ero dimenticata di dirlo, presa dal disgusto della zuffa popolana. Lo stesso sguardo di pietà sul traditore… Ora è più difficile colpirlo con calci e bastoni, ma le pietre e le immondezze non mancano e, se i sassi cadono sonando senza ferire sugli elmi e le corazze romane, ben lasciano un segno colpendo Gesù, che procede col solo vestito, avendo lasciato il mantello nel Getsemani. Nell’entrare nel fastoso palazzo di Erode, Egli vede Cusa… che non sa guardarlo e che fugge per non vederlo in quello stato, coprendosi il capo col mantello. 25Eccolo nella sala, davanti a Erode. E, dietro Lui, ecco gli scribi e i farisei, che qui si sentono a loro agio, entrare da accusatori mendaci. Solo il centurione con quattro militi lo scortano davanti al Tetrarca. Questo scende dal suo seggio e gira intorno a Gesù, mentre ascolta le accuse dei nemici suoi. E sorride e beffeggia. Poi finge una pietà e un rispetto che non turbano il Martire come non lo hanno turbato i motteggi. «Sei grande. Lo so. Ti ho seguito e ho avuto giubilo che Cusa ti fosse amico e Manaem discepolo. Io… le cure di Stato… Ma che desiderio di dirti: grande… di chiederti perdono… L’occhio di Giovanni… la sua voce mi accusano e sempre davanti a me sono. Tu sei il santo che annulla i peccati del mondo. Assolvimi, o Cristo». Gesù tace. «Ho sentito che ti accusano di esserti drizzato contro Roma. Ma non sei Tu la verga promessa per percuotere Assur?». Gesù tace. «Mi hanno detto che Tu profetizzi la fine del Tempio e di Gerusalemme. Ma non è eterno il Tempio come spirito, essendo voluto da Chi eterno è?». Gesù tace. «Sei folle? Hai perduto il potere? Satana ti inceppa la parola? Ti ha abbandonato?». Erode ride, ora.
26Ma poi dà un ordine. E dei servi accorrono portando un levriere dalla gamba spezzata, che guaisce lamentosamente, e uno stalliere ebete dalla testa acquosa, sbavante, un aborto d’uomo, trastullo dei servi. Gli scribi e i sacerdoti fuggono urlando al sacrilegio, quando vedono la barella del cane. Erode, falso e beffardo, spiega: «È il preferito di Erodiade. Dono di Roma. Si è spezzato ieri una zampa ed ella piange. Comanda che guarisca. Fa’ miracolo». Gesù lo guarda severo. E tace. «Ti ho offeso? Allora questo. È un uomo, benché di poco sia più che una belva. Dàgli l’intelligenza, Tu, Intelligenza del Padre… Non dici così?». E ride, offensivo. Altro più severo sguardo di Gesù e silenzio. «Quest’uomo è troppo astinente e ora è intontito dagli spregi. Vino e donne, qui. E sia slegato». Lo slegano. E mentre servi, in gran numero, portano anfore e coppe, entrano danzatrici… coperte di niente: una frangia multicolore di lino cinge per unica veste la loro sottile persona, dalla cintura alle anche. Null’altro. Bronzee perché africane, snelle come gazzelle giovinette, iniziano una danza silenziosa e lasciva. Gesù respinge le coppe e chiude gli occhi senza parlare. La corte di Erode ride davanti al suo sdegno. «Prendi quella che vuoi. Vivi! Impara a vivere!…», insinua Erode. Gesù pare una statua. A braccia conserte, occhi serrati, non si scuote neppure quando le impudiche danzatrici lo sfiorano coi loro corpi nudi. «Basta. Ti ho trattato da Dio e non hai agito da Dio. Ti ho trattato da uomo e non hai agito da uomo. Sei folle. Una veste bianca. Rivestitelo di essa perché Ponzio Pilato sappia che il Tetrarca ha giudicato folle il suo suddito. Centurione, dirai al Proconsole che Erode gli umilia il suo rispetto e venera Roma. Andate». E Gesù, legato di nuovo, esce, con una tunica di lino, che gli giunge al ginocchio, sopra la rossa veste di lana. E tornano da Pilato.
27Ora, quando la centuria fende a fatica la folla, che non si è stancata di attendere davanti al palazzo proconsolare — ed è strano vedere tanta folla in quel luogo e nelle vicinanze, mentre il resto della città appare vuoto di popolo — Gesù vede in gruppo i pastori, e sono al completo, ossia Isacco, Gionata, Levi, Giuseppe, Elia, Mattia, Giovanni, Simeone, Beniamino e Daniele, insieme ad un gruppetto di galilei di cui riconosco Alfeo e Giuseppe di Alfeo, insieme a due altri che non conosco ma che direi giudei alla acconciatura. E più oltre, scivolato fin dentro al vestibolo, seminascosto dietro una colonna, insieme ad un romano che direi un servo, vede Giovanni. Sorride a questo e a quelli… I suoi amici… Ma che sono questi pochi, e Giovanna e Manaem e Cusa, in mezzo ad un oceano di odio che bolle?…
28Il centurione saluta Ponzio Pilato e riferisce. «Qui ancora?! Auf! Maledetta questa razza! Fate avanzare la plebaglia e portate qui l’Accusato. Euè! che noia!». Va verso la folla, sempre fermandosi a metà vestibolo. «Ebrei, udite. Mi avete condotto quest’uomo come sobillatore del popolo. Davanti a voi l’ho esaminato e non ho trovato in Lui nessuno dei delitti di cui lo accusate. Erode non più di me ha trovato. E a noi lo ha rimandato. Non merita la morte. Roma ha parlato. Però, per non dispiacervi levandovi il sollazzo, vi darò in cambio Barabba[13]. E Lui lo farò colpire con quaranta colpi di fustigazione. Basta così». «No, no! Non Barabba! Non Barabba! A Gesù la morte! E morte orrenda! Libera Barabba e condanna il Nazzareno». «Ma udite! Ho detto fustigazione. Non basta? Lo farò flagellare, allora! È atroce, sapete? Può morire per essa. Che ha fatto di male? Io non trovo nessuna colpa in Lui. E lo libererò». «Crocifiggi! Crocifiggi! A morte! Protettore dei delinquenti sei! Pagano! Satana tu pure!». La folla si fa sotto e la prima schiera di soldati ondeggia nell’urto, non potendo usare le aste. Ma la seconda fila, scendendo d’un gradino, rotea le aste e libera i compagni. «Sia flagellato», ordina Pilato a un centurione. «Quanto?». «Quanto ti pare… Tanto è affare finito. E io sono annoiato. Va’».
29Gesù viene tradotto da quattro soldati nel cortile oltre l’atrio. In esso, tutto selciato di marmi colorati, è al centro un’alta colonna simile a quella del porticato. A un tre metri dal suolo essa ha un braccio di ferro sporgente per almeno un metro e terminante in anello. A questa viene legato Gesù con le mani congiunte sull’alto del capo, dopo che fu fatto spogliare. Egli resta unicamente con delle piccole brache di lino e i sandali. Le mani legate ai polsi vengono alzate sino all’anello, di modo che Egli, per quanto sia alto, non poggia al suolo che la punta dei piedi… E deve essere tortura anche questa posizione. Ho letto non so dove che la colonna era bassa e Gesù stava curvo. Sarà. Io vedo così e così dico. Dietro a Lui si colloca uno dalla faccia di boia, dal netto profilo ebraico; davanti a Lui, un altro dalla faccia uguale. Sono armati del flagello, fatto di sette strisce di cuoio legate ad un manico e terminanti in un martelletto di piombo. Ritmicamente, come per un esercizio, si dànno a colpire. Uno davanti, l’altro di dietro, di modo che il tronco di Gesù è in una ruota di sferze e di flagelli. I quattro soldati a cui è consegnato, indifferenti, si sono messi a giocare a dadi con altri tre soldati sopraggiunti. E le voci dei giuocatori si cadenzano sul suono dei flagelli, che fischiano come serpi e poi suonano come sassi gettati sulla pelle tesa di un tamburo, percuotendo il povero corpo così snello e di un bianco d’avorio vecchio, e che diviene prima zebrato di un rosa sempre più vivo, poi viola, poi si orna di rilievi d’indaco gonfi di sangue, e poi si crepa e rompe lasciando colare sangue da ogni parte. E infieriscono specie sul torace e l’addome, ma non mancano i colpi dati alle gambe e alle braccia e fin sul capo, perché non vi fosse brano di pelle senza dolore. E non un lamento… Se non fosse sostenuto dalla fune, cadrebbe. Ma non cade e non geme. Solo la testa gli pende, dopo colpi e colpi ricevuti, sul petto, come per svenimento. «Ohé! Fermati! Deve essere ucciso da vivo», urla e motteggia un soldato. I due boia si fermano e si asciugano il sudore. «Siamo sfiniti», dicono. «Dateci la paga, che si possa bere per ristorarsi…». «La forca vi darei! Ma prendete…», e un decurione getta una larga moneta ad ognuno dei due boia. «Avete lavorato a dovere. Pare un mosaico. Tito, dici che era proprio questo l’amore di Alessandro? Allora gliene daremo notizia perché faccia il lutto. Sleghiamolo un poco».
30Lo slegano e Gesù si accascia al suolo come morto. Lo lasciano là, urtandolo ogni tanto col piede calzato dalle calighe per vedere se geme. Ma Egli tace. «Che sia morto? Possibile? È giovane e artiere, mi hanno detto… e pare una dama delicata». «Ora ci penso io», dice un soldato. E lo mette seduto con la schiena alla colonna. Dove Egli era, sono grumi di sangue… Poi va ad una fontanella che chioccola sotto al portico, empie un mastello d’acqua e la rovescia sul capo e sul corpo di Gesù. «Così! Ai fiori fa bene l’acqua». Gesù sospira profondamente e fa per alzarsi, ma ancora sta ad occhi chiusi. «Oh! bene. Su, bellino! Che ti aspetta la dama!…». Ma Gesù inutilmente punta al suolo i pugni nel tentativo di drizzarsi. «Su! Svelto! Sei debole? Ecco il ristoro», ghigna un altro soldato. E con l’asta della sua alabarda mena una bastonata al viso e coglie Gesù fra lo zigomo destro e il naso, che si mette a sanguinare. Gesù apre gli occhi, li gira. Uno sguardo velato… Fissa il soldato percuotitore, si asciuga il sangue con la mano, e poi, con molto sforzo, si pone in piedi. «Vestiti. Non è decenza stare così. Impudico!». Ridono tutti in cerchio intorno a Lui. Egli ubbidisce senza parlare. Ma mentre si china — e solo Lui sa quello che soffre nel piegarsi al suolo, così contuso come è, e con le piaghe che nel tendersi della pelle si aprono più ancora, e altre che se ne formano per vesciche che si rompono — un soldato dà un calcio alle vesti e le sparpaglia e, ogni volta che Gesù le raggiunge andando barcollante dove esse cadono, un soldato le spinge o le getta in altra direzione. E Gesù, soffrendo acutamente, le insegue senza una parola, mentre i soldati lo deridono oscenamente. Può finalmente rivestirsi. E rimette anche la veste bianca, rimasta pulita in un angolo. Pare voglia nascondere la sua povera veste rossa, solo ieri tanto bella ed ora lurida di immondizie e macchiata del sangue sudato nel Getsemani. Anzi, prima di mettersi la tunichella corta sulla pelle, con essa si asciuga il volto bagnato e lo deterge così da polvere e sputi. Ed esso, il povero, santo volto, appare pulito, solo segnato da lividi e piccole ferite. E si ravvia i capelli caduti scomposti e la barba per un innato bisogno di essere ordinato nella persona. E poi si accoccola al sole. Perché trema, il mio Gesù… La febbre comincia a serpeggiare in Lui con i suoi brividi. E anche la debolezza del sangue perduto, del digiuno, del molto cammino, si fa sentire.
31Gli legano di nuovo le mani. E la corda torna a segare là dove è già un rosso braccialetto di pelle scorticata. «E ora? Che ne facciamo? Io mi annoio!». «Aspetta. I giudei vogliono un re. Ora glielo diamo. Quello lì…», dice un soldato. E corre fuori, in un retrostante cortile certo, dal quale torna con un fascio di rami di biancospino selvatico, ancora flessibili perché la primavera tiene relativamente morbidi i rami, ma ben duri nelle spine lunghe e acuminate. Con la daga levano foglie e fioretti, piegano a cerchio i rami e li calcano sul povero capo. Ma la barbara corona ricade sul collo. «Non ci sta. Più stretta. Levala». La levano e sgraffiano le guance, risicando di accecarlo, e strappano i capelli nel farlo. La stringono. Ora è troppo stretta e, per quanto la pigino conficcando gli aculei nel capo, essa minaccia di cadere. Via di nuovo strappando altri capelli. La modificano di nuovo. Ora va bene. Davanti è un triplice cordone spinoso. Dietro, dove gli estremi dei tre rami si incrociano, è un vero nodo di spini che entrano nella nuca. «Vedi come stai bene? Bronzo naturale e rubini schietti. Specchiati, o re, nella mia corazza», motteggia l’ideatore del supplizio. «Non basta la corona a fare un re. Ci vuole porpora e scettro. Nella stalla è una canna e nella cloaca è una clamide rossa. Prendile, Cornelio». E, avutele, mettono il sudicio straccio rosso sulle spalle di Gesù e, prima di mettergli fra le mani la canna, gliela dànno sul capo inchinandosi e salutando: «Ave, re dei Giudei», e si sbellicano dalle risa. Gesù li lascia fare. Si lascia mettere seduto sul «trono» — un mastello capovolto, certo usato per abbeverare i cavalli — si lascia colpire, schernire, senza mai parlare. Li guarda solo… ed è uno sguardo di una dolcezza e di un dolore così atroce che non lo posso sostenere senza sentirne ferita al cuore.
32I soldati smettono lo scherno solo alla voce aspra di un superiore che ordina la traduzione davanti a Pilato del reo. Reo! Di che? Gesù è riportato nell’atrio, ora coperto da un prezioso velario per il sole. Ha ancora la corona, la clamide e la canna. «Vieni avanti. Che io ti mostri al popolo». Gesù, già franto, si raddrizza dignitoso. Oh! che è veramente re! «Udite, ebrei. Qui è l’uomo. Io l’ho punito. Ma ora lasciatelo andare». «No, no! Vogliamo vederlo! Fuori! Che si veda il bestemmiatore!». «Conducetelo fuori. E guardate non sia preso». E mentre Gesù esce nel vestibolo e si mostra nel quadrato dei soldati, Ponzio Pilato lo accenna colla mano dicendo: «Ecco l’Uomo. Il vostro re. Non basta ancora?». Il sole di una giornata afosa, che ormai scende quasi diritto perché si è a metà tra terza e sesta, accende e dà risalto agli sguardi e ai volti: sono uomini quelli? No: iene idrofobe. Urlano, mostrano i pugni, chiedono morte… Gesù sta eretto. E le assicuro che mai ebbe la nobiltà di ora. Neppure quando faceva i più potenti miracoli. Nobiltà di dolore. Ma talmente divino che basterebbe a segnarlo del nome di Dio. Ma per dire quel Nome bisogna essere almeno uomini. E Gerusalemme non ha uomini, oggi. Ma solo demoni. Gesù gira lo sguardo sulla folla, cerca, trova, nel mare dei visi astiosi, i volti amici. Quanti? Meno di venti amici in migliaia di nemici… E curva il capo colpito da questo abbandono. Una lacrima cade… un’altra… un’altra… La vista del suo pianto non genera pietà, ma ancor più fiero odio.
33Viene riportato nell’atrio. «Dunque? Lasciatelo andare. È giustizia». «No. A morte. Crocifiggi». «Vi do Barabba». «No. Il Cristo!». «E allora prendetelo voi. E da voi crocifiggetelo. Perché io non trovo alcuna colpa in Lui per farlo». «Si è detto Figlio di Dio. La nostra legge commina la morte al reo di tale bestemmia». Pilato si fa pensoso. Rientra. Si siede sul suo tronetto. Pone una mano alla fronte e il gomito sul ginocchio e scruta Gesù. «Avvicinati», dice. Gesù va ai piedi della predella. «È vero? Rispondi». Gesù tace. «Da dove vieni? Chi è Dio?». «È il Tutto». «E poi? Che vuol dire il Tutto? Che è il Tutto per chi muore? Sei folle… Dio non è. Io sono». Gesù tace. Ha lasciato cadere la grande parola e poi torna a fasciarsi di silenzio.
34«Ponzio, la liberta di Claudia Procula chiede di entrare. Ha uno scritto per te». «Domine! Anche le donne ora! Venga». Entra una romana e si inginocch
34«Ponzio, la liberta di Claudia Procula chiede di entrare. Ha uno scritto per te». «Domine! Anche le donne ora! Venga». Entra una romana e si inginocchia porgendo una tavoletta cerata. Deve essere quella su cui Procula prega il marito di non condannare Gesù. La donna si ritira a ritroso mentre Pilato legge. «Mi si consiglia evitare il tuo omicidio. È vero che sei più di un aruspice? Mi fai paura». Gesù tace. «Ma non sai che ho potere di liberarti o di crocifiggerti?». «Nessun potere avresti, se non ti fosse dato dall’alto. Perciò, chi mi ha dato nelle tue mani è più colpevole di te». «Chi è? Il tuo Dio? Ho paura…». Gesù tace. Pilato è sulle spine. Vorrebbe e non vorrebbe. Teme il castigo di Dio, teme quello di Roma, teme le vendette giudee. Vince un momento la paura di Dio. Va sul davanti dell’atrio e tuona: «Non è colpevole». «Se lo dici, sei nemico di Cesare. Chi si fa re è suo nemico. Tu vuoi liberare il Nazzareno. Faremo sapere a Cesare questo». Pilato viene preso dalla paura dell’uomo. «Lo volete morto, insomma? E sia. Ma il sangue di questo giusto non sia sulle mie mani», e fattosi portare un catino si lava le mani alla presenza del popolo, che pare preso da frenesia mentre urla: «Su noi, su noi il suo sangue. Su noi ricada e sui nostri figli. Non lo temiamo. Alla croce! Alla croce!».
35Ponzio Pilato torna sul tronetto, chiama il centurione Longino e uno schiavo. Dallo schiavo si fa portare una tavola su cui appoggia un cartello e vi fa scrivere: «Gesù Nazareno, Re dei Giudei». E lo mostra al popolo. «No. Non così. Non re dei Giudei. Ma che ha detto che sarebbe re dei Giudei», così urlano in molti. «Ciò che ho scritto, ho scritto», dice duro Pilato e, dritto in piedi, stende la mano a palma in avanti e volta in basso e ordina: «Vada alla croce. Soldato, va’. Prepara la croce». (Ibis ad crucem! I, miles, expedi crucem). E scende senza neppure più voltarsi verso la folla in tumulto, né verso il pallido Condannato. Esce dall’atrio… Gesù resta al centro di esso, sotto la guardia dei soldati, in attesa della croce.
10 marzo 1944. Venerdì.
36Dice Gesù: «Ti voglio far meditare il punto che si riferisce ai miei incontri con Pilato. Giovanni, che essendo stato quasi sempre presente, o per lo meno molto prossimo, è il testimone e narratore più esatto, racconta come, uscito dalla casa di Caifa, Io fui portato al Pretorio. E specifica “di mattina presto”. Infatti, lo hai visto, il giorno si iniziava appena. Specifica anche: “essi (i giudei) non entrarono per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua”. Ipocriti come sempre, essi trovavano pericolo di contaminarsi nel calpestare la polvere della casa di un gentile, ma non trovavano peccato uccidere un Innocente e, coll’animo soddisfatto del delitto compiuto, poterono gustare meglio ancora la Pasqua. Hanno anche ora molti seguaci. Tutti quelli che nell’interno agiscono male e all’esterno professano rispetto alla religione e amore a Dio, sono simili a questi. Formule, formule e non religione vera! Mi fanno ripugnanza e sdegno. Non entrando i giudei da Pilato, uscì Pilato per udire che avesse la turba vociferante e, esperto come era nel governo e nel giudizio, con un solo sguardo comprese che il reo non ero Io, ma quel popolo ubbriaco di odio. L’incontro dei nostri sguardi fu una reciproca lettura dei nostri cuori. Io giudicai l’uomo per quel che era. Egli giudicò Me per quel che ero. In Me venne per lui della pietà perché era un uomo debole. Ed in lui venne per Me della pietà perché ero un innocente. Cercò di salvarmi dal primo momento. E, dato che unicamente a Roma era deferito e riserbato il diritto di esercitare giustizia verso i malfattori, tentò di salvarmi dicendo: “Giudicatelo secondo la vostra legge”.
37Ipocriti per la seconda volta, i giudei non vollero dare condanna. Vero che Roma aveva diritto di giustizia, ma quando, ad esempio, Stefano venne lapidato, Roma imperava tuttora su Gerusalemme ed essi, ciononostante, definirono e consumarono giudizio e supplizio senza curarsi di Roma. Per Me, di cui avevano non amore ma odio e paura — non mi volevano credere Messia, ma non volevano uccidermi materialmente nel dubbio lo fossi — agirono in maniera diversa e mi accusarono come sobillatore contro la potenza di Roma (voi direste: “ribelle”) per ottenere che Roma mi giudicasse. Nella loro aula infame, e più volte nei tre anni del mio ministero, mi avevano accusato d’esser bestemmiatore e falso profeta, e come tale avrei dovuto esser da essi lapidato o comunque ucciso. Ma ora, per non compiere materialmente il delitto di cui sentono per istinto che sarebbero puniti, lo fanno compiere a Roma accusandomi d’esser malfattore e ribelle. Nulla di più facile, quando le folle sono pervertite ed i capi insatanassati, di accusare un innocente per sfogare la loro libidine di ferocia e di usurpazione, e levare di mezzo chi rappresenta un ostacolo e un giudizio. Siamo tornati ai tempi di allora. Il mondo ogni tanto, dopo una incubazione di idee perverse, esplode in queste manifestazioni di pervertimento. Come una immensa gestante, la folla, dopo aver nutrito nel suo seno con dottrine da fiera il suo mostro, lo partorisce perché divori. Divori per primi i migliori e poi divori se stessa.
38Pilato rientra nel Pretorio e mi chiama vicino. E mi interroga. Egli aveva già sentito parlare di Me. Fra i suoi centurioni c’erano alcuni che ripetevano il mio Nome con amore riconoscente, con le lacrime agli occhi e il sorriso nel cuore, e parlavano di Me come di un benefattore. Nei loro rapporti al Pretore, interrogati su questo Profeta che attirava a Sé le folle e predicava una dottrina nuova in cui si parlava di un regno strano, inconcepibile a mente pagana, essi avevano sempre risposto che ero un mite, un buono che non cercavo onori di questa Terra e che inculcavo e praticavo il rispetto e l’ubbidienza verso coloro che sono le autorità. Più sinceri degli israeliti, essi vedevano e deponevano la verità. La scorsa domenica egli, attratto dal clamore della folla, si era affacciato sulla via ed aveva visto passare su un’asinella un uomo disarmato, benedicente, circondato da bimbi e da donne. Aveva compreso che non poteva certo essere in quell’uomo un pericolo per Roma. Vuol dunque sapere se Io sono re. Nel suo ironico scetticismo pagano, voleva ridere un poco su questa regalità che cavalca un asino, che ha per cortigiani dei bambini scalzi, delle donne sorridenti, degli uomini del popolo, di questa regalità che da tre anni predica di non avere attrazioni per le ricchezze ed il potere e che non parla di altre conquiste fuorché quelle dello spirito e di anima. Che è l’anima per un pagano? Neppure i suoi dèi hanno un’anima. E la può avere l’uomo? Anche ora questo re senza corona, senza reggia, senza corte, senza soldati, gli ripete che il suo regno non è di questo mondo. Tanto vero che nessun ministro e nessuna milizia insorge a difendere il suo re ed a strapparlo ai nemici. Pilato, seduto sul suo seggio, mi scruta, perché Io sono un enigma per lui. Sgomberasse l’anima dalle sollecitudini umane, dalla superbia della carica, dall’errore del paganesimo, comprenderebbe subito Chi sono. Ma come può la luce penetrare dove troppe cose occludono le aperture perché la luce entri?
39Sempre così, figli. Anche ora. Come può entrare Dio e la sua luce là dove non c’è più spazio per loro, e le porte e finestre sono sbarrate e difese dalla superbia, dall’umanità, dal vizio, dall’usura, da tante, tante guardie al servizio di Satana contro Dio? Pilato non può capire quale sia il mio regno. E, quel che è doloroso, non chiede che Io glielo spieghi. Al mio invito perché egli conosca la Verità, egli, l’indomabile pagano, risponde: «Che cosa è la verità?», e lascia cadere con una alzata di spalle la questione. Oh! figli, figli miei! Oh! miei Pilati di ora! Anche voi, come Ponzio Pilato, lasciate cadere con una alzata di spalle le questioni più vitali. Vi sembrano cose inutili, sorpassate. Cosa è la Verità? Denaro? No. Donne? No. Potere? No. Salute fisica? No. Gloria umana? No. E allora si lasci perdere. Non merita che si corra dietro ad una chimera. Denaro, donne, potere, buona salute, comodi, onori, queste sono cose concrete, utili, da amarsi e raggiungersi a qualunque scopo. Voi ragionate così. E, peggio di Esaù, barattate i beni eterni per un cibo grossolano che vi nuoce nella salute fisica e che vi nuoce per la salute eterna. Perché non persistete a chiedere: “Cosa è la verità”? Essa, la Verità, non chiede che di farsi conoscere, per istruirvi su di essa. Vi sta davanti come a Pilato e vi guarda con occhi di amore supplicante, implorandovi: “Interrogami. Ti istruirò”. Vedi come guardo Pilato? Ugualmente guardo voi tutti così. E, se ho sguardo di sereno amore per chi mi ama e chiede le mie parole, ho sguardi di accorato amore per chi non mi ama, non mi cerca, non mi ascolta. Ma amore, sempre amore, perché l’Amore è la mia natura.
40Pilato mi lascia dove sono, senza interrogare di più, e va dai malvagi che hanno la voce più grossa e che si impongono con la loro violenza. E li ascolta, questo sciagurato che non ha ascoltato Me e che ha respinto con una scrollata di spalle il mio invito a conoscere la Verità. Ascolta la Menzogna. L’idolatria, quale che sia la sua forma, è sempre portata a venerare ed accettare la Menzogna, quale che sia. E la Menzogna, accettata da un debole, porta il debole al delitto. Pure Pilato, sulle soglie del delitto, mi vuole salvare ancora e una e due volte. È qui che mi manda a Erode. Sa bene che il re astuto, che barcamena fra Roma e il suo popolo, agirà in modo da non ledere Roma e da non urtare il popolo ebreo. Ma, come tutti i deboli, allontana di qualche ora la decisione che non si sente di prendere, sperando che la sommossa plebea si calmi. Io ho detto: “Il vostro linguaggio sia: sì, sì; no, no”. Ma egli non l’ha sentito o, se qualcuno glielo ha ripetuto, ha fatto la solita alzata di spalle. Per vincere nel mondo, per avere onori e lucro, occorre saper fare del sì un no, o del no un sì, a seconda che il buon senso (leggi: senso umano) consigli. Quanti, quanti Pilati che ha il ventesimo secolo! Dove sono gli eroi del cristianesimo che dicevano sì, costantemente sì alla Verità e per la Verità, e no, costantemente no per la Menzogna? Dove sono gli eroi che sanno affrontare il pericolo e gli eventi con fortezza d’acciaio e con serena prontezza e non dilazionano, perché il Bene va subito compiuto e il Male subito fuggito senza “ma” e senza “se”?
41Al mio ritorno da Erode, ecco la nuova transazione di Pilato: la flagellazione. E che sperava? Non sapeva che la folla è la belva che, quando comincia a vedere il sangue, inferocisce? Ma dovevo esser franto per espiare i vostri peccati di carne. E vengo franto. Non ho più un brano del mio corpo che non sia percosso. Sono l’Uomo di cui parla Isaia. E al supplizio ordinato si aggiunge quello non ordinato, ma creato dalla crudeltà umana, delle spine. Lo vedete, uomini, il vostro Salvatore, il vostro Re, coronato di dolore per liberarvi il capo da tante colpe che vi fermentano? Non pensate quale dolore ha subito la mia testa innocente per pagare per voi, per i vostri sempre più atroci peccati di pensiero che si tramutano in azione? Voi, che vi offendete anche quando non c’è motivo di farlo, guardate al Re offeso, ed è Dio, col suo ironico manto di porpora lacera, con lo scettro di canna e la corona di spine. È già morente e lo schiaffeggiano ancora con le mani e con gli scherni. Né ve ne muovete a pietà. Come i giudei, continuate a mostrarmi i pugni, a gridare: “Via, via, non abbiamo altro dio che Cesare”, o idolatri che non adorate Dio, ma voi stessi e chi fra voi è più prepotente. Non volete il Figlio di Dio. Per i vostri delitti non vi dà aiuto. Più servizievole è Satana. Volete perciò Satana. Del Figlio di Dio avete paura. Come Pilato. E quando lo sentite incombere su voi con la sua potenza, agitarsi in voi con la voce della coscienza che vi rimprovera in suo nome, chiedete come Pilato: “Chi sei?”. Chi sono lo sapete. Anche quelli che mi negano sanno che sono e Chi sono. Non mentite. Venti secoli stanno intorno a Me e vi illustrano Chi sono e vi istruiscono sui miei prodigi. È più perdonabile Pilato. Non voi, che avete un retaggio di venti secoli di cristianesimo per sorreggere la vostra fede o per inculcarvela, e non ne volete sapere. Eppure con Pilato fui più severo che con voi. Non risposi. Con voi parlo. E, ciononostante, non riesco a persuadervi che sono Io, che mi dovete adorazione e ubbidienza. Anche ora mi accusate di esser Io stesso la rovina di Me in voi, perché non vi ascolto. Dite di perdere la fede per questo. Oh! mentitori! Dove l’avete la fede? Dove è il vostro amore? Quando mai pregate e vivete con amore e fede? Siete dei grandi? Ricordatevi che tali siete perché Io lo permetto. Siete degli anonimi fra la folla? Ricordatevi che non vi è altro Dio che Io. Niuno è da più di Me e avanti di Me. Datemi dunque quel culto d’amore che mi spetta ed Io vi ascolterò, perché non sarete più dei bastardi ma dei figli di Dio.
42Ed ecco l’ultimo tentativo di Pilato per salvarmi la vita, dato che la potessi salvare dopo la spietata e illimitata flagellazione. Mi presenta alla folla: “Ecco l’Uomo!”. A lui faccio umanamente pietà. Spera nella pietà collettiva. Ma, davanti alla durezza che resiste ed alla minaccia che avanza, non sa compiere un atto soprannaturalmente giusto, e perciò buono, e dire: “Io libero costui perché è innocente. Voi siete dei colpevoli e, se non vi disperdete, conoscerete il rigore di Roma”. Questo doveva dire se era un giusto, senza calcolare il futuro male che gliene sarebbe venuto. Pilato è un falso buono. Buono è Longino che, meno potente del Pretore e meno difeso, in mezzo alla via, circondato da pochi soldati e da una moltitudine nemica, osa difendermi, aiutarmi, concedermi di riposare, di confortarmi con le donne pietose, di esser soccorso dal Cireneo e infine di avere la Mamma ai piedi della Croce. Quello fu un eroe della giustizia e divenne per questo un eroe di Cristo. Sappiatelo, o uomini che vi preoccupate unicamente del vostro bene materiale, che anche ai sensi di questo il vostro Dio interviene quando vi vede fedeli alla giustizia che è emanazione di Dio. Io premio sempre chi agisce con rettezza. Io difendo chi mi difende. Io lo amo e soccorro. Sono sempre Quello che ha detto: “Chi darà un bicchier d’acqua in mio nome avrà ricompensa”. A chi mi dà amore, acqua che disseta il mio labbro di Martire divino, Io do Me stesso, ossia protezione e benedizione».
Cap. DCV. Disperazione e suicidio di Giuda Iscariota. Avrebbe ancora potuto salvarsi se si fosse pentito.
31 marzo 1944. Venerdì di Passione, ore 2 ant.ne
1 Ecco la mia penosissima visione di queste prime ore del Venerdì di Passione, presentatamisi mentre facevo l’Ora di Maria Desolata, perché avevo pensato che passare la notte, che precede la Professione, in compagnia della Vergine dei Sette Dolori fosse la più bella preparazione alla Professione.
2 Vedo Giuda. È solo. Vestito di giallo chiaro e con un cordone rosso alla vita. Il mio interno ammonitore mi avverte che da poco è stato catturato Gesù e che Giuda, fuggito subito dopo la cattura, è ora in preda ad un contrasto di pensieri. Infatti l’Iscariota pare una belva furente e braccata da una muta di mastini. Ogni sospiro di vento fra le fronde, il frusciare che fa un qualche che per le vie, il gemito di una fontanella, lo fanno sussultare e volgersi con sospetto e terrore, come si sentisse raggiunto da un giustiziere. Gira il capo tenendolo basso, a collo torto, gira gli occhi come chi vuol vedere e ha paura di vedere e, se un giuoco di luna crea un’ombra dalla parvenza umana, egli sbarra gli occhi, fa un salto indietro, diventa anche più livido di quanto non sia, si arresta un istante e poi fugge a precipizio, tornando sui suoi passi, scantonando per altre viuzze, sinché un altro rumore, un altro giuoco di luce, lo fa arretrare e fuggire in altra direzione. Nel suo andare pazzo va così verso l’interno della città. Ma un clamore di popolo l’avverte che è presso alla casa di Caifa, e allora, portandosi le mani al capo e curvandosi come se quei gridi fossero altrettante pietre che lo lapidino, fugge, fugge. E nel fuggire prende una stradetta che lo porta diritto verso la casa dove fu consumata la Cena. Se ne accorge, quando è davanti ad essa, per una fontanella che geme a quel punto della via. Il piangere dell’acqua, che goccia e cade nel piccolo bacino di pietra, e un fischio debole di vento, che insinuandosi per la via stretta fa come un represso lamento, gli devono sembrare il pianto del Tradito e il lamento del Suppliziato. Si tappa gli orecchi per non udire e scappa ad occhi chiusi per non vedere quella porta, da cui poche ore avanti è passato col Maestro e dalla quale egli è uscito per andare a prendere gli armati per catturarlo.
3 Nel correre, così alla cieca, va a urtare contro un cane randagio, il primo cane che vedo da quando ho le visioni, un grosso cane grigio e irsuto, che con un ringhio si scansa, pronto a slanciarsi contro il suo disturbatore. Giuda apre gli occhi e incontra le due pupille fosforescenti che lo fissano e vede il biancore delle zanne scoperte che pare abbiano un riso diabolico. Dà un urlo di terrore. Il cane, che forse lo crede un urlo di minaccia, si avventa, e i due rotolano nella polvere: Giuda sotto, paralizzato dalla paura, il cane sopra. Quando la bestia lascia la preda, giudicata forse indegna di una lotta, Giuda sanguina per due o tre morsi e il suo mantello presenta dei vasti strappi. Un morso lo ha proprio addentato alla guancia, nel preciso posto dove egli ha baciato Gesù. La guancia sanguina, e sangue brutta la veste giallognola di Giuda al collo. Gli fa come un collare di sangue, imbibendo di sé il cordone rosso che stringe al collo la veste, facendolo più rosso ancora. Giuda, portandosi la mano alla guancia e guardando il cane che si allontana, ma lo guata dall’insenatura di una porta, mormora: «Belzebù!», e con un nuovo urlo fugge inseguito dal cane per qualche tempo. Fugge sino al ponticello che è prossimo al Getsemani. Qui, sia perché stanco di inseguirlo, sia perché fosse idrofobo e l’acqua lo allontani, il cane lascia la preda e torna indietro ringhiando. Giuda, che si era gettato nel torrente per prendere pietre da scagliare al cane, quando lo vede allontanare si guarda intorno, si vede con l’acqua sino a metà polpaccio. Senza curarsi della veste, che sempre più si bagna, si curva sull’acqua e beve come fosse preso da arsione di febbre, e si lava la guancia che sanguina e deve dolere.
4 Al lume di un primo svegliarsi di alba risale il greto. Dall’altra parte, come avesse ancora paura del cane e non osasse tornare verso la città. Fa qualche metro e si trova nell’ingresso dell’orto degli Ulivi. Grida: «No! No!», riconoscendo il posto. Ma poi, non so per quale forza irresistibile o per quale sadismo satanico e criminale, avanza in quel luogo. Cerca il posto dove è avvenuta la cattura. La terra del sentiero scompigliata da molte pedate, l’erba calpestata in un dato punto e del sangue per terra, forse quello di Malco, lo avvisano che lì egli ha indicato ai carnefici l’Innocente. Guarda, guarda… e poi ha un urlo roco e fa un balzo indietro. Grida: «Quel sangue, quel sangue!…», e lo indica… a chi? col braccio teso e l’indice puntato. Nella luce che aumenta il suo volto è terreo e spettrale. Pare un pazzo. Ha gli occhi sbarrati e lucidi come per delirio, i capelli scompigliati dalla corsa e dal terrore sembrano stare irti sul capo, la guancia che va enfiando gli torce la bocca in un ghigno. La veste strappata, insanguinata, bagnata, motosa, perché la polvere si è appiccicata al bagnato ed è divenuta fango, lo fa simile ad un accattone. Il manto, pure lacero e motoso, gli pende giù da una spalla come uno straccio, e in questo egli si impiglia quando, continuando a gridare: «Quel sangue, quel sangue!», arretra come se quel sangue divenisse un mare che monta e sommerge. Giuda cade riverso e si ferisce al capo, dietro al capo, contro una pietra. Ha un gemito di dolore e di paura. «Chi è?», grida. Deve aver pensato che qualcuno l’abbia fatto cadere per colpirlo. Si volge con terrore. Nessuno! Si alza. Ora il sangue goccia anche sulla nuca. Il cerchio rosso si allarga sulla veste. Non cade in terra, perché è poco. La veste lo beve. Ora il capestro rosso pare già al collo.
5 Cammina. Ritrova le tracce del fuocherello acceso da Pietro ai piedi di un ulivo. Ma egli non sa che è opera di Pietro e deve credere che lì fu Gesù. Grida: «Via! Via!», e con ambe le mani, tese avanti a sé, pare respingere un fantasma che lo tormenta. Scappa. E va a finire proprio contro il masso dell’Agonia. Ormai l’alba è netta e permette vedere bene e subito. Giuda vede il mantello di Gesù rimasto piegato sul masso. Lo conosce. Vuole toccarlo. Ha paura. Stende e ritira la mano. Vuole. Disvuole. Ma quel manto lo affascina. Geme: «No. No». Poi dice: «Sì, per Satana! Sì. Voglio toccarlo. Non ho paura! Non ho paura!». Dice che non ha paura, ma batte i denti dal terrore, e il rumore che fa sul suo capo un ramo d’ulivo, mosso dal vento e urtante contro un tronco vicino, lo fa urlare di nuovo. Pure si sforza e afferra il mantello. E ride. Un riso da pazzo, da demonio. Un riso isterico, spezzato, lugubre, che non finisce mai, perché ha vinto la sua paura. E lo dice: «Non mi fai paura, Cristo. Più paura. Avevo tanta paura di Te perché ti credevo un Dio e un forte. Ora non mi fai più paura perché non sei Dio. Sei un povero pazzo, un debole. Non ti sei saputo difendere. Non mi hai incenerito come non hai letto nel mio cuore il tradimento. Le mie paure!… Che stolto! Quando parlavi, anche ieri sera, io credevo Tu sapessi. Nulla sapevi. Era la mia paura che dava tono di profezia alle tue comuni parole. Sei un nulla. Ti sei lasciato vendere, indicare, prendere come un sorcio nella tana. Il tuo potere! La tua origine! Ah! Ah! Ah! Buffone! Il forte è Satana! Più forte di Te. Ti ha vinto! Ah! Ah! Ah! Il Profeta! Il Messia! Il Re d’Israele! E mi hai tenuto soggetto per tre anni! Con la paura sempre nel cuore! E dovevo mentire per ingannarti con finezza quando volevo godere la vita! Ma anche avessi rubato e fornicato senza tutta l’astuzia che usavo, Tu non mi avresti fatto nulla. Imbelle! Pazzo! Vigliacco! Toh! Toh! Toh! Ho avuto torto a non fare a Te quel che faccio al tuo manto per vendicarmi del tempo in cui mi hai tenuto schiavo della paura. Paura di un coniglio!… Toh! Toh! Toh!».
6 Ad ogni «toh!» Giuda morde e cerca strappare la stoffa del manto. Lo spiegazza fra le mani. Ma nel farlo lo apre e appaiono le macchie che lo bagnano. Giuda si ferma nella sua furia. Fissa quelle macchie. Le tocca. Le fiuta. Sono sangue…-Spiega tutto il mantello. È ben visibile l’impronta lasciata dalle due mani sanguinose quando si premevano la stoffa sul viso. «Ah!… Sangue! Sangue! Il suo… No!». Giuda lascia cadere il mantello e guarda intorno. Anche contro il masso, là dove Gesù si è appoggiato con la schiena quando l’Angelo lo confortava, vi è uno scuro di sangue che secca. «Là!… Là!… Sangue! Sangue!…». Abbassa gli occhi per non vedere, e vede l’erba tutta rossa del sangue gocciato su essa. Questo, per la rugiada che lo ha tenuto sciolto, pare appena gocciato. È rosso e brilla al primo sole. «No! No! No! Non voglio vedere! Non posso vedere quel sangue! Aiuto!», e porta le mani alla gola e annaspa come se stesse affogando in un mare di sangue. «Indietro! Indietro! Lasciami! Lasciami! Maledetto! Ma questo sangue è un mare! Copre la Terra! La Terra! La Terra! E sulla Terra non c’è posto per me, perché io non posso vedere quel sangue che la copre. Sono il Caino dell’Innocente!». L’idea del suicidio credo sia venuta in questo momento in quel cuore. Il volto di Giuda fa paura.
7 Si butta dal balzo e fugge per l’uliveto senza tornare per la via già fatta. Pare un inseguito dalle fiere. Torna in città. Si avvolge nel mantello come può e cerca coprirsi la ferita e il volto per quanto può. Si dirige al Tempio. Ma, mentre va a quella volta, ad un incrocio di via si trova di fronte alle canaglie che trascinano Gesù da Pilato. Non può ritirarsi, perché altra folla lo preme alle spalle, accorrendo a vedere. E, alto come è, domina per forza e vede. E incontra lo sguardo di Cristo… I due sguardi si allacciano un momento. Poi Cristo passa, legato, percosso. E Giuda cade riverso come svenuto. La folla lo calpesta senza pietà, né egli reagisce. Deve preferire essere calpestato da tutto un mondo anziché incontrare quello sguardo.
8 Quando la canea deicida è passata col Martire e la via è vuota, si rialza e corre al Tempio. Urta e quasi rovescia una guardia messa alla porta del recinto. Altre guardie accorrono per interdire al forsennato di entrare. Ma egli, come un toro furente, sgomina tutti. Uno, che gli si aggrappa per impedirgli di penetrare nell’aula del Sinedrio, dove sono ancora tutti raccolti a discutere, viene afferrato per la gola, strozzato e gettato, se non morto certo moribondo, giù dai tre scalini. «Il vostro denaro, maledetti, non lo voglio», egli urla, ritto in mezzo all’aula, al posto dove prima era Gesù. Pare un demone sbucato dall’inferno. Insanguinato, spettinato, acceso dal delirio, con la bava alla bocca, le mani ad artiglio, egli urla e pare che abbai tanto la sua voce è stridula, roca, ululante. «Il vostro denaro, maledetti, non lo voglio. Mi avete perduto. Mi avete fatto commettere il più grande peccato. Come voi, come voi sono maledetto! Ho tradito il Sangue innocente. Ricada su voi quel Sangue e la mia morte. Su voi… No! Ah!…». Giuda vede il pavimento bagnato di sangue. «Anche qui, anche qui è sangue? Da per tutto! Da per tutto è il suo Sangue! Ma quanto Sangue ha l’Agnello di Dio per coprirne così la Terra e non morirne? Ed io l’ho sparso! Per istigazione vostra. Maledetti! Maledetti! Maledetti in eterno! Maledizione a queste mura! Maledizione a questo Tempio profanato! Maledizione al Pontefice deicida! Maledizione ai sacerdoti indegni, ai dottori falsi, ai farisei ipocriti, ai giudei crudeli, agli scribi subdoli! Maledizione a me! A me maledizione! A me! Tenete il vostro denaro e vi strozzi l’anima nella gola come a me il capestro», e getta la borsa in faccia a Caifa e va con un urlo, mentre le monete suonano spargendosi al suolo dopo aver colpito a sangue la bocca di Caifa. Nessuno osa trattenerlo.
9 Esce. Corre per le vie. E fatalmente torna ad incrociare altre due volte Gesù, che va e viene da Erode. Abbandona il centro della città, prendendo a casaccio per le viette più misere, e va a finire da capo contro la casa del Cenacolo. È tutta chiusa. Come abbandonata. Si ferma. La guarda. «La Madre!», mormora. «La Madre!…». Resta in sospeso… «Ho anche io una madre! E ho ucciso un figlio a una madre! Pure… Voglio entrare… Rivedere quella stanza. Là non c’è sangue…». Dà un picchio alla porta. Un altro… Un altro… La padrona di casa viene ad aprire e socchiude l’uscio. Una fessura… E vedendo quell’uomo stravolto, irriconoscibile, getta un urlo e tenta rinchiudere l’uscio. Ma Giuda con una spallata lo spalanca e, travolgendo la donna esterrefatta, passa oltre. Corre verso la porticina che mette nel Cenacolo. L’apre. Entra. Un bel sole entra dalle finestre spalancate. Giuda tira un respiro di sollievo. Si inoltra. Qui tutto è calmo e silenzioso. Le stoviglie sono ancora come furono lasciate. Si capisce che per ora nessuno se ne è occupato. Si potrebbe credere che si sia per mettersi a tavola. Giuda va verso la tavola. Guarda se vi è vino nelle anfore. Ce ne è. Beve avidamente dall’anfora stessa, che solleva a due mani. Poi si lascia cadere seduto e appoggia il capo sulle braccia conserte sulla tavola. Non si accorge che si è seduto proprio al posto di Gesù e che ha di fronte il calice usato per l’Eucarestia. Sta fermo qualche tempo. Finché l’ansito del gran correre si placa. Poi alza il capo. E vede il calice. E riconosce dove si è seduto. Si alza come spiritato. Ma il calice lo affascina. Un poco di vino rosso è ancora nel fondo e il sole, percuotendo il metallo (pare argento), accende quel liquido. «Sangue! Sangue! Sangue anche qui! Il suo Sangue! Il suo Sangue!… “Fate questo in memoria di Me!… Prendete e bevete. Questo è il mio Sangue… Il Sangue del nuovo testamento che sarà sparso per voi…”. Ah! maledetto me! Per me non può più esser sparso per remissione del mio peccato. Non chiedo perdono perché Egli non mi può perdonare. Via, via! Non c’è più un posto dove il Caino di Dio possa conoscere quiete. A morte! A morte!…».
10Esce. Si trova di fronte Maria, ritta sulla porta della stanza dove Gesù l’ha lasciata. Ella, udendo un rumore, si è affacciata sperando forse vedere Giovanni, che manca da tante ore. È pallida come un svenata. Ha degli occhi che il dolore fa ancor più simili a quelli del Figlio. Giuda incontra quello sguardo che lo guarda con la stessa accorata e cosciente cognizione con cui Gesù lo ha guardato per via, e con un «Oh!» spaurito si addossa al muro. «Giuda!», dice Maria. «Giuda, che sei venuto a fare?». Le stesse parole di Gesù. E dette con amore doloroso. Giuda le ricorda e urla. «Giuda», ripete Maria, «che hai tu fatto? A tanto amore hai risposto tradendo?». La voce di Maria è carezza che trema. Giuda fa per scappare. Maria lo chiama con una voce che avrebbe dovuto convertire un demonio: «Giuda! Giuda! Fermati! Fermati! Ascolta! Io te lo dico in suo Nome: pentiti, Giuda. Egli perdona…». Giuda è fuggito. La voce di Maria, il suo aspetto è stato il colpo di grazia, ossia di disgrazia perché egli le resiste. Va a precipizio. Incontra Giovanni che corre verso la casa a prendere Maria. La sentenza è pronunciata. Gesù sta per andare al Calvario. È ora che la Madre sia condotta dal Figlio. Giovanni riconosce Giuda per quanto ben poco resti del bel Giuda di poco tempo prima. «Tu qui?», gli dice Giovanni con palese ribrezzo. «Tu qui? Maledizione a te, uccisore del Figlio di Dio! Il Maestro è condannato. Giubila, se puoi. Ma sgombra la via. Vado a prendere la Madre. Che Ella, l’altra tua Vittima, non ti incontri, rettile».
11Giuda fugge. Si è avvolto il capo nei brandelli del manto, lasciando unicamente uno spiraglio per gli occhi. La gente, la poca gente che non è verso il Pretorio, lo scansa come vedesse un pazzo. E tale sembra. Vaga per la campagna. Il vento porta ogni tanto un’eco del clamore che proviene dalla turba che segue imprecando Gesù. Ogni volta che tale eco giunge a Giuda, egli urla come uno sciacallo. Io credo che sia realmente impazzito, perché batte la testa ritmicamente contro i muretti di pietra. Oppure è divenuto idrofobo perché, quando vede un liquido purché sia — acqua, latte portato in un recipiente da un bambino, olio che geme da un otre — urla, urla e grida: «Sangue! Sangue! Il suo Sangue!». Vorrebbe bere ai ruscelli e alle fonti. Non può, perché l’acqua gli pare sangue, e lo dice: «È sangue! È sangue! Mi affoga! Mi brucia! Ho il fuoco! Il suo Sangue, che ieri mi ha dato, è divenuto fuoco in me! Maledizione a me e a Te!».
12Sale e scende per i colli che circondano Gerusalemme. E l’occhio, irresistibilmente, gli va al Golgota. E due volte vede da lungi il corteo snodarsi nella salita. Guarda e urla. Eccolo alla cima. Anche Giuda è in cima di un piccolo colle coperto d’ulivi. Vi è penetrato aprendo una chiudenda rustica come ne fosse padrone o per lo meno molto pratico. Già ho l’impressione che Giuda non avesse molti riguardi per l’altrui proprietà. Ritto sotto un ulivo al limite di un balzo, guarda verso il Golgota. Vede drizzare le croci e comprende che Gesù è crocifisso. Non può vedere né udire. Ma il delirio o un malefizio di Satana gli fan vedere e udire come fosse sulla cima del Calvario. Guarda, guarda come allucinato. Si dibatte: «No! No! Non mi guardare! Non mi parlare! Non lo sopporto. Muori, muori, maledetto! Ti chiuda la morte quegli occhi che mi fan paura, quella bocca che mi maledice. Ma anche io ti maledico. Perché non mi hai salvato». Il volto è talmente stralunato che non si può più guardare. Due fili di bava scendono dalla bocca urlante. La guancia morsa è livida e enfiata, e il viso ne appare storto. I capelli appiccicati, la barba, molto scura, cresciuta sulle guance in quelle ore, mette un bavaglio lugubre sulle gote e sul mento. Gli occhi poi!… Roteano, si torcono, sono fosforescenti. Da vero demonio.
13Strappa dalla sua cintura il cordone di grossa lana rossa che lo cinge con tre giri. Ne prova la solidità avvinghiandolo intorno ad un ulivo e tirando con tutta la sua forza. Resiste. È forte. Sceglie un ulivo atto alla bisogna. Ecco. Questo, proteso oltre la balza con la sua chioma spettinata, va bene. Monta sull’albero. Assicura solidamente un cappio al ramo più robusto e sporgente nel vuoto. Ha già fatto il nodo scorsoio. Guarda un’ultima volta al Golgota. Poi infila la testa nel nodo scorsoio. Ora pare avere due collane rosse alla radice del collo. Si siede sulla balza. Poi di colpo si lascia scivolare nel vuoto. Il nodo lo stringe. Si dibatte qualche minuto. Strabuzza gli occhi, diviene nero d’asfissia, apre la bocca, le vene del collo si gonfiano e si fanno nere. Tira quattro o cinque calci per aria, nelle ultime convulsioni. Poi la bocca si apre e ne pende la lingua scura e bavosa, e i globi oculari restano scoperti, sporgenti, mostranti il bulbo bianchiccio iniettato di sangue. L’iride scompare in alto. È morto. Il forte vento, che si è alzato per l’imminente bufera, ciondola il macabro pendolo e lo fa roteare come un orrido ragno appeso al filo della ragnatela. La visione finisce così. E mi auguro a avermi a dimenticare presto tutto ciò, perché le assicuro che è visione orrenda.
14Dice Gesù: «Orrenda, ma non inutile. Troppi credono che Giuda abbia commesso cosa da poco. Alcuni giungono anzi a dire che egli è un benemerito perché senza di lui la Redenzione non sarebbe venuta e che, perciò, egli è giustificato al cospetto di Dio. In verità vi dico che, se l’Inferno non fosse già esistito, ed esistito perfetto nei suoi tormenti, sarebbe stato creato per Giuda ancor più orrendo e eterno, perché di tutti i peccatori e i dannati egli è il più dannato e peccatore, né per lui in eterno vi sarà ammolcimento di condanna. Il rimorso l’avrebbe anche potuto salvare, se egli avesse fatto del rimorso un pentimento. Ma egli non volle pentirsi e, al primo delitto di tradimento, ancora compatibile per la grande misericordia che è la mia amorosa debolezza, ha unito bestemmie, resistenze alle voci della Grazia che ancora gli volevano parlare attraverso i ricordi, attraverso i terrori, attraverso il mio Sangue e il mio mantello, attraverso il mio sguardo, attraverso le tracce dell’istituita Eucarestia, attraverso le parole di mia Madre. Ha resistito a tutto. Ha voluto resistere. Come aveva voluto tradire. Come volle maledire. Come si volle suicidare.
15È la volontà quella che conta nelle cose. Sia nel bene che nel male. Quando uno cade senza volontà di cadere, Io perdono. Vedi Pietro. Ha negato. Perché? Non lo sapeva esattamente neppure lui. Vile Pietro? No. Il mio Pietro non era vile. Contro la coorte e le guardie del Tempio aveva osato ferire Malco per difendermi e rischiare d’essere ucciso per questo. Era poi fuggito. Senza averne volontà di farlo. Aveva poi negato. Senza averne volontà di farlo. Ha saputo poi ben restare e procedere sulla sanguinosa via della Croce, sulla mia Via, fino a giungere alla morte di croce. Ha saputo poi molto bene testimoniare di Me, sino ad esser ucciso per la sua fede intrepida. Io lo difendo il mio Pietro. Il suo è stato l’ultimo smarrimento della sua umanità. Ma la volontà spirituale non era presente in quel momento. Ottusa dal peso dell’umanità, dormiva. Quando si destò, non volle restare nel peccato e volle esser perfetta. Io l’ho perdonato subito.
16Giuda non volle. Tu dici che pareva pazzo e idrofobo. Lo era di rabbia satanica. Il suo terrore nel vedere il cane, bestia rara, in Gerusalemme in specie, venne dal fatto che si attribuiva a Satana, da tempi immemorabili, quella forma per apparire ai mortali. Nei libri di magia è detto tuttora che una delle forme preferite da Satana per apparire è quella di un cane misterioso o di un gatto o di un capro. Giuda, già preda del terrore nato dal suo delitto, convinto d’esser di Satana per il suo delitto, vide Satana in quella bestia randagia. Chi è colpevole, in tutto vede ombre di paura. È la coscienza che le crea. Satana poi aizza queste ombre, che potrebbero ancora dare pentimento ad un cuore, e ne fa larve orrende che portano alla disperazione. E la disperazione porta all’ultimo delitto: al suicidio. A che pro gettare il prezzo del tradimento quando questo spogliamento è solo frutto dell’ira e non è corroborato da una retta volontà di pentimento? Allora spogliarsi dai frutti del male diviene meritorio. Ma così come egli fece, no. Inutile sacrificio.
17Mia Madre, ed era la Grazia che parlava e la mia Tesoriera che largiva perdono in mio Nome, glielo disse: “Pentiti, Giuda. Egli perdona…”. Oh! se lo avrei perdonato! Se si fosse gettato ai piedi della Madre dicendo: “Pietà!”, Ella, la Pietosa, lo avrebbe raccolto come un ferito e sulle sue ferite sataniche, per le quali il Nemico gli aveva inoculato il Delitto, avrebbe sparso il suo pianto che salva e me lo avrebbe portato, ai piedi della Croce, tenendolo per mano perché Satana non lo potesse ghermire e i discepoli colpirlo, portato perché il mio Sangue cadesse per primo su lui, il più grande dei peccatori. E sarebbe stata, Ella, Sacerdotessa mirabile sul suo altare, fra la Purezza e la Colpa, perché è Madre dei vergini e dei santi, ma anche Madre dei peccatori. Ma egli non volle.
18Meditate il potere della volontà di cui siete arbitri assoluti. Per essa potete avere il Cielo o l’Inferno. Meditate cosa vuol dire persistere nella colpa. Il Crocifisso, Colui che sta con le braccia aperte e confitte per dirvi che vi ama, e che non vuole, non può colpirvi perché vi ama, e preferisce negarsi di potervi abbracciare, unico dolore del suo esser confitto, anziché aver libertà di punirvi, il Crocifisso, oggetto di divina speranza per coloro che si pentono e che vogliono lasciare la colpa, diviene per gli impenitenti oggetto di un tale orrore che li fa bestemmiare e usare violenza verso se stessi. Uccisori del loro spirito e del loro corpo per la loro persistenza nella colpa. E l’aspetto del Mite, che si è lasciato immolare nella speranza di salvarli, assume l’apparenza di uno spettro di orrore.
19Maria, ti sei lamentata di questa visione. Ma è il Venerdì di Passione, figlia. Devi soffrire. Alle sofferenze per le sofferenze mie e di Maria devi unire le tue per l’amarezza di vedere i peccatori rimanere peccatori. È stata sofferenza nostra, questa. Deve esser tua. Maria ha sofferto, e soffre ancora, di questo, come delle mie torture. Perciò tu devi soffrire questo. Ora riposa. Fra tre ore sarai tutta mia e di Maria. Ti benedico, violetta della mia Passione e passiflora di Maria».
Cap. DCVI. Gesù e Maria sono l’antitesi di Adamo ed Eva. Giuda Iscariota è il nuovo Caino. La vera evoluzione dell’uomo è quella del suo spirito.
2 aprile 1944. Domenica delle Palme.
1Dice Gesù: «La coppia Gesù-Maria è l’antitesi della coppia Adamo-Eva. È quella destinata ad annullare tutto l’operato di Adamo ed Eva e riportare l’Umanità al punto in cui era quando fu creata: ricca di grazia e di tutti i doni ad essa largiti dal Creatore. L’Umanità ha subìto una rigenerazione totale per l’opera della coppia Gesù-Maria, i quali sono così divenuti i nuovi Capostipiti dell’Umanità. Tutto il tempo precedente è annullato. Il tempo e la storia dell’uomo si conta da questo momento in cui la nuova Eva, per un capovolgimento di creazione, trae dal suo seno inviolato, per opera del Signore Iddio, il nuovo Adamo. Ma per annullare le opere dei due Primi, causa di mortale infermità, di perpetua mutilazione, di impoverimento, più: di indigenza spirituale — perché dopo il peccato Adamo ed Eva si trovarono spogliati di tutto quanto aveva loro donato, ricchezza infinita, il Padre santo — hanno dovuto, questi due Secondi, operare in tutto e per tutto in maniera opposta al modo di operare dei due Primi. Perciò, spingere l’ubbidienza sino alla perfezione che si annichila e si immola nella carne, nel sentimento, nel pensiero, nella volontà, per accettare tutto quanto Dio vuole. Perciò, spingere la purezza ad una castità assoluta, per cui la carne… che fu la carne per Noi due puri? Velo d’acqua sullo spirito trionfante, carezza di vento sullo spirito re, cristallo che isola lo spirito-signore e non lo corrompe, impulso che solleva e non peso che opprime. Questo fu la carne per Noi. Meno pesante e sensibile di una veste di lino, lieve sostanza interposta fra il mondo e lo splendore dell’io soprumanato, mezzo per operare ciò che Dio voleva. Null’altro.
2 Fu nostro l’amore? Certo. Il “perfetto amore” fu nostro. Non è, uomini, amore la fame di senso che vi spinge bramosi a saziarvi di una carne. Quella è lussuria. Nulla più. Tanto vero che amandovi così — voi lo credete amore — non sapete compatirvi, aiutarvi, perdonarvi. Che è allora il vostro amore? È odio. È unicamente delirio paranoico, che vi spinge a preferire il sapore di putridi pasti al sano, corroborante cibo di eletti sentimenti. Noi avemmo il “perfetto amore”, Noi, i casti perfetti. Questo amore abbracciava Dio in Cielo e, a Lui unito come lo sono i rami col tronco che li nutre, si espandeva e scendeva prodigandosi di riposo, di riparo, di nutrimento, di conforto sulla Terra e sui suoi abitanti. Nessuno escluso da questo amore. Non i nostri simili, non gli esseri inferiori, non la natura erborea, non le acque e gli astri. Neppure i malvagi esclusi da questo amore. Perché anche essi, benché membri morti, erano pur sempre membri del gran corpo del Creato, e perciò vedevamo in essi, per quanto deturpata e bruttata dalla loro malvagità, la santa effigie del Signore, che a sua immagine e somiglianza li aveva formati. Gioiendo coi buoni, piangendo sui non buoni, pregando (amore fattivo che si estrinseca coll’impetrare e ottenere protezione a chi si ama) pregando per i buoni acciò fossero sempre più buoni per accostarsi sempre più alla perfezione del Buono che ci ama dai Cieli, pregando per i vacillanti fra la bontà e la malvagità perché si fortificassero e sapessero persistere sul cammino santo, pregando per i malvagi perché la Bontà parlasse al loro spirito, li atterrasse magari con una folgore del suo potere, ma li convertisse al Signore Iddio loro, Noi amammo. Come nessun altro amò. Spingemmo l’amore alle vette della perfezione per colmare, col nostro oceano d’amore, l’abisso scavato dal disamore dei Primi, che amarono sé più di Dio, volendo avere più che lecito non fosse per divenire superiori a Dio.
3 Perciò alla purezza, ubbidienza, carità, distacco da tutte le ricchezze della Terra (carne, potere, denaro: il trinomio di Satana opposto al trinomio di Dio: fede, speranza, carità); perciò all’odio, alla lussuria, all’ira, alla superbia (le quattro passioni perverse, antitesi delle quattro virtù sante: fortezza, temperanza, giustizia, prudenza) Noi dovemmo unire una costante pratica di tutto quanto era all’opposto del modo di agire della coppia Adamo-Eva. E se molto, per il nostro buon volere senza limite, ci fu ancor facile farlo, solo l’Eterno sa quanto fu eroico compiere questa pratica in certi momenti e in certi casi. Non voglio qui che parlarne di uno solo. E di mia Madre. Non di Me. Della nuova Eva, la quale aveva già respinto dai più teneri anni le blandizie usate da Satana per sedurla a mordere il frutto e sentirne il sapore che aveva reso folle la compagna di Adamo; della nuova Eva, la quale non si era limitata a respingere Satana, ma l’aveva vinto schiacciandolo sotto una volontà di ubbidienza, di amore, di castità talmente vasta che esso, il Maledetto, ne era rimasto schiacciato e domo. No! No, che non si alza Satana da sotto il calcagno della mia Madre Vergine! Sbava e spuma, rugge e bestemmia. Ma la sua bava cola in basso, ma il suo urlo non tocca l’atmosfera che circonda la mia Santa, la quale non ode fetore né cachinni demoniaci, non vede, neppur vede la schifosa bava del Rettile eterno, perché le armonie celesti ed i celesti aromi le danzano innamorati intorno alla bella e santa persona, e perché il suo occhio, più puro del giglio e più innamorato di quello di tortora tubante, fissa solo il suo Signore eterno, di cui è Figlia, Madre e Sposa.
4 Quando Caino uccise Abele, la bocca della madre proferì le maledizioni che il suo spirito, separato da Dio, suggeriva contro il suo prossimo più intimo: il figlio delle sue viscere, profanate da Satana e rese brute dall’incomposto desiderio. E quella maledizione fu la macchia nel regno del morale umano, come il delitto di Caino la macchia nel regno dell’animale umano. Sangue sulla Terra, sparso da mano fraterna. Il primo sangue, che attira come calamita millenaria tutto il sangue che mano d’uomo sparge traendolo da vene d’uomo. Maledizione sulla Terra, proferita da bocca d’uomo. Quasi che la Terra non fosse sufficientemente maledetta per causa dell’uomo ribelle al suo Dio e non avesse dovuto conoscere i triboli e le spine e la durezza delle glebe, le siccità, le grandini, i geli, i solleoni, essa che era stata creata perfetta e servita da elementi perfetti per esser dimora facile e bella all’uomo suo re. Maria deve annullare Eva. Maria vede il secondo Caino: Giuda. Maria sa che egli è il Caino del suo Gesù, del secondo Abele. Sa che il sangue di questo secondo Abele è stato venduto da quel Caino e già viene sparso. Ma non maledice. Ama e perdona. Ama e richiama. Oh! Maternità di Maria martire! Maternità sublime quanto la tua virginea e divina! Di quest’ultima ti ha fatto dono Iddio! Ma della prima tu, Madre santa, Corredentrice, ti sei fatta dono, perché tu, tu sola hai saputo, in quell’ora, col cuore franto dai flagelli che mi avevano franto le carni, dire a Giuda quelle parole; tu, tu sola hai saputo, in quell’ora, mentre sentivi già la croce spaccarti il cuore, amare e perdonare.
5 Maria: la nuova Eva. Essa vi insegna la nuova religione, che spinge l’amore a perdonare chi uccide un figlio. Non siate come Giuda, che a questa Maestra di Grazia chiude il cuore e dispera dicendo: “Egli non mi può perdonare”, mettendo in dubbio le parole della Madre della Verità e perciò le mie parole, che avevano sempre ripetuto che Io ero venuto per salvare e non perdere. Per perdonare a chi a Me veniva pentito. Maria, nuova Eva, ha anche Ella avuto da Dio un nuovo figlio “in luogo di Abele ucciso da Caino”. Ma non lo ebbe con un’ora di gioia brutale, che rende assopito il dolore sotto i vapori del senso e le stanchezze dell’appagamento. Lo ebbe in un’ora di dolore totale, ai piedi di un patibolo, fra i rantoli del Morente che le era Figlio, gli improperi di una folla deicida e una desolazione immeritata e totale, poiché anche Dio non più la consolava. La vita nuova incomincia per l’Umanità e per i singoli uomini da Maria. Nelle sue virtù e nel suo modo di vivere è la vostra scuola. E nel suo dolore, che ebbe tutti i volti, anche quello del perdono all’uccisore del suo Figlio, è la salvezza vostra».
6 Dice Gesù: «Un giorno ti parlerò ancora di Caino e dei Progenitori. Vi è molto da dire e da meditare».
5 aprile 1944.
7Dice Gesù: «Nella Genesi si legge: “Allora Adamo pose alla sua moglie il nome di Eva, essendo essa la madre di tutti i viventi”. Oh! sì. La donna era nata dalla “Virago” che Dio aveva formata per compagna di Adamo, traendola dalla costola dell’uomo. Era nata col suo destino doloroso perché aveva voluto nascere. Perché aveva voluto conoscere ciò che Dio le aveva occultato riserbandosi la gioia di darle la gioia di posterità senza avvilimento di senso. La compagna di Adamo aveva voluto conoscere il bene che si cela nel male e, soprattutto, il male che si cela nel bene, nell’apparente bene. Poiché, sedotta come era da Lucifero, aveva appetito a conoscenze che solo Dio poteva conoscere senza pericolo, e si era fatta creatrice. Ma, usando questa forza di bene indegnamente, l’aveva corrotta in atto di male, perché disubbidienza a Dio e malizia e ingordigia della carne. Ormai ella era la “madre”. Pianto infinito delle cose intorno all’innocenza della loro regina profanata! E pianto desolato della regina sulla sua profanazione, di cui comprende l’entità e l’impossibile annullamento! Se le tenebre e i cataclismi accompagnarono la morte dell’Innocente, anche tenebra e bufera accompagnarono la morte dell’Innocenza e della Grazia nei cuori dei Progenitori. Era nato il Dolore sulla Terra. E la Provvidenza di Dio non lo volle eterno, dandovi dopo anni di dolore la gioia di uscire dal dolore per entrare nella gioia, se sapete vivere con animo retto. Guai all’uomo se avesse dovuto farsi umanamente padrone della vita! E vivere col ricordo dei suoi delitti e il continuo aumento degli stessi, poiché vivere senza peccare vi è più impossibile che vivere senza respirare, creature che eravate state create per conoscere la Luce, e che la Tenebra ha avvelenato di sé facendovi sue vittime. La Tenebra! Essa vi circuisce continuamente. Vi avviluppa ridestando quanto il Sacramento ha cancellato e, poiché voi ad essa non opponete volontà d’esser di Dio, riesce a riavvelenarvi del suo veleno, che il Battesimo aveva reso innocuo.
8 Dio Padre allontanò l’uomo, della cui disubbidienza erano palesi i segni, dal luogo delle paradisiache delizie, affinché non peccasse un’altra volta e più ancora alzando la mano ladra all’albero di Vita. Non si poteva più fidare il Padre dei suoi figli, né sentirsi sicuro nel suo terrestre Paradiso. Satana vi era penetrato una volta per insidiargli le creature predilette e, se aveva potuto indurli alla colpa quando erano innocenti, con agio maggiore l’avrebbe potuto rifare ora che innocenti non erano più. L’uomo aveva tutto voluto possedere, non lasciando a Dio il tesoro d’esser il Generatore. Se ne andasse perciò con la sua ricchezza acquistata con violenza e se la portasse seco sulla terra d’esilio, a farlo sempre memore del suo peccato, re avvilito e spogliato dei suoi doni. La creatura paradisiaca era divenuta creatura terrestre. E dovevano passare secoli di dolore perché l’Unico che potesse stendere la mano al frutto di Vita venisse e cogliesse per tutta l’Umanità tal frutto. Lo cogliesse con le sue mani trafitte e lo desse agli uomini perché tornassero coeredi del Cielo e possessori della Vita che non muore in eterno.
9 Dice ancora la Genesi: “Adamo poi conobbe la sua moglie Eva”. Avevano voluto conoscere i segreti del bene e del male. Giusto era che conoscessero ora anche il dolore di dover riprodurre se stessi nella carne avendo l’aiuto di Dio unicamente per ciò che l’uomo non può creare: lo spirito, scintilla che da Dio si parte, soffio che da Dio si infonde, sigillo che sulla carne appone il segno del Creatore eterno. Ed Eva partorì Caino. Eva era carica della sua colpa. Richiamo qui la vostra attenzione su un fatto che sfugge ai più. Eva era carica della sua colpa. Né il dolore era ancora stato subìto in misura sufficiente a diminuire la sua colpa. Come organismo carico di tossine, ella aveva trasmesso al figlio quanto pullulava in lei. E Caino, primo figlio d’Eva, era nato duro, invidioso, iracondo, lussurioso, perverso, di poco dissimile alle belve rispetto all’istinto, di molto superiore rispetto al soprannaturale, perché nel suo io feroce egli negava rispetto a Dio che guardava come un nemico, credendosi lecito di non averne culto sincero. Satana lo aizzava a deridere Dio. E chi deride Dio non rispetta nessuno al mondo. Onde coloro che sono a contatto coi derisori dell’Eterno conoscono l’amaro del pianto, perché non vi è per loro speranza di amore riverente nella prole, non sicurezza di amore fedele nel consorte, non certezza di amicizia onesta nell’amico. Lacrime e lacrime rigarono il volto di Eva e rigarono il suo cuore per la durezza del figlio, gettando nel suo cuore il germe del pentimento. Lacrime e lacrime che le ottennero una diminuzione di colpa, perché Dio al dolore di chi si pente perdona. E il secondogenito di Eva ebbe l’anima lavata nel pianto della madre, e fu dolce e rispettoso verso i genitori, e devoto al Signore suo, di cui sentiva l’onnipotenza raggiare dai Cieli. Era la gioia della decaduta. Ma il cammino del dolore di Eva doveva esser lungo e doloroso, proporzionato al suo cammino nell’esperienza di peccato. In questo, fremito di sensi. In quello, fremito di spasimi. In questo, baci. In quello, sangue. Da questo, un figlio. Da quello, la morte di un figlio. Del prediletto per la sua bontà. Abele diviene strumento di purificazione per la colpevole. Ma quale dolorosa purificazione! Essa empì dei suoi ululi la Terra esterrefatta per il fratricidio e mescolò le lacrime di una madre al sangue di un figlio, mentre colui che l’aveva sparso, in odio a Dio e al fratello amato da Dio, fuggiva inseguito dal suo rimorso.
10Dice il Signore a Caino: “Perché sei irritato?”. Perché, se tu manchi verso di Me, ti irriti che Io non ti guardi benigno? Quanti Caini sono sulla Terra! Essi mi danno un culto derisore e ipocrita o non me ne danno affatto, e vogliono che Io li guardi con amore e li colmi di felicità. Dio è vostro Re. Non vostro servo. Dio è vostro Padre. Ma un padre non è mai un servo, se si giudica secondo giustizia. Dio è giusto. Voi non lo siete. Ma Egli lo è. E non può certo, poiché vi colma a dismisura dei suoi benefici sol che lo amiate un poco, non darvi i suoi castighi poiché tanto lo schernite. La Giustizia non conosce due vie. Una è la sua via. Tale fate e tale avete. Se siete buoni, avete bene. Se siete malvagi, avete male. E, credetelo, è sempre molto più il bene che avete rispetto al male che dovreste avere per la vostra maniera di vivere in ribellione alla Legge divina.
11È detto da Dio: “Non è vero che se farai bene avrai bene e se farai male il peccato sarà subito alla tua porta?”. Infatti il bene porta ad una costante elevazione spirituale e rende sempre più capaci di compiere un bene sempre più grande, sino ad attingere la perfezione e divenire santi. Mentre basta cedere al male per degradarsi e allontanarsi dalla perfezione, conoscere il dominio del peccato che entra nel cuore e lo fa scendere per gradi a sempre maggiore colpevolezza. “Ma”, dice ancora Dio, “ma sotto di te sarà il desiderio di esso e tu lo devi dominare”. Sì. Dio non vi ha fatto schiavi del peccato. Le passioni sono sotto di voi. Non sopra di voi. Dio vi ha dato intelligenza e forza di dominarvi. Anche ai primi uomini, colpiti dal rigore di Dio, Egli ha lasciato intelligenza e forza morale. Ora, poi, da quando il Redentore ha consumato per voi il Sacrificio, voi avete ad aiuto dell’intelligenza e forza i fiumi della Grazia e potete, e dovete dominare il desiderio del male. Con la vostra volontà fortificata dalla Grazia lo dovete fare. Ecco perché gli angeli della mia Nascita cantarono alla Terra: “Pace agli uomini di buona volontà”. Io ero venuto per riportarvi la Grazia e, mediante il connubio di essa con la vostra buona volontà, sarebbe venuta agli uomini la Pace. La Pace: gloria del Cielo di Dio.
12“E Caino disse al fratello: ‘Andiamo fuori'”. Menzogna che cela sotto un sorriso il tradimento che uccide. La delinquenza è sempre menzognera. Verso le sue vittime e verso il mondo che cerca ingannare. E vorrebbe ingannare anche Dio. Ma Dio legge nei cuori. “Andiamo fuori”. Tanti secoli dopo, uno disse: “Salve, Maestro”, e lo baciò. I due Caini nascosero il delitto sotto un’apparenza innocua e sfogarono l’invidia, l’ira, la prepotenza loro e tutti i malvagi istinti, sulla vittima, perché non avevano dominato se stessi, ma del proprio iocorrotto avevano fatto schiavo lo spirito. Eva sale nell’espiazione. Caino scende verso l’inferno. La disperazione lo prende e ve lo sprofonda. E con la disperazione, ultimo colpo mortale allo spirito già languente per il suo delitto, viene la paura fisica, vile, della punizione umana. Non più essere memore del Cielo, l’uomo dall’anima morta è un animale che trema per la sua vita animale. La morte, il cui aspetto è sorriso per i giusti poiché per essa essi vanno alla gioia del possesso di Dio, è terrore a coloro che sanno che morire vuol dire passare dall’inferno del cuore all’Inferno di Satana in eterno. E come allucinati vedono dovunque vendetta pronta a colpirli.
13Ma sappiate — parlo ai giusti — sappiate che se il rimorso e le tenebre di un cuore colpevole permettono e fomentano le allucinazioni del peccatore, a nessuno è lecito erigersi a giudice del fratello e tanto meno a giustiziere. Uno solo è Giudice: Dio. E se la giustizia dell’uomo ha creato i suoi tribunali, ad essi occorre deferire il compito di amministrare giustizia, e guai a coloro che profanano tal nome e giudicano per aculeo di passione propria o per pressione di potenze umane. Maledizione a chi si fa giustiziere privato di un suo simile! Ma maledizione ancor più grande a chi, senza coefficiente di impulsivo sdegno ma per freddo calcolo umano, manda a morte o a disonore di carcere senza giustizia. Ché, se a colui che uccide chi uccise sarà dato castigo sette volte più grande, come disse il Signore sarebbe avvenuto di chi colpiva Caino, colui che senza giustizia condanna, per asservimento a Satana in veste di Prepotere umano, sarà colpito settantasette volte dal rigore di Dio. Questo occorrerebbe aver sempre presente, e specie in quest’ora, uomini che vi uccidete a vicenda per fare dei caduti la base del vostro trionfo, e non sapete che vi scavate sotto i piedi il trabocchetto in cui precipiterete maledetti da Dio e dagli uomini. Poiché Io ho detto: “Non ucciderai”.
14Eva sale sul suo cammino di espiazione. Il pentimento cresce in lei davanti alle prove del suo peccato. Volle conoscere il bene e il male. E il ricordo del bene perduto le è come il ricordo del sole ad uno subitamente acciecato; e il male le sta davanti nella spoglia del figlio ucciso e intorno per il vuoto lasciato dal figlio omicida e fuggiasco. E nasce Set. E, da Set, Enos. Il primo sacerdote. Voi vi gonfiate la mente dei fumi della vostra scienza e parlate di evoluzione come di un segno della vostra formazione spontanea. L’uomo-animale evolvendosi raggiungerà il superuomo. Dite così. Sì. Così è. Ma a modo mio. Nel campo mio. Non nel vostro. Non passando dalla sorte di quadrumani a quella di uomini. Ma passando da quella di uomini a quella di spiriti. Tanto più crescerà lo spirito e tanto più vi evolverete. Voi che parlate di glandole, e vi empite la bocca parlando di ipofisi o pineale, e mettete in essa la sede della vita, presa non nel tempo che la vivete ma nei tempi che hanno preceduto e che susseguiranno la vostra vita attuale, sappiate che la vera ghiandola vostra, quella che fa di voi i possessori eterni della Vita, è lo spirito vostro. Più questo sarà sviluppato e più possederete le luci divine e vi evolverete da uomini a dèi, immortali dèi, ottenendo così, senza contravvenire al desiderio di Dio, al suo comando circa l’albero di Vita, di possedere questa Vita proprio come Dio vuole la possediate, poiché Egli per voi l’ha creata eterna e fulgida, abbraccio beatifico con la sua eternità che vi assorbe in sé e vi comunica le sue proprietà. Più lo spirito sarà evoluto e più conoscerete Dio.
15Conoscere Dio vuol dire amarlo e servirlo, e perciò esser capaci di invocarlo per sé e per gli altri. Divenire perciò i sacerdoti che dalla Terra pregano per i fratelli. Poiché è sacerdote il consacrato. Ma lo è anche il credente convinto, amoroso, fedele. Lo è soprattutto l’anima vittima che immola se stessa per impulso di carità. Non è l’abito, ma l’animo quello che Dio osserva. E in verità vi dico che, agli occhi miei, appaiono molti tonsurati che di sacerdotale non hanno che la tonsura e molti laici nei quali la Carità, che li possiede e dalla quale si lasciano consumare, è Olio dell’ordinazione che fa di essi i miei sacerdoti, ignoti al mondo ma noti a Me che li benedico».
Cap. DCVII. Giovanni va a prendere la Madre.
1 Ore 10,30 del Venerdì Santo 1944 (7-4-44). Ora che il mio interno ammonitore mi dice esser quella in cui Giovanni andò da Maria. Vedo il prediletto ancor più pallido di quando era nel cortile di Caifa insieme a Pietro. Forse perché là la luce del fuoco acceso gli dava un riflesso caldo alle guance. Ora appare scavato come da una grave malattia ed esangue. Il suo viso emerge dalla tunica lilla come quello di un annegato, tanto è di un pallore livido. Anche gli occhi sono offuscati, i capelli opachi e spettinati, la barba, spuntata in quelle ore, gli mette un velo chiaro sulle guance e il mento e le fa apparire, biondo-chiara come è, ancor più pallide. Non ha più nulla del dolce, ilare Giovanni, né dell’inquieto Giovanni che poco prima, con una vampa di sdegno sul volto, a fatica si è contenuto dal malmenare Giuda.
Bussa alla porta della casa e, come se dall’interno qualcuno, timoroso di ritrovarsi di fronte Giuda, chiedesse chi è che picchia, risponde: «Sono Giovanni». L’uscio si apre ed egli entra. Va anche lui subito nel cenacolo, non rispondendo alla padrona che gli chiede: «Ma che avviene in città?». Si chiude dentro e cade in ginocchio contro al sedile su cui era Gesù e piange chiamandolo con dolore. Bacia la tovaglia nel posto dove il Maestro tenne congiunte le mani, carezza il calice che fu tra le sue dita… Poi dice: «Oh! Dio altissimo, aiutami! Aiutami a dirlo alla Madre! Io non ho cuore!… Eppure devo dirlo. Io devo dirlo, poiché sono rimasto solo!». Si alza e pensa. Tocca ancora il calice come per attingere forza da quell’oggetto toccato dal Maestro. Si guarda intorno… Vede, ancora nel suo angolo dove Gesù l’ha posto, il purificatoio usato dal Maestro per asciugarsi le mani dopo la lavanda e l’altro che si era cinto alla vita. Li prende, li piega e li carezza e bacia. Resta ancora perplesso, ritto in mezzo alla stanza vuota. Dice: «Andiamo!», ma non si muove verso la porta. Anzi torna al tavolo e prende il calice e il pane spezzato in un angolo da Gesù per staccarne il boccone da dare a Giuda, intinto. Li bacia e, insieme ai due purificatoi, li prende e se li tiene stretti contro al cuore come una reliquia. Ripete: «Andiamo!», e sospira. Cammina verso la scaletta e la sale a spalle curve e a passi riluttanti e strascicati. Apre, esce.
2 «Giovanni, sei venuto?». Maria è riapparsa sulla porta della sua stanza, sorreggendosi allo stipite come se non avesse forza di star ritta da sola. Giovanni alza il capo e la guarda. Vorrebbe parlare e apre la bocca. Ma non riesce. Due lacrimoni gli rotolano giù dalle guance. Curva il capo, vergognoso della sua debolezza. «Vieni qui, Giovanni. Non piangere. Tu non devi piangere. Tu lo hai sempre amato e fatto felice. Ciò ti conforti». Queste parole aprono le dighe al pianto di Giovanni, che diviene tanto alto e fragoroso da fare affacciare la padrona, Maria Maddalena, la moglie di Zebedeo e le altre… «Vieni da me, Giovanni». Maria si stacca dallo stipite e prende per un polso il discepolo, e lo trascina dentro alla stanza come fosse un bambino, e chiude la porta piano, per isolarsi con lui. Giovanni non reagisce. Ma, quando si sente posare sul capo la mano tremante di Maria, cade in ginocchio posando al suolo gli oggetti che aveva contro il cuore e, viso contro il suolo, tenendo un lembo della veste di Maria premuto sul suo viso convulso, singhiozza: «Perdono! Perdono! Madre, perdono!». Maria, ritta e ambasciata, con una mano sul cuore e l’altra pendente lungo il fianco, con una voce di strazio dice: «Che ti devo perdonare, povero figliuolo? Che? A te!». Giovanni alza il volto, mostrandolo così come è, senza più traccia di orgoglio maschile, il volto di un povero bambino piangente, e grida: «Di averlo abbandonato! Di esser fuggito! Di non averlo difeso! Oh! Maestro mio! O Maestro, perdono! Dovevo morire prima di lasciarti! Madre, Madre, chi mi leverà più questo rimorso?». «Pace, Giovanni. Egli ti perdona, ti ha già perdonato. Non ha mai tenuto conto del tuo smarrimento. Ti ama». Maria parla con soste fra le brevi frasi, come presa da affanno, tenendo una mano sul capo di Giovanni e una sul suo povero cuore che palpita d’angoscia. «Ma io non l’ho saputo capire neanche ieri sera… e ho dormito mentre Egli chiedeva il conforto del nostro vegliare. Solo l’ho lasciato, il mio Gesù! E poi sono scappato quando quel maledetto è venuto coi manigoldi…». «Giovanni, non maledire. Non odiare, Giovanni. Lascia al Padre il giudizio di farlo.
3 Ascolta: dove è Egli, ora?». Giovanni torna a cadere faccia a terra, piangendo più forte. «Rispondi, Giovanni. Dove è mio Figlio?». «Madre… io… Madre, è… Madre…». «È condannato, lo so. Ti chiedo: dove è in questo momento». «Ho fatto tutto il possibile perché mi vedesse… ho cercato di ricorrere a chi è potente per ottenere pietà, per farlo… per farlo soffrire meno. Non gli hanno fatto molto male…». «Non mentire, Giovanni. Neppure per pietà di una madre. Non ci riusciresti. E sarebbe inutile. Io so. Da ieri sera l’ho seguito nel suo dolore. Tu non le vedi. Ma le mie carni sono contuse dai suoi stessi flagelli, ma alla mia fronte stanno le spine, ho sentito le percosse… tutto. Ma ora… non vedo più. Ora ignoro dove è il mio Figlio condannato alla croce!… alla croce!… alla croce!… Oh! Dio, dammi forza! Egli mi deve vedere. Non devo sentire il mio dolore finché Egli sente il suo. Quando poi sarà… finito tutto, fàmmi morire allora, o Dio, se vuoi. Ora no. Per Lui no. Perché mi veda.
4 Andiamo, Giovanni. Dove è Gesù?». «Parte dalla casa di Pilato. Questo clamore è la turba che grida intorno a Lui, legato, sugli scalini del Pretorio, in attesa della croce o già camminante verso il Golgota». «Avverti tua madre, Giovanni, e le altre donne. E andiamo. Prendi quel calice, quel pane, quei lini… Mettili qui. Ci saranno di conforto… poi… e andiamo». Giovanni raccoglie gli oggetti rimasti al suolo ed esce per chiamare le donne. E Maria lo attende, passandosi sul viso quei lini come per ritrovare su essi la carezza della mano del Figlio, e bacia il calice e il pane, e mette tutto su una scansia. E si ammanta ben stretta nel suo manto calandolo fin sugli occhi, al di sopra del velo che le fascia il capo e le si attorciglia al collo. Non piange. Ma trema. E pare che l’aria le manchi tanto ansa a bocca aperta. Giovanni rientra seguito dalle donne piangenti. «Figlie! Tacete! Aiutatemi a non piangere! Andiamo». E si appoggia a Giovanni, che la guida e sorregge come fosse una cieca. La visione cessa così. Sono le 12,30 di ora, ossia le 11,30 dell’ora solare.
Cap. DCVIII. La via dolorosa dal Pretorio al Calvario.
26 marzo 1945.
1 Passa qualche tempo così, non più di una mezz’ora, forse anche meno. Poi Longino, incaricato di presiedere all’esecuzione, dà i suoi ordini. Ma prima che Gesù sia condotto fuori, nella via, per ricevere la croce e mettersi in moto, Longino, che lo ha guardato due o tre volte, con una curiosità che si tinge già di compassione e con l’occhio pratico di chi non è nuovo a certe cose, si accosta a Gesù con un soldato e gli offre un ristoro: una coppa di vino, credo. Perché mesce da una vera borraccia militare un liquido di un biondo-roseo chiaro. «Ti farà bene. Devi avere sete. E fuori c’è sole. E lunga è la via». Ma Gesù risponde: «Dio ti compensi della tua pietà. Ma non te ne privare». «Ma io sono sano e forte… Tu… Non mi privo… E poi… volentieri lo farei, se fosse, per darti un conforto… Un sorso… per mostrarmi che non odi i pagani». Gesù non ricusa più e beve un sorso della bevanda. Ha le mani già slegate, come non ha più canna né clamide, e lo può fare da Sé. E poi rifiuta, nonostante la bevanda fresca e buona dovrebbe essere di un grande ristoro alla febbre che già si manifesta nelle striature rosse che si accendono sulle sue guance pallide e nelle labbra asciutte, screpolate. «Prendi, prendi. È acqua e miele. Sostiene. Disseta… Mi fai pietà… sì… pietà… Non eri Tu da uccidere fra gli ebrei… Mah!… Io non ti odio… e cercherò di farti soffrire solo il necessario». Ma Gesù non torna a bere… Ha veramente sete… La tremenda sete degli svenati e dei febbrili… Sa che non è bevanda narcotizzata e berrebbe volentieri. Ma non vuole soffrire meno. Ma io comprendo, come comprendo questo che dico per luce interna, che ancora più che l’acqua melata gli è di ristoro la pietà del romano. «Dio ti renda in benedizione questo sollievo», dice poi. E ha ancora un sorriso… uno straziante sorriso con la bocca enfiata, ferita, che si piega a fatica, anche perché fra il naso e lo zigomo destro sta enfiando fortemente la forte contusione della bastonata presa nel cortile interno dopo la flagellazione.
2 Sopraggiungono i due ladroni, inquadrati da una decuria per uno di armati. È l’ora di andare. Longino dà gli ultimi ordini. Una centuria si dispone in due file distanti un tre metri l’una dall’altra ed esce così nella piazza, su cui un’altra centuria ha formato un quadrato per respingere la folla acciò non ostacoli il corteo. Sulla piazzetta sono già degli uomini a cavallo: una decuria di cavalleria con un giovane graduato che la comanda e con le insegne. Un soldato a piedi tiene per la briglia il morello del centurione. Longino monta in sella e va al suo posto, davanti un due metri dagli undici a cavallo. Portano le croci. Quelle dei due ladroni sono più corte. Quella di Gesù molto più lunga. Io dico che l’asta verticale non lo è meno di un quattro metri. Io la vedo portata già formata. Ho letto su questo, quando leggevo… ossia anni fa, che la croce fu composta sulla cima del Golgota e che lungo il cammino i condannati portavano solo i due pali a fascio sulle spalle. Tutto può essere. Ma io vedo una vera croce, ben contesta, solida, perfettamente incastrata nell’incrocio dei due bracci e ben rinforzata con chiodi e bulloni negli stessi. E infatti, se si pensa che era destinata a sostenere un peso non indifferente, quale è il corpo di un adulto, e sostenerlo anche nelle convulsioni finali, non indifferenti, si comprende che non poteva essere fabbricata lì per lì sulla stretta e scomoda cima del Calvario. Prima di dare la croce a Gesù, gli passano al collo la tavola con la scritta Gesù Nazzareno Re dei Giudei. E la fune che la sostiene si impiglia nella corona, che si sposta e sgraffia dove non è già sgraffiato e penetra in nuovi posti dando nuovo dolore e facendo sgorgare nuovo sangue. La gente ride di sadica gioia, insulta, bestemmia. Ora sono pronti. E Longino dà l’ordine di marcia. «Per primo il Nazzareno, dietro i due ladroni; una decuria intorno ad ognuno, le altre sette decurie a fare da ala e rinforzo, e sarà responsabile il soldato che fa ferire a morte i condannati».
3 Gesù scende i tre scalini che dal vestibolo portano sulla piazza. E appare subito evidente che Gesù è in condizioni di forte debolezza. Vacilla nello scendere i tre scalini, impicciato dalla croce che preme sulla spalla tutta piagata, dalla tabella della scritta che ballonzola sul davanti e sega sul collo, dagli ondeggiamenti che imprime al corpo la lunga asta della croce, che sobbalza sugli scalini e sulle asperità del suolo. I giudei ridono, nel vederlo come ubbriaco tentennare, e gridano ai soldati: «Urtatelo. Fatelo cadere. Nella polvere il bestemmiatore!». Ma i soldati fanno soltanto ciò che devono, ossia ordinano al Condannato di mettersi in mezzo alla via e di camminare. Longino sprona il cavallo, e il corteo si mette in moto lentamente. E Longino vorrebbe anche fare presto, prendendo la via più breve per andare al Golgota, perché non è sicuro della resistenza del Condannato. Ma la teppa scatenata, e chiamarla teppa è ancora un onore, non vuole così. Quelli che sono stati più furbi sono già corsi in avanti, al bivio dove la strada si biforca per andare da una parte verso le mura, dall’altra verso la città, e tumultuano, urlando, quando vedono che Longino tenta pigliare quella delle mura. «Non devi! Non devi! È illegale! La Legge dice che i condannati devono essere visti dalla città dove peccarono!». I giudei in coda al corteo comprendono che là davanti si tenta defraudarli di un diritto e uniscono le loro urla a quelle dei colleghi. Per amor di pace, Longino piega per la via che va verso la città e ne fa un pezzo. Ma fa anche cenno ad un decurione di venirgli accosto (dico decurione perché è il graduato, ma forse è quello che noi diremmo il suo ufficiale di ordinanza) e gli dice qualche cosa piano. Costui torna indietro al trotto e, man mano che raggiunge ogni capo decuria, trasmette l’ordine. Poi ritorna presso Longino a riferire che è fatto. E infine raggiunge il posto di prima, nella fila dietro a Longino.
4 Gesù procede ansando. Ogni buca della via è un tranello per il suo piede vacillante e una tortura per le sue spalle impiagate, per il suo capo coronato di spine su cui scende a perpendicolo un sole esageratamente caldo, che ogni tanto si nasconde dietro un tendone plumbeo di nubi. Ma che, anche se nascosto, non cessa di ardere. Gesù è congestionato dalla fatica, dalla febbre e dal caldo. Penso che anche la luce e gli urli gli debbano dare tormento. E, se non può tapparsi gli orecchi per non sentire quei gridi sgangherati, socchiude gli occhi per non vedere la strada abbacinante di sole… Ma li deve anche riaprire perché inciampa in sassi e buche, e ogni inciampone è dolore perché smuove bruscamente la croce che urta sulla corona, che si sposta sulla spalla piagata e allarga la piaga e accresce il dolore. I giudei non possono più colpirlo direttamente. Ma ancora qualche sasso arriva e qualche bastonata. Il primo, specie nelle piazzette piene di folla. Le seconde, invece, nelle svolte, per le stradette tutte a scalini che salgono e scendono, ora uno, ora tre, ora più, per i continui dislivelli della città. Lì, per forza, il corteo rallenta, e c’è sempre qualche volonteroso (!) che sfida le lance romane pur di dare un nuovo tocco al capolavoro di tortura che è ormai Gesù. I soldati lo difendono come possono. Ma anche per difenderlo lo colpiscono, perché le lunghe aste delle lance, brandite in così poco spazio, lo urtano e lo fanno incespicare. Ma, giunti ad un certo punto, i soldati fanno una manovra impeccabile e, nonostante gli urli e le minacce, il corteo devia bruscamente per una via che va diretta verso le mura, in discesa, una via che abbrevia molto l’andare verso il luogo del supplizio. Gesù ansa sempre più. Il sudore gli riga il volto insieme al sangue che gli geme dalle ferite della corona di spine. La polvere si appiccica a questo volto bagnato e lo fa maculato di macchie strane. Perché vi è anche vento, ora. Delle folate sincopate a lunghi intervalli, in cui ricade la polvere che la folata ha alzata in vortici, che portano detriti negli occhi e nelle fauci. Alla porta Giudiziaria sono già ammucchiate persone e persone. Quelli che, previdenti, si sono per tempo scelti un buon posto per vedere. Ma, poco prima di giungere ad essa, Gesù dà già segno di cadere. Solo il pronto intervento di un soldato, sul quale Egli quasi va a cadere, impedisce che Gesù vada per terra. La gentaglia ride e urla: «Lascialo! Diceva a tutti: “Sorgete”. Sorga Lui, ora…». Oltre la porta è un torrentello e un ponticello. Nuova fatica per Gesù andare su quelle tavole sconnesse, sulle quali rimbalza ancor più fortemente la lunga asta della croce. E nuova miniera di proiettili per i giudei. Volano i sassi del torrente e colpiscono il povero Martire…
5 Ha inizio la salita del Calvario. Una via nuda, senza un filo d’ombra, selciata a pietre sconnesse, che attacca direttamente la salita. Anche qui, quando leggevo, ho letto che il Calvario era alto pochi metri. Sarà. Non è certo un monte. Ma un colle lo è, e non certo più basso di quello che è, rispetto ai Lungarni, il monte alle Croci, là dove è la basilica di S. Miniato, a Firenze. Qualcuno dirà: «Oh! poca cosa!». Sì, per uno sano e forte è poca cosa. Ma basta avere il cuore debole per sentire se è poca o tanta!… Io so che, dopo che mi si ammalò il cuore, anche se ancora in forma benigna, non potevo più fare quella salita senza soffrirne molto e dovendo sostare ad ogni poco, e non avevo pesi sulle spalle. E Gesù credo che avesse il cuore molto male a posto dopo la flagellazione e il sudore sanguigno… e non contemplo altro che queste due cose. Gesù soffre perciò acutamente nel salire e col peso della croce che, così lunga come è, deve anche pesare molto. Trova una pietra sporgente e siccome, sfinito come è, alza ben poco il piede, inciampa e cade sul ginocchio destro, riuscendo però a sorreggersi con la mano sinistra. La gente urla di gioia… Si rialza. Procede. Sempre più curvo e ansante, congestionato, febbrile… Il cartello che gli ballonzola davanti gli ostacola la vista; la veste lunga che, ora che Lui va curvo, strascica per terra sul davanti, gli ostacola il passo. Inciampa di nuovo e cade sui due ginocchi, ferendosi di nuovo dove è già ferito; e la croce che gli sfugge di mano e cade, dopo averlo percosso fortemente sulla schiena, lo obbliga a chinarsi a rialzarla ed a faticare per porsela sulle spalle di nuovo. Mentre fa questo, appare nettamente visibile sulla spalla destra la piaga fatta dallo sfregamento della croce, che ha aperto le molte piaghe dei flagelli e le ha unificate in una sola che trasuda siero e sangue, di modo che la tunica bianca è in quel luogo tutta macchiata. La gente ha persino degli applausi per la gioia di vederlo cadere così male… Longino incita a spicciarsi, e i soldati, con colpi di piatto dati con le daghe, sollecitano il povero Gesù a procedere. Si riprende il cammino con una lentezza sempre maggiore, nonostante ogni sollecitazione. Gesù sembra tutt’affatto ebbro, tanto va barcollando, urtando or l’una or l’altra delle file dei soldati, tenendo tutta la via. E la gente lo nota e urla: «Gli è andata al capo la sua dottrina. Ve’, ve’ come traballa!». E altri, e non sono popolo questi, ma sacerdoti e scribi, sogghignano: «No. Sono i festini in casa di Lazzaro che ancora fanno fumo. Erano buoni? Ora mangia il nostro cibo…», e simili altre frasi.
6 Longino, che si volta ogni tanto, ha pietà e ordina una sosta di qualche minuto. Ed è insultato tanto dalla plebaglia che il centurione ordina alle milizie di caricare. E la folla vile, davanti alle lance che luccicano e minacciano, si allontana urlando e gettandosi qua e là giù per il monte. È qui che rivedo, fra i pochi rimasti, emergere da dietro una maceria, forse di qualche muretto franato, il gruppetto dei pastori. Desolati, stravolti, polverosi, stracciati, essi chiamano a loro, con la forza degli sguardi, il loro Maestro. Ed Egli gira il capo, li vede… li fissa come fossero volti di angeli, pare dissetarsi e fortificarsi col loro pianto, e sorride… Viene ridato l’ordine di marcia e Gesù passa proprio davanti a loro e ne ode il pianto angoscioso. Torce a fatica il capo da sotto il giogo della croce e ha un nuovo sorriso… I suoi conforti… Dieci volti… una sosta sotto al cocente sole… E poi subito il dolore della terza completa caduta. E questa volta non è che inciampi. Ma è che cade per subita flessione delle forze, per sincope. Va lungo disteso, battendo il volto sulle pietre sconnesse, rimanendo nella polvere sotto la croce che gli si piega addosso. I soldati cercano rialzarlo. Ma, poiché pare morto, vanno a riferire al centurione. Mentre vanno e vengono, Gesù rinviene, e lentamente, con l’aiuto di due soldati, di cui uno rialza la croce e l’altro aiuta il Condannato a porsi in piedi, si rimette al suo posto. Ma è proprio sfinito. «Fate che non muoia che sulla croce!», urla la folla. «Se lo fate morire avanti, ne risponderete al Proconsole, ricordatelo. Il reo deve giungere vivo al supplizio», dicono i capi degli scribi ai soldati. Questi li fulminano con sguardi feroci, ma per disciplina non parlano.
7 Longino, però, ha la stessa paura dei giudei che il Cristo muoia per via, e non vuole noie. Senza bisogno che nessuno glielo ricordi, sa quale è il suo dovere di preposto alla esecuzione, e provvede. Provvede disorientando i giudei che sono già corsi avanti per la via, raggiunta da tutte le parti del monte, sudando, graffiandosi per passare fra i rari e spinosi cespugli del monte brullo e arso, cadendo sulle macerie che lo ingombrano come fosse un luogo di sbratto per Gerusalemme, senza sentire altra pena fuorché quella di perdere un ansito del Martire, un suo sguardo di dolore, un atto anche involontario di sofferenza, e senza altra paura che non sia quella di non giungere ad avere un buon posto. Longino dà, dunque, ordine di prendere la via più lunga, che sale a spirale lungo il monte e che perciò è molto meno ripida. Sembra questa un sentiero che a forza di essere percorso si sia mutato in via abbastanza comoda. Questo incrocio di una via con l’altra avviene ad una metà circa del monte. Ma vedo che più su, per quattro volte, la strada diretta viene tagliata da questa, che va su con molto meno pendenza e molto più lunghezza in compenso. E su questa strada sono persone che salgono, ma che non partecipano all’indegna gazzarra degli ossessi che seguono Gesù per godere dei suoi tormenti. Donne, per la più parte, e piangenti e velate, e qualche gruppetto di uomini, molto sparuto in verità, che, più avanti di molto delle donne, sta per scomparire alla vista quando, nel proseguire, la strada gira il monte. Qui il Calvario ha una specie di punta nella sua bizzarra struttura, fatta a muso da una parte, mentre dall’altra scoscende. Cercherò dargliene un’idea del suo aspetto preso di profilo. Ma bisogna che volti il foglio, perché qui mi viene male per mancanza di spazio.
Gli uomini scompaiono dietro la punta sassosa e li perdo di vista.
8 La gente che seguiva Gesù urla di rabbia. Era più bello, per essa, vederlo cadere. Con oscene imprecazioni al Condannato e a chi lo conduce, si dà in parte a seguire il corteo giudiziario e parte prosegue quasi di corsa su per la via ripida, per rifarsi, con un ottimo posto sulla vetta, della delusione avuta. Le donne che vanno piangendo, e sono al punto che segno con la lettera D, si volgono nel sentire gli urli e vedono che il corteo piega per quella parte. Si fermano, allora, addossandosi al monte, per tema di essere gettate giù dalla china dai violenti giudei. Calano ancor più i loro veli sul volto. E vi è chi è completamente velata come una mussulmana, lasciando liberi solo gli occhi nerissimi. Sono vestite molto riccamente ed hanno, a difesa, un vecchio robusto che, tutto ammantellato come è, non distinguo nel volto. Ne vedo solo la barba lunga, e più bianca che nera, sporgere dal mantellone scurissimo. Quando Gesù giunge alla loro altezza, esse hanno un pianto più alto e si curvano in profondo saluto. Poi si fanno risolutamente avanti. I soldati vorrebbero respingerle con le aste. Ma quella tutta coperta come una mussulmana scosta per un attimo il velo all’alfiere, sopraggiunto a cavallo per vedere che è questo nuovo intoppo, e questo dà ordine di farla passare. Non posso vedere né il volto, né il vestito, perché lo spostamento del velo è fatto con rapidità di lampo e l’abito è tutto nascosto in un mantello lungo fino a terra, pesante, chiuso completamente da una serie di fibbie. La mano, che per un attimo esce da là sotto per spostare il velo, è bianca e bella. Ed è, con gli occhi nerissimi, l’unica cosa che si veda di questa alta matrona, certo influente se è così ubbidita dall’aiutante di Longino.
9 Si accostano a Gesù piangendo e si inginocchiano ai suoi piedi mentre Egli si ferma ansante… e pure sa ancora sorridere a quelle pietose e all’uomo che le scorta, che si scopre per mostrare che è Gionata. Ma questo le guardie non lo fanno passare. Solo le donne. Una è Giovanna di Cusa. Ed è più disfatta di quando era morente. Di rosso non ha che le righe del pianto, e poi è tutta una faccia di neve con i dolci occhi neri che, così offuscati come sono, sembrano divenuti di un viola scurissimo come certi fiori. Ha in mano un’anfora d’argento e l’offre a Gesù. Ma Egli ricusa. D’altronde, è tanto il suo affanno che non potrebbe neppur bere. Con la mano sinistra si asciuga il sudore e il sangue che gli cade negli occhi e che, scorrendo lungo le guance paonazze e il collo, dalle vene turgide nel battito affannoso del cuore, bagna tutta la veste sul petto. Un’altra donna, che ha presso una fanciulla servente con uno scrignetto fra le braccia, apre lo scrignetto, ne trae un lino finissimo, quadrato, e lo offre al Redentore. Questo lo accetta. E poiché non può con una mano sola fare da Sé, la pietosa lo aiuta, badando di non urtargli la corona, a posarselo sul volto. E Gesù preme il fresco lino sulla sua povera faccia e ve lo tiene, come ne trovasse un grande ristoro. Poi rende il lino e parla: «Grazie Giovanna, grazie Niche,… Sara,… Marcella,… Elisa,… Lidia,… Anna,… Valeria,… e tu… Ma… non piangete… su Me… figlie di… Gerusalemme… Ma sui peccati… vostri e su quelli… della vostra città… Benedici… Giovanna… di non avere… più figli… Vedi… è pietà di Dio… non… non avere figli… perché… soffrano di… questo. E anche… tu, Elisabetta… Meglio… come fu… che fra i deicidi… E voi… madri… piangete sui… figli vostri, perché… quest’ora non passerà… senza castigo… E che castigo, se così è per… l’Innocente… Piangerete allora… di avere concepito… allattato e di… avere ancora… i figli… Le madri… di allora… piangeranno perché… in verità vi dico… che sarà fortunato… chi allora… cadrà… sotto le macerie… per primo. Vi benedico… Andate… a casa… pregate… per Me. Addio, Gionata… conducile via…». E fra un alto clamore di pianto femminile e di imprecazioni giudee Gesù si rimette in moto.
10Gesù è di nuovo tutto bagnato di sudore. Sudano anche i soldati e gli altri due condannati, perché il sole di questo giorno temporalesco è scottante come fiamma e il fianco del monte, arroventato di suo, aumenta il calore solare. Cosa deve essere questo sole sulla veste di lana di Gesù, posta sulle ferite dei flagelli, è facile pensare e inorridire… Ma Egli non ha mai un lamento. Soltanto, nonostante la via sia molto meno ripida e non abbia quelle pietre sconnesse dell’altra, così pericolose al suo piede che ormai è strascicante, Gesù barcolla sempre più forte, tornando ad urtare da una fila all’altra dei soldati e piegando sempre più verso terra. Pensano di risolvere la cosa in bene passandogli una fune alla cintura e tenendolo per due capi come fossero redini. Sì. Questo lo sostiene. Ma non lo solleva dal peso. Anzi la fune, urtando nella croce, la fa spostare continuamente sulla spalla e picchiare nella corona, che ormai ha fatto della fronte di Gesù un tatuaggio sanguinante. Inoltre, la fune sfrega alla cintura dove sono tante ferite, e certo le deve rompere di nuovo, tanto che la tunica bianca si colora alla vita di un rosso pallido. Per aiutarlo, lo fanno soffrire più ancora. 11La strada prosegue. Gira il monte, torna quasi sul davanti, verso la strada erta. Qui, nel posto che segno con la lettera M, è Maria con Giovanni. Direi che Giovanni l’ha portata in quel posto ombroso, dietro la china del monte, per darle un poco di ristoro. È la parte più scoscesa del monte. Non vi è che quella via che la costeggia. Sopra e sotto la costa scoscende o si inerpica ripida, e perciò è trascurata dai crudeli. Lì è ombra, perché direi che è il settentrione, e Maria, addossata come è al monte, è riparata dal sole. Sta appoggiata al terriccio. In piedi, ma già esausta, Ella pure ansante, pallida come una morta nel suo abito blu scurissimo, quasi nero. Giovanni la guarda con pietà desolata. Anche egli ha perduto ogni traccia di colore ed è terreo, con due occhi stanchi e sbarrati, spettinato, dalle gote incavate come per malattia. Le altre donne — Maria e Marta di Lazzaro, Maria d’Alfeo e di Zebedeo, Susanna di Cana, la padrona di casa e altre ancora che non conosco — tutte sono in mezzo alla via e guardano se viene il Salvatore. E, visto giungere Longino, accorrono presso Maria a dare la notizia. E Maria, sorretta per un gomito da Giovanni, si stacca, maestosa nel suo dolore, dalla costa del monte e si pone risolutamente in mezzo alla strada, scansandosi solo per il sopraggiungere di Longino, che dall’alto del suo morello guarda la pallida Donna e il suo accompagnatore biondo, pallido, dai miti occhi di cielo come Lei. E crolla il capo, Longino, mentre la supera seguito dagli undici a cavallo. Maria cerca passare fra i soldati appiedati. Ma questi, che hanno caldo e fretta, cercano respingerla con le aste, molto più che dalla via selciata volano sassi per protesta contro tante pietà. Sono i giudei, che ancora imprecano per la sosta causata dalle pie donne e dicono: «Presto! Domani è Pasqua. Bisogna finire tutto entro sera! Complici! Derisori della nostra Legge! Oppressori! A morte gli invasori e il loro Cristo! Lo amano! Veh! come lo amano! Ma prendetelo! Mettetelo nel vostro maledetto Urbe! Ve lo cediamo! Non lo vogliamo! Le carogne alle carogne! La lebbre ai lebbrosi!».
12Longino si stanca e sprona il cavallo, seguito dai dieci lancieri, contro la canea insultante, che fugge una seconda volta. Ed è nel fare questo che vede fermo un carretto, certo salito lì dalle ortaglie che sono ai piedi del monte, e che attende col suo carico di insalate che la turba sia passata per scendere verso la città. Penso che un poco di curiosità nel Cireneo e nei suoi figli lo abbia fatto salire fin lì, perché non era proprio necessario per lui di farlo. I due figli, sdraiati sull’alto del mucchio verdolino delle verdure, guardano e ridono dietro i giudei fuggenti. L’uomo invece, un robustissimo uomo sui quaranta-cinquant’anni, ritto presso il ciuchino che spaventato cerca di rinculare, guarda attentamente verso il corteo. Longino lo squadra. Pensa gli possa far comodo e ordina: «Uomo, vieni qui». Il Cireneo finge di non sentire. Ma con Longino non si scherza. Ripete l’ordine in un modo tale che l’uomo getta la redine ad un figlio e viene vicino al centurione. «Vedi quell’uomo?», chiede. E nel dire così si volge per indicare Gesù e vede a sua volta Maria, che supplica i soldati di farla passare. Ne ha pietà e urla: «Fate passare la Donna». Poi torna a parlare al Cireneo: «Non può più procedere così carico. Tu sei forte. Prendi la sua croce e portala per Lui sino alla cima». «Non posso… Ho l’asino… è riottoso… i ragazzi non sanno tenerlo…». Ma Longino dice: «Vai, se non vuoi perdere l’asino e acquistare venti colpi di castigo». Il Cireneo non osa più reagire. Urla ai ragazzi: «Andate a casa e presto. E dite che vengo subito», e poi va da Gesù.
13Lo raggiunge proprio mentre Gesù si volge verso la Madre, che solo ora vede venire verso di Lui, perché procede così curvo e ad occhi quasi chiusi che è come fosse cieco, e grida: «Mamma!». È la prima parola, da quando è torturato, che esprima il suo soffrire. Perché in quel grido c’è la confessione di tutto e ogni suo tremendo dolore di spirito, di morale e di carne. È il grido straziato e straziante di un bambino che muore solo, fra aguzzini, fra le peggiori torture… e che giunge ad avere paura anche del suo proprio respiro. È il lamento di un fanciullo delirante che è straziato da visioni d’incubo… E vuole la mamma, la mamma, perché solo il suo bacio fresco calma l’ardore della febbre, la sua voce fuga i fantasmi, il suo abbraccio fa meno paurosa la morte… Maria si porta la mano al cuore, come ne avesse una pugnalata, e ha un lieve vacillamento. Ma si riprende, affretta il passo e, mentre va a braccia tese verso la sua Creatura straziata, grida: «Figlio!». Ma lo dice in maniera tale che chi non ha cuore di iena se lo sente fendere per quel dolore. Vedo che anche fra i romani vi è un moto di pietà… eppure sono uomini d’arme, non nuovi alle uccisioni, segnati da cicatrici… Ma la parola «Mamma!» e «Figlio!» sono sempre quelle, e per tutti coloro che, ripeto, non sono peggio delle iene, e sono dette e comprese dovunque, e dovunque sollevano onde di pietà… Il Cireneo ha questa pietà… E poiché vede che Maria non può abbracciare il suo Figlio per via della croce e, dopo avere teso le braccia, le lascia ricadere, persuasa di non poterlo fare — e lo guarda soltanto, volendo sorridere del suo martire sorriso per rincuorarlo, mentre le labbra tremanti bevono il pianto, e Lui, torcendo il capo da sotto il giogo della croce, cerca a sua volta di sorriderle e di inviarle un bacio con le povere labbra ferite e spaccate dalle percosse e dalla febbre — si affretta a levare la croce, e lo fa con delicatezza di padre, per non urtare la corona o strofinare sulle piaghe. Ma Maria non può baciare la sua Creatura… Anche il tocco più lieve sarebbe tortura sulle carni lacerate, e Maria se ne astiene, e poi… i sentimenti più santi hanno un pudore profondo. E vogliono rispetto o almeno compassione. Qui è curiosità e soprattutto scherno. Si baciano solo le due anime angosciate.
14Il corteo, che si rimette in moto sotto la spinta delle ondate di popolo furente che preme dal fondo, li divide, respingendo la Madre contro il monte, allo scherno di tutto un popolo… Ora dietro a Gesù è il Cireneo con la croce. E Gesù, libero di quel peso, procede meglio. Ansa fortemente, si porta sovente la mano al cuore, come avesse un grande dolore, una ferita lì, alla regione sterno-cardiaca, e ora che può, non avendo più le mani legate, si respinge i capelli caduti in avanti, tutti collosi di sangue e sudore, fin dietro le orecchie, per sentire aria sul volto cianotico, si slaccia il cordone del collo, per la sofferenza del respiro… Ma può camminare meglio. Maria si è ritirata con le donne. Si accoda al corteo quando è passato e poi, per una scorciatoia, si dirige alla vetta del monte, sfidando gli improperi della plebe cannibalesca. Ora che Gesù è libero, si compie abbastanza presto l’ultimo anello del monte, e già si è prossimi alla cima tutta piena di popolo urlante. Longino si ferma e dà ordine che tutti, inesorabilmente, siano respinti più in basso, perché la cima, luogo di esecuzione, sia libera. E metà centuria eseguisce l’ordine, accorrendo sul posto e respingendo senza pietà chiunque là si trova, usando daghe e aste per questo. Sotto la grandine delle piattonate e delle bastonate, i giudei della cima fuggono. E vorrebbero collocarsi nella sottostante spianata. Ma quelli che già sono in essa non cedono, e fra la gente si accendono risse feroci. Sembrano tutti pazzi.
15Come le ho detto lo scorso anno, il Calvario, nella sua cima, ha la forma di un trapezio irregolare, lievemente più alto nel lato A, dopo il quale il monte scoscende ripido per oltre metà della sua altezza. Su questa piazzuola sono già pronti tre buchi profondi, tappezzati di mattoni o lavagne, costruiti apposta, insomma. Vicino ad essi sono pietre e terra pronte per rincalzare le croci. Altri buchi invece sono stati lasciati pieni di pietre. Si capisce che li svuotano di volta in volta per il numero che serve.
Sotto la cima trapezoidale, dalla parte che il monte non scoscende, vi è una specie di piattaforma degradante dolcemente, che fa una seconda piazzuola. Da questa partono due larghi sentieri che costeggiano la cima, di modo che questa è isolata e sopraelevata di almeno due metri da tutti i lati. I soldati, che hanno respinto la folla dalla cima, domano, a colpi persuasivi di aste, le risse, e fanno largo perché il corteo possa sfilare senza ostacoli nell’ultimo pezzo di strada, e restano lì a fare ala mentre i tre condannati, inquadrati dai cavalieri e protetti dall’altra metà centuria alle spalle, giungono fino al punto dove vengono fatti fermare: ai piedi del naturale palco sopraelevato che è la cima del Golgota.
16Mentre ciò avviene, scorgo le Marie al punto che segno con un M, e un poco dietro a loro sono Giovanna di Cusa con altre quattro delle dame di prima. Le altre si sono ritirate. E devono averlo fatto da sole, perché Gionata è là, dietro alla sua padrona. Non c’è più quella che noi diciamo Veronica e che Gesù ha detta Niche, e con lei manca la sua servente. E anche quella tutta velata, che fu obbedita dai soldati, non c’è più. Vedo Giovanna, la vecchia chiamata Elisa, Anna (è la padrona di quella casa dove Gesù va alla vendemmia del primo anno[34]) e due che non so identificare meglio. Dietro queste donne e le Marie vedo Giuseppe e Simone d’Alfeo, e Alfeo di Sara insieme al gruppo dei pastori. Hanno colluttato con chi li voleva respingere insultandoli, e la forza di questi uomini, che l’amore e il dolore moltiplicano, è stata così violenta[35] che hanno vinto, creando un semicerchio libero contro il quale i vilissimi giudei non osano che lanciare grida di morte e tendere i pugni. Ma non di più, perché i bastoni dei pastori sono nodosi e pesanti, e la forza e la mira non manca a questi prodi. E non dico male a dire così. Ci vuole un vero coraggio a stare in pochi, noti per galilei o seguaci del Galileo, contro tutta una popolazione ostile. L’unico punto di tutto il Calvario dove non si bestemmi il Cristo! Il monte, dai tre lati che scendono non ripidi a valle, è tutto un formicolaio di folla. La terra giallastra e nuda non si vede più. Sotto il sole che va e viene pare un prato fiorito di corolle di tutti i colori, tanto sono fitti i copricapi e i mantelli dei sadici che lo coprono. Oltre torrente, per la via, altra folla; oltre le mura, altra ancora. Sulle terrazze più vicine, altra ancora. Il resto della città nudo… vuoto… silenzioso. Tutto è qui. Tutto l’amore e tutto l’odio. Tutto il Silenzio che ama e perdona. Tutto il Clamore che odia e impreca.
17Mentre gli uomini preposti all’esecuzione preparano i loro strumenti finendo di svuotare le buche, e i condannati aspettano al centro del loro quadrato, i giudei, rifugiati nell’angolo opposto alle Marie, le insultano. Anche la Madre insultano: «A morte i galilei. A morte! Galilei! Galilei! Maledetti! A morte il Bestemmiatore galileo. Inchiodate sulla croce anche il seno che lo ha portato! Via le vipere che partoriscono i demoni! A morte! Mondate Israele dalle femmine congiunte col capro!…». Longino, che è smontato da cavallo, si volta e vede la Madre… Ordina di far cessare quella gazzarra… La mezza centuria, che era alle spalle dei condannati, carica la marmaglia e sgombera del tutto la seconda piazzuola, mentre i giudei scappano per il monte pestandosi gli uni con gli altri. Smontano anche gli altri soldati, e uno prende gli undici cavalli, oltre quello del centurione, e li porta all’ombra, dietro il costolone B del monte. Il centurione si avvia verso la vetta. Giovanna di Cusa si fa avanti, lo ferma. Gli dà l’anfora e una borsa. E poi si ritira piangendo, andando contro lo spigolo del monte con le altre.
18In alto è pronto tutto. Vengono fatti salire i condannati. E Gesù passa ancora una volta presso la Madre, che ha un gemito che Ella stessa cerca frenare portandosi il mantello sulla bocca. I giudei vedono e ridono e deridono. Giovanni, il mite Giovanni, che ha un braccio dietro le spalle di Maria per sorreggerla, si volge con uno sguardo feroce. Ha persino l’occhio fosforescente. Se non avesse da tutelare le donne, io credo che prenderebbe qualcuno dei vili per la gola. Non appena i condannati sono sul palco fatale, i soldati circondano la piazzuola da tre lati. Non resta vuoto che quello a strapiombo. Il centurione dà ordine al Cireneo di andarsene. E questi se ne va, a malincuore ora, e non direi per sadismo, ma per amore. Tanto che si ferma presso i galilei, dividendo con essi gli insulti che la folla elargisce a questi sparuti fedeli del Cristo. I due ladroni gettano al suolo le loro croci bestemmiando. Gesù tace. La via dolorosa è terminata.
Cap. DCIX. La crocifissione, la morte e la deposizione dalla croce.
27 marzo 1945.
1 Quattro nerboruti uomini, che per l’aspetto mi paiono giudei, e giudei degni della croce più dei condannati, certo della stessa categoria dei flagellatori, saltano da un sentiero sul luogo del supplizio. Sono vestiti di tuniche corte e sbracciate ed hanno in mano chiodi, martelli e funi che mostrano con lazzi ai tre condannati. La folla si agita in un delirio crudele. Il centurione offre a Gesù l’anfora perché beva la mistura anestetica di vino mirrato. Ma Gesù la rifiuta. I due ladroni invece ne bevono molta. Poi l’anfora, dall’ampia bocca svasata, viene posta presso un grosso sasso, quasi sullo scrimolo della cima.
2 Viene dato l’ordine ai condannati di spogliarsi. I due ladroni lo fanno senza nessun pudore. Anzi si divertono a fare atti osceni verso la folla e specie verso il gruppo sacerdotale, tutto candido nelle sue vesti di lino e che è piano piano tornato sulla piazzetta più bassa, usando della sua qualità per insinuarsi lì. Ai sacerdoti si sono uniti due o tre farisei e altri prepotenti personaggi, che l’odio fa amici. E vedo persone di conoscenza, come il fariseo Giocana e Ismaele, lo scriba Sadoch, Eli di Cafarnao… I carnefici offrono tre stracci ai condannati perché se li leghino all’inguine. E i ladroni li pigliano con più orrende bestemmie. Gesù, che si spoglia lentamente per lo spasimo delle ferite, lo ricusa. Forse pensa conservare le corte brache che ha tenute anche nella flagellazione. Ma, quando gli viene detto di levarsi anche le stesse, Egli tende la mano per mendicare lo straccio dei boia a difesa della sua nudità. È proprio l’Annichilito fino a dover chiedere uno straccio ai delinquenti. Ma Maria ha visto e si è sfilata il lungo e sottile telo bianco, che le vela il capo sotto al manto oscuro e nel quale Ella ha già versato tanto pianto. Se lo leva senza far cadere il manto, lo dà a Giovanni perché lo porga a Longino per il Figlio. Il centurione prende il velo senza fare ostacolo e, quando vede che Gesù sta per denudarsi del tutto, stando voltato non verso la folla ma verso la parte vuota di popolo, mostrando così la sua schiena rigata di lividi e di vesciche, sanguinante di ferite aperte o dalle croste oscure, gli porge il lino materno. E Gesù lo riconosce. Se ne avvolge a più riprese il bacino, assicurandoselo per bene perché non caschi… E sul lino, fino allora solo bagnato di pianto, cadono le prime gocce di sangue, perché molte delle ferite, appena coperte di coagulo, nel chinarsi per levarsi i sandali e deporre le vesti si sono riaperte e il sangue riprende a sgorgare.
3 Ora Gesù si volge verso la folla. E si vede così che anche il petto, le braccia, le gambe sono tutte state colpite dai flagelli. All’altezza del fegato è un enorme livido, e sotto l’arco costale sinistro vi sono nette sette righe in rilievo, terminate da sette piccole lacerazioni sanguinanti fra un cerchio violaceo… un colpo feroce di flagello in quella zona tanto sensibile del diaframma. I ginocchi, contusi dalle ripetute cadute, iniziate subito dopo la cattura e terminate sul Calvario, sono neri di ematoma e aperti sulla rotula, specie il destro, in una vasta lacerazione sanguinante. La folla lo schernisce come in coro: «Oh! Bello! Il più bello dei figli degli uomini! Le figlie di Gerusalemme ti adorano…». E intona, con tono di salmo: «Il mio diletto è candido e rubicondo, distinto fra mille e mille. La sua testa è oro puro, i suoi capelli grappoli di palma, setosi come piuma di corvo. Gli occhi son come due colombe bagnantesi ai ruscelli non d’acqua ma di latte, nel latte della sua orbita. Le sue guance sono aiuole di aromi, le sue labbra porpurei gigli stillanti preziosa mirra. Le sue mani tornite come lavoro d’orafo terminate in rosei giacinti. Il suo tronco è avorio venato di zaffiri. Le sue gambe, perfette colonne di candido marmo su basi d’oro. La sua maestà è come quella del Libano; imponente egli è più dell’alto cedro. La sua lingua è intrisa di dolcezza ed egli è tutto delizia»; e ridono e urlano anche: «Il lebbroso! Il lebbroso! Hai dunque fornicato con un idolo se Dio ti ha così colpito? Hai mormorato contro i santi di Israele come Maria di Mosè, se sei stato così punito? Oh! Oh! il Perfetto! Sei il Figlio di Dio? Ma no! L’aborto di Satana sei! Almeno egli, Mammona, è potente e forte. Tu… sei uno straccio impotente e schifoso».
4 I ladroni sono legati sulle croci e vengono portati al loro posto, uno a destra, uno a sinistra rispetto al posto destinato a Gesù. Urlano, imprecano, maledicono e, specie quando le croci vengono portate presso il buco e li sconquassano facendo segare i polsi dalle funi, le loro bestemmie a Dio, alla Legge, ai romani, ai giudei, sono infernali. È la volta di Gesù. Egli si stende mite sul legno. I due ladroni erano tanto ribelli che, non bastando a farlo i quattro boia, erano dovuti intervenire dei soldati a tenerli, perché a calci non respingessero gli aguzzini che li legavano per i polsi. Ma per Gesù non c’è bisogno di aiuto. Si corica e mette il capo dove gli dicono di metterlo. Apre le braccia come gli dicono di farlo, stende le gambe come gli ordinano. Si è solo preoccupato di accomodarsi per bene il suo velo. Ora il suo lungo corpo, snello e bianco, spicca sul legno oscuro e sul suolo giallo.
5 Due carnefici gli si siedono sul petto per tenerlo fermo. E io penso che oppressione e che dolore deve aver provato sotto quel peso. Un terzo gli prende il braccio destro, tenendolo con una mano sulla prima porzione dell’avambraccio e l’altra al termine delle dita. Il quarto, che ha già in mano il lungo chiodo acuminato sulla punta quadrangolare nel fusto, terminato in una piastra rotonda e piatta, larga come un soldone dei tempi passati, guarda se il buco già fatto nel legno corrisponde alla giuntura radio-ulnare del polso. Va bene. Il boia appoggia la punta del chiodo al polso, alza il martello e dà il primo colpo. Gesù, che aveva gli occhi chiusi, all’acuto dolore ha un grido e una contrazione, e spalanca gli occhi nuotanti fra le lacrime. Deve essere un dolore atroce quello che prova… Il chiodo penetra spezzando muscoli, vene, nervi, frantumando ossa… Maria risponde al grido della sua Creatura torturata con un gemito che ha quasi del lamento di un agnello sgozzato, e si curva, come spezzata, tenendosi la testa fra le mani. Gesù, per non torturarla, non grida più. Ma i colpi ci sono, metodici, aspri, di ferro contro ferro… e si pensa che sotto è un membro vivo quello che li riceve. La mano destra è inchiodata. Si passa alla sinistra. Il foro non corrisponde al carpo. Allora prendono una fune, legano il polso sinistro e tirano fino a slogare la giuntura e a strappare tendini e muscoli, oltre che lacerare la pelle già segata dalle funi della cattura. Anche l’altra mano deve soffrire, perché è stirata per riflesso, e intorno al suo chiodo si allarga il buco. Ora si arriva appena all’inizio del metacarpo, presso il polso. Si rassegnano e inchiodano dove possono, ossia fra il pollice e le altre dita, proprio al centro del metacarpo. Qui il chiodo entra più facilmente ma con maggiore spasimo, perché deve recidere nervi importanti, tanto che le dita restano inerti, mentre le altre della destra hanno contrazioni e tremiti che denunciano la loro vitalità. Ma Gesù non grida più, ha solo un lamento roco dietro le labbra fortemente chiuse, e lacrime di spasimo cadono per terra dopo esser cadute sul legno.
6 Ora è la volta dei piedi. A un due metri e più dal termine della croce è un piccolo cuneo, appena sufficiente ad un piede. Su questo vengono portati i piedi per vedere se va bene la misura. E dato che è un poco in basso e i piedi arrivano male, stiracchiano per i malleoli il povero Martire. Il legno scabro della croce sfrega così sulle ferite, smuove la corona che si sposta strappando nuovi capelli e minaccia di cadere. Un boia gliela ricalca sul capo con una manata… Ora, quelli che erano seduti sul petto di Gesù si alzano per spostarsi sui ginocchi, dato che Gesù ha un movimento involontario di ritirare le gambe, vedendo brillare al sole il lunghissimo chiodo, lungo il doppio e largo il doppio di quello usato per le mani. E pesano sui ginocchi scorticati, e premono sui poveri stinchi contusi, mentre gli altri due compiono l’operazione, molto più difficile, dell’inchiodatura di un piede sull’altro, cercando di combinare le due giunture dei tarsi insieme. Per quanto guardino e tengano fermi i piedi, al malleolo e alle dita, contro il cuneo, il piede sottoposto si sposta per la vibrazione del chiodo, e lo devono schiodare quasi, perché, dopo essere entrato nelle parti molli, il chiodo, già spuntato per avere perforato il piede destro, deve essere portato un poco più in centro. E picchiano, picchiano, picchiano… Non si sente che l’atroce rumore del martello sulla testa del chiodo, perché tutto il Calvario non è che occhi e orecchie tese, per raccogliere atto e rumore e gioirne… Sul suono aspro del ferro è un lamento in sordina di colomba: il gemere roco di Maria, che sempre più si curva, ad ogni colpo, come se il martello piagasse Lei, la Madre Martire. Ed ha ragione di parere prossima ad essere spezzata da quella tortura. La crocifissione è tremenda. Pari alla flagellazione in spasimo, più atroce a vedersi, perché si vede scomparire il chiodo fra le carni vive. Ma in compenso è più breve. Mentre la flagellazione spossa per la sua durata. Per me, l’agonia dell’Orto, la flagellazione e la crocifissione sono i momenti più atroci. Mi svelano tutta la tortura del Cristo. La morte mi solleva, perché dico: «È finito!». Ma queste non sono fine. Sono principio a nuove sofferenze.
7 Ora la croce è strascinata presso il buco e rimbalza, scuotendo il povero Crocifisso, sul suolo ineguale. Viene issata la croce, che sfugge per due volte a coloro che la alzano e ricade una volta di schianto, un’altra sul braccio destro della stessa, dando un aspro tormento a Gesù, perché la scossa subita smuove gli arti feriti. Ma quando poi la croce viene lasciata cadere nel suo buco e, prima di essere assicurata con pietre e terriccio, ondeggia in tutti i sensi, imprimendo continui spostamenti al povero Corpo sospeso a tre chiodi, la sofferenza deve essere atroce. Tutto il peso del corpo si sposta in avanti e in basso, e i buchi si allargano, specie quello della mano sinistra, e si allarga il foro nei piedi mentre il sangue spiccia più forte. E se quello dei piedi goccia lungo le dita per terra e lungo il legno della croce, quello delle mani segue gli avambracci, perché sono più alti al polso che all’ascella per forza della posizione, e riga anche le coste scendendo dall’ascella verso la cintura. La corona, quando la croce ondeggia prima di essere fissata, si sposta, perché il capo ribatte all’indietro, conficcando nella nuca il grosso nodo di spini che termina la pungente corona, e poi torna ad adagiarsi sulla fronte e graffia, graffia senza pietà. Finalmente la croce è assicurata e non c’è che il tormento dell’essere appeso. Issano anche i ladroni, i quali, una volta messi verticalmente, urlano come fossero scotennati vivi per la tortura delle funi, che segano i polsi e fanno divenire nere le mani, con le vene gonfie come corde. Gesù tace. La folla non tace più, invece. Ma riprende il suo vocio infernale. Ora la cima del Golgota ha il suo trofeo e la sua guardia d’onore. Al limite più alto (lato A) la croce di Gesù. Al lato B e C le altre due. Mezza centuria di soldati, con le armi al piede, tutto intorno alla vetta; dentro a questo cerchio d’armati, i dieci appiedati, che giocano a dadi le vesti dei condannati. Ritto in piedi, fra la croce di Gesù e quella di destra, Longino. E pare monti la guardia d’onore al Re Martire. L’altra mezza centuria, in riposo, è agli ordini dell’aiutante di Longino sul sentiero di sinistra e sulla piazzuola più bassa, in attesa di essere adoperata se ce ne sarà bisogno. Nei soldati c’è l’indifferenza quasi totale. Solo qualcuno alza ogni tanto il volto ai crocifissi.
8 Longino invece osserva tutto con curiosità e interesse, confronta e mentalmente giudica. Confronta i crocifissi, e specie il Cristo, e gli spettatori. Il suo occhio penetrante non perde un particolare. E per vedere meglio fa solecchio con la mano, perché il sole gli deve dare noia. È infatti un sole strano. Di un giallo rosso d’incendio. E poi pare che l’incendio si spenga di colpo per un nuvolone di pece che sorge da dietro le catene giudee e che corre veloce per il cielo, scomparendo dietro ad altri monti. E quando il sole ritorna fuori è così vivo che l’occhio non lo sopporta che male. Nel guardare vede Maria, proprio sotto il balzo, che tiene alzato verso il Figlio il suo volto straziato. Chiama uno dei soldati che giuocano a dadi e gli dice: «Se la Madre vuole salire col figlio che l’accompagna, venga. Scortala e aiutala». E Maria con Giovanni, creduto «figlio», sale per la scaletta incisa nella roccia tufacea, credo, e penetra oltre il cordone dei soldati andando ai piedi della croce, ma un poco scosta per essere vista e per vedere il suo Gesù. La folla le propina subito i più obbrobriosi insulti. Accomunandola nelle bestemmie al Figlio. Ma Ella, con le labbra tremanti e sbiancate, cerca solo di dargli conforto, con un sorriso straziato su cui si asciugano le lacrime che nessuna forza di volontà riesce a trattenere negli occhi.
9 La gente, cominciando dai sacerdoti, scribi, farisei, sadducei, erodiani e simili, si procura lo spasso di fare come un carosello, salendo dalla strada erta, passando lungo il rialzo finale e scendendo per l’altra via, o viceversa. E mentre passano ai piedi della vetta, sulla seconda piazzuola, non mancano di offrire le loro parole blasfeme come omaggio al Morente. Tutta la turpitudine, la crudeltà, l’odio e l’insania di cui sono capaci gli uomini con la lingua, vengono ampiamente testificate da queste bocche d’inferno. I più accaniti sono i membri del Tempio, coi farisei per aiuto. «Ebbene? Tu, Salvatore dell’uman genere, perché non ti salvi? Ti ha abbandonato il tuo re Belzebù? Ti ha rinnegato?», urlano tre sacerdoti. E un branco di giudei: «Tu, che non più tardi di or sono cinque giorni, con l’aiuto del Demonio, facevi dire al Padre… ah! ah! ah! che ti avrebbe glorificato, come mai non gli ricordi di mantenere la sua promessa?». E tre farisei: «Bestemmiatore! Ha salvato gli altri, diceva, con l’aiuto di Dio! E non riesce a salvare Se stesso! Vuoi che ti si creda? E allora fai il miracolo. Non puoi più, eh? Ora hai le mani inchiodate, e sei nudo». E dei sadducei ed erodiani ai soldati: «Attenti alla malìa, voi che vi siete prese le sue vesti! Ha dentro il segno infernale!». Una folla in coro: «Scendi dalla croce e ti crederemo. Tu che distruggi il Tempio… Folle!… Guardalo là, il glorioso e santo Tempio d’Israele. È intoccabile, o profanatore! E Tu muori». Altri sacerdoti: «Blasfemo! Figlio di Dio, Tu? E scendi di lì, allora. Fulminaci, se sei Dio. Non ti temiamo e sputiamo verso Te». Altri che passano e scrollano il capo: «Non sa che piangere. Salvati, se è vero che sei l’Eletto!». I soldati: «E salvati, dunque! Incenerisci questa suburra della suburra! Sì! Suburra dell’Impero siete, giudei canaglie. Fàllo! Roma ti metterà in Campidoglio e ti adorerà come un nume!». I sacerdoti coi loro compari: «Erano più dolci le braccia delle femmine di quelle della croce, non è vero? Ma, guarda, sono già lì pronte a riceverti le tue… (e dicono un termine infame). Ci hai tutta Gerusalemme a farti da pronuba». E fischiano come carrettieri. Altri lanciando dei sassi: «Muta questi in pane, Tu, moltiplicatore dei pani». Altri, scimmiottando gli osanna della domenica delle palme, lanciano dei rami e gridano: «Maledetto colui che viene in nome del Demonio! Maledetto il suo regno! Gloria a Sionne che lo recide di fra i vivi!». Un fariseo si piazza di fronte alla croce, e mostra il pugno facendo le corna e dice: «”Ti affido al Dio del Sinai”, Tu dicesti? Ora il Dio del Sinai ti prepara al fuoco eterno. Perché non chiami Giona a renderti il buon servizio?». Un altro: «Non rovinare la croce con i colpi della tua testa. Deve servire per i tuoi seguaci. Una intera legione ne morirà sul tuo legno, te lo giuro su Jeové. E per primo ci metterò Lazzaro. Vedremo se Tu lo levi di morte, ora». «Sì! Sì! Andiamo da Lazzaro. Inchiodiamolo dall’altro lato della croce», e pappagallescamente fanno la parlata lenta di Gesù dicendo: «Lazzaro, amico mio, vieni fuori! Slegatelo e lasciatelo andare!». «No! Diceva a Marta e Maria, le sue femmine: “Io sono la Risurrezione e la Vita”. Ah! Ah! Ah! La Risurrezione non sa mandare indietro la morte, e la Vita muore!».
10«Ecco là Maria con Marta. Chiediamo dove è Lazzaro e andiamolo a cercare». E si fanno avanti, verso le donne, chiedendo arrogantemente: «Dove è Lazzaro? Al palazzo?». E Maria Maddalena, mentre le altre terrorizzate fuggono dietro i pastori, si fa avanti, ritrovando nel suo dolore la antica baldanza dei tempi di peccato, e dice: «Andate. Troverete già in palazzo i soldati di Roma e cinquecento armati delle mie terre, che vi castreranno come vecchi caproni destinati al pasto degli schiavi alle macine». «Sfrontata! Così parli ai sacerdoti?». «Sacrileghi! Turpi! Maledetti! Volgetevi! Alle spalle avete, io le vedo, le lingue delle fiamme infernali». I vili si volgono, veramente terrorizzati, tanto è sicura l’affermazione di Maria; ma, se non hanno le fiamme alle spalle, hanno alle reni le ben pontute lance romane. Perché Longino ha dato un ordine e la mezza centuria che era in riposo è entrata in fazione e punge alle natiche i primi che trova. Questi fuggono urlando e la mezza centuria resta a chiudere gli imbocchi delle due strade e a fare baluardo alla piazzuola. I giudei imprecano, ma Roma è la più forte. La Maddalena riabbassa il suo velo — se lo era alzato per parlare agli insultatori — e torna al suo posto. Le altre si riuniscono a lei.
11Ma il ladrone di sinistra continua gli insulti dalla sua croce. Pare si sia fatto il condensatore di tutte le bestemmie altrui e le snocciola tutte, terminando: «Salvati e salvaci, se vuoi che ti si creda. Il Cristo Tu? Un folle sei! Il mondo è dei furbi e Dio non c’è. Io ci sono. Questo è vero, e per me tutto è lecito. Dio?… Fola! Messa per tenerci quieti. Viva il nostro io! Lui solo è re e dio!». L’altro ladrone, che è a destra ed ha quasi ai piedi Maria, e la guarda quasi più che non guardi Cristo, e da qualche momento piange mormorando: «la madre», dice: «Taci. Non temi Dio neppure ora che soffri questa pena? Perché insulti chi è buono? È in un supplizio ancor più grande del nostro. E non ha fatto nulla di male». Ma il ladrone continua le sue imprecazioni.
12Gesù tace. Anelante per lo sforzo della posizione, per la febbre, per lo stato cardiaco e respiratorio, conseguenza della flagellazione subita in forma tanto violenta, e anche dell’angoscia profonda che gli aveva fatto sudar sangue, cerca trovare un sollievo, alleggerendo il peso che grava sui piedi, sospendendosi alle mani e facendo forza con le braccia. Forse lo fa anche per vincere un poco il crampo che già tormenta i piedi e che si tradisce con il tremito muscolare. Ma lo stesso tremore è nelle fibre delle braccia, che sono sforzate in quella posizione e devono essere gelate nelle loro estremità, perché poste più in alto e abbandonate dal sangue, che a fatica giunge ai polsi e poi ne geme dai buchi dei chiodi lasciando senza circolazione le dita. Specie quelle della sinistra sono già cadaveriche e stanno senza moto, ripiegate verso il palmo. Anche le dita dei piedi esprimono il loro tormento. Specie gli alluci, forse perché meno è leso il loro nervo, si alzano, si abbassano, si divaricano. Il tronco, poi, svela tutta la sua pena col suo movimento, che è veloce ma non profondo, ed affatica senza dare sollievo. Le coste, molto ampie e alte di loro, perché la struttura di questo Corpo è perfetta, sono ora dilatate oltre misura per la posizione assunta dal corpo e per l’edema polmonare che certo si è formato nell’interno. Eppure non servono ad alleggerire lo sforzo respiratorio, tanto che tutto l’addome aiuta col suo muoversi il diaframma, che sempre più si va paralizzando. E la congestione e l’asfissia aumentano di minuto in minuto, come lo indicano il colorito cianotico che sottolinea le labbra, di un rosso acceso dalla febbre, e le striature di un rosso violaceo, che spennellano il collo lungo le giugulari turgide e si allargano fino sulle guance, verso le orecchie e le tempie, mentre il naso è affilato e esangue, e gli occhi affondano in un cerchio che è livido dove è privo del sangue colato dalla corona. Sotto l’arco costale sinistro si vede l’urto propagato dalla punta cardiaca, irregolare, ma violento, e ogni tanto, per una convulsione interna, il diaframma ha un fremito profondo che si rivela da una distensione totale della pelle, per quanto può stendersi su quel povero Corpo ferito e morente. Il Volto ha già l’aspetto che vediamo nelle fotografie della Sindone, col naso deviato e gonfio da una parte; e anche il tenere l’occhio destro quasi chiuso, per il gonfiore che è da questo lato, aumenta la somiglianza. La bocca, invece, è aperta, con la sua ferita sul labbro superiore ormai ridotta ad una crosta. La sete, data dalla perdita di sangue, dalla febbre e dal sole, deve essere intensa, tanto che Egli, con mossa macchinale, beve le stille del suo sudore e del suo pianto, e anche quelle del sangue che scende dalla fronte fin sui baffi, e si bagna con queste la lingua… La corona di spine gli vieta di appoggiarsi al tronco della croce per aiutare la sospensione sulle braccia e alleggerire i piedi. Le reni e tutta la spina si arcua verso l’esterno, stando staccato dal tronco della croce dal bacino in su per forza di inerzia che fa pendere in avanti un corpo sospeso come era il suo.
13I giudei, respinti oltre la piazzuola, non cessano di insultare, e il ladrone impenitente fa eco. L’altro, che ora guarda con sempre maggiore pietà la Madre e piange, lo rimbecca aspramente quando sente che nell’insulto è compresa anche Lei. «Taci. Ricordati che sei nato da una donna. E pensa che le nostre han pianto per causa dei figli. E furono lacrime di vergogna… perché noi siamo delinquenti. Le nostre madri sono morte… Io vorrei poterle chiedere perdono… Ma lo potrò? Era una santa… L’ho uccisa col dolore che le davo… Io sono un peccatore… Chi mi perdona? Madre, in nome del tuo Figlio morente, prega per me». La Madre alza per un momento il suo viso straziato e lo guarda, questo sciagurato che attraverso al ricordo di sua madre e alla contemplazione della Madre va verso il pentimento, e pare lo carezzi col suo sguardo di colomba. Disma piange più forte. Cosa che scatena ancora di più gli scherni della folla e del compagno. La prima urla: «Bravo! Pigliati questa per madre. Così ha due figli delinquenti!». E l’altro rincara: «Ti ama perché sei una copia minore del suo beneamato».
14Gesù parla per la prima volta: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!». Questa preghiera vince ogni timore in Disma. Osa guardare il Cristo e dice: «Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo Regno. Io è giusto che qui soffra. Ma dammi misericordia e pace oltre la vita. Una volta ti ho sentito parlare e, folle, ho respinto la tua parola. Ora me ne pento. E dei miei peccati me ne pento davanti a Te, Figlio dell’Altissimo. Io credo che Tu venga da Dio. Io credo nel tuo potere. Io credo nella tua misericordia. Cristo, perdonami in nome di tua Madre e del tuo Padre santissimo». Gesù si volge e lo guarda con profonda pietà, ed ha un sorriso ancora bellissimo sulla povera bocca torturata. Dice: «Io te lo dico: oggi tu sarai meco in Paradiso». Il ladrone pentito si mette calmo e, non sapendo più le preghiere imparate da bambino, ripete come una giaculatoria: «Gesù Nazareno, re dei giudei, pietà di me; Gesù Nazareno, re dei giudei, io spero in Te; Gesù Nazareno, re dei giudei, io credo nella tua Divinità». L’altro continua nelle sue bestemmie.
15Il cielo si fa sempre più fosco. Ora difficilmente le nubi si aprono per fare passare il sole. Ma anzi si accavallano a più e più strati plumbei, bianchi, verdognoli, si sormontano, si dipanano secondo i giuochi di un vento freddo, che a intervalli scorre il cielo e poi scende sulla terra e poi tace di nuovo, ed è quasi più sinistra l’aria quando tace, afosa e morta, di quando fischia tagliente e veloce. La luce, prima viva fin oltre misura, si va facendo verdastra. E i volti prendono bizzarri aspetti. I soldati, sotto i loro elmi e nelle loro corazze, prima lucenti ed ora divenute come appannate nella luce verdastra e sotto il cielo di cenere, mostrano i duri profili come scalpellati. I giudei, per la maggioranza bruni di pelle e capelli e barba, paiono degli annegati, tanto il loro volto si fa terreo. Le donne sembrano statue di neve azzurrastra per il pallore esangue che la luce accentua. Gesù sembra illividire sinistramente come per inizio di decomposizione, quasi fosse già morto. La testa gli comincia a pendere sul petto. Le forze mancano rapidamente. Trema, nonostante la febbre che lo arde. E nella sua debolezza mormora il nome che prima ha solo detto nel fondo del cuore: «Mamma!», «Mamma!». Lo mormora piano, come in un sospiro, quasi fosse già in un lieve delirio che gli impedisca di trattenere quanto la volontà vorrebbe trattenere. E Maria, ogni volta, ha un atto infrenabile di tendere le braccia come per soccorrerlo. E la gente crudele ride di questi spasimi di chi muore e di chi spasima. Salgono da capo sino a dietro i pastori, che però sono sulla piazzetta bassa, i sacerdoti e gli scribi. E poiché i soldati vorrebbero respingerli, reagiscono dicendo: «Ci stanno questi galilei? Ci stiamo anche noi, che dobbiamo verificare che giustizia sia fatta fino in fondo. E da lontano, in questa luce strana, non possiamo vedere». Infatti molti cominciano a impressionarsi della luce che sta fasciando il mondo, e qualcuno ha paura. Anche i soldati accennano al cielo e ad una specie di cono, che pare di lavagna tanto è cupo e che si leva come un pino da dietro una vetta. Sembra una tromba marina. Si alza, si alza e pare che generi nubi sempre più nere, quasi fosse un vulcano eruttante fumo e lava. È in questa luce crepuscolare e paurosa che Gesù dà a Maria Giovanni e a Giovanni Maria. Curva il capo, poiché la Madre si è fatta più sotto alla croce per vederlo meglio, e dice: «Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua Madre». Maria ha il volto ancor più sconvolto dopo questa parola che è il testamento del suo Gesù, che non ha nulla da dare alla Madre se non un uomo, Egli che per amore dell’Uomo la priva dell’Uomo-Dio, nato da Lei. Ma cerca, la povera Madre, di non piangere che mutamente, perché non può, non può non piangere… Le stille del pianto gemono nonostante ogni sforzo per trattenerle, anche se la bocca ha il suo straziato sorriso, fissato sulle labbra per Lui, per confortare Lui… Le sofferenze crescono sempre più. E la luce sempre più decresce.
16È in questa luce di fondo marino che emergono, da dietro dei giudei, Nicodemo e Giuseppe, e dicono: «Scansatevi!». «Non si può. Che volete?», dicono i soldati. «Passare. Siamo amici del Cristo». Si voltano i capi dei sacerdoti. «Chi osa professarsi amico del ribelle?», dicono i sacerdoti sdegnati. E Giuseppe risoluto: «Io, nobile membro del Gran Consiglio, Giuseppe d’Arimatea, l’Anziano, e con me è Nicodemo, capo dei giudei». «Chi parteggia per il ribelle è ribelle». «E chi parteggia per gli assassini è assassino, Eleazaro di Anna. Ho vissuto da giusto. E ora vecchio sono e prossimo alla morte. Non voglio divenire ingiusto mentre già il Cielo su me discende e con esso il Giudice eterno». «E tu, Nicodemo! Mi meraviglio!». «Io pure. E di una cosa sola: che Israele sia tanto corrotto da non sapere più riconoscere Dio». «Mi fai ribrezzo». «Scansati, allora, e lasciami passare. Non chiedo che quello». «Per contaminarti più ancora?». «Se non mi sono contaminato a starvi presso, nulla più mi contamina. Soldato, a te la borsa e il segno di lasciapassare». E passa al decurione più vicino una borsa e una tavoletta cerata. Il decurione osserva e dice ai soldati: «Lasciate passare i due». E Giuseppe con Nicodemo si avvicinano ai pastori. Non so neppure se Gesù li veda in quella caligine sempre più fitta e con l’occhio che già si vela nell’agonia. Ma essi lo vedono e piangono senza rispetto umano, nonostante ora su di loro si avventino gli improperi sacerdotali.
17Le sofferenze sono sempre più forti. Il corpo ha i primi inarcamenti propri della tetanìa e ogni clamore di folla li esaspera. La morte delle fibre e dei nervi si estende dalle estremità torturate al tronco, rendendo sempre più difficoltoso il moto respiratorio, debole la contrazione diaframmatica e disordinato il movimento cardiaco. Il volto di Cristo passa alternativamente da vampe di rossore intensissimo a pallori verdastri di morente per dissanguamento. La bocca si muove con maggiore fatica, perché i nervi sovraffaticati del collo e del capo stesso, che hanno per decine di volte fatto da leva al corpo tutto puntandosi sulla sbarra trasversa della croce, propagano il crampo anche alle mascelle. La gola, enfiata dalle carotidi ingorgate, deve dolere ed estendere il suo edema alla lingua, che appare ingrossata e lenta nei movimenti. La schiena, anche nei momenti che le contrazioni tetanizzanti non la curvano ad arco completo dalla nuca alle anche, appoggiate come punti estremi al tronco della croce, si arcua sempre più in avanti, perché le membra divengono sempre più pesanti del peso delle carni morte. La gente vede poco e male queste cose, perché la luce è ormai di un cenere cupo, e solo chi è ai piedi della croce può vedere bene.
18Gesù si affloscia, un certo momento, tutto in avanti e in basso, come già morto; non ansa più, la testa gli pende inerte in avanti, il corpo dalle anche in su è tutto staccato facendo angolo con le braccia alla croce. Maria ha un grido: «È morto!». Un grido tragico che si propaga nell’aria nera. E Gesù appare realmente morto. Un altro grido femminile le risponde e nel gruppo delle donne vedo un tramestio. Poi una decina di persone si allontanano sostenendo qualche cosa. Ma non posso vedere chi si allontana così. È troppo poca la luce nebbiosa. Sembra di essere immersi in una nube di cenere vulcanica fittissima. «Non è possibile», urlano dei sacerdoti e dei giudei. «È una finta per farci andare via. Soldato, pungilo con la lancia. È una buona medicina per ridargli voce». E poiché i soldati non lo fanno, una scarica di pietre e di zolle di terra volano verso la croce, colpendo il Martire e ricadendo sulle corazze romane. Il farmaco, come ironicamente dicono i giudei, opera il prodigio. Certo qualche sasso ha colpito a segno, forse sulla ferita di una mano, o sul capo stesso, perché miravano in alto. Gesù ha un gemito pietoso e rinviene. Il torace torna a respirare con fatica e la testa a muoversi da destra a manca, cercando un luogo dove posarsi per soffrire meno, senza trovare altro che maggior pena.
19A gran fatica, puntandosi una volta ancora sui piedi torturati, trovando forza nella sua volontà, unicamente in quella, Gesù si irrigidisce sulla croce, torna eretto come fosse un sano nella sua forza completa, alza il volto guardando con occhi bene aperti il mondo steso ai suoi piedi, la città lontana, che appena si intravvede come un biancore incerto nella foschia, e il cielo nero dal quale ogni azzurro ed ogni ricordo di luce sono scomparsi. E a questo cielo chiuso, compatto, basso, simile ad una enorme lastra di lavagna scura, Egli grida a gran voce, vincendo con la forza della volontà, col bisogno dell’anima, l’ostacolo delle mascelle irrigidite, della lingua ingrossata, della gola edematica: «Eloi, Eloi, lamma scebacteni!» (io sento dire così). Deve sentirsi morire, e in un assoluto abbandono del Cielo, per confessare con tal voce l’abbandono paterno. La gente ride e lo scherza. Lo insulta: «Non sa che farne Dio di Te! I demoni sono maledetti da Dio!». Altri gridano: «Vediamo se Elia, che Egli chiama, viene a salvarlo». E altri: «Dategli un poco d’aceto, che si gargarizzi la gola. Fa bene alla voce! Elia o Dio, poiché è incerto ciò che il folle vuole, sono lontani… Ci vuol voce per farsi sentire!», e ridono come iene o come demoni. Ma nessun soldato dà l’aceto e nessuno viene dal Cielo per dare conforto. È l’agonia solitaria, totale, crudele, anche soprannaturalmente crudele, della Grande Vittima. Tornano le valanghe di dolore desolato che già l’avevano oppresso nel Getsemani. Tornano le onde dei peccati di tutto il mondo a percuotere il naufrago innocente, a sommergerlo nella loro amaritudine. Torna soprattutto la sensazione, più crocifiggente della croce stessa, più disperante di ogni tortura, che Dio ha abbandonato e che la preghiera non sale a Lui… Ed è il tormento finale. Quello che accelera la morte, perché spreme le ultime gocce di sangue dai pori, perché stritola le superstiti fibre del cuore, perché termina ciò che la prima cognizione di questo abbandono ha iniziato: la morte. Perché di questo per prima cosa è morto il mio Gesù, o Dio, che lo hai colpito per noi! Dopo il tuo abbandono, per il tuo abbandono, che diventa una creatura? O un folle, o un morto. Gesù non poteva divenire folle, perché la sua intelligenza era divina e, spirituale come è l’intelligenza, trionfava sopra il trauma totale del colpito da Dio. Divenne dunque un morto: il Morto, il santissimo Morto, l’innocentissimo Morto. Morto Lui che era la Vita. Ucciso dal tuo abbandono e dai nostri peccati.
20L’oscurità si fa ancora più fitta. Gerusalemme scompare del tutto. Lo stesso Calvario pare annullarsi nelle sue falde. Solo la cima è visibile, quasi che le tenebre la tengano alta a raccogliere l’unica e l’ultima superstite luce, posandola come per una offerta, col suo trofeo divino, su uno stagno di onice liquida, perché sia vista dall’amore e dall’odio. E dalla luce non più luce viene la voce lamentosa di Gesù: «Ho sete!». Vi è infatti un vento che asseta anche i sani. Un vento continuo, ora, violento, pieno di polvere, freddo, pauroso. Penso quale spasimo avrà dato col suo soffio violento ai polmoni, al cuore, alle fauci di Gesù, alle sue membra gelate, intormentite, ferite. Ma proprio tutto si è messo a torturare il Martire. Un soldato va ad un vaso dove i satelliti del boia hanno messo dell’aceto col fiele, perché col suo amaro aumenti la salivazione nei suppliziati. Prende la spugna immersa nel liquido, la infila su una canna sottile eppure rigida, che è già pronta lì presso, e porge la spugna al Morente. Gesù si tende avido verso la spugna che viene. Pare un infante affamato che cerchi il capezzolo materno. Maria, che vede e certo pensa questa cosa, geme, appoggiandosi a Giovanni: «Oh! ed io neppure una stilla di pianto gli posso dare… Oh! seno mio, ché non gemi latte? Oh! Dio, perché, perché così ci abbandoni? Un miracolo per la mia Creatura! Chi mi solleva per dissetarlo del mio sangue, posto che latte non ho?…». Gesù, che ha succhiato avidamente l’aspra e amara bevanda, torce il capo, avvelenato dal disgusto di essa. Deve, oltretutto, essere come del corrosivo sulle labbra ferite e spaccate.
21Si ritrae, si accascia, si abbandona. Tutto il peso del corpo piomba sui piedi e in avanti. Sono le estremità ferite quelle che soffrono la pena atroce dello slabbrarsi sotto il peso di un corpo che si abbandona. Non più un movimento per sollevare questo dolore. Dal bacino in su, tutto è staccato dal legno, e tale resta. La testa pende in avanti tanto pesantemente che il collo pare scavato in tre posti: al giugolo, completamente infossato, e di qua e di là dello sternocleidomastoideo. Il respiro è sempre più anelante, ma interciso. È già più un rantolo sincopato che un respiro. Ogni tanto un colpo di tosse penosa porta una schiuma lievemente rosata alle labbra. E le distanze fra una espirazione e l’altra diventano sempre più lunghe. L’addome è già fermo. Solo il torace ha ancora dei sollevamenti, ma faticosi, stentati… La paralisi polmonare si accentua sempre più. E sempre più fievole, tornando al lamento infantile del bambino, viene l’invocazione: «Mamma!». E la misera mormora: «Sì, tesoro, sono qui». E quando la vista che si vela gli fa dire: «Mamma, dove sei? Non ti vedo più. Anche tu mi abbandoni?», e non è neanche una parola,ma un mormorio che appena è udibile da chi più col cuore che con l’udito raccoglie ogni sospiro del Morente, Ella dice: «No, no, Figlio! Non ti abbandono io! Sentimi, caro… La Mamma è qui, qui è… e solo si tormenta di non poter venire dove Tu sei…». È uno strazio… E Giovanni piange liberamente. Gesù deve sentire quel pianto. Ma non dice niente. Penso che la morte imminente lo faccia parlare come in delirio e neppure sappia quanto dice e, purtroppo, neppure comprenda il conforto materno e l’amore del Prediletto. Longino — che inavvertitamente ha lasciato la sua posa di riposo, con le mani conserte sul petto e una gamba accavallata, ora una, ora l’altra, per dare sollievo alla lunga attesa in piedi, e ora invece è rigido sull’attenti, la mano sinistra sulla spada, la destra regolarmente tesa lungo il fianco, come fosse sui gradini del trono imperiale — non vuole commuoversi. Ma il suo volto si altera nello sforzo di vincere l’emozione, e gli occhi hanno un luccicore di pianto che solo la sua ferrea disciplina trattiene. Gli altri soldati, che giocavano a dadi, hanno smesso e si sono drizzati in piedi, rimettendosi gli elmi che avevano servito ad agitare i dadi, e stanno in gruppo presso la scaletta scavata nel tufo, silenziosi, attenti. Gli altri sono di servizio e non possono mutare posizione. Sembrano statue. Ma qualcuno dei più prossimi, e che sente le parole di Maria, mugola qualcosa fra le labbra e scrolla il capo.
22Un silenzio. Poi, netta nell’oscurità totale, la parola: «Tutto è compiuto!», e poi l’ansito sempre più rantoloso, con pause di silenzio fra un rantolo e l’altro, sempre più vaste. Il tempo scorre su questo ritmo angoscioso. La vita torna quando l’aria è rotta dall’anelito aspro del Morente… La vita cessa quando questo suono penoso non si ode più. Si soffre a sentirlo… si soffre a non sentirlo… Si dice: «Basta di questa sofferenza!», e si dice: «Oh! Dio! che non sia l’ultimo respiro». Le Marie piangono tutte, col capo contro il rialzo terroso. E si sente bene il loro pianto, perché tutta la folla ora tace di nuovo per raccogliere i rantoli del Morente. Ancora un silenzio. Poi, pronunciata con infinita dolcezza, con ardente preghiera, la supplica: «Padre, nelle tue mani raccomando lo spirito mio!». Ancora un silenzio. Si fa lieve anche il rantolo. È appena un soffio limitato alle labbra e alla gola. Poi, ecco, l’ultimo spasimo di Gesù. Una convulsione atroce, che pare voglia svellere il corpo infisso, coi tre chiodi, dal legno, sale per tre volte dai piedi al capo, scorre per tutti i poveri nervi torturati; solleva tre volte l’addome in una maniera anormale, poi lo lascia dopo averlo dilatato come per sconvolgimento dei visceri, ed esso ricade e si infossa come svuotato; alza, gonfia e contrae tanto fortemente il torace, che la pelle si infossa fra coste e coste che si tendono, apparendo sotto l’epidermide e riaprendo le ferite dei flagelli; fa rovesciare violentemente indietro, una, due, tre volte il capo, che percuote contro il legno, duramente; contrae in uno spasimo tutti i muscoli del volto, accentuando la deviazione della bocca a destra, fa spalancare e dilatare le palpebre sotto cui si vede roteare il globo oculare e apparire la sclerotica. Il corpo si tende tutto; nell’ultima delle tre contrazioni è un arco teso, vibrante, tremendo a vedersi, e poi un grido potente, impensabile in quel corpo sfinito, si sprigiona, lacera l’aria, il «grande grido» di cui parlanoi Vangeli e che è la prima parte della parola «Mamma»… E più nulla… La testa ricade sul petto, il corpo in avanti, il fremito cessa, cessa il respiro. È spirato.
23La Terra risponde al grido dell’Ucciso con un boato pauroso. Sembra che da mille buccine dei giganti traggano un unico suono e su questo tremendo accordo ecco le note isolate, laceranti dei fulmini che rigano il cielo in tutti i sensi, cadendo sulla città, sul Tempio, sulla folla… Credo che ci saranno stati dei fulminati, perché la folla è colpita direttamente. I fulmini sono l’unica luce saltuaria che permetta di vedere. E poi subito, e mentre durano ancora le scariche delle saette, la terra si scuote in un turbine di vento ciclonico. Il terremoto e l’aeromoto si fondono per dare un apocalittico castigo ai bestemmiatori. La vetta del Golgota ondeggia e balla come un piatto in mano di un pazzo, nelle scosse sussultorie e ondulatorie che scuotono talmente le tre croci che sembra le debbano ribaltare. Longino, Giovanni, i soldati si abbrancano dove possono, come possono, per non cadere. Ma Giovanni, mentre con un braccio afferra la croce, con l’altro sostiene Maria che, e per il dolore e per il traballio, gli si è abbandonata sul cuore. Gli altri soldati, e specie quelli del lato che scoscende, si sono dovuti rifugiare al centro per non essere gettati giù dai dirupi. I ladroni urlano di terrore, la folla urla ancora di più e vorrebbe scappare. Ma non può. Cadono le persone l’una sull’altra, si pestano, precipitano nelle spaccature del suolo, si feriscono, rotolano giù per la china, impazziti. Per tre volte si ripete il terremoto e l’aeromoto, e poi si fa l’immobilità assoluta di un mondo morto. Solo dei lampi, ma senza tuono, rigano ancora il cielo e illuminano la scena dei giudei fuggenti in ogni senso, con le mani fra i capelli, o tese in avanti, o alzate al cielo, schernito fino allora e di cui ora hanno paura. La oscurità si tempera di un barlume di luce che, aiutato dal lampeggio silenzioso e magnetico, permette di vedere che molti restano al suolo, morti o svenuti, non so. Una casa arde nell’interno delle mura e le fiamme si alzano dritte nell’aria ferma, mettendo un punto di rosso fuoco sul verde cenere dell’atmosfera.
24Maria alza il capo dal petto di Giovanni e guarda il suo Gesù. Lo chiama, perché mal lo vede nella poca luce e coi suoi poveri occhi pieni di pianto. Tre volte lo chiama: «Gesù! Gesù! Gesù!». È la prima volta che lo chiama per nome da quando è sul Calvario. Infine, ad un lampo che fa come una corona sopra la vetta del Golgota, lo vede, immobile, tutto pendente in avanti, col capo talmente piegato in avanti, e a destra, da toccare con la guancia la spalla e col mento le coste, e comprende. Tende le mani che tremano nell’aria scura e grida: «Figlio mio! Figlio mio! Figlio mio!». Poi ascolta… Ha la bocca aperta, pare voglia ascoltare anche con quella, come ha dilatati gli occhi per vedere, per vedere… Non può credere che il suo Gesù non sia più… Giovanni, che anche lui ha guardato e ascoltato, ed ha compreso che tutto è finito, abbraccia Maria e cerca allontanarla dicendo: «Non soffre più». Ma, prima che l’apostolo termini la frase, Maria, che ha capito, si svincola, gira su se stessa, si curva ad arco verso il suolo, si porta le mani agli occhi e grida: «Non ho più Figlio!». E poi vacilla e cadrebbe se Giovanni non se la raccogliesse tutta sul cuore, e poi egli si siede, per terra, per sostenerla meglio sul suo petto, finché le Marie, non più trattenute dal cerchio superiore di armati — perché, ora che i giudei sono fuggiti, i romani si sono ammucchiati sulla piazzuola sottostante commentando l’accaduto — sostituiscono l’apostolo presso la Madre. La Maddalena si siede dove era Giovanni, e quasi si adagia Maria sui ginocchi, sostenendola fra le braccia e il suo petto, baciandola sul volto esangue, riverso sulla spalla pietosa. Marta e Susanna, con la spugna e un lino intrisi nell’aceto, le bagnano le tempie e le narici, mentre la cognata Maria le bacia le mani chiamandola con strazio, e appena Maria riapre gli occhi, e gira uno sguardo che il dolore rende come ebete, le dice: «Figlia, figlia diletta, ascolta… dimmi che mi vedi… Sono la tua Maria… Non mi guardare così!…». E poiché il primo singhiozzo apre la gola di Maria e le prime lacrime cadono, ella, la buona Maria d’Alfeo, dice: «Sì, sì, piangi… Qui con me, come da una mamma, povera, santa figlia mia»; e quando si sente dire: «Oh! Maria! Maria! hai visto?», ella geme: «Sì, sì,… ma… ma… figlia… oh! figlia!…». Non trova più altro e piange, l’anziana Maria. Un pianto desolato, a cui fanno eco tutte le altre, ossia Marta e Maria, la madre di Giovanni e Susanna. Le altre pie donne non ci sono più. Penso siano andate via, e con esse i pastori, quando si udì quel grido femminile…
25I soldati parlottano fra di loro. «Hai visto i giudei? Ora avevano paura». «E si battevano il petto». «I più terrorizzati erano i sacerdoti!». «Che paura! Ho sentito altri terremoti. Ma come questo mai. Guarda: la terra è rimasta piena di fessure». «E lì è franato tutto un pezzo della via lunga». «E sotto ci sono dei corpi». «Lasciali! Tanti serpenti di meno». «Oh! un altro incendio! Nella campagna…». «Ma è morto proprio?». «E non vedi? Ne hai dubbi?».
26Spuntano da dietro la roccia Giuseppe e Nicodemo. Certo si erano rifugiati lì, dietro il riparo del monte, per salvarsi dai fulmini. Vanno da Longino. «Vogliamo il Cadavere». «Solo il Proconsole lo concede. Andate, e presto, perché ho sentito che i giudei vogliono andare al Pretorio ed ottenere il crucifragio. Non vorrei facessero sfregio». «Come lo sai?». «Rapporto dell’alfiere. Andate. Io attendo». I due si precipitano giù per la strada ripida e scompaiono.
27È qui che Longino si accosta a Giovanni e gli dice piano qualche parola che non afferro. Poi si fa dare da un soldato una lancia. Guarda le donne tutte intente a Maria, che riprende lentamente le forze. Esse hanno, tutte, le spalle alla croce. Longino si pone di fronte al Crocifisso, studia bene il colpo e poi lo vibra. La larga lancia penetra profondamente da sotto in su, da destra a sinistra. Giovanni, combattuto fra il desiderio di vedere e l’orrore di vedere, torce per un attimo il viso. «È fatto, amico», dice Longino e termina: «Meglio così. Come a un cavaliere. E senza spezzare ossa… Era veramente un Giusto!». Dalla ferita geme molt’acqua e un filino appena di sangue già tendente a raggrumarsi. Geme, ho detto. Non esce che filtrando dal taglio netto che rimane inerte, mentre, se vi fosse stato del respiro, si sarebbe aperto e chiuso nel moto toracico addominale…
28…Mentre sul Calvario tutto resta in questo tragico aspetto, io raggiungo Giuseppe e Nicodemo che scendono per una scorciatoia per fare più presto. Sono quasi alla base quando si incontrano con Gamaliele. Un Gamaliele spettinato, senza copricapo, senza mantello, con la splendida veste sporca di terriccio e strappata dai rovi. Un Gamaliele che corre, salendo e ansando, con le mani nei capelli radi e molto brizzolati di uomo anziano. Si parlano senza fermarsi. «Gamaliele! Tu?». «Tu, Giuseppe? Lo lasci?». «Io no. Ma tu come qui? E così?…». «Cose tremende! Ero nel Tempio! Il segno! Il Tempio scardinato! Il velo di porpora e giacinto pende lacerato! Il Sancta Santorum è scoperto! Anatema è su noi!». Ha parlato continuando a correre verso la cima, reso pazzo dalla prova. I due lo guardano andare… si guardano… dicono insieme: «”Queste pietre fremeranno alle mie ultime parole!”. Egli glielo aveva promesso!…».
29Affrettano la corsa verso la città. Per la campagna, fra il monte e le mura, e oltre, vagano, nell’aria ancora fosca, persone con aspetto di ebeti… Urli, pianti, lamenti… Chi dice: «Il suo Sangue ha piovuto fuoco!». Chi: «Fra i fulmini Geové è apparso a maledire il Tempio!». Chi geme: «I sepolcri! I sepolcri!». Giuseppe afferra uno che dà di cozzo la testa contro la muraglia e lo chiama a nome, tirandoselo dietro mentre entra in città: «Simone! Ma che vai dicendo?». «Lasciami! Un morto anche tu! Tutti i morti! Tutti fuori! E mi maledicono». «È impazzito», dice Nicodemo. Lo lasciano e trottano verso il Pretorio. La città è in preda del terrore. Gente che vaga battendosi il petto. Gente che fa un salto indietro o si volge spaventata sentendo dietro una voce o un passo. In uno dei tanti archivolti oscuri, l’apparizione di Nicodemo, vestito di lana bianca — perché, per fare più presto, si è levato sul Golgota il manto oscuro — fa dare un urlo di terrore ad un fariseo fuggente. Poi si accorge che è Nicodemo e gli si attacca al collo con una espansione strana, urlando: «Non mi maledire! Mia madre m’è apparsa e mi ha detto: “Sii maledetto in eterno!”», e poi si accascia al suolo gemendo: «Ho paura! Ho paura!». «Ma sono tutti folli!», dicono i due. È raggiunto il Pretorio. E solo qui, mentre attendono di essere ricevuti dal Proconsole, Giuseppe e Nicodemo riescono a sapere il perché di tanti terrori. Molti sepolcri si erano aperti sotto la scossa tellurica, e c’era chi giurava averne visto uscire gli scheletri, che per un attimo si ricomponevano con parvenza umana e andavano accusando i colpevoli del deicidio e maledicendoli.
30Li lascio nell’atrio del Pretorio, dove i due amici di Gesù entrano senza tante storie di stupidi ribrezzi e paure di contaminazioni, e torno sul Calvario, raggiungendo Gamaliele che sale, ormai sfinito, gli ultimi metri. Procede battendosi il petto e, quando giunge sulla prima delle due piazzuole, si butta bocconi, lunghezza bianca sul suolo giallastro, e geme: «Il segno! Il segno! Dimmi che mi perdoni! Un gemito, anche un gemito solo, per dirmi che mi odi e perdoni». Comprendo che lo crede ancora vivo. Né si ricrede altro che quando un soldato, urtandolo con l’asta, dice: «Alzati e taci. Non serve! Dovevi pensarci prima. È morto. E io, pagano, te lo dico: Costui, che voi avete crocifisso, era realmente il Figlio di Dio!». «Morto? Morto sei? Oh!…». Gamaliele alza il volto terrorizzato, cerca vedere fin lassù in cima, nella luce crepuscolare. Poco vede, ma quel tanto da capire che Gesù è morto lo vede. E vede il gruppo pietoso che conforta Maria, e Giovanni ritto alla sinistra della croce che piange, e Longino ritto a destra, solenne nella sua rispettosa postura. Si pone in ginocchio, tende le braccia e piange: «Eri Tu! Eri Tu! Non possiamo più avere perdono. Abbiamo chiesto il tuo Sangue su noi. Ed Esso grida al Cielo, e il Cielo ci maledice… Oh! Ma Tu eri la Misericordia!… Io ti dico, io, l’annientato rabbi di Giuda: “Il tuo Sangue su noi, per pietà“. Aspergici con Esso! Perché solo Esso può impetrarci perdono…», piange. E poi, più piano, confessa la sua segreta tortura: «Ho il segno richiesto… Ma secoli e secoli di cecità spirituale stanno sulla mia vista interiore, e contro il mio volere di ora si drizza la voce del mio superbo pensiero di ieri… Pietà di me! Luce del mondo, nelle tenebre che non ti hanno compreso fa’ scendere un tuo raggio! Sono il vecchio giudeo fedele a ciò che credevo giustizia ed era errore. Adesso sono una landa brulla, senza più alcuno degli antichi alberi della Fede antica, senza alcun seme o stelo della Fede nuova. Sono un arido deserto. Opera Tu il miracolo di far sorgere un fiore che abbia il tuo nome in questo povero cuore di vecchio israelita pervicace. In questo mio povero pensiero, prigioniero delle formule, penetra Tu, Liberatore. Isaia lo dic: “… pagò per i peccatori e prese su Sé i peccati di molti”. Oh! anche il mio, Gesù Nazareno…». Si alza. Guarda la croce che si fa sempre più nitida nella luce che rischiara e poi se ne va curvo, invecchiato, annichilito. E sul Calvario torna il silenzio, appena rotto dal pianto di Maria. I due ladroni, esausti dalla paura, non parlano più.
31Tornano in corsa Nicodemo e Giuseppe, dicendo che hanno il permesso di Pilato. Ma Longino, che non si fida troppo, manda un soldato a cavallo dal Proconsole per sapere come deve fare anche coi due ladroni. Il soldato va e torna al galoppo con l’ordine di consegnare Gesù e di compiere il crucifragio sugli altri, per volere dei giudei. Longino chiama i quattro boia, che sono vigliaccamente accoccolati sotto la rupe, ancora terrorizzati dell’accaduto, e ordina che i due ladroni siano finiti a colpi di clava. Cosa che avviene senza proteste per Disma, al quale il colpo di clava, sferrato al cuore dopo aver già percosso i ginocchi, spezza a metà fra le labbra, in un rantolo, il nome di Gesù. E con maledizioni orrende da parte dell’altro ladrone. Il loro rantolo è lugubre.
32I quattro carnefici vorrebbero anche occuparsi di Gesù, staccandolo dalla croce. Ma Giuseppe e Nicodemo non lo permettono. Anche Giuseppe si leva il mantello e dice a Giovanni di imitarlo e di tenere le scale mentre loro salgono con leve e tenaglie. Maria si alza tremante, sorretta dalle donne, e si accosta alla croce. Intanto i soldati, finito il loro compito, se ne vanno. E Longino, prima di scendere oltre la piazzuola inferiore, si volta dall’alto del suo morello a guardare Maria e il Crocifisso. Poi il rumore degli zoccoli suona sulle pietre e quello delle armi contro le corazze, e si allontana sempre più. Il palmo sinistro è schiodato. Il braccio cade lungo il Corpo, che ora pende semistaccato. Dicono a Giovanni di salire lui pure, lasciando le scale alle donne. E Giovanni, montato sulla scala dove prima era Nicodemo, si passa il braccio di Gesù intorno al collo e lo tiene così, tutto abbandonato sul suo òmero, abbracciato dal suo braccio alla vita e tenuto per la punta delle dita per non urtare l’orrendo squarcio della mano sinistra, che è quasi aperta. Quando i piedi sono schiodati, Giovanni fatica non poco a tenere e sostenere il Corpo del suo Maestro fra la croce e il suo corpo. Maria si pone già ai piedi della croce, seduta con le spalle alla stessa, pronta a ricevere il suo Gesù nel grembo. Ma schiodare il braccio destro è l’operazione più difficile. Nonostante ogni sforzo di Giovanni, il Corpo pende tutto in avanti e la testa del chiodo sprofonda nella carne. E, poiché non vorrebbero ferirlo di più, i due pietosi faticano molto. Finalmente il chiodo è afferrato dalla tenaglia e estratto piano piano. Giovanni tiene sempre Gesù per le ascelle, con la testa rovesciata sulla sua spalla, mentre Nicodemo e Giuseppe lo afferrano uno alle cosce, l’altro ai ginocchi, e cautamente scendono così dalle scale.
33Giunti a terra, vorrebbero adagiarlo sul lenzuolo che hanno steso sui loro mantelli. Ma Maria lo vuole. Si è aperta il manto, lasciandolo pendere da una parte, e sta con le ginocchia piuttosto aperte per fare cuna al suo Gesù. Mentre i discepoli girano per darle il Figlio, la testa coronata ricade all’indietro e le braccia pendono verso terra, e struscerebbero al suolo con le mani ferite se la pietà delle pie donne non le tenessero per impedirlo. Ora è in grembo alla Madre… E sembra uno stanco e grande bambino che dorma tutto raccolto sul seno materno. Maria lo tiene col braccio destro passato dietro le spalle del Figlio e il sinistro passato al disopra dell’addome per sorreggerlo alle anche. La testa è sulla spalla materna. E Lei lo chiama… lo chiama con voce di strazio. Poi se lo stacca dalla spalla e lo carezza con la sinistra, ne raccoglie e stende le mani e, prima di incrociarle sul grembo spento, le bacia, e piange sulle ferite. Poi carezza le guance, specie là dove è il livido e il gonfiore, bacia gli occhi infossati, la bocca rimasta lievemente storta a destra e socchiusa. Vorrebbe ravviargli i capelli, come gli ha ravviato la barba ingrommata di sangue. Ma nel farlo incontra le spine. Si punge per levare quella corona e non vuole farlo che Lei, con l’unica mano che ha libera, e respinge tutti dicendo: «No, no! Io! Io!», e pare abbia fra le dita il capo tenerello di un neonato, tanto va con delicatezza nel farlo. E quando può levare questa torturante corona, si curva a medicare tutti gli sgraffi delle spine con i baci. Con la mano tremante divide i capelli scomposti, li ravvia e piange, e parla piano piano, e asciuga con le dita le lacrime che cadono sulle povere carni gelide e sanguinose, e pensa di pulirle col pianto e col suo velo, che è ancora ai lombi di Gesù. E ne tira a sé una estremità, e con quella si dà a detergere ed asciugare le membra sante. E sempre torna in carezze sul volto, e poi sulle mani, e poi carezza le ginocchia contuse, e poi risale ad asciugare il Corpo, su cui cadono lacrime e lacrime. È nel fare questo che la sua mano incontra lo squarcio del costato. La piccola mano, coperta dal lino sottile, entra quasi tutta nell’ampia bocca della ferita. Maria si curva per vedere, nella semiluce che si è formata, e vede. Vede il petto aperto e il cuore di suo Figlio. Urla, allora. Sembra che una spada apra a Lei il cuore. Urla, e poi si rovescia sul Figlio e pare morta Lei pure.
34La soccorrono, la confortano. Le vogliono levare il Morto divino e, poiché Ella grida: «Dove, dove ti metterò, che sia sicuro e degno di Te?», Giuseppe, tutto curvo in un inchino riverente, la mano aperta appoggiata sul petto, dice: «Confortati, o Donna! Il mio sepolcro è nuovo e degno di un grande. Lo dono a Lui. E questo, Nicodemo, amico, già nel sepolcro ha portato gli aromi, ché egli questo vuole offrire di suo. Ma, te ne prego, poiché la sera si avvicina, lasciaci fare… È Parasceve. Sii buona, o Donna santa!». Anche Giovanni e le donne pregano in tal senso, e Maria si lascia levare dal grembo la sua Creatura, e si alza, affannosa, mentre lo avvolgono nel lenzuolo, pregando: «Oh! fate piano!». Nicodemo e Giovanni alle spalle, Giuseppe ai piedi, sollevano la Salma avvolta non solo nel lenzuolo, ma appoggiata anche sui mantelli che fanno da portantina, e si avviano giù per la via. Maria, sorretta dalla cognata e dalla Maddalena, seguita da Marta, Maria di Zebedeo e Susanna, che hanno raccolto i chiodi, le tenaglie, la corona, la spugna e la canna, scende verso il sepolcro. Sul Calvario restano le tre croci, di cui quella di centro è nuda e le due altre hanno il loro vivo trofeo che muore.
35«Ed ora», dice Gesù, «fate bene attenzione. Ti risparmio la descrizione della sepoltura, che è fatta bene dallo scorso anno: 19 febbraio 1944. Userete perciò quella, e P. M. metterà al termine della stessa il lamento di Maria che ho dato a suo tempo: 4 ottobre 1944. Poi metterai quanto vedrai tu di nuovo. Sono parti nuove della Passione e vanno messe a posto molto bene, per non fare confusione o lasciare lacune».
Cap. DCX. Angoscia di Maria al Sepolcro e unzione del Corpo di Gesù.
19 febbraio 1944.
1 Dire quello che io provo è inutile. Farei unicamente un’esposizione del mio soffrire, e perciò senza valore rispetto al soffrire che io vedo. Lo descrivo dunque, senza commenti su me.
2 Assisto alla sepoltura di Nostro Signore. Il piccolo corteo, dopo aver sceso il Calvario, trova alla base dello stesso, scavato nel calcare del monte, il sepolcro di Giuseppe d’Arimatea. In esso entrano i pietosi col Corpo di Gesù. Vedo il sepolcro fatto così. È un ambiente ricavato nella pietra in fondo ad una ortaglia tutta in fiore. Sembra una grotta, ma si capisce scavata dalla mano dell’uomo. Vi è la camera sepolcrale propriamente detta con i suoi loculi (fatti diversi da quelli delle catacombe). Questi sono come fori tondi che penetrano nella pietra come buchi di un alveare, tanto per dare un’idea. Per ora sono tutti vuoti. Si vede l’occhio vuoto di ogni loculo come una macchia nera nel grigiastro della pietra. Poi, precedente a questa camera sepolcrale, vi è come un’anticamera. Al centro della stessa, il tavolo di pietra per l’unzione. Su questo viene posto Gesù nel suo lenzuolo. Entrano anche Giovanni e Maria. Non di più, perché la camera preparatoria è piccola e, se fossero in più persone, non potrebbero più muoversi. Le altre donne stanno presso la porta, ossia presso l’apertura, perché non vi è porta vera e propria.
3 I due portatori scoprono Gesù. Mentre essi preparano, in un angolo, su una specie di mensola, alla luce di due torce, le bende e gli aromi, Maria si curva sul Figlio e piange. E daccapo lo asciuga col velo che è ancora ai lombi di Gesù. È l’unico lavacro che ha il Corpo di Gesù, questo delle lacrime materne, e se sono copiose e abbondanti non servono però che a levare superficialmente e parzialmente polvere, sudore e sangue di quel Corpo torturato. Maria non si stanca di carezzare quelle membra gelate. Con una delicatezza ancor maggiore che se toccasse quelle di un neonato, Ella prende le povere mani straziate, le stringe fra le sue, ne bacia le dita, le stende, cerca di riunire le slabbrature delle ferite come per medicarle, perché dolgano meno, si appoggia sulle guance quelle mani che non possono più accarezzare, e geme, geme nel suo dolore atroce. Raddrizza e unisce i poveri piedi, che stanno così abbandonati, come mortalmente stanchi di tanto cammino fatto per noi. Ma essi si sono troppo spostati sulla croce, e specie il sinistro sta quasi per piatto come non avesse più caviglia. Poi torna al Corpo e lo carezza, così freddo e già rigido, e quando vede una nuova volta lo squarcio della lancia che ora, nella posizione supina del Salvatore sulla lastra di pietra, è aperto e beante come una bocca, lasciante vedere meglio ancora la cavità toracica — la punta del cuore appare distintamente fra lo sterno e l’arco costale sinistro, e due centimetri circa sopra di essa vi è l’incisione fatta dalla punta della lancia nel pericardio e nel cardio, lunga un buon centimetro e mezzo, mentre quella esterna al costato destro è di almeno sette — Maria grida di nuovo come sul Calvario. Sembra che la lancia trapassi Lei, tanto Ella si contorce nel suo dolore, portando le mani al cuore suo, trafitto come quello di Gesù. Quanti baci su quella ferita, povera Mamma! Poi torna al capo riverso e lo raddrizza, poiché è rimasto lievemente piegato indietro e fortemente a destra. Cerca di chiudere le palpebre, che si ostinano a rimanere semichiuse, e la bocca rimasta aperta, contratta, un poco storta a destra. Ravvia i capelli, solo ieri tanto belli e ordinati, ed ora fatti tutto un groviglio appesantito dal sangue. Districa le ciocche più lunghe, le liscia sulle sue dita, le arrotola per ridare ad esse la forma dei dolci capelli del suo Gesù, così morbidi e ricciuti. E geme, geme perché si ricorda di quando era bambino… È il motivo fondamentale del suo dolore: il ricordo dell’infanzia di Gesù, del suo amore per Lui, delle sue cure che temevano anche dell’aria più viva per la Creaturina divina, e il confronto con quanto gli hanno fatto, ora, gli uomini.
4 Il suo lamento mi fa stare male. Ed il suo gesto quando, gemendo: «Che ti hanno, che ti hanno fatto, Figlio mio?», non potendolo vedere così, nudo, rigido, su una pietra, Ella se lo raccoglie in braccio, passandogli il braccio sotto le spalle e serrandolo sul petto con l’altra mano e ninnandolo, con la stessa mossa della grotta della Natività, mi fa piangere e soffrire come se una mano mi frugasse nel cuore.
4 ottobre 1944.
5 La terribile angoscia spirituale di Maria. La Madre è ritta presso la pietra dell’unzione e carezza, e contempla, e geme, e piange. La luce tremolante delle torce illumina a tratti il suo volto, ed io vedo dei grossi goccioloni di pianto rotolare sulle guance pallidissime di un viso devastato. E odo le parole. Tutte. Ben distinte, per quanto mormorate fra le labbra, vero colloquio di anima materna coll’anima del Figlio. Ricevo l’ordine di scriverle.
6 «Povero Figlio! Quante ferite!… Come hai sofferto! Guarda che t’hanno fatto!… Come sei freddo, Figlio! Le tue dita sono di gelo. E come sono inerti! Paiono spezzate. Mai, neppure nel sonno più abbandonato dell’infanzia, né in quello pesante della tua fatica di artiere, erano inerti così… E come sono fredde! Povere mani! Dàlle alla tua Mamma, tesoro mio, amore santo, amore mio! Guarda come sono lacerate! Ma guarda, Giovanni, che squarcio! Oh! crudeli! Qui, qui, dalla tua Mamma questa mano ferita. Che te la medichi. Oh! non ti farò male… Userò baci e lacrime, e col fiato e con l’amore te la scalderò. Dammi una carezza, Figlio! Tu sei di ghiaccio, io ardo di febbre. La mia febbre avrà sollievo dal tuo gelo, e il tuo gelo si molcerà alla mia febbre. Una carezza, Figlio! Sono poche ore che non mi carezzi, e mi paiono secoli. Vi furono mesi senza tue carezze, e mi parvero ore perché sempre aspettavo il tuo venire e di ogni giorno facevo un’ora, di ogni ora un minuto, per dirmi che Tu non m’eri lontano da una o più lune, ma da solo pochi dì, da sole poche ore. Perché ora è così lungo il tempo? Ah! strazio inumano! Perché Tu sei morto. Mi ti hanno morto! Non ci sei più sulla Terra! Più! In qualunque posto io getti l’anima per cercare la tua e abbracciarsi ad essa, poiché trovarti, averti, sentirti era la vita della mia carne e del mio spirito, in qualunque posto io ti cerchi con l’onda del mio amore, non ti trovo più, più non ti trovo! Di Te non mi resta che questa spoglia fredda, questa spoglia senz’anima! O anima del mio Gesù, o anima del mio Cristo, o anima del mio Signore, dove sei? Perché avete levata l’anima al Figlio mio, iene crudeli congiunte con Satana? E perché non m’avete seco lui crocifissa? Avete avuto paura di un secondo delitto? (La voce si fa sempre più forte e straziante). E che era uccidere una povera donna, per voi che non avete esitato ad uccidere Dio fatto Carne? Non avete commesso un secondo delitto? E non è questo il più nefando, di lasciare sopravvivere una madre al figlio trucidato?».
7 La Madre, che con la voce aveva alzato anche il capo, ora torna a curvarsi sul volto spento ed a parlare piano, solo per Lui: «Almeno nella tomba, qui dentro, saremmo stati insieme come insieme saremmo stati nell’agonia sul legno, e insieme nel viaggio oltre vita e incontro alla Vita. Ma, se seguirti non posso nel viaggio oltre la vita, qui ad attenderti posso restare». Si torna a drizzare e dice forte ai presenti: «Andate tutti. Io resto. Chiudetemi qui con Lui. Lo attendo. Che dite? Che non si può? Perché non si può? Se fossi morta non sarei qui, coricata al suo fianco, in attesa d’essere composta? Sarò al suo fianco, ma in ginocchio. Vi fui quando Egli vagiva, tenero e roseo, in una notte decembrina. Vi sarò ora, in questa notte del mondo che non ha più il Cristo. Oh! vera notte! La Luce non è più!… O gelida notte! L’Amore è morto! Che dici, Nicodemo? Mi contamino? Il suo Sangue non è contaminazione. Non mi contaminai neppure nel generarlo. Ah! come uscisti, Tu, Fiore del mio seno, senza lacerare fibra, ma proprio come fiore di profumato narciso, che sboccia dall’anima del bulbo-matrice e dà fiore anche se l’abbraccio della terra non è stato sulla matrice. Vergine fiorire che in Te ha riscontro, o Figlio venuto da abbraccio celeste e nato fra celesti dilagar di fulgori».
8 Ora la Madre straziata si torna a curvare sul Figlio, straniandosi da ogni altra cosa che non sia Lui, e mormora piano: «Ma te la ricordi, Figlio, quella sublime veste di splendori che tutto vestì mentre il tuo sorriso nasceva al mondo? Te la ricordi quella beatifica luce che il Padre mandò dai Cieli per avvolgere il mistero del tuo fiorire e per farti trovare meno repellente questo mondo oscuro, a Te che eri Luce e venivi dalla Luce del Padre e dello Spirito Paraclito? Ed ora?… Ora buio e freddo… Quanto freddo! Quanto! Io ne tremo tutta. Più di quella notte di dicembre. Allora c’era la gioia dell’averti a scaldarmi il cuore. E Tu avevi due ad amarti… Ora… Ora sono sola e morente io pure. Ma ti amerò per due: per questi che ti hanno amato tanto poco da abbandonarti nel momento del dolore; ti amerò per quelli che ti hanno odiato, per tutto il mondo ti amerò, o Figlio. Non sentirai il gelo del mondo. No, non lo sentirai. Tu non mi apristi le viscere per nascere, ma per non farti sentire il gelo io sono pronta ad aprirmele e chiuderti nell’abbraccio del seno mio. Tu lo ricordi come questo seno ti amò, piccolo germe palpitante?… È sempre quel seno. Oh! è il mio diritto e il mio dovere di Madre. È il mio desiderio. Non c’è che la Madre che possa averlo, che possa avere per il Figlio un amore grande quanto l’universo».
9 La voce si è andata elevando e ora, tutta forte, dice: «Andate. Io resto. Tornerete fra tre giorni ed usciremo insieme. Oh! rivedere il mondo appoggiata al tuo braccio, o Figlio mio! Come sarà bello il mondo alla luce del tuo risorto sorriso! Il mondo fremente al passo del suo Signore! La Terra ha tremato quando la morte ti ha svelto l’anima e dal cuore t’è uscito lo spirito. Ma ora tremerà… oh! non più di orrore e spasimo, ma del fremito soave, a me sconosciuto ma che la mia femminilità intuisce, che scuote una vergine quando, dopo un’assenza, sente la pedata dello sposo che viene per le nozze. Più ancora: la Terra fremerà di un fremito santo, come io ne fui scossa, fin nel profondo più fondo, quando ebbi in me il Signore Uno e Trino, e il volere del Padre col fuoco dell’Amore creò il seme da cui Tu sei venuto, o mio Bambino santo, Creatura mia, tutta mia! Tutta! Tutta della Mamma! della Mamma!… Ogni bambino ha padre e madre. Anche il bastardo ha un padre e una madre. Ma Tu hai avuto la Mamma sola a farti la Carne di rosa e giglio, a farti questi ricami di vene, azzurre come i nostri rivi di Galilea, e queste labbra di melograno, e questi capelli che più vaghi non l’hanno le capre biondo-chiomate dei nostri colli, e questi occhi, due piccoli laghi di Paradiso. No, anzi, che son dell’acqua da cui viene l’unico e quadruplice Fiume del Luogo di delizie, e seco porta, nei suoi quattro rami, l’oro, l’onice, il bidellio e l’avorio, e i diamanti, e le palme, e il miele, e le rose, e ricchezze infinite, o Fison, o Gehon, o Tigri, o Eufrate: via agli angeli giubilanti in Dio, via ai re che Te adorano, Essenza conosciuta o sconosciuta, ma vivente, ma presente anche nel cuore più oscuro! Solo la tua Mamma ti ha fatto questo, col suo “sì”… Di musica e di amore ti ho composto, di purezza e ubbidienza ti ho fatto, o Gioia mia!
10Il tuo Cuore cosa è? La fiamma del mio che si è partita per condensarsi in corona intorno al bacio di Dio alla sua Vergine. Ecco cosa è questo tuo Cuore. Ah!». (L’urlo è straziante, al punto che la Maddalena accorre a soccorrere insieme a Giovanni. Le altre non osano e, piangenti e velate, sogguardano dall’apertura). «Ah! te l’hanno spezzato! Ecco perché sei così freddo e così fredda sono io! Non hai più dentro la fiamma del mio cuore, ed io non posso più continuare a vivere per il riflesso di quella fiamma, che era mia e che ti ho data per farti un cuore. Qui, qui, qui, sul mio petto! Prima che morte m’uccida ti voglio scaldare, cullare ti voglio. Ti cantavo: “Non c’è casa, non c’è cibo, non c’è altro che dolor”. O profetiche parole! Dolore, dolore, dolore per Te, per me! Ti cantavo: “Dormi, dormi sul mio cuore”. Anche ora: qui, qui, qui…». E, sedendosi sull’orlo della pietra, se lo raccoglie in grembo, passandosi un braccio del Figlio sulle spalle, appoggiandosi il capo del Figlio sull’òmero e su quel capo piegando il suo, tenendolo stretto al petto, ninnandolo, baciandolo, straziata e straziante.
11Nicodemo e Giuseppe si avvicinano, appoggiando ad una specie di sedile, che è all’altra parte della pietra, vasi e bende, e la sindone monda e un catino con acqua, mi pare, e batuffoli di filacce, mi pare. Maria vede e chiede, forte: «Che fate voi? Che volete? Prepararlo? A che? Lasciatelo in grembo alla sua Mamma. Se riesco a scaldarlo, prima risorge. Se riesco a consolare il Padre e a consolare Lui dell’odio deicida, il Padre perdona prima, e Lui prima torna». La Dolorosa è quasi delirante. «No, non ve lo do! L’ho dato una volta, una volta l’ho dato al mondo, e il mondo non lo ha voluto. L’ha ucciso per non volerlo. Ora non lo do più! Che dite? Che lo amate? Già! Ma perché allora non l’avete difeso? Avete atteso, a dirlo che lo amavate, quando non era più che uno che non poteva più udirvi. Che povero amore il vostro! Ma se eravate così paurosi del mondo, al punto di non osare di difendere un innocente, almeno lo dovevate rendere a me, alla Madre, perché difendesse il suo Nato. Lei sapeva chi era e che meritava. Voi!… Voi lo avete avuto a Maestro, ma non avete nulla imparato. Non è vero forse? Mento forse? Ma non vedete che non credete alla sua Risurrezione? Ci credete? No. Perché state là, preparando bende e aromi? Perché lo giudicate un povero morto, oggi gelido, domani corrotto, e lo volete imbalsamare per questo. Lasciate le vostre manteche. Venite ad adorare il Salvatore col cuore puro dei pastori betlemmiti. Guardate: nel suo sonno non è che uno stanco che riposa. Quanto ha faticato nella vita! Sempre più ha faticato! E in queste ultime ore, poi!… Ora riposa. Per me, per la Mamma sua non è che un grande Bambino stanco che dorme. Ben misero il letto e la stanza! Ma anche il suo primo giaciglio non fu più bello, né più allegra la sua prima dimora. I pastori adorarono il Salvatore nel suo sonno di Infante. Voi adorate il Salvatore nel suo sonno di Trionfatore di Satana. E poi, come i pastori, andate a dire al mondo: “Gloria a Dio! Il Peccato è morto! Satana è vinto! Pace sia in Terra e in Cielo fra Dio e l’uomo!”. Preparate le vie al suo ritorno. Io vi mando. Io che la Maternità fa Sacerdotessa del rito. Andate. Ho detto che non voglio. Io l’ho lavato col mio pianto. E basta. Il resto non occorre. E non vi pensate di porlo su di Lui. Più facile sarà per Lui il risorgere se libero da quelle funebri, inutili bende. Perché mi guardi così, Giuseppe? E tu perché, Nicodemo? Ma l’orrore di questa giornata ebeti vi ha fatto? Smemorati? Non ricordate? “A questa generazione malvagia e adultera, che cerca un segno, non sarà dato che il segno di Giona… Così il Figlio dell’uomo starà tre giorni e tre notti nel cuore della Terra”. Non ricordate? “Il Figlio dell’uomo sta per essere dato in mano agli uomini che l’uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà“. Non ricordate? “Distruggete questo Tempio del Dio vero ed in tre giorni Io lo risusciterò”. Il Tempio era il suo Corpo, o uomini. Scuoti il capo? Mi compiangi? Folle mi credi? Ma come? Ha risuscitato i morti e non potrà risuscitare Se stesso?
12Giovanni?». «Madre!». «Sì, chiamami “madre”. Non posso vivere pensando che non sarò chiamata così! Giovanni, tu eri presente quando risuscitò la figlioletta di Giairo e il giovinetto di Naim. Erano ben morti, quelli, vero? Non era solo un pesante sopore? Rispondi». «Morti erano. La bambina da due ore, il giovinetto da un giorno e mezzo». «E sorsero al suo comando?». «E sorsero al suo comando». «Avete udito? Voi due, avete udito? Ma perché scuotete il capo? Ah! forse volete dire che la vita torna più presto in chi è innocente e giovinetto. Ma il mio Bambino è l’Innocente! Ed è il sempre Giovane. È Dio, mio Figlio!…». La Madre guarda con occhi di strazio e di follia i due preparatori che, accasciati ma inesorabili, dispongono i rotoli delle bende inzuppate ormai negli aromi. Maria fa due passi. Ha rideposto il Figlio sulla pietra con la delicatezza di chi depone un neonato nella cuna. Fa due passi, si curva ai piedi del letto funebre, dove in ginocchio piange la Maddalena, e l’afferra per una spalla, la scuote, la chiama: «Maria. Rispondi. Costoro pensano che Gesù non possa risorgere perché uomo e morto di ferite. Ma tuo fratello non è più vecchio di Lui?». «Sì». «Non era tutto una piaga?». «Sì». «Non era già putrido prima di scendere nel sepolcro?». «Sì». «E non risorse dopo quattro giorni di asfissia e di putrefazione?». «Sì». «E allora?».
13Un silenzio grave e lungo. Poi un urlo inumano. Maria vacilla portandosi una mano sul cuore. La sostengono. Ma Lei li respinge. Pare respinga i pietosi. In realtà respinge ciò che Lei sola vede. E urla: «Indietro! Indietro, crudele! Non questa vendetta! Taci! Non ti voglio udire! Taci! Ah! mi morde il cuore!». «Chi, Madre?». «O Giovanni! Satana è! Satana che dice: “Non risorgerà. Nessun profeta l’ha detto”. O Dio altissimo! Aiutatemi tutti, o voi, spiriti buoni, o voi, uomini pietosi! La mia ragione vacilla! Non ricordo più nulla. Che dicono i profeti? Che dice il salmo? Oh! chi mi ripete i passi che parlano del mio Gesù?». È la Maddalena che con la sua voce d’organo dice il salmo davidico sulla Passione del Messia. La Madre piange più forte, sorretta da Giovanni, e il pianto cade sul Figlio morto che ne è tutto bagnato. Maria vede, e lo asciuga, e dice a voce bassa: «Tanto pianto! E quando avevi tanta sete neppure una stilla te ne ho potuto dare. E ora… tutto ti bagno! Sembri un arbusto sotto una pesante rugiada. Qui, che la Mamma ti asciuga, Figlio! Tanto amaro hai gustato! Sul tuo labbro ferito non cada anche l’amaro e il sale del materno pianto!…». Poi chiama forte: «Maria. Davide non dice… Sai Isaia? Di’ le sue parole…». La Maddalena dice il brano sulla Passione e termina con un singhiozzo: «… consegnò la sua vita alla morte e fu annoverato tra i malfattori, Egli che tolse i peccati del mondo e pregò per i peccatori». «Oh! Taci! Morte no! Non consegnato alla morte! No! No! Oh! che il vostro non credere, alleandosi alla tentazione di Satana, mi mette il dubbio nel cuore! E dovrei non crederti, o Figlio? Non credere alla tua santa parola?! Oh! dilla all’anima mia! Parla. Dalle sponde lontane, dove sei andato a liberare gli attendenti la tua venuta, getta la tua voce d’anima alla mia anima protesa, alla mia che è qui, tutta aperta a ricevere la tua voce. Dillo a tua Madre che torni! Di’: “Al terzo giorno risorgerò”. Te ne supplico, Figlio e Dio! Aiutami a proteggere la mia fede. Satana la attorciglia nelle spire per strozzarla. Satana ha levato la sua bocca di serpe dalla carne dell’uomo, perché Tu gli hai strappato questa preda, e ora ha confitto l’uncino dei suoi denti velenosi nella carne del mio cuore e me ne paralizza i palpiti, e la forza, e il calore. Dio! Dio! Dio! Non permettere che io diffidi! Non lasciare che il dubbio mi agghiacci! Non dare libertà a Satana di portarmi a disperare! Figlio! Figlio! Mettimi la mano sul cuore. Caccerà Satana. Mettimela sul capo. Vi riporterà la luce. Santifica con una carezza le mie labbra, perché si fortifichino a dire: “Credo” anche contro tutto un mondo che non crede. Oh! che dolore è non credere! Padre! Molto bisogna perdonare a chi non crede. Perché, quando non si crede più… quando non si crede più… ogni orrore diviene facile. Io te lo dico… io che provo questa tortura. Padre, pietà dei senza fede! Da’ loro, Padre santo, da’ loro, per questa Ostia consumata e per me, ostia che si consuma ancora, da’ la tua Fede ai senza fede!».
14Un lungo silenzio. Nicodemo e Giuseppe fanno un cenno a Giovanni e alla Maddalena. «Vieni, Madre». È la Maddalena che parla, cercando di allontanare Maria dal Figlio e di dividere le dita di Gesù intrecciate fra quelle di Maria, che le bacia piangendo. La Mamma si raddrizza. È solenne. Stende un’ultima volta le povere dita esangui, conduce la mano inerte a fianco del Corpo. Poi abbassa le braccia verso terra e, ben dritta, colla testa lievemente riversa, prega e offre. Non si ode parola. Ma si capisce che prega da tutto l’aspetto. È veramente la Sacerdotessa all’altare, la Sacerdotessa nell’attimo dell’offerta. «Offerimus praeclarae majestati tuae de tuis donis, ac datis, hostiam puram, hostiam sanctam, hostiam immaculatam…». Poi si volge: «Fate pure. Ma Egli risorgerà. Inutilmente voi diffidate della mia ragione e siete ciechi alla verità che Egli vi disse. Inutilmente tenta Satana di insidiare la mia fede. A redimere il mondo manca anche la tortura data al mio cuore da Satana vinto. La subisco e la offro per i futuri. Addio, Figlio! Addio, mia Creatura! Addio, Bambino mio! Addio… Addio… Santo… Buono… Amatissimo e amabile… Bellezza… Gioia… Fonte di salute… Addio… Sui tuoi occhi… sulle tue labbra… sui tuoi capelli d’oro… sulle tue membra gelide… sul tuo Cuore trafitto… oh! sul tuo Cuore trafitto… il mio bacio… il mio bacio… il mio bacio… Addio… Addio… Signore! Pietà di me!».
[19 febbraio 1944]
15I due preparatori hanno finito la preparazione delle bende. Vengono alla tavola e denudano Gesù anche del suo velo. Passano una spugna, mi pare, o un batuffolo di lino sulle membra in una molto frettolosa preparazione delle membra goccianti da mille parti. Poi spalmano tutto il Corpo di unguenti. Lo seppelliscono addirittura sotto una crosta di manteca. Prima lo hanno sollevato, nettando anche la tavola di pietra su cui posano la sindone, che pende per oltre la metà dal capo del letto. Lo riadagiano sul petto e spalmano tutto il dorso, le cosce, le gambe. Tutta la parte posteriore. Poi delicatamente lo girano, osservando che non venga asportata la manteca degli aromi, e lo ungono anche dalla parte anteriore. Prima il tronco, poi le membra. Prima i piedi, per ultime le mani, che uniscono sul basso ventre. La mistura degli aromi deve essere appiccicosa come gomma, perché vedo che le mani restano a posto, mentre prima scivolavano sempre per il loro peso di membra morte. I piedi no. Conservano la loro posizione: uno più dritto, l’altro più steso. Per ultimo, il capo. Dopo averlo spalmato accuratamente, di modo che le fattezze scompaiono sotto lo strato di unguento, lo legano con la fascia mentoniera per mantenere chiusa la bocca. Maria geme più forte. Poi alzano il lato pendente della sindone e la ripiegano sopra a Gesù. Egli scompare sotto la grossa tela della sindone. Non è più che una forma coperta da un telo. Giuseppe osserva che tutto sia bene a posto e appoggia ancora sul viso un sudario di lino e altri panni, simili a corte e larghe strisce rettangolari, che passano da destra a sinistra, al disopra del Corpo, e tengono a posto la sindone, bene aderente al Corpo. Non è la caratteristica fasciatura che si vede nelle mummie e neppure nella risurrezione di Lazzaro. È un embrione di fasciatura. Gesù ormai è annullato. Anche la forma si confonde sotto i lini. Sembra un lungo mucchio di tela, più stretto ai vertici e più largo al centro, appoggiato sul grigio della pietra. Maria piange più forte.
[4 ottobre 1944]
16Dice Gesù: «E la tortura continuò con assalti periodici sino all’alba della Domenica. Io ho avuto, nella Passione, una sola tentazione. Ma la Madre, la Donna, espiò per la donna, colpevole di ogni male, più e più volte. E Satana sulla Vincitrice infierì con centuplicata ferocia. Maria l’aveva vinto. Su Maria la più atroce tentazione. Tentazione alla carne della Madre. Tentazione al cuore della Madre. Tentazione allo spirito della Madre. Il mondo crede che la Redenzione ebbe fine col mio ultimo anelito. No. La compì la Madre, aggiungendo la sua triplice tortura per redimere la triplice concupiscenza, lottando per tre giorni contro Satana che la voleva portare a negare la mia Parola e non credere nella mia Risurrezione. Maria fu l’unica che continuò a credere. Grande e beata è anche per questa fede. Hai conosciuto anche questo. Tormento che fa riscontro al tormento del mio Getsemani. Il mondo non capirà questa pagina. Ma “coloro che sono nel mondo senza essere del mondo” la comprenderanno e aumentato amore avranno per la Madre Dolorosa. Per questo l’ho data. Va’ in pace con la nostra benedizione».
Cap. DCXI. La chiusura del Sepolcro e il ritorno al Cenacolo.
28 marzo 1945.
1 Giuseppe d’Arimatea spegne una delle torce, dà un’ultima occhiata e si avvia all’apertura del sepolcro tenendo accesa e alta la superstite torcia. Maria si china ancora una volta per baciare il Figlio attraverso le sue coperture. E vorrebbe farlo dominando la sua pena, per contenerla in una forma di rispetto al Cadavere che, già imbalsamato, non le appartiene più. Ma, quando è prossima al Volto velato, non si domina più e si abbatte in una nuova crisi di desolazione. La sollevano di là a fatica, la allontanano, con ancora maggiore fatica, dal letto funebre. Ricompongono le tele scomposte e, più portandola di peso che sorreggendola, portano via la povera Madre, che si allontana col volto girato all’indietro, per vedere, per vedere il suo Gesù che resta solo nel buio del sepolcro.
2 Escono nell’ortaglia silenziosa nella luce vespertina. Già la relativa luce, che si è rifatta dopo la tragedia del Golgota, si torna ad incupire per la notte che scende. E là, sotto le ramaglie fitte, per quanto ancora nude di fronde e appena ornate delle bocche bianco-rosa dei meli in boccio, stranamente in ritardo in questo frutteto di Giuseppe, mentre altrove sono già tutti coperti di fiori aperti e anche già fecondati in minuscoli pomi, vi è ancora più penombra che altrove. Viene fatta scorrere la pesante pietra del sepolcro nella sua cunella. Dei lunghi rami di un rosaio scapigliato, che si rovesciano dall’alto della grotta verso il suolo, paiono bussare a quella porta di pietra e dire: «Perché ti chiudi davanti ad una madre che piange?». E paiono piangere anche loro gocce di sangue coi petali rossi che si sfogliano, colle corolle che si adagiano lungo la pietra scura, coi boccioli serrati che battono contro la inesorabile chiusura.
3 Ma presto altro sangue bagna quella porta sepolcrale e altro pianto. Maria, fino allora sorretta da Giovanni e abbastanza quieta nel suo singhiozzare, si svincola dall’apostolo e con un grido, che io credo abbia fatto tremare anche le fibre delle piante, si getta contro la porta, si attacca alla sporgenza di essa per respingerla, si scortica le dita e si spezza le unghie senza riuscirvi, e fa leva fin col capo premuto contro questa sporgenza ruvida. E il suo gemito ha del ruggito di una leonessa che si sveni sulla soglia della trappola dove sono chiusi i suoi nati, pietosa e feroce per amore di madre. Non ha più nulla della mite vergine di Nazaret, della paziente donna fin qui conosciuta. È la madre. Solo e semplicemente la madre, attaccata con tutte le fibre ed i nervi della carne e dell’amore alla sua creatura. È la più vera «padrona» di quella carne che ha generato, l’unica padrona dopo Dio, e non vuole le sia rubata questa sua proprietà. È la «regina» che difende il suo serto: il figlio, il figlio, il figlio. Tutta la ribellione e le ribellioni che in trentatré anni ogni altra donna avrebbe avuto contro l’ingiustizia del mondo verso la sua creatura, tutte le ferocie sante e lecite che ogni altra madre avrebbe avuto durante quelle ultime ore per ferire e uccidere con le mani e coi denti gli assassini del suo nato, tutte queste cose che Ella per amore del genere umano ha sempre domate, ora si agitano nel suo cuore, bollono nel suo sangue e, mite anche nel suo dolore che la fa pazza, Ella non impreca, Ella non si avventa. Ma solo chiede alla pietra che si apra, che le ceda il passo, perché il suo posto è là dentro, dove Egli è. Ma solo chiede agli uomini, impietosi nella loro pietà, di ubbidirle e di aprire. Dopo avere percosso e sanguinato con le labbra e con le mani sulla pietra tenace, si volge, si appoggia a braccia aperte, abbrancando ancora i due orli della pietra, e terribile nella sua maestà di Madre dolorosa ordina: «Aprite! Non volete? Ebbene, io qui resto. Dentro no? Qui fuori, allora. Qui è il mio pane e il mio letto. Qui è la mia dimora. Non ho altre case né altro scopo. Voi andate pure. Tornate nel mondo che è uno schifo. Io resto dove non è bramosia e odor di sangue». «Non puoi, Donna!». «Non puoi, Madre!». «Non puoi, Maria, cara!». E cercano di staccarle le mani dalla pietra, impauriti di quegli occhi, che essi non conoscono ancora con quel bagliore che li fa duri e imperiosi, vitrei, fosforici.
4 La prepotenza non è dei miti, e gli umili non sanno durare nella superbia… E a Maria subito cade la veemenza del volere e l’impero del comandare. Torna ad avere il suo sguardo mite di colomba torturata, perde l’imponenza dell’atto e si curva da capo con atto di supplica, e congiunge le mani pregando: «Oh! mi lasciate! Per i vostri morti, per quelli che amate fra i vivi, pietà di una povera madre!… Sentite… Sentite il mio cuore. Ha bisogno di pace per perdere questo battito crudele. Esso si è messo a battere così lassù, sul Calvario. Il martello faceva ton, ton, ton… e ogni colpo feriva il mio Bambino… e mi picchiava nel cervello e nel cuore… e la testa mi è piena di quei colpi, e il cuore batte veloce così come era quel ton, ton, ton, sulle mani, sui piedi del mio Gesù, del mio piccolo Gesù… Il mio Bambino! Il mio Bambino!…». Le torna tutto il tormento, che pareva calmato dopo la sua preghiera al Padre presso la tavola dell’unzione. Piangono tutti. «Ho bisogno di non sentire urli né urti. E il mondo è pieno di voci e di rumori. Ogni voce mi sembra il “grande grido” che mi ha impietrito il sangue nelle vene, e ogni rumore mi sembra quello del martello sui chiodi. Ho bisogno di non vedere volti d’uomo. E il mondo è pieno di volti… Io sono quasi dodici ore che vedo volti di assassini… Giuda… i carnefici… i sacerdoti… i giudei… Tutti, tutti assassini!… Via! Via… Non voglio più vedere alcuno… In ogni uomo è un lupo e un serpente. Io sento ribrezzo e paura dell’uomo… Lasciatemi qui, sotto questi alberi quieti, su quest’erba fiorita… Fra poco ci saranno le stelle… Esse sono state le sue amiche e le mie amiche sempre… Ieri sera esse hanno fatto compagnia alla nostra solitaria agonia… Esse sanno tante cose… Esse vengono da Dio… Oh! Dio! Dio!…», piange e si inginocchia. «Pace, mio Dio! Non mi resti che Te!».
5 «Vieni, figlia. Dio ti darà pace. Ma vieni. Domani è il sabato pasquale. Non potremmo venire a portarti cibo…». «Niente! Niente! Non voglio cibo! Voglio la mia Creatura! Mi sfamo col mio dolore, mi disseto col mio pianto… Qui… Sentite come piange quell’assiolo? Piange con me, e fra poco piangeranno gli usignoli. E domani, nel sole, piangeranno le calandre e i capineri e tutti gli uccelli che Egli amava, e le tortore verranno con me a battere a questa pietra e a dire, e a dire: “Levati, amor mio, e vieni! Amore che stai nel crepaccio della rupe, nel nascondiglio del dirupo, lasciami vedere il tuo viso, lasciami ascoltare la tua voce”. Aaaah! che dico! Anche loro, anche loro, i biechi assassini, me lo hanno interpellato con la parola del Cantico! Sì, venite, o figlie di Gerusalemme, a vedere il vostro Re col diadema onde lo incoronò la sua Patria nel giorno del suo sposalizio con la Morte, nel giorno del suo trionfo di Redentore!». «Guarda, Maria! Sopraggiungono le guardie del Tempio. Vieni via, ché non ti facciano spregio». «Le guardie? Spregio? No. Sono vili. Vili sono. E se io marciassi su loro, terribile nel mio dolore, esse fuggirebbero come Satana davanti a Dio. Ma io mi ricordo di essere Maria… e non le colpirò come ne avrei diritto. Starò buona… non mi vedranno neppure. E, se mi vedranno e mi chiederanno: “Che vuoi?”, dirò loro: “L’elemosina di respirare l’aria imbalsamata che esce da questa fessura”. Dirò: “In nome di vostra madre”. Tutti hanno una madre… l’ha detto anche il ladrone pietoso…». «Ma queste sono peggio dei ladroni. Ti insulteranno». «Oh!… E c’è ancora un insulto che io non conosca, dopo quelli di oggi?».
6 È la Maddalena che trova la ragione capace di piegare la Dolorosa all’ubbidienza. «Tu sei buona, tu santa sei, e credi, e sei forte. Ma noi che siamo?… Tu lo vedi! I più, fuggiti. I superstiti, pavidi. Il dubbio, che è già in noi, ci piegherebbe. Tu sei la Madre. Non hai solo il dovere e il diritto sul Figlio. Ma il dovere e il diritto su ciò che è del Figlio. Tu devi tornare con noi, fra noi, per raccoglierci, per rassicurarci, per infonderci la tua fede. Tu lo hai detto, dopo il tuo giusto rimprovero alla nostra pavidità e miscredenza: “Più facile sarà a Lui il risorgere se libero da queste inutili bende”. Io ti dico: “Se noi riusciremo a riunirci nella fede nella sua Risurrezione, più presto Egli risorgerà. Lo evocheremo col nostro amore…”. Madre, Madre del mio Salvatore, torna con noi, tu, amore di Dio, per darci questo tuo amore! Vuoi dunque che si perda di nuovo la povera Maria di Magdala, che Egli ha salvato con tanta pietà?». «No. Ne avrei rimprovero. Hai ragione. Devo tornare… cercare gli apostoli… i discepoli… i parenti… tutti… Dire… dire: credete. Dire: Egli vi perdona… A chi l’ho già detto?… Ah! All’Iscariota… Bisognerà… sì, bisognerà cercare anche lui… perché è il più grande peccatore…». Maria resta col capo curvo sul petto, trema come per ribrezzo, e poi dice: «Giovanni, lo cercherai. E me lo porterai. Lo devi fare. E io lo devo fare. Padre, anche questo sia fatto per la redenzione dell’Umanità. Andiamo». Si alza. Escono dall’ortaglia semioscura. Le guardie li guardano uscire senza far motto. 7 La strada, polverosa e sconvolta dalla fiumana di popolo che l’ha percorsa e percossa con piedi e pietre e randelli, fa una curva intorno al Calvario per giungere sulla via maestra, che è parallela alle mura. E qui ancora più intense sono le tracce dell’avvenuto. Due volte Maria ha un grido e si curva studiando nella mal luce il suolo, perché le pare vedere del sangue e pensa sia del suo Gesù. Ma non sono che brandelli di stoffe lacerate nella mischia della fuga, io credo. Il torrentello, che corre lungo la via, mormora piano nel grande silenzio che è da per tutto. Sembra che la città sia abbandonata, tanto da essa non viene che silenzio. Ecco il ponticello che conduce alla erta via del Calvario. E, di fronte a questo, ecco la porta Giudiziaria. Prima di scomparire dentro di quella, Maria si volge a guardare la vetta del Calvario… e piange desolatamente. Poi dice: «Andiamo. Ma conducetemi voi. Io non voglio vedere Gerusalemme, le sue vie, i suoi abitanti». «Sì, sì, ma facciamo presto. Stanno per chiudere le porte e, lo vedi?, è rinforzata la guardia ad esse. Roma teme subbugli». «Ne ha ragione. Gerusalemme è un covo di tigri! È una tribù di assassini! È una turba di predoni. E non solo alle sostanze, ma alle vite tendono le zanne rapaci questi usurpatori.
8 Sono trentadue anni che me la insidiano la vita del mio Bambino… Era un agnellino di latte e rosa, un agnellino d’oro riccio… Appena sapeva dire “Mamma”, e fare i primi passetti, e ridere coi suoi pochi dentini fra le labbra di pallido corallo, quando sono venuti per sgozzarlo… Ora dicono che aveva bestemmiato, e violato il sabato, ed eccitato alla rivolta, e mirato al trono, e peccato con donne… Ma allora che aveva fatto? Quali bestemmie poteva avere detto se appena sapeva chiamare la Mamma? Che poteva violare della Legge, se Egli, l’eterno Innocente, era allora anche il piccolo innocente dell’uomo? Che rivolta poteva eccitare se neppure sapeva fare un capriccio? A che trono mirare? Il suo trono sulla Terra e nel Cielo Egli lo aveva, e non ne chiedeva altri. In Cielo aveva il seno del Padre, in Terra il mioseno. Mai ha avuto occhi per il senso, e voi, giovani e belle, lo potete dire. Ma allora, ma allora… Il suo senso era limitato al bisogno del tepore e del nutrimento, e amoreggiava, sì, ma colla mia tepida mammella, per posargli sopra la faccina e dormire così, e col tondo capezzolo, dal quale il mio amore fluiva in latte… Oh! mia Creatura!… E ti volevano morto! Questo ti volevano levare: la vita! Il tuo unico tesoro. La Madre al Figlio, il Figlio alla Madre, per renderci i più miseri e desolati dell’Universo. Perché levare al Vivo la vita? Perché arrogarvi il diritto di levare questa cosa che è la vita: bene del fiore e dell’animale, bene dell’uomo? Non vi chiedeva nulla il mio Gesù. Non denaro, non gioielli, non case. Una ne aveva, piccola e santa, e l’aveva lasciata per amore di voi, uomini-iene. Quello che ha il piccolo dell’animale, Egli lo aveva rinunciato per voi, ed era andato povero e solo per il mondo, senza più neppure il letto che gli aveva fatto il Giusto, senza neppure più il pane che gli faceva la Mamma, ed aveva dormito là dove aveva potuto ed aveva mangiato come aveva potuto. Nelle case dei buoni, come ogni figlio d’uomo, o sul giaciglio erboso dei prati, vegliato dalle stelle. Seduto ad una mensa, o dividendo con gli uccelli di Dio i chicchi del grano e il frutto del rovo selvatico. E non vi chiedeva nulla. Ma, anzi, vi dava. Voleva solo la vita per darvi con la sua parola la Vita. E voi, e tu, Gerusalemme, della vita lo avete spogliato. Sei sazia e pasciuta del suo Sangue e della sua Carne? O non ti empie ancora? E vuoi, iena dopo vampiro e avvoltoio, pascerti del suo Cadavere e, non ancora satolla di obbrobri e tormenti, ancora vuoi infierire e godere nello sfregiarne le spoglie e rivedere i suoi spasimi, i suoi tremiti, i suoi singulti, le sue convulsioni, in me, nella Madre dell’Ucciso?
9 Siamo giunti? Perché vi fermFate? Che vuole quell’uomo da Giuseppe? Che dice?». Infatti Giuseppe è stato fermato da uno dei rari passanti e, nel silenzio assoluto della città deserta, si sentono molto bene le loro parole. «È noto che sei entrato nella casa di Pilato. Profanatore della Legge. Ne renderai conto. La Pasqua t’è interdetta! Sei contaminato». «Anche tu, Elchia. Mi hai toccato e sono tutto coperto del sangue di Cristo e del suo sudore mortale!». «Ah! orrore! Via! Via! Quel sangue, via!». «Non avere paura. Ti ha già abbandonato. E maledetto». «Ma anche tu, maledetto. E non ti pensare, ora che amoreggi con Pilato, di potere sottrarre il Cadavere. Abbiamo provveduto perché il giuoco cessi». Nicodemo si è avvicinato lentamente, mentre le donne si sono fermate con Giovanni, addossandosi ad un fondo portale serrato. «Abbiamo visto», riprende Giuseppe. «Vigliacchi! Avete paura anche di un morto! Ma del mio orto e del mio sepolcro faccio ciò che mi pare». «Lo vedremo». «Lo vedremo. Mi appellerò a Pilato». «Sì. Fornica con Roma, ora». Nicodemo si fa avanti: «Meglio con Roma che col Demonio come voi, deicidi! E del resto, mi dici: come mai rimetti penne? Or ora fuggivi in preda al terrore. Già ti sta passando? Non basta ancora quanto avesti? Non è arsa una tua casa? Trema! Non è finito il castigo, ma anzi viene. Come la Nemesi dei pagani, ti incombe. Né guardie né suggelli vieteranno al Vendicatore di sorgere e colpire». «Maledetto!». Elchia fugge e va a urtare contro le donne. Comprende e dice un atroce insulto a Maria.
10Giovanni non fa parola. Con un balzo di pantera gli si avvinghia e l’atterra e, tenendolo premuto coi ginocchi, le mani intorno al collo, gli dice: «Chiedile perdono o ti strozzo, demonio». E non lo lascia altro che quando l’altro, premuto e mezzo strangolato dalle mani di Giovanni, non arrangola: «Perdono». Ma il suo grido ha attirato la ronda. «Alto là! Che avviene? Altre sedizioni? Fermi tutti o sarete colpiti. Chi siete?». «Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, autorizzati dal Proconsole al seppellimento dell’ucciso Nazzareno, di ritorno dal sepolcro con la Madre, il figlio e le parenti e amiche. Costui ha offeso la Madre e fu obbligato a chiedere perdono». «Quello solo? Dovevate sgozzarlo. Andate. Soldati, arrestate costui. Che altro vogliono questi vampiri? Anche il cuor delle madri? Salve, giudei!». «Che orrore! Ma non sono più uomini… Giovanni, sii buono con loro. Guarda al ricordo del mio e tuo Gesù. Egli predicava perdono». «Madre, hai ragione. Ma sono delinquenti e mi levano di ragione. Sono sacrileghi, offendono te. E non lo posso permettere». «Sono delinquenti, sì. E sanno di esserlo.
11Guarda quanto pochi per le vie. E quei pochi come scantonano furtivi. Dopo il delitto, i delinquenti hanno paura. Vederli fuggire così, entrare nelle case, asserragliarvisi per paura, mi suscita orrore. Li sento tutti colpevoli del Deicidio. Guarda là, Maria, quel vecchio. È già curvo sulla fossa e pure, or che la luce di quella porta che si apre lo illumina, mi pare di averlo visto sfilare accusando il mio Gesù, là, sul Calvario… Lo diceva ladro… Ladro il mio Gesù!… Quel giovane, poco più che un fanciullo, pronunciava sconce bestemmie invocando il Sangue su lui… Oh! infelice!… E quell’uomo? Così nerboruto e forte, si sarà astenuto dal colpirlo? Oh! non voglio vedere! Guardate: sui volti che hanno si sovrappone il volto dell’anima e… e non hanno più effigie di uomini, ma di demoni… Tanto erano coraggiosi contro il Legato, il Crocifisso… E ora fuggono, si nascondono, si rinserrano. Hanno paura. Di chi? Di un morto. Per loro non è che un morto, poiché negano che sia Dio. Di che dunque hanno paura? A chi chiudono le porte? Al rimorso. Alla punizione. Non giova. Il rimorso è in voi. E vi seguirà in eterno. E la punizione non è umana. E non servono serrami e bastoni, porte e sbarre contro di essa. Essa scende dal Cielo, da Dio, vendicatore del suo Immolato, e penetra oltre mura e porte, e con la sua fiamma celeste vi marca per il castigo soprannaturale che vi attende. Il mondo verrà al Cristo, al Figliuolo di Dio e mio, verrà a Colui che voi avete trafitto, ma voi sarete in eterno i segnati, i Caini di un Dio, marcati come l’obbrobrio della razza umana. Io che sono nata da voi, io che sono Madre di tutti, devo dire che a me, vostra figlia, voi siete stati più che patrigni e che, nello sterminato numero dei miei figli, voi siete quelli che più mi imponete fatica ad accogliervi, perché siete sozzi del delitto verso la mia Creatura. Né ve ne pentite dicendo: “Eri il Messia. Ti riconosciamo e ti adoriamo”. Ecco un’altra ronda romana. L’Amore non è più sulla Terra. La Pace non è più fra gli uomini. E l’Odio e la Guerra si agitano come quelle torce fumose. I dominatori hanno paura della folla scatenata. Sanno per esperienza che, quando quella belva che si chiama uomo ha sentito il sapore del sangue, diviene avida di strage… Ma non temete di questi. Questi non sono leoni né pantere reali. Sono vilissime iene. Si avventano sull’agnello inerme. Ma temono il leone armato di lance e di autorità. Non temete di questi striscianti sciacalli. Il vostro passo ferrato li pone in fuga e il brillare delle vostre lance li fa più miti di conigli.
12Quelle lance! Una ha aperto il cuore del Figlio mio! Quale fra esse? Vederle mi è freccia al cuore… Eppure vorrei averle tutte fra queste mani che tremano, per vedere quale è quella che ancora ha tracce di sangue, e dire: “È questa! Dammela, o soldato! Dàlla ad una madre in ricordo della tua madre lontana, ed io pregherò per lei e per te”. E nessun soldato me la negherebbe. Perché essi, gli uomini di guerra, furono i più buoni davanti all’agonia del Figlio e della Madre. Oh! perché lassù non pensai a questo? Ero come una che ha avuto colpito il capo. Già l’avevo intontito da quei colpi… Oh! quei colpi! Chi mi dà di non sentirli più, qui, nella mia povera testa? La lancia… Come la vorrei!…». «La possiamo cercare, Maria. Il centurione mi parve molto buono con noi. Credo non me la negherà. Andrò domani». «Sì, sì, Giovanni. Sono povera. Non ho che poco denaro. Ma me ne spoglio fino all’ultimo picciolo per avere quel ferro… Oh! come ho potuto non chiederlo allora?». «Maria, cara, nessuno di noi sapeva di quella ferita… Quando la vedesti, i soldati erano lontani». «È vero… Sono ebete dal dolore. E le vesti? Non ho nulla di suo! Darei il mio sangue per averle…». Maria piange di nuovo desolatamente.
13E giunge così nella via dove è il Cenacolo. È tempo, perché è esausta e si trascina proprio come una vecchia cadente. E lo dice. «Fa’ cuore. Siamo giunte, ormai». «Giunte? Tanto breve la via che stamane mi parve tanto lunga? Stamane? È stato stamane? Non di più? Quante ore o quanti secoli sono passati da quando vi sono entrata ieri sera e da quando ne sono uscita questa mattina? Sono proprio io, la Madre cinquantenne, o una vegliarda secolare, una donna di più tempi, ricca di secoli sulle spalle curvate e sulla testa canuta? Mi pare di avere vissuto tutto il dolore del mondo e che esso sia tutto sulle mie spalle che piegano sotto il suo peso. Croce incorporea, ma così pesante! Di pietra. Pesante forse più ancora di quella del mio Gesù. Perché io porto la mia e la sua col ricordo del suo strazio e con la realtà del mio strazio. Entriamo. Poiché si deve entrare. Ma non è un conforto. È un aumento di dolore. Da questa porta è entrato il Figlio mio per l’ultimo suo pasto. Da questa ne è uscito per andare incontro alla morte. E ha dovuto mettere il suo piede là dove il suo traditore l’aveva messo uscendo per chiamare i catturatori dell’Innocente. Contro quell’uscio ho visto Giuda… Giuda ho visto! E non l’ho maledetto. Ma gli ho parlato da madre straziata. Straziata per il Figlio buono e per il figlio malvagio… Ho visto Giuda! Il Demonio ho visto in lui! Io, che ho sempre tenuto Lucifero sotto il mio calcagno e guardando solo Iddio non ho mai abbassato l’occhio su Satana, ho conosciuto il suo volto guardando il Traditore. Ho parlato col Demonio… Ed esso è fuggito, perché non sopporta la mia voce. L’avrà lasciato ora? In modo che io possa parlare a quel morto e io, la Genitrice, tornare a concepirlo con il Sangue di un Dio per partorirlo alla Grazia? Giovanni, giurami che lo cercherai e che non sarai crudele con lui. Non lo sono io, che pur ne avrei diritto… Oh! Lasciatemi entrare in quella stanza dove il mio Gesù ha preso l’ultimo suo pasto. Dove la voce del mio Bambino ha detto le sue ultime parole in pace!». «Sì. Anderemo. Ma ora, guarda, vieni qui, dove eravamo ieri. Riposa.
14Saluta Giuseppe e Nicodemo che si ritirano». «Li saluto, sì. Oh! li saluto. Li ringrazio. Li benedico!». «Ma vieni, vieni. Lo farai con più agio». «No. Qui. Giuseppe… Oh! non ho conosciuto alcuno con questo nome che non mi amasse…». Maria d’Alfeo dà in uno scoppio di pianto. «Non piangere… Anche Giuseppe… Era per amore che tuo figlio sbagliava. Voleva darmi umanamente pace… Ma oggi!… Lo hai visto… Oh! tutti i Giuseppe sono buoni con Maria… Giuseppe, io ti dico grazie. E a te, Nicodemo… Il mio cuore si prostra sotto i vostri piedi stanchi per il tanto cammino fatto per Lui… per gli ultimi onori a Lui… Io non ho che il cuore da darvi… e ve lo do, amici leali del Figlio mio… e… e scusate ad una madre trafitta le parole che vi dissi nel sepolcro…». «Oh! Santa! Tu perdona!», dice Nicodemo. «Sta’ buona, ora. Riposa nella tua Fede. Domani verremo», aggiunge Giuseppe. «Sì, verremo. Ai tuoi ordini siamo». «È sabato domani», obietta la padrona di casa. «Il sabato è morto. Verremo. Addio. Il Signore sia con voi», e se ne vanno.
15«Vieni, Maria». «Sì, Madre, vieni». «No. Aprite. Me lo avete promesso di farlo dopo i saluti. Aprite questa porta! Non potete chiuderla ad una madre. Ad una madre che cerca di respirare nell’aria l’odore del fiato, del corpo del suo Bambino. Ma non sapete che quel fiato e quel corpo gliel’ho dati io? Io, io che l’ho portato nove mesi, che l’ho partorito, allattato, allevato, curato? Quel fiato è mio! Quell’odore di carne è mio! È il mio, fatto più bello nel mio Gesù. Lasciatemelo sentire ancora una volta». «Ma sì, cara. Domani. Ora sei stanca. Sei ardente di febbre. Non puoi. Stai male». «Sì. Male. Ma è perché ho negli occhi la vista del suo Sangue e nel naso l’odore del suo Corpo piagato. Che io veda la tavola dove si appoggiò vivo e sano, che io senta il profumo del suo corpo giovanile. Aprite! Non me lo seppellite una terza volta! Già me lo avete celato sotto gli aromi e le bende, poi me lo avete serrato sotto la pietra. Ora perché, perché negare ad una Madre di ritrovare l’ultimo vestigio di Lui nell’alito che Egli ha lasciato oltre questa porta? Lasciatemi entrare. Cercherò per terra, sulla tavola, sul sedile, le tracce dei suoi piedi, delle sue mani. E le bacerò, le bacerò sino a consumarmi le labbra. Cercherò… cercherò… Forse troverò un capello del suo capo biondo. Un capello che non sia ingrommato di sangue. Ma lo sapete cosa è un capello del figlio per la sua mamma? Tu, Maria di Cleofa, tu Salome, siete madri. E non capite? Giovanni? Giovanni? Ascoltami. Io ti sono Madre. Egli mi ha fatto tale. Egli! Tu mi devi ubbidienza. Apri! Io ti amo, Giovanni. Ti ho sempre amato perché lo amavi. Ti amerò più ancora. Ma apri. Apri, dico! Non vuoi? Non vuoi? Ah! non ho dunque più figlio!? Gesù non mi ricusava mai nulla. Perché mi era figlio. Tu ricusi. Non sei tale. Non capisci il mio dolore… Oh! Giovanni, perdona… perdona… Apri… Non piangere… Apri… Oh! Gesù! Gesù!… Ascoltami… Il tuo spirito operi un miracolo! Apri alla tua povera Mamma quest’uscio che nessuno vuole aprire! Gesù! Gesù!». Maria bussa con le mani serrate a pugno la porticina ben chiusa. È in un parossismo di strazio. Finché impallidisce e, mormorando: «Oh! mio Gesù! Vengo! Vengo!», si rovescia senza forza fra le braccia delle donne piangenti, che la sorreggono per impedirle di cadere ai piedi di quella porta e la trasportano così nella stanza di fronte.
Cap. DCXII: La notte del Venerdì Santo. Lamento della Vergine. Il velo di Niche e la preparazione degli unguenti.
29 marzo 1945.
1 Maria, soccorsa dalle donne piangenti, rinviene e piange senza altra forza più che questa di piangere e piangere. Pare veramente che la sua vita debba fluire e consumarsi tutta con quel pianto. Le vogliono dare qualche ristoro. Marta le offre un poco di vino; la padrona di casa vorrebbe prendesse almeno un poco di miele; Maria d’Alfeo, in ginocchio davanti a Lei, le offre una tazza con del latte tiepido, dicendo: «L’ho munto io stessa alla capretta della piccola Rachele» (sarà una figlia di questi che sono in questa casa di Lazzaro, non so se come inquilini o come custodi). Ma Maria non vuole nulla. Piangere. Solo piangere. E chiedere e sentirsi promettere che saranno cercati apostoli e discepoli, che saranno cercate la lancia e le vesti, e che, a giorno fatto, posto che ora proprio non ve la vogliono lasciare andare, la lasceranno entrare nella stanza del Cenacolo. «Sì. Se starai un poco quieta, se riposerai un poco, io ti ci condurrò», dice la cognata. «Noi due entreremo ed in ginocchio io cercherò per te ogni segno di Gesù…», e Maria d’Alfeo ha un singhiozzo. «Ma vedi? Qui hai la coppa e il pane spezzato da Lui, usato da Lui per l’Eucarestia. Quale più santo ricordo? Vedi? Giovanni te li ha portati sin da stamane, perché tu li vedessi questa sera…
2 Povero Giovanni, che è là che piange ed ha paura…». «Paura? Perché? Vieni, Giovanni». Giovanni esce dall’ombra, perché nella stanza è una sola lucernetta messa sul tavolo presso gli oggetti della Passione, e si inginocchia ai piedi di Maria, che lo carezza e chiede: «Perché hai paura?». E Giovanni, baciandole le mani e piangendo: «Perché tu stai male. Hai la febbre e l’affanno… E non ti metti quieta. E se duri così morirai come è morto Lui…». «Oh! fosse vero!». «No! Madre! Mamma! Oh! è più dolce dire: “Mamma”. Come alla mia! Làsciatelo dire… Ma, come io non trovo differenza fra mia madre e te, e anzi ti amo più di lei, perché tu sei la Mamma che Egli mi ha dato e sei la sua Mamma, tu non fare una troppo grande differenza fra il Figlio tuo nato e il figlio che ti è stato dato… E amami un poco come ami Lui… Se fosse Lui che ti dicesse: “Ho paura che tu muoia”, risponderesti tu: “Oh! fosse vero”? No. Non lo diresti. Ma anzi ti dorresti di andartene e di lasciarlo in un mondo di lupi, Lui, il tuo Agnello… E di me non te ne accori?… Sono tanto più agnello di Lui. Non per bontà e purezza, ma per stupidità e paura. Se tu mi manchi, il povero Giovanni verrà sbranato dai lupi senza aver saputo dare un belato che parli del suo Maestro… Vuoi che muoia così, senza servirlo? Stupido in morte come in vita? No, vero? E allora, Mamma, cerca di metterti quieta… Per Lui… Oh! non dici che risorge? Sì, lo dici, ed è vero. E allora vuoi che quando Egli risorgerà trovi vuota la casa di te? Perché certo Egli verrà qui… Oh! povero, povero Gesù, se invece del tuo grido d’amore sentisse i nostri di cordoglio, se invece di trovare il tuo seno per posare il Capo martirizzato e glorioso trovasse la chiusura del tuo sepolcro… Vivere devi. Per salutarlo quando Egli tornerà… Non dico “al nostro amore”. Noi meritiamo ogni rimprovero per il modo come agimmo. Ma al tuo amore.
3 Oh! che sarà l’incontro? Ed Egli come sarà? Madre della Sapienza, Mamma dell’ignorantissimo Giovanni, tu che tutto sai, dicci come sarà Egli quando apparirà risorto». «Lazzaro aveva le ferite delle gambe chiuse, ma se ne vedeva il segno. E apparve avvolto in bende piene di marciume», dice Marta. «Lo dovemmo lavare e lavare…», aggiunge Maria. «E debole era, e dovemmo ristorarlo per suo ordine», Marta termina. «Il figlio della vedova di Naim era come sbalordito e pareva un bimbo incapace di camminare e parlare speditamente, tanto che Egli lo rese alla madre perché gli insegnasse a usare di nuovo del bene della vita. E la figlioletta di Giairo Egli stesso la guidò nei primi passi…», dice Giovanni. «Io penso che il mio Signore ci manderà un angelo a dirci: “Venite con una veste monda”. Ed il mio amore l’ha già preparata. È nel palazzo. Io non l’ho potuta filare. Ma l’ho fatta filare dalla mia nutrice, che ora è tranquilla sul mio futuro e non piange più. Io ho preso il lino più prezioso e da Plautina ho avuto la porpora, e Noemi l’ha tessuta nella balza; ed io ho fatto la cintura, la borsa e il talet, ricamandoli di notte per non essere vista. Ho imparato da te, Madre. Non è perfetto. Ma, più delle perle che fanno il suo Nome sulla cintura e sulla borsa, lo rendono bello i diamanti del mio pianto d’amore ed i miei baci. Ogni punto è un palpito di devozione per Lui. E io gli porterò quella. Tu permetti, non è vero?». «Oh!… Io non pensavo che lo privassero della sua veste… non sono pratica degli usi del mondo e della sua ferocia… Credevo di conoscerla già… (e le lacrime rotolano di nuovo lungo le guance ceree) ma vedo che ancora nulla sapevo… E pensavo: “Avrà la veste della Mamma anche dopo”. Gli piaceva tanto! L’aveva voluta Lui così. E me lo aveva detto da molto tempo: “Tu farai una veste così e così. E me la porterai per la Pasqua… Perché Gerusalemme mi deve vedere in porpurea veste di re…”. Oh! quella lana, candida più di neve, mentre la filavo diveniva rossa agli occhi di Dio e miei, perché il mio cuore ebbe una nuova ferita da quella parola… Le altre, dopo anni o dopo mesi, si erano, se non chiuse, disseccate dal loro gemere sangue. Ma questa! Ogni giorno, ogni ora mi rigirava la spada nel cuore: “Un giorno di meno! Un’ora di meno! E poi sarà morto!”. Oh! Oh!… E il filato sul fuso o sul telaio mi diveniva rosso… È sceso nella tinta, poi, per il mondo… Ma era già rosso…». Maria piange di nuovo. Cercano sollevarla parlandole della Risurrezione. Chiede Susanna: «Che dici tu? Come sarà, risorto? E come risorgerà?». E Lei, smarrita, acciecata in quest’ora di martirio redentivo, risponde: «Non so… Più nulla so… Fuorché che Egli è morto!…».
4 Ha un nuovo scoppio di pianto violento e bacia il lino che era ai fianchi del Figlio, e se lo stringe sul cuore e se lo ninna come fosse un bambino… E tocca i chiodi, le spine, la spugna, e urla: «Queste! Queste cose ha saputo darti la tua Patria! Ferro, spine, aceto e fiele! E insulti, insulti, insulti! E fra tutti i figli d’Israele fu dovuto scegliere un di Cirene per portarti la croce. Quell’uomo mi è sacro come uno sposo. E se ne conoscessi un altro che ha dato soccorso al mio Bambino io gli bacerei i piedi. Ma dunque nessuno ebbe pietà? Uscite! Andate! Anche vedere voi mi è dolore! Perché fra tutti, fra tutti, non avete saputo ottenere nemmeno una tortura meno crudele. Servi inutili e inerti del vostro Re, uscite!». È tremenda nel suo scatto. Ritta in piedi, rigida, pare persino più alta, con gli occhi imperiosi, il braccio teso che accenna alla porta. Comanda come un regina sul trono. Escono tutti senza reagire per non eccitarla di più e si siedono fuori della porta chiusa, ascoltando il suo gemere ed ogni rumore che Ella possa fare. Ma dopo il rumore del sedile respinto e dei suoi ginocchi che battono al suolo, perché Ella si inginocchia col capo contro la tavola su cui sono gli oggetti della Passione, non sentono altro che il suo pianto senza soste e conforto. Ella mormora, ma così piano che quelli di fuori non possono udire: «Padre, Padre, perdono! Divento superba e cattiva. Ma Tu lo vedi. È vero ciò che dico. Erano turbe intorno a Lui. E tutta la Palestina è, in queste feste, fra le mura sante… Sante? No. Non più sante… Tali sarebbero rimaste se Egli fosse spirato in esse. Ma Gerusalemme l’ha espulso come il rigurgito che fa nausea. Perciò in Gerusalemme è solo il Delitto… Ebbene, di tutto questo popolo che lo seguiva non se ne poté radunare un pugno che si imponesse, non dico per salvarlo. Doveva morire per redimere. Ma per farlo morire senza tante torture. Sono stati nell’ombra, oppure sono fuggiti… Il mio cuore si rivolta davanti a tanta viltà. Sono la Madre. Per questo perdona al mio peccato di durezza superba…», e piange… …Fuori gli altri sono sulle spine e per molti motivi.
5 Rientra il padrone di casa, che era uscito a curiosare, e porta notizie tremende. Si dice che molti sono morti nel terremoto, molti sono stati feriti in colluttazioni fra seguaci del Nazzareno e i giudei, che molti sono stati arrestati e vi saranno nuove esecuzioni per rivolte e minacce a Roma, che Pilato ha ordinato l’arresto di tutti i seguaci del Nazareno e dei capi del Sinedrio presenti in città o anche già fuggiti per la Palestina, che Giovanna è morente nel suo palazzo, che Mannaen è stato arrestato da Erode per averlo insolentito in piena Corte come complice del deicidio. Insomma un mucchio di notizie catastrofiche… Le donne gemono. Non tanto per paura di esse stesse, ma quanto per i loro figli e mariti. Susanna pensa allo sposo, noto fra i seguaci di Gesù in Galilea. Maria di Zebedeo pensa al marito, ospite presso un amico, e al figlio Giacomo di cui, dalla sera avanti, non ha notizia. E Marta singhiozza: «Saranno già andati a Betania! Chi non sapeva chi era Lazzaro per il Maestro?». «Ma è protetto da Roma, lui», rimbecca Maria Salome. «Oh! protetto! Chissà, con l’odio che per noi hanno i capi d’Israele, che accuse portano contro di lui a Pilato… Oh! Dio!». Marta si mette le mani fra i capelli e grida: «Le armi! Le armi! La casa ne è piena… e anche il palazzo! Lo so! Stamane, all’aurora, è venuto Levi, il guardiano, e mi ha detto… Ma già lo sai anche tu! E l’hai detto ai giudei sul Calvario… Stolta! Hai messo in mano ai crudeli l’arma per uccidere Lazzaro!…». «L’ho detto, sì. Ho detto il vero senza saperlo. Ma taci, spaventata gallina! Quanto ho detto è la più sicura garanzia per Lazzaro. Si guarderanno bene dall’avventurarsi in ricerche dove sanno essere degli armati! Sono vigliacchi!». «I giudei sì. Ma i romani no». «Non temo Roma. È giusta e pacata nelle sue disposizioni». «Maria ha ragione», dice Giovanni. «Longino mi ha detto: “Spero sarete lasciati tranquilli. Ma, non lo foste, vieni, o manda al Pretorio. Pilato è benigno verso i seguaci del Nazareno. Lo era anche per Lui. Vi difenderemo”». «Ma se i giudei fanno da loro? Ieri sera erano loro i catturatori di Gesù! E, se dicono che noi siamo profanatori, hanno diritto di prenderci. Oh! i miei figli! Quattro ne ho! Dove saranno Giuseppe e Simone? Erano sul Calvario e poi sono scesi quando Giovanna non resse. Per aiutare e difendere le donne. Loro, i pastori, Alfeo… tutti! Oh! li avranno certo già uccisi. Senti che Giovanna è morente? Lo è certo per ferita. Ed essi, prima che potesse la plebe colpire una donna, l’avranno difesa e saranno morti!… E Giuda e Giacomo? Il mio piccolo Giuda! Il mio tesoro! E Giacomo, dolce come una fanciulla! Oh, non ho più figli! Come la madre dei fanciulli Maccabei sono!…».
6 Piangono tutte disperatamente. Tutte meno la padrona di casa, che è andata a cercare un nascondiglio per il marito, e Maria Maddalena, che non piange. Ma getta fuoco dagli occhi, tornando la prepotente donna di un tempo. Non parla. Ma dardeggia le abbattute compagne, e il suo occhio le bolla di un epiteto molto chiaro: «Pusillanimi!». Passa del tempo così… Ogni tanto uno si alza, apre piano l’uscio, sbircia, torna a chiudere. «Che fa?», chiedono gli altri. E chi ha guardato risponde: «È sempre in ginocchio. Prega», oppure: «Pare che parli con qualcuno». E anche: «Si è alzata e gestisce andando su e giù per la stanza».
[senza data]
7Lamento della Vergine. «Gesù! Gesù! Gesù! Dove sei? Mi senti ancora? La senti la tua povera Mamma che grida, adesso, il tuo Nome dopo averlo tenuto in cuore per tante ore? Il tuo Nome santo e benedetto, che è stato il mio amore, l’amore delle mie labbra che sentivano sapore di miele a dire il tuo Nome, delle mie labbra che ora, invece, a dirlo pare che bevano l’amaro che t’è rimasto sulle labbra, l’amaro dell’atroce mistura. Il tuo Nome, amore del mio cuore che si gonfiava di gioia quando lo diceva, così come si era dilatato per travasare il suo sangue e accoglierti e vestirti di esso quando sei sceso a me dal Cielo, così piccino, così minuscolo che avresti potuto posare nel calice della menta selvatica, Tu, tanto grande, Tu, il Potente, annichilito in un germe d’uomo per la salute del mondo. Il tuo Nome, dolore del mio cuore, ora che ti hanno strappato alle carezze della tua Mamma per gettarti fra le braccia dei carnefici, che ti hanno torturato sino a farti morire! Ne ho il cuore stritolato da questo tuo Nome, che ho dovuto chiudere dentro per tante ore e che cresceva il suo grido più cresceva il tuo dolore, fino a sbriciolarlo come cosa calpestata dal piede di un gigante. Oh! sì che il mio dolore è gigante e mi schiaccia, mi frantuma e non vi è nulla che lo possa sollevare. A chi lo dico il tuo Nome? Nulla risponde al mio grido. Anche se io urlassi sino a spezzare la pietra che chiude il tuo sepolcro, Tu non lo udresti, perché sei morto. Non la senti più la tua Mamma!
8 Quante volte non ti ho chiamato, o Figlio, in questi trentaquattro anni! Da quando ho saputo che avrei dovuto esser Madre e che il mio Piccino si sarebbe chiamato “Gesù”! Tu non eri nato ed io, carezzandomi il seno dove Tu crescevi, chiamavo piano: “Gesù!”, e mi pareva che Tu ti muovessi per dirmi: “Mamma!”. Io ti davo già una voce. Me la sognavo già la tua voce. La udivo prima che fosse. E quando l’ho sentita, esile come quella di un agnellino appena nato, tremare nella notte fredda in cui sei nato, io ho conosciuto l’abisso della gioia… e credevo aver conosciuto l’abisso del dolore, perché era il pianto della mia Creatura che aveva freddo, che era in disagio, che piangeva il suo primo pianto di Redentore, ed io non avevo fuoco e cuna e non potevo soffrire in tua vece, Gesù. Non avevo che il seno per fuoco e guanciale, e il mio amore per adorarti, Figlio mio santo. Credevo aver conosciuto l’abisso del dolore… Era l’alba di quel dolore, era l’orlo di quel dolore. Ora è il meriggio, ora è il fondo. Questo è l’abisso, questo che tocco ora dopo esservi scesa in questi trentaquattro anni, sospinta da tante cose e prostrata nel fondo orrendo, oggi, della tua croce. Quando eri piccino, io ti cullavo cantando: “Gesù! Gesù!”. Quale armonia più bella e santa di questo Nome, che fa sorridere gli angeli in Cielo? Esso per me era più bello del canto così dolce degli angeli nella notte del tuo Natale. Vi vedevo dentro il Cielo, tutto il Cielo vedevo attraverso quel Nome. Ed ora, a dirlo a Te che sei morto e non mi senti e non rispondi, come Tu non fossi mai stato, io vedo l’Inferno, tutto l’Inferno. Ecco, ora capisco cosa vuol dire esser dannati. È non potere più dire: “Gesù”. Orrore! Orrore! Orrore!…
9 Quanto durerà questo inferno per la tua Mamma? Tu hai detto: “In capo a tre giorni Io riedificherò questo Tempio”. È tutt’oggi che mi ripeto queste tue parole per non cadere uccisa, per esser pronta a salutarti al tuo ritorno, a servirti ancora… Ma come potrò saperti morto per tre giorni? Tre giorni nella morte Tu, Tu, Vita mia? Ma come? Tu che tutto sai, poiché sei la Sapienza infinita, non lo sai lo spasimo della tua Mamma? Non te lo puoi figurare ricordando quando ti ho smarrito a Gerusalemme e Tu mi hai visto fendere la folla, che ti stava intorno, con il volto di una naufraga che tocca il lido dopo tanta lotta con l’onde e la morte, col viso di una che esce da una tortura spossata, svenata, invecchiata, spezzata? E allora ti potevo pensare unicamente smarrito. Potevo illudermi che era solo così. Oggi no. Oggi no. Lo so che sei morto. Non è possibile l’illusione.Ti ho visto uccidere. Ecco, anche se il dolore mi smemorasse, ecco qui il tuo Sangue sul mio velo che mi dice: “È morto! Non ha più sangue! Questo è l’ultimo, sgorgato dal suo Cuore!”. Dal suo Cuore! Dal Cuore del mio Bambino! Del Figlio mio! Del mio Gesù! Oh! Dio, Dio pietoso, non mi far ricordare che gli hanno spaccato il Cuore!… 10Gesù! Non posso stare qui, sola, mentre Tu sei là, solo. Io che non ho amato mai le vie del mondo e le folle, e Tu lo sai, da quando Tu hai lasciato Nazareth ti sono venuta sempre più sovente dietro, per non vivere lontano da Te. Non potevo vivere lontana da Te. Ho affrontato curiosità e scherni, non conto le fatiche perché esse si annullavano nel vederti, pur di vivere dove Tu eri. Ed ora io son qua sola. E Tu sei là solo! Perché non mi hanno lasciata nel tuo sepolcro? Mi sarei seduta presso il tuo gelido letto, tenendoti una mano nelle mie per farti sentire che t’ero vicina… No, per sentire che m’eri vicino. Tu non senti più nulla. Sei morto! Quante volte ho passato le notti presso la tua cuna, pregando, amando, beandomi di Te! Vuoi che ti dica come dormivi, coi pugnetti chiusi come due bocci di fiore presso il visino santo? Vuoi che ti dica come sorridevi nel sonno e, ricordandoti certo del latte della Mamma, dormendo facevi l’atto di succhiare? Vuoi che ti dica come ti svegliavi e aprivi gli occhietti e ridevi, vedendomi curva sul tuo viso, e tendevi le manine con gioia impaziente per esser preso, e con uno stridetto dolce come il trillo di un capinero reclamavi il tuo cibo? Ah! che ero beata quando ti attaccavi al mio seno e sentivo il tepore liscio della tua gota, la carezza delle tue manine sulla mia mammella! Non sapevi stare senza la tua Mamma. E ora sei solo! Perdonami, Figlio, d’averti lasciato solo. Di non essermi ribellata per la prima volta nella vita e di aver voluto restare là. Era il mio posto. Mi sarei sentita meno desolata se fossi stata presso il tuo funebre letto, ad accomodarti le fasce come un tempo, a mutarle… Anche se Tu non avessi potuto sorridermi e parlarmi, a me sarebbe parso di averti di nuovo piccino. Ti avrei accolto sul cuore per non farti sentire il freddo della pietra, il duro del marmo. Non ti ho tenuto anche oggi? Il grembo di una madre è sempre capace di accogliere il figlio, anche se è uomo. Il figlio è sempre un bambino per la sua mamma, anche se è un deposto di croce, coperto di piaghe e ferite.
11Quante! quante ferite! Quanto dolore! Oh! il mio Gesù, il mio Gesù tanto ferito! Così ferito! Così ucciso! No. No. Signore, no! Non può esser vero! Io sono pazza! Gesù morto? Io deliro. Gesù non può morire! Soffrire, sì. Morire, no. Egli è la Vita! Egli è Figlio di Dio. È Dio. Dio non muore. Non muore? E allora perché si è chiamato Gesù? Che vuol dire “Gesù”? Vuol dire… oh! vuol dire: “Salvatore”! È morto! È morto perché è il Salvatore! Ha dovuto salvare tutti perdendo Se stesso… Non deliro. No. Non sono pazza. No. Lo fossi! Soffrirei meno! Egli è morto. Ecco il suo Sangue. Ecco la sua corona. Ecco i tre chiodi. Con questi, con questi me lo hanno trafitto! Uomini, guardate con che avete trafitto Dio, il Figlio mio! E vi devo perdonare. E vi devo amare. Perché Egli vi ha perdonati. Perché Egli mi ha detto di amarvi! Mi ha fatto Madre vostra, Madre degli assassini della mia Creatura! Una delle sue ultime parole, lottando contro il rantolo dell’agonia… “Madre, ecco tuo figlio… i tuoi figli!”. Anche non fossi Colei che ubbidisce, avrei dovuto ubbidire oggi, perché era il comando di un morente. Ecco. Ecco, Gesù. Io perdono. Io li amo. Ah! mi si spezza il cuore in questo perdono e in questo amore! Mi senti che li perdono e che li amo? Prego per loro. Ecco, prego per loro… Chiudo gli occhi per non vedere questi oggetti della tua tortura, per poterli perdonare, per poterli amare, per poter pregare per loro. Ogni chiodo serve a crocifiggere una mia volontà di non perdonare, di non amare, di non pregare per i tuoi carnefici.
12Devo, voglio pensare di essere presso la tua cuna. Pregavo anche allora per gli uomini. Ma allora era facile. Tu eri vivo ed io, per quanto pensassi crudeli gli uomini, non giungevo mai a pensare che potessero esserlo tanto con Te, che li avevi beneficati oltre misura. Pregavo, convinta che la tua parola li avrebbe fatti più buoni. In cuor mio dicevo loro, guardandoli: “Siete cattivi, malati, ora, fratelli. Ma fra poco Egli parlerà, ma fra poco Egli vincerà in voi Satana. Vi darà la Vita perduta!”. La vita perduta! Tu, Tu, Tu l’hai perduta la vita per loro, Gesù mio! Se, quando eri nelle fasce, io avessi potuto vedere l’orrore di questo giorno, il mio dolce latte si sarebbe mutato in tossico per il dolore! Simeone l’ha detto: “E una spada ti trapasserà il cuore”. Una spada? Una selva di spade! Quante ferite ti hanno fatto, Figlio? Quanti gemiti hai avuto? Quanti spasimi? Quante gocce di sangue hai versato? Ebbene, ognuna è una spada in me. Sono una selva di spade. In Te non c’è lembo di pelle che non sia piagato. In me non ce ne è che non sia trafitto. Mi trapassano le carni e penetrano nel cuore.
13Quando attendevo la tua nascita, ti preparavo le fasce ed i pannilini filando il lino più morbido della terra. Non ho guardato al prezzo per poter possedere lo stame più liscio. Come eri bello nelle fasce della tua Mamma! Tutti mi dicevano: “È bello il tuo Bambino, Donna!”. Eri bello! Dal bianco del lino sporgeva la tua rosea faccina, avevi due occhietti più azzurri del cielo e la testolina pareva avvolta in una nebbia d’oro, tanto i tuoi capellini erano biondi e soffici. Sapevano di fior di mandorlo appena sbocciato. Credevano che io ti profumassi. No. Il mio Tesoro non aveva che il profumo delle fasce lavate dalla sua Mamma, scaldate, baciate dal suo cuore e dal suo labbro. Non ero mai stanca di lavorare per Te… E ora? Ora non ho più nulla da fare per Te. Da tre anni eri lontano da casa. Ma eri ancora lo scopo dei miei giorni. Pensare a Te. Alle tue vesti. Al tuo cibo: intridere la farina e farne pane, curare le api per darti il miele, vegliare sulle piante perché ti dessero frutta. Come le amavi, le cose che ti portava la tua Mamma! Nessun cibo di ricca mensa, nessuna veste di preziosa stoffa t’erano come queste tessute, cucite, curate, colte dalle mani della tua Mamma. Quando ti raggiungevo, Tu mi guardavi subito le mani, come quando eri piccino ed io e Giuseppe ti davamo i poveri doni per farti sentire che eri il “nostro” Re. Non sei mai stato goloso, Bambino mio; ma era l’amore che cercavi, era questo il tuo cibo, e nelle nostre premure trovavi quello. Anche ora trovavi, cercavi quello, povero Figlio mio così poco amato dal mondo! Ora più nulla. Tutto è compiuto. Non farà più nulla per Te la tua Mamma. Non hai più bisogno di nulla. Ora sei solo… ed io son sola… Oh! felice Giuseppe che non si è trovato a questo giorno! Io pure non ci fossi più stata! Ma allora Tu non avresti avuto neppure questo conforto di vedere la tua povera Mamma. Saresti stato solo sulla croce come sei solo nel sepolcro. Solo con le tue ferite.
14Oh! Dio! Dio, quante ferite ha il Figlio tuo, il Figlio mio! Come le ho potute vedere senza morire, io che tramortivo quando da piccino ti facevi male? Una volta sei caduto nell’orto di Nazareth e ti sei ferito la fronte. Poche gocce di sangue. Ma io, che m’ero sentita morire vedendo gocciare il tuo sangue nella circoncisione, e Giuseppe dovette sostenermi perché tremavo come una che muore, mi pareva che quella ferita minuscola t’avesse ad uccidere, e più col pianto che coll’acqua e coll’olio l’ho medicata, e non ho avuto bene se non quando non ha dato più sangue. Un’altra volta, imparavi a lavorare, ti feristi con la sega. Una piccola ferita. Ma era come se la sega mi avesse divisa nel mezzo. Non ho avuto requie che quando, sei giorni dopo, ho visto risanata la tua mano. Ed ora? Ed ora? Ora hai le mani, i piedi, il costato aperto, ora la tua carne cade a brandelli, ora hai la faccia contusa, quella faccia che io non osavo sfiorarti col bacio, e impiagata la fronte e la nuca. E nessuno ti ha dato medicamento e conforto.
15Guardami il cuore, o Dio che mi hai percossa nella mia Creatura! Guardalo! Non è piagato come il Corpo del Figlio tuo e mio? I flagelli sono scesi come grandine su me, mentre Egli era colpito. Che è la distanza per l’amore? Io ho patito la tortura di mio Figlio! L’avessi patita io sola! Fossi io sulla pietra sepolcrale! Guardami, o Dio! Non goccia sangue il mio cuore? Ecco il cerchio delle spine. Lo sento. È una fascia che me lo stringe e perfora. Ecco il foro dei chiodi: tre stili infissi nel cuore. Oh! quei colpi! quei colpi! Come non è crollato il Cielo per quei colpi sacrileghi nelle carni di Dio? E non poter urlare! Non poter lanciarmi e strappare l’arma agli assassini e farne difesa per la mia Creatura già morente. Ma doverli udire, udire… e non far nulla! Un colpo sul chiodo, e il chiodo entra nelle carni vive. Un altro colpo, ed entra più ancora. E un altro, e un altro, e si spezzano le ossa e i nervi, e viene trafitta la carne del mio Bambino e il cuore della sua Mamma! E quando ti hanno alzato sulla tua croce? Quanto devi aver sofferto, Figlio santo! Vedo ancora lacerarsi la tua mano nella scossa della caduta. Ho il cuore lacerato come essa. Sono contusa, flagellata, punta, colpita, trafitta come Te. Non ero con Te sulla croce. Ma guardala, la tua Mamma! È diversa da Te? No, non c’è differenza di martirio. Anzi, il tuo è finito. Il mio dura ancora. Tu non odi più le accuse bugiarde; io le sento. Tu non odi più le bestemmie orrende. Io le sento ancora. Tu non senti più il morso delle spine e dei chiodi e la sete e la febbre. Io sono piena di punte di fuoco e sono come chi muore di arsione e delirio.
16Almeno una goccia d’acqua mi avessero lasciato darti. Il mio pianto, se la ferocia degli uomini negava al Creatore l’acqua da Lui creata. Ti ho dato tanto latte, perché eravamo poveri, Figlio mio, e nella fuga in Egitto avevamo tanto perduto e avevamo dovuto rifarci un tetto, dei mobili e vesti e cibo, né sapevamo quanto l’esilio sarebbe durato, né cosa avremmo trovato tornando al paese. Ti ho dato il latte oltre il solito tempo, perché Tu non sentissi mancanza di cibo. Sinché non fu presa la capretta, la tua capretta fui io, Bambino della tua Mamma. Tu avevi già tanti dentini, e mordevi… Oh! gioia vederti ridere nel giuoco infantile!… Tu volevi camminare. Eri tanto sano e forte. Io ti sorreggevo per ore e ore, e non sentivo spezzarsi le reni nello stare curva su Te, che facevi i tuoi passetti e dicevi ad ogni passo: “Mamma, Mamma!”. Oh! beatitudine sentirti cantare quel nome! Lo dicevi anche oggi: “Mamma, Mamma!”. Ma la tua Mamma non poteva che vederti morire! Neppure accarezzarti i piedi potevo! I piedi? Ah! non avrei potuto, anche se fossero stati alla portata della mia mano, toccarli, per non accrescerne il tormento. Come dovevano soffrire i tuoi poveri piedi, o mio Gesù! Fossi potuta salire a Te e mettermi fra il legno e il tuo Corpo, e impedire che nelle convulsioni dell’agonia Tu urtassi contro il legno! La sento ancora la tua testa battere nel legno negli ultimi sussulti. E quel suono, quel suono mi fa impazzire. L’ho nella testa… come un martello… Torna, torna, Figlio caro, Figlio adorato, Figlio santo! Io muoio. Non reggo a questa mia desolazione. Mostrami di nuovo il tuo volto. Chiamami ancora. Io non posso pensarti senza voce, senza sguardo, spoglia fredda e senza vita. Oh! Padre, soccorrimi Tu! Gesù non mi sente! Non è finita la Passione? Non è tutto compiuto? Non bastano questi chiodi, queste spine, questo sangue, questo mio pianto? Ancora dell’altro ci vuole per guarire l’uomo?
17Padre, ti nomino gli strumenti del suo dolore ed il mio pianto. Ma questo è il meno. Quello che lo ha fatto morire sovrumanamente straziato è stato il tuo abbandono. Quello che mi fa urlare è il tuo abbandono. Non ti sento più! Dove sei, Padre santo? Ero la Piena di Grazia. L’Angelo l’ha detto: “Ave, Maria, piena di Grazia, il Signore è con te e tu sei benedetta fra tutte le donne”. No. Non è vero! Non è vero! Io sono come una maledetta da Te per il suo peccato. Tu non sei più con me. La Grazia si è ritirata come se io fossi una seconda Eva peccatrice. Ma io ti sono sempre stata fedele. In che t’ho dispiaciuto? Hai fatto di me ciò che t’è parso, e ti ho sempre detto: “Sì, Padre. Son pronta”. Possono dunque mentire gli angeli? E Anna, che m’ha assicurato che Tu mi avresti dato il tuo angelo nell’ora del dolore? Sono sola. Non ho più grazia agli occhi tuoi, non ho più Te, Grazia, in me. Non ho più angelo. Mentono dunque i santi? In che ti ho dispiaciuto, se essi non mentono ed io ho meritato quest’ora? E Gesù? In che ha mancato il tuo Agnello puro e mansueto? In che ti abbiamo offeso che, oltre al martirio dato dagli uomini, si debba avere la tortura incalcolabile del tuo abbandono? Lui, Lui poi, che t’era Figlio e che ti chiamava con quella voce che ha fatto rabbrividire la Terra e scuotersi in un singulto di pietà. Come hai potuto lasciarlo solo in tanto tormento? Povero Cuore di Gesù che ti amava tanto! Dove è il segno della ferita del Cuore? Eccolo. Guarda, Padre, questo segno. Qui è l’impronta della mia mano penetrata nello squarcio della lanciata. Qui… qui… Non pianto, non bacio della sua Mamma, che ha arsi gli occhi e consumate le labbra per il piangere e il baciare, lo cancellano. Questo segno grida e rimprovera. Questo segno, più del sangue di Abele, grida a Te dalla Terra. E Tu, che hai maledetto Caino e ne hai fatto le vendette, non sei intervenuto per il mio Abele, già svenato dai suoi Caini, ed hai permesso l’ultimo spregio! Tu gli hai stritolato il Cuore col tuo abbandono e hai lasciato che un uomo lo mettesse a nudo, perché io lo vedessi e ne fossi stritolata. Ma di me non importa. È di Lui, di Lui che ti chiedo e ti chiamo a rispondere. Non dovevi…
18Oh! perdono! Perdono, Padre santo! Perdona ad una Madre che piange la sua Creatura… È morto! È morto il Figlio mio! Morto col Cuore squarciato! Oh! Padre! Padre, pietà! Io ti amo! Noi ti abbiamo amato e Tu ci hai tanto amati. Come hai permesso che fosse ferito il Cuore del nostro Figlio? Oh! Padre!… Padre, pietà di una povera donna! Io bestemmio, Padre! Io serva tua, tuo nulla, oso rimproverarti! Pietà! Sei stato buono. Sei stato buono. La ferita, l’unica ferita che non gli ha fatto male, è questa. Il tuo abbandono ha servito a farlo morire avanti al tramonto per evitargli altre torture. Sei stato buono. Tutto fai con fine di bontà. Siamo noi creature che non comprendiamo. Sei stato buono. Buono sei stato! Dilla, anima mia, questa parola, per levare il mordente del tuo soffrire al tuo soffrire. Dio è buono e ti ha sempre amata, anima mia. Dalla cuna a quest’ora ti ha sempre amata. Ti ha dato tutta la gioia del Tempo. Tutta. Ti ha dato Lui stesso. È stato buono. Buono. Buono. Grazie, Signore. Che Tu sia benedetto per la tua infinita bontà! Grazie. Gesù, dico “grazie” anche per Te. Questa almeno non l’hai sentita, Figlio mio! Io sola l’ho sentita nel mio, quando ho visto il tuo Cuore aperto. Ora è nel mio la tua lancia, e fruga, e strazia. Ma meglio così! Tu non la senti. Ma Gesù, pietà! Un segno da Te! Una carezza, una parola per la tua povera Mamma dal cuore straziato! Un segno, un segno, Gesù, se mi vuoi trovare viva al tuo ritorno!».
[29 marzo 1945]
19Un picchio risoluto all’uscio fa sobbalzare tutti. Il padrone di casa fugge coraggiosamente. Maria di Zebedeo vorrebbe che il suo Giovanni lo seguisse e lo spinge verso il cortile. Le altre, meno la Maddalena, si stringono l’una coll’altra gemendo. È Maria di Magdala che va dritta e forte all’uscio e chiede: «Chi bussa?». Una voce di donna risponde: «Sono Niche. Ho una cosa da dare alla Madre. Aprite! Presto. La ronda è in giro». Giovanni, che si è svincolato dalla madre ed è corso presso la Maddalena, lavora intorno ai molteplici serrami, tutti ben assicurati questa sera. Apre. Entra Niche con la servente ed un uomo nerboruto che le scorta. Chiudono. «Ho una cosa…», e piange Niche e non può parlare… «Che? Che?». Le sono tutti addosso, curiosi. «Sul Calvario… Ho visto il Salvatore in quello stato… Avevo preparato il velo lombare perché non usasse i cenci dei boia… Ma era tanto sudato, col sangue negli occhi, che ho pensato darglielo perché si asciugasse. Ed Egli lo ha fatto… E mi ha reso il velo. Io non l’ho usato più… Volevo tenerlo per reliquia col suo sudore e il suo sangue. E vedendo l’accanimento dei giudei, dopo poco, con Plautina e le altre romane Lidia e Valeria, insieme, abbiamo deciso di tornare indietro. Per paura che ci levassero questo lino. Le romane son donne virili. Ci hanno messe nel mezzo, io e la servente, e ci hanno protette. È vero che sono contaminazione per Israele… e che toccare Plautina è pericolo. Ma ciò si pensa in tempi di calma. Oggi erano tutti ubbriachi… A casa ho pianto… per ore… Poi è venuto il terremoto e sono svenuta… Rinvenuta, ho voluto baciare quel lino e ho visto… oh!… Vi è sopra la faccia del Redentore!…». «Fa’ vedere! Fa’ vedere!». «No. Prima alla Madre. È il suo diritto». «È tanto sfinita! Non resisterà…». «Oh! non lo dite! Le sarà di conforto, invece. Avvertitela!».
20Giovanni bussa piano all’uscio. «Chi è?». «Io, Madre. Fuori è Niche… È venuta nella notte… Ti ha portato un ricordo… un dono… Spera darti conforto con quello». «Oh! un solo dono mi può confortare! Il sorriso del suo Volto…». «Madre!». Giovanni l’abbraccia per tema che cada e dice, come confidasse il Nome vero di Dio: «Quello è. Il sorriso del suo Volto, impresso nel lino con cui Niche lo ha asciugato sul Calvario». «Oh! Padre! Dio altissimo! Figlio santo! Eterno Amore! Siate benedetti! Il segno! Il segno che vi ho chiesto! Fàlla, fàlla entrare!». Maria si siede perché non si regge più e, mentre Giovanni fa cenno alle donne, che occhieggiano, che Niche passi, Ella si ricompone. Niche entra e si inginocchia ai suoi piedi con la servente accanto. Giovanni, ritto in piedi, presso Maria, le tiene il braccio dietro le spalle come per sorreggerla. Niche non dice una parola. Ma apre il cofano, estrae il lino, lo spiega. E il Volto di Gesù, il Volto vivo di Gesù, il doloroso e pur sorridente Volto di Gesù, guarda la Madre e le sorride. Maria ha un grido di amore doloroso e tende le braccia. Le donne le fanno eco dal vano dell’uscio dove si affollano. E la imitano nell’inginocchiarsi davanti al Volto del Salvatore. Niche non trova una parola. Passa il lino dalle sue alle mani materne e si curva poi a baciarne il lembo. E poi esce a ritroso, senza attendere che Maria rinvenga dalla sua estasi. Se ne va… È già fuori, nella notte, quando pensano a lei… Non resta che chiudere il portone come era prima. Maria è di nuovo sola. In un colloquio d’anima con l’effigie del Figlio, perché tutti si ritirano di nuovo.
21Altro tempo passa. Poi Marta dice: «Come faremo per gli unguenti? Domani è sabato…». «E non potremo prendere nulla…», dice Salome. «E bisognerebbe farlo… Molte libbre di aloe e mirra… ma era così mal lavato…». «Bisognerebbe avere pronto tutto per l’aurora del primo giorno dopo il sabato», osserva Maria d’Alfeo. «E le guardie? Come faremo?», chiede Susanna. «Lo diremo a Giuseppe, se non ci lasciano entrare», risponde Marta. «Non potremo da noi spostare la pietra». Risponde la Maddalena: «Oh! in cinque dici che non potremo? Siamo robuste tutte… e l’amore fa il resto». «E poi verrò io con voi», dice Giovanni. «Tu no proprio. Non voglio perdere anche te, figlio». «Ma non ci pensare. Basteremo noi». «Ma intanto… Chi ci dà gli aromi?». Restano tutte accasciate… Poi Marta dice: «Potevamo chiedere a Niche se era vero di Giovanna… delle sommosse…». «È vero! Ma ebeti siamo. Potevamo allora prendere anche gli aromi. Isacco era sul suo uscio quando tornammo…».
22«In palazzo sono molti vasetti d’essenze, e c’è incenso fino. Vado a prenderli». E Maria Maddalena si alza dal suo posto e si mette il manto. Marta grida: «Tu non andrai». «Io andrò». «Sei folle! Ti prenderanno!». «Tua sorella ha ragione. Non andare!». «Oh! che inutili e urlanti femmine che siete! Invero che Gesù aveva una bella schiera di seguaci! Avete già esaurito la vostra riserva di coraggio? A me, invece, più ne uso e più me ne viene». «Andrò io con lei. Sono un uomo». «E io sono tua madre e te lo proibisco». «Sta’ buona, Maria Salome, e sta’ buono, Giovanni. Vado sola. Non ho paura. So cosa è girare di notte per le vie. L’ho fatto mille volte per il peccato… e dovrei temere ora che vado per servire il Figlio di Dio?». «Ma oggi la città è in rivolta. Hai sentito l’uomo». «È un coniglio. E voi con lui. Io vado». «E se ti trovano i soldati?». «Dirò: “Sono la figlia di Teofilo, siro, servo fedele di Cesare”. E mi lasceranno andare. E poi… L’uomo davanti ad una donna giovane e bella è un trastullo più innocuo di un filo di paglia. Lo so, per mia vergogna…». «Ma dove vuoi trovare profumi in palazzo se esso è disabitato da anni?». «Lo credi? Oh! Marta! Non ricordi che Israele vi obbligò a lasciarlo perché era uno dei miei luoghi di ritrovo con gli amanti? In esso io avevo tutto quanto serviva a farli più folli ancora di me. Quando fui salvata dal mio Salvatore, io ho nascosto, in un luogo noto a me sola, gli alabastri e gli incensi che usavo per le mie orge d’amore. Ed ho giurato che unicamente il pianto sul mio peccato e l’adorazione di Gesù santissimo sarebbero state le acque profumate e gli ardenti incensi di Maria pentita. E di quei segni di un culto profano del senso e della carne ne avrei solo usato per santificarli su Lui e dargli unzione. Ora è l’ora. Vado. Restate. E tranquille. Con me viene l’angelo di Dio e nulla di male mi accadrà. Addio. Vi porterò notizie. E a Lei non dite nulla… Le aumentereste l’affanno…». E Maria di Magdala esce sicura, imponente.
23«Madre, questo ti insegni… E ti dica: “Non fare che il mondo dica che tuo figlio è un vile”. Domani, anzi oggi, perché già è data la seconda vigilia, io andrò cercando i compagni, come Ella vuole…». «È sabato… non puoi…», obbietta Salome per trattenerlo. «”Il sabato è morto”, dico io pure con Giuseppe. L’èra nuova è iniziata. Altre leggi, altri sacrifici e cerimonie in essa». Maria Salome china la testa sui ginocchi e piange senza più protestare. «Oh! poter sapere di Lazzaro!», geme Maria di Cleofa. «Se mi lasciate andare lo saprete. Perché i compagni, Simone Cananeo ne ha avuto l’ordine, sono stati condotti, da lui, da Lazzaro. Gesù lo disse, me presente, a Simone». «Ohimé! Tutti là? Allora tutti perduti!». Maria Cleofa e Salome piangono desolate. Passa altro tempo fra pianti e attese.
24Poi torna Maria Maddalena. Trionfante, carica di borse piene di vasetti preziosi. «Vedete che nulla è accaduto? Ecco qui: oli di ogni genere, e nardo, e olibano, e benzoino. Non c’è la mirra e l’aloe… Non volevo amarezze io… Le bevo tutte ora… Ma intanto intrideremo queste, e domani prenderemo… oh! pagando, Isacco darà anche di sabato… Prenderemo mirra e aloe». «Ti hanno vista?». «Nessuno. Non c’è in giro neppure un pipistrello». «I soldati?». «I soldati? Io credo che russino nei loro giacigli». «Ma le sedizioni… gli arresti…». «Li ha visti la paura di quell’uomo…». «Chi è nel palazzo?». «Ma Levi e la moglie. Tranquilli come pargoli. Gli armati sono fuggiti… ah! ah! bei prodi abbiamo, per mia fede!… Sono fuggiti appena seppero della condanna. Dico il vero: Roma è dura e usa il flagello… Ma con questo si fa temere e servire. Ed ha uomini, non conigli… Oh! sì! Egli diceva: “I miei seguaci conosceranno la mia stessa sorte”. Umh! Se molti romani diverranno di Gesù, ciò può essere. Ma se deve avere martiri fra gli israeliti! Resterà solo… Ecco. Questo è il mio sacco. E questo è di Giovanna, che… Sì. Non solo vili, ma mentitori siamo. Giovanna non è che accasciata. Lei ed Elisa si sono sentite male sul Golgota. Una è una madre che ebbe morto il figlio, e sentire i rantoli di Gesù la fecero stare male. L’altra è delicata, non usa a tanto cammino e a tanto sole. Ma niente ferite, niente agonie. Piange, come noi, certo. Non di più. Si rammarica di essere stata condotta via. Domani verrà. E manda questi aromi. Quelli che aveva. Con lei era rimasta Valeria, per ordine di Plautina, ed ora se ne è andata con gli schiavi alla casa di Claudia, perché loro hanno molti incensi. Quando verrà, perché anche lei, per grazia del Cielo, non è una lepre sempre tremante, non mettetevi ad urlare come sentiste il gladio alla gola. Su. Alzatevi. Prendiamo dei mortai. Lavoriamo. Piangere non giova. O, almeno, piangete e lavorate. Sarà stemperato col pianto il nostro balsamo. Ed Egli lo sentirà su di Lui… Sentirà l’amore nostro». E si morde le labbra, per non piangere e per dare forza alle altre, veramente disfatte. Lavorano con lena.
25Maria chiama Giovanni. «Madre, che hai?». «Questi colpi…». «Tritano gli incensi…». «Ah!… Ma… perdonate… Non fate quel rumore… mi sembrano i martelli…». Infatti i pestelli di bronzo contro il marmo dei mortai fanno proprio un rumore di martelli. Giovanni lo dice alle donne, e queste escono nel cortile per essere udite meno. Giovanni torna dalla Madre. «Come li hanno avuti?». «È andata Maria di Lazzaro. A casa sua, e da Giovanna… E anche altri ne verranno portati…». «Non è venuto nessuno?». «Nessuno dopo Niche». «Ma guardalo, Giovanni, come è bello anche in quel suo dolore!». Maria si assorbe a mani giunte contro il telo, che ha steso contro un cofano tenendolo fermo con dei pesi. «Bello, sì, Madre. E ti sorride… Non piangere più… Già qualche ora è passata. Meno da attendere il suo ritorno…», e intanto Giovanni piange… Maria lo accarezza sulla gota. Ma guarda solo l’effigie del Figlio. Giovanni esce, accecato dal pianto.
26Anche la Maddalena, che è tornata a prendere delle anfore, è nelle stesse condizioni. Ma dice all’apostolo: «Non bisogna farsi vedere piangere. Perché, se no, quelle là non sanno più fare nulla. E fare si deve…». «… e credere si deve», termina Giovanni. «Sì. Credere. Se non si potesse credere, sarebbe la disperazione. Io credo. E tu?». «Io pure…». «Lo dici male. Non ami ancora abbastanza. Se amassi con tutto te stesso, non potresti non credere. L’amore è luce e voce. Anche contro le tenebre della negazione e il silenzio della morte dice: “Io credo”». È splendida la Maddalena, così alta e imponente, imperiosa nella sua confessione di fede! Deve avere il cuore torturato. E i suoi occhi bruciati di pianto lo dicono. Ma l’animo è invitto. Giovanni la guarda ammirato e mormora: «Tu sei forte!». «Sempre. Lo fui tanto che seppi sfidare il mondo. Ed ero senza Dio, allora. Ora che ho Lui, sento di sapere sfidare anche l’inferno. Tu, che sei buono, non dovresti essere che più forte di me. Perché la colpa deprime, sai? Più di una consunzione. Ma tu sei innocente… Per questo ti amava tanto…». «Anche te amava…». «E io non ero innocente. Ma ero la sua conquista e…».
27Bussano al portone con forza. «Sarà Valeria. Apri». Giovanni lo fa senza paura, dominato dalla calma di Maria. È infatti Valeria coi suoi schiavi, che portano la lettiga da cui ella è scesa. Entra salutando latinamente: «Salve». «La pace sia con te, sorella. Entra», dice Giovanni. «Posso offrire alla Madre l’omaggio di Plautina? Anche Claudia ha contribuito. Ma se non è dolore per Lei il vedermi». Giovanni entra da Maria. «Chi bussa? Pietro? Giuda? Giuseppe?». «No. È Valeria. Ha portato resine preziose. Te le vorrebbe offrire… se non ti dà pena». «Devo superare la pena. Egli ha chiamato al suo Regno i figli d’Israele e i pagani. Tutti ha chiamato. Ora… è morto… Ma io sono qui per Lui. E tutti ricevo. Entri». Valeria entra. Si è levato il mantello oscuro ed è tutta bianca nella sua stola. Si inchina fino a terra. Saluta e parla. «Domina. Tu lo sai chi siamo. Le prime redente dall’oscurantismo pagano. Fango e tenebre eravamo. Tuo Figlio ci ha dato ala e luce. Ora è… è addormentato in pace. Sappiamo i vostri usi. E vogliamo che anche i balsami di Roma siano sparsi sul Trionfatore». «Dio vi benedica, figlie del mio Signore. E… perdonate se non so dire di più…». «Non ti sforzare, Domina. Roma è forte. Ma sa anche comprendere il dolore e l’amore. Ti capisce, Madre Dolorosa. Addio». «La pace sia con te, Valeria! A Plautina, a voi tutte, la mia benedizione». Valeria si ritira, lasciando i suoi incensi e altre essenze. «Lo vedi, Madre? Tutto il mondo dà per il Re del Cielo e della Terra». «Sì», dice Maria. «Tutto il mondo. E la Madre non avrà potuto dargli che il pianto».
28Un gallo canta allegro in qualche posto vicino. Giovanni sussulta. «Che hai, Giovanni?», chiede la Vergine. «Pensavo a Simon Pietro…». «Ma non era con te?», chiede la Maddalena che è rientrata nella stanza. «Sì. In casa di Anna. Poi ho capito che dovevo venire qui. E non l’ho mai più visto». «Fra poco è l’alba». «Sì. Aprite». Aprono le impannate, e i volti sembrano ancor più terrei nella luce verdolina dell’alba. La notte del Venerdì Santo è finita.
Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, noi ci affidiamo a Te!
In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariòta, andò dai capi dei sacerdoti e disse: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù. Il primo giorno degli Ázzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Ed egli rispose: «Andate in città da un tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”». I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. Mentre mangiavano, disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!». Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto».
C: Parola del Signore. A: Lode a Te o Cristo.
Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Cari amici e amiche in Cristo nostro Signore, durante la Settimana Santa pubblichiamo lo sviluppo cronologico degli accadimenti della Vita di Cristo nostro Signore, come rivelati al ‘Piccolo Giovanni’ e nella forma più completa sia possibile, insieme ai paralleli liturgici del giorno. Chi volesse, potrà ovviamente approfondire ed estendere la conoscenza attingendo i capitoli dal decimo volume pubblicato in questo sito. Buona lettura!
Cap. DLXXXVIII. Giuda Iscariota dai Capi del Sinedrio.
29 marzo 1947
1 Giuda giunge a notte alla casa di campagna di Caifa. Ma c’è la luna che fa da complice all’assassino illuminandogli la strada. Deve essere ben sicuro di trovare là, in quella casa fuori le mura, coloro che egli cercava, perché altrimenti penso che avrebbe cercato di entrare in città e sarebbe andato nel Tempio. Invece sale sicuro fra gli ulivi del piccolo colle. È più sicuro questa volta dell’altra. (Cioè della volta precedente, vedi Vol 8 Cap 535). Perché ora è notte, e le ombre e l’ora lo proteggono da ogni possibile sorpresa. Le vie della campagna sono deserte, ormai, dopo essere state percorse per tutto il giorno dalle turbe dei pellegrini che vanno a Gerusalemme per la Pasqua. Persino i pove-ri lebbrosi sono nei loro spechi e dormono i loro sonni di infelici, smemorati per qualche ora dalla loro sorte. Ecco Giuda alla porta della casa biancheggiante al lume della luna. Bussa. Tre colpi, un colpo, tre colpi, due colpi… Persino il segnale convenzionale sa a meraviglia! E deve essere proprio un segnale sicuro, perché la porta si socchiude senza il preventivo sbirciare del portinaio dallo spioncino aperto nella porta. Giuda sguscia dentro e al servo portinaio, che l’ossequia, chiede: «L’adunanza è raccolta?». «Sì, Giuda di Keriot. Al completo, potrei dire». «Conducimi ad essa. Devo parlare di importanti cose. Svelto! ». L’uomo chiude con tutti i chiavistelli la porta e lo precede per l’andito semibuio, fermandosi davanti ad un uscio pesante al quale bussa. Il brusio delle voci cessa nella stanza chiusa e lo sostituisce il rumore della serratura e il cigolio della porta, che si apre gettando un cono di luce viva nel corridoio buio. «Tu? Entra! », dice quello che ha aperto la porta e che non so chi sia. E Giuda entra nella sala, mentre chi gli ha aperto chiude a chiave di nuovo.
2 Vi è un movimento di stupore o, per lo meno, di agitazione, vedendo entrare Giuda. Ma lo salutano in coro: «La pace a te, Giuda di Simone». «La pace a voi, membri del Sinedrio santo», saluta Giuda. «Vieni avanti. Che vuoi?», gli chiedono. «Parlarvi… Parlarvi del Cristo. Non è più possibile che si vada avanti così. Io non vi posso più essere di aiuto se voi non vi decidete a prendere decisioni estreme. L’uomo è in sospetto, ormai». «Ti sei fatto scoprire, stolto?», lo interrompono. «No. Ma voi stolti, voi che per una stupida fretta avete fatto delle mosse sbagliate. Lo sapevate bene che io vi avrei servito! Non vi siete fidati di me». «Hai memoria labile, Giuda di Simone! Non ti ricordi come ci lasciasti l’ultima volta? Chi poteva pensare che tu ci eri fedele, a noi, quando proclamasti a quel modo che non potevi tradire Lui?», dice Elchia ironico, serpentino più che mai. «E credete che sia facile giungere ad ingannare un amico, l’unico che veramente mi ami, l’Innocente? Credete che sia facile giungere al delitto?». Giuda è già agitato.
3 Cercano di calmarlo. E lo blandiscono. E lo seducono, o almeno tentano di farlo, facendogli osservare che il suo non è un delitto, «ma un’opera santa verso la Patria, alla quale egli evita rappresaglie dai dominatori, che già danno segni di intolleranza per queste continue agitazioni e divisioni di partiti e di folle in una provincia romana, e verso l’Umanità, se proprio egli è convinto della natura divina del Messia e della sua missione spirituale». «Se è vero ciò che Egli dice – lungi da noi il crederlo – non sei tu il collaboratore della Redenzione? Il tuo nome andrà associato al suo nei secoli, e la Patria ti annovererà fra i suoi prodi e ti onorerà delle più alte cariche. Un seggio è pronto per te fra noi. Salirai, Giuda. Darai leggi ad Israele. Oh! non dimenticheremo ciò che tu hai fatto per il bene del sacro Tempio, del sacro Sacerdozio, per la difesa della Legge santissima, per il bene di tutta la Nazione! Fai solo di aiutarci e poi, noi te lo giuriamo, io te lo giuro a nome del potente padre mio e di Caifa portante l’efod, tu sarai l’uomo più grande di Israele. Più dei tetrarchi, più dello stesso mio padre, ormai Pontefice deposto. Come un re, come un profeta sarai servito e ascoltato. Che se poi Gesù di Nazaret non fosse che un falso Messia, anche se in realtà non sarebbe passibile di morte perché le sue azioni non sono da ladrone, ma da folle, ecco che ti ricordiamo le parole ispirate di Caifa pontefice – tu sai che colui che porta l’efod e il razionale parla per suggerimento divino e profetizza il bene e il da farsi per il bene – Caifa, ricordi? Caifa ha detto: “È bene che un uomo muoia per il popolo e non perisca tutta la Nazione”. Fu parola di profezia». (Vedi Vol 8 Cap 549). «In verità fu tale. L’Altissimo parlò per bocca del Sommo Sacerdote. Sia ubbidito!», dicono in coro, già teatrali e simili ad automi che devono fare quei dati gesti, quei laidi burattini che sono i membri del gran consiglio del Sinedrio.
4 Giuda è suggestionato, sedotto… ma una radichetta di buon senso, se non di bontà, sussiste ancora in lui e lo trattiene dal pronunciare le parole fatali. Circondandolo con deferenza, con simulato affetto, lo incalzano: «Non credi a noi? Guarda: siamo i capi delle ventiquattro famiglie sacerdotali, gli Anziani del popolo, gli scribi, i più grandi farisei d’Israele, i rabbi sapienti, i magistrati del Tempio. Il fior di Israele è qui, intorno a te, pronto ad acclamarti, e ad una voce ti dice: “Fa’ questo, ché è santo”». «E Gamaliele dove è? E Giuseppe e Nicodemo dove sono? E dove Eleazaro l’amico di Giuseppe, e dove Giovanni di Gaas? Io non li vedo». «Gamaliele è in grande penitenza, Giovanni presso la moglie incinta e sofferente questa sera, Eleazaro… non sappiamo perché non sia venuto. Ma un malore può colpire chiunque e all’improvviso, non ti pare? Riguardo a Giuseppe e Nicodemo, non li abbiamo avvisati di questa seduta segreta, e per tuo amore, per cura del tuo onore… Perché, nello sfortunato caso che la cosa fallisse, il tuo nome non andasse riportato al Maestro… Noi tuteliamo il tuo nome. Noi ti amiamo, Giuda, novello Maccabeo salvatore della Patria». (è Giuda Maccabeo, le cui gesta sono narrate in: 1 Maccabei 3-9; 2 Maccabei 8-15). «Il Maccabeo combatté la buona battaglia. Io… commetto un tradimento». «Non osservare le particolarità dell’atto, ma la giustizia del fine.
5 Parla tu, o Sadoc, scriba d’oro. La tua bocca fluisce preziose parole. Se Gamaliele è dotto, tu sapiente sei, perché sulle tue labbra è la sapienza di Dio. Parla tu a costui che tituba ancora». Quella buona pelle di Sadoc si fa avanti e con lui il decrepito Canania: una volpe scheletrita e morente al fianco di un astuto sciacallo robusto e feroce. «Ascolta, o uomo di Dio! », comincia pomposamente Sadoc prendendo una posa ispirata e oratoria, il braccio destro messo ciceronianamente in avanti, il sinistro occupato a sorreggere tutto quell’ingombro di pieghe che costituisce la sua veste di scriba. E poi alza anche il sinistro braccio, lasciando che il suo monumento di vesti si scomponga e si disordini, e così, a volto e braccia levate verso il soffitto della stanza, tuona: «Io te lo dico! Te lo dico davanti all’altissima Presenza di Dio!». «Maran-Atà!», fanno eco tutti curvandosi, come se un soffio supremo li curvasse, e poi rialzandosi con le braccia incrociate sul petto. «Io te lo dico. È scritto nelle pagine della nostra storia e del nostro destino! È scritto nei segni e nelle figure lasciate dai secoli! È scritto nel rito che non ha sosta dalla notte fatale agli egizi! È scritto nella figura di Isacco! È scritto nella figura di Abele. E ciò che è scritto si avveri». «Maran Atà!» (espressione già incontrata al Vol 7 Capp 438 e 475, dove MV attribuisce ad essa il significato di Così sia, potrebbe corrispondere ad un’invocazione aramaica che significa “Signore, vieni!”, come in: 1 Corinzi 16. 22. La incontreremo ancora al Vol 10 Cap 639), dicono gli altri con un coro basso e lugubre, suggestionante, con i gesti di prima, i volti bizzarramente colpiti dalla luce dei due lampadari accesi agli estremi della sala, di mica pallidamente violacea, emananti una luce fantasmagorica. E veramente questa accolta di uomini, quasi tutti biancovestiti, coi coloriti pallidi od olivastri della loro razza, resi ancor più pallidi e olivastri dalla luce diffusa, sembrano proprio un’adunanza di spettri. «La parola di Dio è scesa sulle labbra dei profeti per segnare questo decreto. Egli deve morire! È detto!». «È detto! Maran Atà!». «Egli deve morire, e segnata è la sua sorte!». «Egli deve morire. Maran Atà! ». «Nei più minuti particolari è descritto il suo destino fatale, e fatalità non si infrange!». «Maran Atà!». «Persino è segnato il prezzo simbolico che sarà versato a colui che si fa strumento di Dio per la consumazione della promessa». «È segnato! Maran Atà!». «Come Redentore, o come falso profeta, Egli deve morire! ». «Deve morire! Maran Atà!». «L’ora è venuta! Jeové lo vuole! Io sento la sua voce! Essa grida: “Si compia”!». «L’Altissimo ha parlato! Si compia! Si compia! MaranAtà! ».
6 «Ti fortifichi il Cielo come fortificò Giaele e Giuditta, che donne erano e seppero essere eroi; come fortificò Jefte che, padre, seppe alla Patria sacrificare la figlia; come fortificò David contro il Golia; (come si legge in 1 Samuele 17, 32-51 nel contesto dell’intero capitolo 17) e compi il gesto che farà eterno Israele nella memoria dei popoli!». «Ti fortifichi il Cielo. Maran Atà!». «Sii vincitore! ». «Sii vincitore! Maran Atà! ». Si alza la chioccia voce senile di Canania: «Colui che tituba all’ordine sacro è dannato al disonore e alla morte! ». «È dannato. Maran Atà! ». «Se non vorrai ascoltare la voce del Signore Iddio tuo e non metterai in atto il suo comando e ciò che Egli per nostra bocca ti ordina, tutte le maledizioni su te! ». «Tutte le maledizioni! Maran Atà! ». «Ti percuota il Signore con tutte le maledizioni mosaiche e ti disperda di fra le genti». (Maledizioni mosaiche, che sono in: Levitico 26, 14-46; Deuteronomio 28, 15-68). «Ti percuota e disperda! Maran Atà!». Un silenzio di morte segue a questa scena suggestionante… Tutto si immobilizza in una immobilità paurosa.
7 Finalmente ecco la voce di Giuda che si alza, e quasi faccio fatica a riconoscerla tanto è mutata: «Sì. Io lo farò. Lo devo fare. E lo farò. Già l’ultima parte delle maledizioni mosaiche è la mia parte, e ne devo uscire perché troppo ho tardato già. E folle divento non avendo tregua e riposo, e cuore pauroso, e occhi smarriti, e anima consumata dalla tristezza. Tremante di essere scoperto e fulminato da Lui nel mio duplice giuoco – ché io non so, io non so sino a che punto Egli sa il mio pensiero – vedo la mia vita sospesa a un filo, e mattina e sera invoco di finire quest’ora per lo spavento che sbigottisce il mio cuore. Per l’orrore che compiere devo. Oh! affrettate quest’ora! Traetemi da queste mie angosce! Tutto sia compiuto. Subito! Ora! E io sia liberato! Andiamo!». La voce di Giuda si è affermata e fatta forte mano a mano che ha parlato. Il gesto, prima automatico e insicuro, come di sonnambulo, si è fatto libero, volontario. Egli si raddrizza in tutta la sua altezza, satanicamente bello, e grida: «Cadano i lacci di un folle terrore! Io sono libero da una soggezione paurosa. Cristo! Non ti temo più e ti consegno ai tuoi nemici! Andiamo! ». Un grido di demone vittorioso, e veramente si avvia con baldanza alla porta.
8 Ma lo fermano: «Piano! Rispondi a noi: dove è Gesù di Nazaret?». «Nella casa di Lazzaro. A Betania». «Noi non possiamo entrare in quella casa ben munita di servi fedeli. Casa di un favorito di Roma. Andremmo incontro a noie sicure». «All’aurora noi veniamo in città. Mettete le guardie sulla via di Betfage, fate tumulto e prendetelo». «Come sai che viene per quella via? Potrebbe prendere anche l’altra … ». «No. Ha detto ai seguaci che per essa entrerà in città, dalla porta di Efraim, e di essere ad attenderlo presso En Rogel. Se voi lo prendete prima… ». «Non possiamo. Dovremmo entrare in città con Lui fra le guardie, e ogni via che conduce alle porte e ogni via cittadina sono piene di folla dall’alba a notte. Accadrebbe tumulto. E non deve accadere». «Salirà al Tempio. Chiamatelo per interrogarlo in una sala. Chiamatelo a nome del Sommo Sacerdote. Egli verrà, perché ha più rispetto di voi che della sua vita. Una volta che è solo con voi… non vi mancherà il modo di portarlo in luogo sicuro e condannarlo nell’ora propizia». «Avverrebbe ugualmente tumulto. Te ne dovresti essere accorto che la folla è fanatica per Lui. E non il popolo solo, ma anche i grandi e le speranze di Israele. Gamaliele perde i suoi discepoli, e così Gionata ben Uziel e altri fra noi, e tutti ci lasciano, sedotti da Lui. E persino i gentili lo venerano, o lo temono, il che è già venerare, e sono pronti a rivoltarsi a noi se lo malmeniamo. Fra l’altro, alcuni dei ladroni, che avevamo assoldati per fare i falsi discepoli e suscitare risse, sono stati arrestati e hanno parlato sperando clemenza per la delazione, e il Pretore sa… Tutto il mondo gli va dietro, mentre noi non concludiamo nulla. Ma bisogna agire con sottigliezza, perché non se ne avvedano le turbe». «Sì. Così bisogna fare! Anche Anna se ne raccomanda. Dice: “Che non accada durante la festa e non nasca tumulto fra il popolo fanatico”. Così ha ordinato, dando ordini anche perché sia trattato con rispetto nel Tempio e altrove e non sia molestato, onde poterlo trarre in inganno».
9 «E allora che volete fare? Io ero ben disposto questa notte, ma voi esitate…», dice Giuda. «Ecco, tu dovresti condurci a Lui in un’ora che è solo. Tu sai le sue abitudini. Ci hai scritto che Egli ti tiene vicino più che tutti. Perciò tu devi sapere ciò che Egli vuol fare. Noi staremo sempre pronti. Quando tu giudichi propizia l’ora e il luogo, vieni, e noi verremo». «È detto. E che compenso ne avrò?». Ormai Giuda parla freddamente, come si trattasse di un commercio qualunque. «Ciò che è detto dai profeti, per essere fedeli alla parola ispirata: trenta denari…». (Zaccaria 11, 12-13). «Trenta denari per uccidere un uomo, e quell’Uomo? Il prezzo di un comune agnello in questi giorni di festa?! Siete folli! Non che io abbia bisogno di denaro. Ne ho buone scorte. Non pensate perciò di persuadermi per ansia di denaro. Ma è troppo poco per pagare il mio dolore di tradire Colui che mi ha sempre amato». «Ma te lo abbiamo detto ciò che ti faremo. Gloria, onori! Ciò che tu speravi da Lui e che non hai avuto. Noi medicheremo la tua delusione. Ma il prezzo è fissato dai profeti! Oh! una formalità! Un simbolo e nulla più. Il resto verrà poi…». «E il denaro quando?». «Il momento che tu ci dirai: “Venite”. Non prima. Nessuno paga prima di aver già le mani sulla merce. Non ti pare giusto, forse?». «Giusto è. Ma almeno triplicate la somma…». «No. Così è detto dai profeti. Così si deve fare. Oh! sapremo ubbidire ai profeti! Non tralasceremo un iota di quanto hanno scritto di Lui. Eh! Eh! Eh! Noi siamo fedeli alla parola ispirata! Eh! Eh! Eh! », ride quel ributtante scheletro di Canania. E molti gli fanno coro con delle risate lugubri, basse, insincere, veri cachinni di demoni che non sanno che ghignare. Perché il riso è proprio dell’animo sereno e amante, e il ghigno dei cuori turbati e saturi di livore.
10 «Tutto è detto. Puoi andare. Noi attendiamo l’alba per rientrare in città per diverse vie. Addio. La pace sia con te, pecora spersa che ritorni al gregge di Abramo. La pace a te! La pace a te! E la riconoscenza di tutto Israele! Conta su noi! Un tuo desiderio ci è legge. Dio sia con te, come lo fu con tutti i suoi servi più fedeli! Tutte le benedizioni su te!». Lo accompagnano con abbracci e proteste di amore sino all’uscio… lo guardano allontanarsi per il corridoio semibuio… ascoltano lo sferragliare dei chiavistelli del portone che si apre e chiude…
11 Rientrano nella sala, giubilanti. Solo due o tre voci si levano, quelle dei meno demoniaci: «E ora? Come faremo con Giuda di Simone? Ben lo sappiamo che non potremo dargli ciò che gli abbiamo promesso, fuorché quei poveri trenta denari!… Che dirà egli, quando si vedrà da noi tradito? Non avremo fatto un danno maggiore? Non andrà egli dicendo al popolo ciò che facemmo? Che sia uomo di non fermo pensiero noi lo sappiamo». «Siete ben ingenui e stolti nell’avere questi pensieri e nel darvi questi affanni! È già stabilito ciò che faremo a Giuda. Stabilito dall’altra volta. Non ricordate? E noi non cambiamo pensiero. Dopo che tutto sarà finito, del Cristo, Giuda morrà. È detto». «Ma se parlasse prima?». «A chi? Ai discepoli e al popolo, per essere lapidato? Egli non parlerà. L’orrore della sua azione gli è bavaglio…». «Ma potrebbe pentirsi in futuro, avere rimorsi, divenire folle anche… Perché il suo rimorso, se avesse a destarsi, non potrebbe che fare di lui un pazzo…». «Non ne avrà tempo. Provvederemo prima. Ogni cosa a suo tempo. Prima il Nazareno e poi colui che lo ha tradito», dice lentamente, terribilmente, Elchia. «Sì. E badate! Non una parola agli assenti. Già troppo hanno conosciuto del nostro pensiero. Non mi fido di Giuseppe e Nicodemo. E poco degli altri». «Dubiti di Gamaliele?». «Egli si è astratto da noi da molti mesi. Senza un diretto ordine ponteficale non prenderà parte alle nostre sedute. Dice che scrive la sua opera con l’aiuto del figlio. Ma parlo di Eleazaro e Giovanni». «Oh! non ci hanno mai contraddetti», dice pronto un sinedrista che ho visto altre volte con Giuseppe d’Arimatea, ma del quale non ricordo il nome. «Anzi! Ci hanno contraddetti troppo poco. Eh! Eh! Eh! E bisognerà sorvegliarli! Molte serpi hanno preso covo nel Sinedrio, io credo… Eh! Eh! Eh! Ma saranno snidate… Eh! Eh! Eh! », dice Canania andando curvo e tremolante, appoggiato al suo bastone, a cercarsi un comodo posto su uno dei larghi e bassi sedili coperti di pesanti tappeti che sono lungo le pareti della sala, e soddisfatto si stende e si addormenta presto, la bocca aperta, brutto nella sua vecchiezza cattiva. Lo osservano. E Doras, figlio di Doras, dice: «Egli ha la soddisfazione di veder questo giorno. Mio padre lo sognò, ma non l’ebbe. Ma porterò nel cuore il suo spirito, perché sia presente nel giorno della vendetta sul Nazareno e abbia la sua gioia… ».
12«Ricordatevi che dovremo a turno, e turno numeroso, essere costantemente nel Tempio». «Lo saremo». «Dovremo ordinare che a qualunque ora Giuda di Simone sia introdotto dal Sommo Sacerdote». «Lo faremo». «Ed ora prepariamoci il cuore al compito finale». «È già pronto! È già pronto!». «Con astuzia». «Con astuzia». «Con finezza». «Con finezza». «Per calmare ogni sospetto». «Per sedurre ogni cuore». «Qualunque cosa dica o faccia, nessuna reazione. Ci vendicheremo di tutto in una volta sola». «Così faremo. E sarà feroce vendetta». «Completa!». «Tremenda! ». E si siedono, cercando riposo in attesa dell’alba.
Cap. DXCVI. Mercoledì santo. Il maggiore dei comandamenti, l’obolo della vedova, l’invettiva contro scribi e farisei. Pausa di riposo con la Madre e le discepole. L’edificazione della Chiesa e i tempi ultimi.
1 Gesù entra nel Tempio ancor più affollato che nei giorni precedenti. È tutto bianco oggi, nella sua veste di lino. È una giornata afosa. Va ad adorare nell’atrio degli Israeliti e poi va ai portici, seguito da un codazzo di gente, mentre altra ha già preso le migliori posizioni sotto i porticati, e la maggioranza sono gentili che, non potendo andare oltre il primo cortile, oltre il portico dei Pagani, hanno approfittato del fatto che gli ebrei hanno seguito il Cristo per prendere posizioni di favore. Ma un gruppo ben numeroso di farisei li scompagina: sono sempre arroganti ad un modo, e si fanno largo con prepotenza per accostarsi a Gesù curvo su di un malato. Attendono che lo abbia guarito, poi gli mandano vicino uno scriba perché lo interroghi. Veramente fra loro c’era stata prima una breve disputa, perché Gioele detto Alamot voleva andare lui ad interrogare il Maestro. Ma un fariseo si oppone e gli altri lo sostengono dicendo: «No. Ci è noto che tu parteggi per il Rabbi, benché tu lo faccia segretamente. Lascia andare Uria…». «Uria no», dice un altro giovane scriba che non conosco affatto. «Uria è troppo aspro nel suo parlare. Ecciterebbe la folla. Vado io». E, senza ascoltare più le proteste degli altri, va vicino al Maestro proprio nel momento che Gesù congeda il malato dicendogli: «Abbi fede. Sei guarito. La febbre e il dolore non torneranno mai più».
2«Maestro, quale è il maggiore dei comandamenti della Legge?». Gesù, che lo aveva alle spalle, si volta e lo guarda. Una luce tenue di sorriso gli illumina il volto, e poi alza il capo, essendo a capo chino perché lo scriba è di bassa statura e per di più sta curvo in atto di ossequio, e gira lo sguardo sulla folla, lo appunta sul gruppo dei farisei e dottori e scorge il viso pallido di Gioele seminascosto dietro un grosso e impaludato fariseo. Il suo sorriso si accentua. È come una luce che vada a carezzare lo scriba onesto. Poi riabbassa il capo guardando il suo interlocutore e gli risponde: «Il primo di tutti i comandamenti è: (Deuteronomio 6, 4-5) “Ascolta, o Israele: il Signore Dio nostro è l’unico Signore. Tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze”. Questo è il primo e supremo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: (Levitico 19, 18) “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non vi sono comandamenti maggiori di questi. Essi rinchiudono tutta la Legge e i Profeti». «Maestro, Tu hai risposto con sapienza e con verità. Così è. Dio è Unico e non vi è altro dio fuori che Lui. Amarlo con tutto il proprio cuore, con tutta la propria intelligenza, con tutta l’anima e tutte le forze, e amare il prossimo come se stesso, vale molto più di ogni olocausto e sacrificio. Molto lo penso quando medito le parole davidiche: (Salmo 51, 18-19) “A Te non piacciono gli olocausti; il sacrificio a Dio è lo spirito compunto”». «Tu non sei lontano dal Regno di Dio, perché hai compreso quale sia l’olocausto che è gradito a Dio». «Ma quale è l’olocausto maggiormente perfetto?», chiede svelto, a bassa voce, lo scriba, come se dicesse un segreto. Gesù raggia d’amore lasciando cadere questa perla nel cuore di costui che si apre alla sua dottrina, alla dottrina del Regno di Dio, e dice, curvo su lui: «L’olocausto perfetto è amare come noi stessi coloro che ci perseguitano e non avere rancori. Chi fa questo possederà la pace. È detto: (Salmo 37, 11) i mansueti possederanno la terra e godranno dell’abbondanza della pace. In verità ti dico che colui che sa amare i suoi nemici raggiunge la perfezione e possiede Dio».
3 Lo scriba lo saluta con deferenza e se ne torna al suo gruppo, che lo rimprovera sottovoce di aver lodato il Maestro, e con ira gli dicono: «Che gli hai chiesto in segreto? Sei anche tu, forse, sedotto da Lui?». «Ho sentito lo Spirito di Dio parlare sulle sue labbra». «Sei uno stolto. Lo credi forse tu il Cristo?». «Lo credo». «In verità fra poco vedremo vuote le nostre scuole dei nostri scribi ed essi andar raminghi dietro quell’Uomo! Ma dove vedi, in Lui, il Cristo?». «Dove non so. So che sento che è Lui». «Pazzo!», gli voltano inquieti le spalle. Gesù ha osservato il dialogo e, quando i farisei gli passano davanti in gruppo serrato per andarsene inquieti, li chiama dicendo: «Ascoltatemi. Voglio chiedervi una cosa. Secondo voi, che ve ne pare del Cristo? Di chi è figlio?». «Sarà figlio di Davide», gli rispondono marcando il “sarà”, perché vogliono fargli capire che, per loro, Egli non è il Cristo. «E come dunque Davide, ispirato da Dio, lo chiama “Signore” dicendo: (Salmo 110, 1) “Il Signore ha detto al mio Signore: ‘Siedi alla mia destra fino a che non avrò messo i tuoi nemici a sgabello ai tuoi piedi’”? Se dunque Davide chiama il Cristo “Signore”, come il Cristo può essergli figlio?». Non sapendo cosa rispondergli, si allontanano ruminando il loro veleno.
4Gesù si sposta dal luogo dove era, tutto invaso dal sole, per andare più oltre, dove sono le bocche del tesoro, presso la sala del gazofilacio. Questo lato, ancora in ombra, è occupato da rabbi che concionano con grandi gesti rivolti ai loro ascoltatori ebrei, che aumentano sempre più come, col passar delle ore, aumenta di continuo la gente che affluisce al Tempio. I rabbi si sforzano di demolire coi loro discorsi gli insegnamenti che il Cristo ha dato nei giorni precedenti o quella stessa mattina. E sempre più alzano la voce più vedono aumentare la folla dei fedeli. Il luogo, infatti, benché vasto tanto, formicola di persone che vanno e vengono in ogni senso…
6 Solo oggi, e con insistenza, vedo apparire la seguente visione.
Sul principio non vedo che cortili e porticati, che riconosco essere del Tempio, e Gesù, che sembra un imperatore tanto è solenne nel suo abito rosso vivo e manto pure rosso più cupo, appoggiato ad una enorme colonna quadrata che sostiene un arco del portico.
Mi guarda fissamente. Mi perdo a guardarlo, beandomi di Lui che da due giorni non vedevo e non udivo. La visione dura così per lungo tempo. E finché dura così non la scrivo, perché è gioia mia. Ma, ora che vedo animarsi la scena, comprendo che vi è dell’altro e scrivo.
Il luogo si va empiendo di gente che va e viene in ogni senso. Vi sono sacerdoti e fedeli, uomini, donne e bambini. Chi passeggia, chi, fermo, ascolta i dottori, chi si dirige trascinando agnellini o portando colombi presso altri luoghi forse di sacrificio. Gesù sta appoggiato alla sua colonna e guarda. Non parla. Anche due volte che è stato interrogato dagli apostoli ha fatto cenno di no, ma non ha parlato. È attentissimo ad osservare. E dall’espressione pare stia giudicando chi guarda. Il suo occhio e tutto il volto mi ricorda l’aspetto che gli ho visto nella visione del Paradiso, quando giudicava le anime nel giudizio particolare. Ora, naturalmente, è Gesù, Uomo; lassù era Gesù glorioso, perciò più ancora imponente. Ma la mutabilità del volto, che osserva fissamente, è uguale. È serio, scrutatore, ma, se delle volte è di una severità da far tremare il più sfacciato, delle volte è anche così dolce, di una mestizia sorridente che pare carezzi con lo sguardo.
7 Pare non oda nulla. Ma deve ascoltare tutto perché, quando da un gruppo lontano parecchi metri, raccolto intorno ad un dottore, si alza una voce nasale che proclama: «Più di ogni altro comando è valido questo: quanto è per il Tempio al Tempio vada. Il Tempio è al disopra del padre e della madre e, se alcuno vuole dare alla gloria del Signore ogni “che” che gli avanza, lo può fare e ne sarà benedetto, poiché non vi è sangue né affetto superiore al Tempio», Gesù gira lentamente la testa in quella direzione e guarda con un che… che non vorrei fosse rivolto a me. Pare guardi in generale. Ma quando un vecchietto tremolante si accinge a salire i cinque scalini di una specie di terrazza che è prossima a Gesù, e che pare conduca ad un altro cortile più interno, e punta il bastoncello e quasi cade inciampando nella veste, Gesù allunga il suo lungo braccio e l’afferra e lo sorregge, né lo lascia sinché lo vede in sicuro. Il vecchietto alza la testa grinzosa e guarda il suo alto salvatore e mormora una parola di benedizione, e Gesù gli sorride e lo carezza sulla testa semicalva. Poi torna contro la sua colonna, e se ne stacca ancora una volta per rialzare un bambino che scivola dalla mano della madre e cade bocconi proprio ai suoi piedi, piangendo, contro il primo scalino. Lo alza, lo carezza, lo consola. La madre, confusa, ringrazia. Gesù sorride anche a lei, alla quale riconsegna il piccolo. Ma non sorride quando passa un tronfio fariseo e neppure quando passano in gruppo degli scribi e altri che non so chi siano. Questo gruppo saluta con grande sbracciarsi e inchinarsi. Gesù li guarda così fissamente che pare li perfori, e saluta ma senza espansione. È severo. Anche ad un sacerdote che passa, e deve essere un pezzo grosso perché la folla fa largo e saluta e lui passa tronfio come un pavone, Gesù dà un lungo sguardo. Uno sguardo tale che colui, che pure è pieno di superbia, china il capo. Non saluta. Ma non resiste allo sguardo di Gesù.
8 Gesù cessa di guardarlo per osservare una povera donnetta vestita di marrone scuro, che sale vergognosa i gradini e va verso una parete in cui sono come delle teste di leone o simili bestie a bocca aperta. Molti vanno a quella volta. Ma Gesù pareva non aver fatto caso a loro. Ora invece segue il cammino della donnetta. Il suo occhio la guarda pietoso e si fa dolce dolce quando la vede stendere una mano e gettare nella bocca di pietra di uno di quei leoni qualche cosa. E quando la donnetta nel ritirarsi gli passa vicino, dice per il primo: «La pace a te, donna». Quella, stupita, alza il capo e resta interdetta. «La pace a te», ripete Gesù. «Va’, ché l’Altissimo ti benedice». Quella poveretta resta estatica, poi mormora un saluto e va. «Ella è felice nella sua infelicità», dice Gesù uscendo dal suo silenzio. «Ora è felice perché la benedizione di Dio la accompagna».
9 «Udite, amici, e voi che mi siete intorno. Vedete quella donna? Non ha dato che due spiccioli, tanto che non basta a comperare il pasto di un passero tenuto in gabbia, eppure ha dato più di tutti quanti hanno, da quando si è aperto il Tempio all’aurora, versato il loro obolo al Tesoro del Tempio. Udite. Ho visto ricchi in gran numero mettere in quelle bocche sostanze capaci di sfamare costei per un anno e di rivestire la sua povertà, che è decente solo perché è pulita. Ho visto ricchi mettere con visibile soddisfazione là dentro somme che avrebbero potuto sfamare i poveri della Città santa per uno e più giorni e far loro benedire il Signore. Ma in verità vi dico che nessuno ha dato più di costei. Il suo obolo è carità. L’altro non è. Il suo è generosità. L’altro non è. Il suo è sacrificio. L’altro non è. Oggi quella donna non mangerà poiché non ha più nulla. Prima dovrà lavorare per mercede, per poter dare un pane alla sua fame. Dietro a lei non vi sono ricchezze, non vi sono parenti che guadagnino per lei. Ella è sola. Dio le ha levato parenti, marito e figli, le ha levato quel poco bene che essi le avevano lasciato, e più che Dio glielo hanno levato gli uomini, questo; quegli uomini che ora con grandi gesti, vedete?, continuano a gettare là dentro il loro superfluo, di cui molto è estorto con usura dalle povere mani di chi è debole e ha fame.
10 Essi dicono che non c’è sangue e affetto superiore al Tempio, e così insegnano a non amare il prossimo loro. Io vi dico che sopra al Tempio è l’amore. La legge di Dio è amore, e non ama chi non ha pietà per il prossimo. Il denaro superfluo, il denaro infangato dall’usura, dall’astio, dalla durezza, dall’ipocrisia, non canta la lode a Dio e non attira sul donatore la benedizione celeste. Dio lo ripudia. Impingua queste casse. Ma non è oro per l’incenso: è fango che vi sommerge, o ministri, che non servite Dio ma il vostro interesse; ma è laccio che vi strozza, o dottori, che insegnate una dottrina vostra; ma è veleno che vi corrode quel resto d’anima, o farisei, che ancora avete. Dio non vuole ciò che è avanzo. Non siate Caini. Dio non vuole ciò che è frutto di durezza. Dio non vuole ciò che, alzando voce di pianto, dice: “Dovevo sfamare un affamato. Ma gli sono stato negato per far pompa qua dentro. Dovevo aiutare un vecchio padre, una madre cadente, e sono stato negato perché l’aiuto non sarebbe stato noto al mondo, ed io devo suonare il mio squillo perché il mondo veda il donatore”. No, rabbi che insegni che quanto è avanzo va dato a Dio e che è lecito negare al padre e alla madre per dare a Dio. Il primo comando è: “Ama Dio con tutto il tuo cuore, la tua anima, la tua intelligenza, la tua forza”. Perciò non il superfluo ma quello che è sangue nostro bisogna dargli, amando soffrire per Lui. Soffrire. Non far soffrire. E se dare molto costa, perché spogliarsi delle ricchezze spiace e il tesoro è il cuore dell’uomo, vizioso di natura, è proprio perché costa che dare bisogna. Per giustizia: poiché tutto quanto si ha, si ha per bontà di Dio. Per amore, perché è prova d’amore amare il sacrificio per dare gioia a chi si ama. Soffrire per offrire. Ma soffrire. Non far soffrire, ripeto. Perché il secondo comando dice: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. E la legge, specifica che, dopo Dio, i genitori sono il prossimo cui è obbligo dare onore e aiuto.
11 Onde in verità vi dico che quella povera donna ha compreso la Legge meglio dei sapienti ed è giustificata più di ogni altro e benedetta, poiché nella sua povertà ha dato a Dio tutto, mentre voi date ciò che vi supera e lo date per crescere nella stima degli uomini. Lo so che mi odiate perché parlo così. Ma finché questa bocca potrà parlare, parlerà in tal modo. Unite il vostro odio per Me al disprezzo per la poverella che Io lodo. Ma non crediate di fare di queste due pietre doppio piedistallo alla vostra superbia. Saranno la macina che vi stritolerà. Andiamo. Lasciamo che le vipere si mordano aumentando il loro veleno. Chi è puro, buono, umile, contrito, e vuole conoscere il vero volto di Dio, mi segua».
12 Dice Gesù: «E tu, alla quale nulla resta, poiché tutto mi hai dato, dammi questi due ultimi spiccioli. Davanti al tanto che hai dato sembrano, agli estranei, un nulla. Ma per te, che non hai più che questi, sono tutto. Mettili nella mano del tuo Signore. E non piangere. O, almeno, non piangere sola. Piangi con Me, che sono l’Unico che ti posso capire e che ti capisco senza nebbie di umanità, che sono sempre interessato velo al vero».
13 Apostoli, discepoli e folla lo seguono compatti, mentre Egli torna di nuovo nel luogo della prima cinta che è quasi al riparo del muraglione di cinta del Tempio, là dove è un poco di frescura perché la giornata è molto afosa. Là, essendo il terreno sconvolto dagli zoccoli degli animali, sparso delle pietre che i mercanti e i cambiavalute usavano per tenere fermi i loro recinti e le loro tende, là non ci sono i rabbi di Israele, i quali permettevano che nel Tempio si facesse un mercato, ma che hanno ribrezzo a portare le suole dei loro sandali là dove malamente sono cancellate le orme dei quadrupedi che solo da pochi giorni sono stati sfrattati di là… Gesù non ne ha ribrezzo e si rifugia là, in un cerchio folto di ascoltatori. Però, prima di parlare, chiama vicino i suoi apostoli, ai quali dice: «Venite e ascoltate bene. Ieri volevate sapere molte delle cose che ora dirò e che ieri accennai vagamente, quando riposavamo nell’orto di Giuseppe. State dunque bene attenti, perché sono grandi lezioni per tutti e soprattutto per voi, miei ministri e continuatori.
14 Udite. Sulla cattedra di Mosè si assisero al tempo giusto scribi e farisei. Ore tristi, quelle, per la Patria. (Come si legge in: Esdra 1-10; Neemia 1-13; 1 Maccabei). Finito l’esilio in Babilonia e ricostruita la nazione per magnanimità di Ciro, i reggitori del popolo sentirono la necessità di ricostruire anche il culto e la conoscenza della Legge. Perché guai a quel popolo che non li ha a sua difesa, guida e sostegno, contro i più potenti nemici di una nazione, che sono l’immoralità dei cittadini, la ribellione ai capi, la disunione fra le diverse classi e partiti, i peccati contro Dio e contro il prossimo, l’irreligiosità, tutti elementi disgregatori per se stessi e per le punizioni celesti che provocano! Sorsero dunque gli scribi, o dottori della Legge, per poter ammaestrare il popolo che, parlante il linguaggio caldeo, retaggio del duro esilio, non comprendeva più le scritture scritte in ebraico puro. Sorsero in aiuto dei sacerdoti, insufficienti per numero ad assolvere il compito di ammaestrare le folle. Laicato dotto e dedicato ad onorare il Signore, portando la conoscenza di Lui negli uomini e portando a Lui gli uomini, ebbe la sua ragione di essere e fece anche del bene. Perché, ricordatevelo tutti, anche le cose che per debolezza umana poi degenerano, come fu questa che si corruppe nell’andare dei secoli, hanno sempre qualche parte di buono e una ragione, almeno iniziale, di essere, per le quali cose l’Altissimo permette che sorgano e durino sinché, la misura della degenerazione essendo colma, l’Altissimo non le disperde. Venne poi l’altra setta dei farisei, dalla trasformazione di quella degli Assidei, sorta per sostenere con la più rigida morale e la più intransigente ubbidienza la Legge di Mosè e lo spirito di indipendenza nel nostro popolo, quando il partito ellenista, formatosi per le pressioni e le seduzioni iniziatesi al tempo di Antioco Epifane e presto mutatesi in persecuzioni su chi non cedeva alle pressioni dell’astuto, che più che sulle sue armi contava sulla disgregazione della fede nei cuori per regnare nella nostra Patria, tentava di farci servi.
15 Ricordate anche questo: temete piuttosto le facili alleanze e le blandizie di uno straniero che le sue legioni. Perché, mentre se sarete fedeli alle leggi di Dio e della Patria vincerete anche se accerchiati da eserciti poderosi, quando sarete corrotti dal veleno sottile, dato come un miele inebriante dallo straniero che ha fatto disegni su voi, Dio vi abbandonerà per i vostri peccati, e sarete vinti e soggetti, anche senza che il falso alleato dia battaglia cruenta contro il vostro suolo. Guai a chi non sta all’erta come vigile scolta e non respinge l’insidia sottile di un astuto e falso vicino, o alleato, o dominatore che inizia la sua dominazione sui singoli, illanguidendo il loro cuore e corrompendolo con usi e costumi che nostri non sono, che santi non sono e che perciò ci rendono sgraditi al Signore! Guai! Ricordate tutti le conseguenze portate alla Patria dall’avere alcuni dei suoi figli adottato usi e costumi dello straniero per ingraziarsi lo stesso e godere. Buona cosa è la carità con tutti, anche con i popoli che non sono della nostra fede, che non hanno i nostri usi, che ci hanno nuociuto nei secoli. Ma l’amore a questi popoli, che sono sempre nostro prossimo, non ci deve mai far rinnegare la Legge di Dio e della Patria per il calcolo di qualche utile carpito così ai vicini. No. Gli stranieri disprezzano coloro che sono servili sino al ripudio delle cose più sante della Patria. Non è col rinnegare il Padre e la Madre – Dio e la Patria – che si ottiene rispetto e libertà. Bene dunque fu che al tempo giusto sorgessero anche i farisei a fare diga contro lo straripamento fangoso di usi e costumi stranieri. Lo ripeto: ogni cosa che sorge e che dura ha la sua ragione d’essere. E bisogna rispettarla per ciò che fece, se non per ciò che fa. Ché, se essa è colpevole, ormai, non sta agli uomini insultarla e meno ancora colpirla. C’è chi sa farlo: Dio e Colui che Egli ha mandato e che ha il diritto e il dovere di aprire la sua bocca e di aprire i vostri occhi, perché voi e loro sappiate il pensiero dell’Altissimo e agiate con giustizia. Io e nessun altro. Io perché parlo per mandato divino. Io perché posso parlare non avendo in Me nessuno dei peccati che vi scandalizzano quando li vedete fatti da scribi e farisei, ma che, se potete, fate voi pure».
16 Gesù, che aveva iniziato pianamente il suo discorso, ha alzato gradatamente la voce, e in queste ultime parole essa è potente come uno squillo di tromba. Ebrei e gentili sono intenti ed attenti ad ascoltarlo. E se i primi applaudono quando Gesù ricorda la Patria e chiama apertamente coi loro nomi coloro che, stranieri, li hanno assoggettati e fatti soffrire, i secondi ammirano la forma oratoria del discorso e si felicitano di essere presenti a questa orazione degna di un grande oratore, dicono fra loro. Gesù abbassa di nuovo la voce riprendendo a parlare: «Questo vi ho detto per ricordarvi la ragione d’essere di scribi e farisei, e come e perché si sono seduti sulla cattedra di Mosè, e come e perché parlano e non vane sono le loro parole. Fate dunque ciò che essi dicono. Ma non imitateli nelle loro azioni. Perché essi dicono di fare in una data maniera, ma poi non fanno ciò che dicono che si deve fare. Infatti essi insegnano le leggi di umanità del Pentateuco, ma poi caricano di pesi grandi, insopportabili, inumani, gli altri, mentre per loro stessi non stendono neppur un dito, non a portare quei pesi, ma neppure a toccarli. Loro regola di vita è l’esser visti e notati e applauditi per le loro opere, che fanno in maniera atta a esser viste, per averne lode. E contravvengono alla legge dell’amore, perché amano definirsi separati e hanno sprezzo per coloro che non sono della loro setta, ed esigono il titolo di maestri e un culto dai loro discepoli quali essi non dànno a Dio. Dèi si credono per sapienza e potenza, superiori al padre e alla madre vogliono essere nel cuore dei loro discepoli, e pretendono che la loro dottrina superi quella di Dio ed esigono che sia praticata alla lettera, anche se è manipolazione della vera Legge, inferiore alla stessa come più non lo è questo monte rispetto all’altezza del Grande Ermon che tutta la Palestina sovrasta; ed eretici sono, credendo, come i pagani, alla metempsicosi e alla fatalità alcuni, negando gli altri ciò che i primi ammettono e, di fatto se non di effetto, ciò che Dio stesso ha dato per fede, definendosi unico Dio al quale va dato culto e dicendo il padre e la madre secondi a Dio soltanto, e come tali in diritto di essere ubbiditi più di un maestro che non sia divino. Ché se ora Io vi dico: “Colui che ama il padre e la madre più di Me non è atto al Regno di Dio”, non è già per inculcarvi il disamore ai parenti, ai quali dovete rispetto ed aiuto, né è lecito levare un soccorso ad essi dicendo: “È denaro del Tempio”, o ospitalità dicendo: “La mia carica me lo vieta”, o la vita dicendo: “Ti uccido perché tu ami il Maestro”, ma è perché abbiate l’amore giusto ai parenti, ossia un amore paziente e forte nella sua mansuetudine, il quale sa – senza giungere all’odio verso il parente che pecca e dà dolore non seguendovi sulla via della Vita: la mia – il quale sa saper scegliere tra la legge mia e l’egoismo famigliare e la sopraffazione famigliare. Amate i parenti, ubbiditeli in tutto ciò che è santo. Ma siate pronti a morire, non già a dar morte ma a morire, dico, se essi vogliono indurvi a tradire la vocazione che Dio ha messa in voi di essere i cittadini del Regno di Dio che Io sono venuto a formare.
17 Non imitate scribi e farisei, divisi fra loro sebbene affermino di essere uniti. Voi, discepoli del Cristo, siate veramente uniti, uni per gli altri, i capi dolci ai soggetti, i soggetti dolci coi capi, uni nell’amore e nel fine della vostra unione: conquistare il mio Regno ed essere alla mia destra nell’eterno Giudizio. Ricordate che un regno diviso non è più un regno e non può sussistere. Siate dunque uniti fra voi nell’amore per Me e per la mia dottrina. Assisa del cristiano, ché tale sarà il nome dei sudditi miei, sia l’amore e l’unione, l’uguaglianza fra voi nelle vesti, la comunanza negli averi, la fratellanza dei cuori. Tutti per uno, uno per tutti. Chi ha, dia umilmente. Chi non ha, accetti umilmente e umilmente esponga i suoi bisogni ai fratelli, sapendoli tali; e i fratelli ascoltino amorosamente i bisogni dei fratelli, sentendosi ad essi veramente tali. Ricordate che il Maestro vostro ebbe spesso fame, freddo e altri mille bisogni e disagi, e umilmente li espose agli uomini, Egli, Verbo di Dio. Ricordate che è dato un premio a chi è misericorde anche di un sol sorso d’acqua. Ricordate chedare è meglio che ricevere. In questi tre ricordi il povero trovi la forza di chiedere senza sentirsi umiliato, pensando che Io l’ho fatto prima di lui, e di perdonare se sarà respinto, pensando che molte volte al Figlio dell’uomo fu negato il posto e il cibo che si dànno ai cani di guardia al gregge. E il ricco trovi la generosità di dare le sue ricchezze, pensando che la moneta vile, l’odioso denaro suggerito da Satana, causa dei nove decimi delle rovine del mondo, se dato per amore si muta in gemma immortale e paradisiaca.
18 Siate vestiti delle vostre virtù. Esse siano ampie ma note a Dio solo. Non fate come i farisei che portano le filatterie più larghe e le frange più lunghe e amano i primi seggi nelle sinagoghe e gli ossequi nelle piazze, e vogliono essere chiamati dal popolo: “Rabbi”. Uno solo è il Maestro: il Cristo. Voi che in futuro sarete i nuovi dottori, parlo a voi, miei apostoli e discepoli, ricordate che Io solo sono il vostro Maestro. E lo sarò anche quando non sarò più fra voi. Perché solo la Sapienza è colei che ammaestra. Non fatevi perciò chiamare maestri, perché siete voi stessi discepoli. E non esigete e non date il nome di padre ad alcuno sulla Terra, perché uno solo è il Padre di tutti: il Padre vostro che è nei Cieli. Questa verità vi faccia saggi nel sentirvi veramente tutti fratelli fra voi, sia quelli che dirigono come quelli che sono diretti, e amatevi perciò da buoni fratelli. Né alcuno di quelli che dirigeranno si faccia chiamare guida, perché una sola è la vostra guida comune: il Cristo. Il più grande fra voi sia vostro servo. Non è umiliarsi esser servo dei servi di Dio, ma è imitare Me che fui mite e umile, sempre pronto ad avere amore ai fratelli miei nella carne di Adamo e ad aiutarli con la potenza che ho in Me come Dio. Né ho umiliato il divino, servendo gli uomini. Perché il vero re è colui che sa signoreggiare non tanto gli uomini quanto le passioni dell’uomo, prima fra tutte la stolta superbia. Ricordate: chi si umilia sarà esaltato e chi si esalta sarà umiliato.
19 La Donna di cui ha parlato nel II della Genesi il Signore, la Vergine di cui è parola in Isaia (7, 14), la Madre-Vergine dell’Emmanuele, ha profetato questa verità del tempo nuovo cantando: “Il Signore ha rovesciato i potenti dal loro trono ed ha innalzato gli umili”. La Sapienza di Dio parlava sul labbro di Colei che era Madre della Grazia e Trono della Sapienza. E Io ripeto le ispirate parole che mi lodarono unito al Padre e allo Spirito Santo, nelle nostre opere mirabili, quando, senza offesa per la Vergine, Io, l’Uomo, mi formavo nel suo seno senza cessare di essere Dio. Siano norma a quelli che vogliono partorire il Cristo nei loro cuori e venire al Regno di Cristo. Non vi sarà Gesù: il Salvatore; Cristo: il Signore; e non vi sarà Regno dei Cieli per coloro che sono superbi, fornicatori, idolatri, adorando se stessi e la loro volontà.
20 Perciò guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che credete di poter chiudere con le vostre impraticabili sentenze – e realmente, se fossero avallate da Dio, sarebbero serrame infrangibile alla maggioranza degli uomini – che credete di poter chiudere il Regno dei Cieli in faccia agli uomini che alzano lo spirito ad esso per trovare forza nella loro penosa giornata terrena! Guai a voi che non ci entrate, non ci volete entrare perché non accogliete la Legge del celeste Regno, e non ci lasciate entrare gli altri che sono davanti a quella porta che voi, intransigenti, rinforzate di chiusure che Dio non ha messe. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che divorate le case delle vedove col pretesto di fare lunghe orazioni. Per questo subirete un giudizio severo! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che andate per mare e per terra, consumando gli averi non vostri, per fare un solo proselite e, fatto che sia tale, lo rendete figlio dell’inferno il doppio di voi! Guai a voi, guide cieche, che dite: “Se uno giura per il Tempio non è niente il suo giuramento, ma se giura per l’oro del Tempio allora resta obbligato al suo giuramento”. Stolti e ciechi! E chi è di più? L’oro, o il Tempio che santifica l’oro? E che dite: “Se uno giura per l’altare non ha valore il suo giuramento, ma se giura per l’offerta che è sull’altare allora è valido il suo giurare e resta obbligato al suo giuramento”. Ciechi! Che cosa è più grande? L’offerta, o l’altare che santifica l’offerta? Chi dunque giura per l’altare giura per esso e per tutte le cose che sono sopra di esso, e chi giura per il Tempio giura per esso e per Colui che lo abita, e chi giura per il Cielo giura per il trono di Dio e per Colui che vi sta assiso. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate le decime della menta e della ruta, dell’anice e del cimino, e poi trascurate i precetti più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste sono le virtù che bisognava avere, senza tralasciare le altre cose minori! Guide cieche, che filtrate le bevande per paura di contaminarvi inghiottendo un moscerino affogato, e poi trangugiate un cammello senza sentirvi immondi per questo. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che lavate l’esterno del calice e del piatto, ma dentro siete ricolmi di rapina e d’immondezza. Fariseo cieco, lava prima il di dentro del tuo calice e del tuo piatto, di modo che anche il di fuori divenga pulito. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che volate come nottole nelle tenebre per le vostre opere di peccato e patteggiate nella notte coi pagani, i ladroni e i traditori, e poi, al mattino, cancellati i segni dei vostri occulti mercati, salite al Tempio in bella veste. Guai a voi, che insegnate le leggi della carità e della giustizia contenute nel Levitico, e poi siete avidi, ladri, falsi, calunniatori, oppressori, ingiusti, vendicativi, odiatori, e giungete ad abbattere colui che vi dà noia, anche se è vostro sangue, e a ripudiare la vergine che vi è divenuta moglie, e ripudiare i figli avuti da lei perché sono infelici, e ad accusare di adulterio la vostra donna che più non vi piace, o di malattia immonda, per esser liberi di essa, voi che immondi siete nel vostro cuore libidinoso, anche se non parete tali agli occhi della gente che non sa le vostre azioni. Siete simili a sepolcri imbiancati, che di fuori sembrano belli mentre dentro sono pieni d’ossa di morti e di marciume. Così anche voi. Sì. Così! Di fuori sembrate giusti, ma dentro siete ricolmi di ipocrisia e d’iniquità. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate sontuosi sepolcri ai profeti e abbellite le tombe dei giusti dicendo: “Se noi fossimo vissuti ai tempi dei nostri padri non saremmo stati complici e partecipi di coloro che sparsero il sangue dei profeti”. E così testimoniate contro di voi di essere i discendenti di coloro che uccisero i vostri profeti. E voi, del resto, colmate la misura dei padri vostri… O serpenti, razza di vipere, come scamperete alla condanna della Geenna?
21 Per questo, ecco, Io, Parola di Dio, vi dico: Io, Dio, manderò a voi profeti e sapienti e scribi novelli. E, di questi, voi parte ne ucciderete, parte ne crocifiggerete, parte ne flagellerete nei vostri tribunali, nelle vostre sinagoghe, fuori delle vostre mura, e parte li perseguiterete di città in città, finché non ricada su voi tutti il sangue giusto sparso sulla Terra, dal sangue del giusto Abele (Genesi 4, 8) a quello di Zaccaria figlio di Barachia, (2 Cronache 24, 20-22. Già al Vol 6 Cap 414), che voi uccideste fra l’atrio e l’altare perché vi aveva, per amore di voi, ricordato il vostro peccato acciò ve ne pentiste tornando al Signore. Così è. Voi odiate coloro che vogliono il vostro bene e amorosamente vi richiamano sui sentieri di Dio. In verità vi dico che tutto ciò sta per avvenire, e il delitto e le conseguenze. In verità vi dico che tutto ciò si compirà su questa generazione. Oh! Gerusalemme! Gerusalemme! Gerusalemme, che lapidi quelli che ti sono inviati e uccidi i suoi profeti! Quante volte Io ho voluto radunare i tuoi figli come la chioccia raduna i suoi pulcini sotto le sue ali, e tu non hai voluto! Or ecco, ascolta, o Gerusalemme! Or ecco, ascoltate voi tutti che mi odiate e odiate tutto ciò che viene da Dio. Or ecco, ascoltate voi che mi amate e che sarete travolti nel castigo serbato per i persecutori dei Messi di Dio. E ascoltate anche voi, che non siete di questo popolo ma che mi ascoltate ugualmente, ascoltate per sapere chi è Colui che vi parla e che predice senza bisogno di studiare il volo, il canto degli uccelli, né i fenomeni celesti e le viscere degli animali sacrificati, né la fiamma e il fumo degli olocausti, perché tutto il futuro è il presente per Colui che vi parla. “Questa vostra Casa vi sarà lasciata deserta. Io vi dico, dice il Signore, che non mi vedrete più finché voi pure non diciate: ‘Benedetto Colui che viene nel nome del Signore’”». (Salmo 118, 26).
22 Gesù è visibilmente stanco e accaldato. E per la fatica del lungo e tonante discorso e per l’afa della giornata senza vento. Premuto contro al muro da una moltitudine, dardeggiato da mille e mille pupille, sentendo tutto l’odio che da sotto i portici del cortile dei Pagani lo ascolta, e tutto l’amore o almeno l’ammirazione che lo circonda, incurante del sole che picchia sulle schiene e sui volti arrossati e sudati, appare veramente spossato e bisognoso di ristoro. E lo cerca dicendo ai suoi apostoli e ai settantadue, che come tanti cunei si sono aperti lentamente un passaggio nella folla e che sono ora in prima linea, barriera d’amore fedele intorno a Lui: «Usciamo dal Tempio e andiamo all’aperto, fra gli alberi. Ho bisogno di ombra, silenzio e frescura. In verità questo luogo sembra già ardere del fuoco dell’ira celeste». Gli fanno largo a fatica e possono così uscire dalla porta più vicina, dove Gesù si sforza di congedare molti, ma inutilmente. Lo vogliono seguire a tutti i costi.
23 I discepoli, intanto, osservano il cubo del Tempio sfavillante al sole quasi meridiano, e Giovanni d’Efeso fa osservare al Maestro la potenza della costruzione: «Guarda che pietre e che costruzioni! ». «Eppure di esse non resterà pietra su pietra», risponde Gesù. «No! Quando? Come?», chiedono molti. Ma Gesù non dice. Scende il Moria ed esce svelto dalla città, passando per Ofel e per la porta di Efraim o del Letame e rifugiandosi nel folto dei Giardini del Re dapprima, ossia sinché coloro che, non apostoli e non discepoli, si sono ostinati a seguirlo se ne vanno lentamente quando Mannaen, che ha fatto aprire i pesanti cancelli, si fa avanti, imponente, per dire a tutti: «Andate. Qui non entrano che coloro che io voglio». Ombre, silenzio, profumi di fiori, aromi di canfore e garofani, cannella, spigo e mille altre erbe da odori, e fruscio di ruscelli, certo alimentati dalle fonti e cisterne vicine, sotto gallerie di fogliame, cinguettii d’uccelli, fanno del luogo un posto di riposo paradisiaco. La città sembra lontana miglia e miglia, con le sue vie strette, cupe per gli archivolti o assolate sino ad essere abbacinanti, coi suoi odori e fetori di cloache non sempre pulite e di vie percorse da troppi quadrupedi per essere pulite, specie quelle di secondaria importanza.
24 Il custode dei Giardini deve conoscere molto bene Gesù, perché lo ossequia con rispetto e confidenza insieme, e Gesù gli chiede dei figli e della moglie. L’uomo vorrebbe ospitare Gesù nella sua casa, ma il Maestro preferisce la pace fresca, riposante del vasto Giardino del Re, un vero parco di delizie. E prima che i due instancabili e fedelissimi servi di Lazzaro se ne vadano a prendere la cesta del cibo, Gesù dice loro: «Dite alle vostre padrone di venire. Staremo qui qualche ora con mia Madre e le discepole fedeli. E sarà tanto dolce…». «Sei molto stanco, Maestro! Il tuo volto lo dice», osserva Mannaen. «Sì. Tanto che non ho avuto forza di andare oltre». «Ma io te li avevo offerti questi giardini più volte, in questi giorni. Tu sai se io sono contento di poterti offrire pace e ristoro!». «Lo so, Mannaen». «E ieri sei voluto andare in quel triste luogo! Così arido nelle vicinanze, così stranamente brullo nel suo vegetare quest’anno! Così vicino a quella triste porta!». «Ho voluto accontentare i miei apostoli. Sono bambini, in fondo. Grandi bambini. Vedili là come si ristorano felici!… Subito dimentichi di quanto si agita contro di Me oltre queste mura…». «E dimentichi che Tu sei tanto afflitto… Ma non mi sembra che ci sia molto da allarmarsi. Mi sembrava più pericoloso il luogo altre volte». Gesù lo guarda e tace. Quante volte vedo Gesù guardare e tacere così, in questi ultimi giorni! Poi Gesù si dà a guardare gli apostoli e i discepoli, che si sono levati i copricapi e i mantelli e i sandali, rinfrescandosi volti ed estremità nei freschi rii, imitati da molti dei settantadue discepoli, che ora, in realtà, sono molti di più, io credo, e che, tutti uniti dalla fraternità di ideali, si gettano qua e là in riposo, un poco in disparte per lasciare Gesù quieto a riposare. Anche Mannaen si ritira lasciandolo in pace. Tutti rispettano il riposo del Maestro, stanchissimo, che si è rifugiato in una foltissima pergola di gelsomino in fiore fatta a capanna, isolata da un anello d’acque che scorre frusciando in un canaletto nel quale si riversano erbe e fiori. Un vero rifugio di pace, al quale si accede per un ponticello largo due palmi e lungo quattro, sulla cui ringhiera è tutta una ghirlanda di corolle di gelsomini.
25 Tornano i servi aumentati da altri, perché Marta ha voluto provvedere a tutti i servi del Signore, e dicono che le donne verranno fra poco. Gesù fa chiamare Pietro e gli dice: «Insieme a Giacomo mio fratello benedici, offri e distribuisci così come Io faccio». «Distribuire sì, ma benedire no, Signore. A Te tocca offrire e benedire. Non a me». «Quando eri a capo dei compagni, lontano da Me, non lo facevi?». «Sì. Ma allora… era per forza che lo facevo. Adesso Tu sei con noi e Tu benedici. Mi pare più buono tutto, quando Tu offri per noi e distribuisci… », e il fedele Simone abbraccia il suo Gesù, seduto stancamente in quell’ombra, e gli curva la testa sulla spalla, beato di poterlo stringere e baciare così… Gesù si alza e lo accontenta. Va verso i discepoli, offre, benedice, spartisce il cibo, li guarda mangiare contenti e dice loro: «Dopo dormite, riposate mentre è l’ora e perché poi possiate vegliare e pregare quando avrete bisogno di farlo, e la fatica e stanchezza non vi aggravino di sonno occhi e spirito quando sarà necessario che voi siate pronti e ben svegli». «Tu non resti con noi? Non mangi?». «Lasciatemi riposare. Ho bisogno solo di questo. Mangiate, mangiate!». Carezza nel passare quelli che trova sul suo cammino e torna al suo posto…
26 Dolce, soave è la venuta della Madre presso il Figlio. Maria viene avanti sicura, poiché Mannaen, che ha vegliato presso il cancello, meno stanco degli altri, le indica il luogo dove è Gesù. Le altre, e vi sono tutte le discepole ebree, e di romane la sola Valeria, sostano per qualche tempo, silenziose per non destare i discepoli che dormono al rezzo delle frondose piante, simili a tante pecore accosciate fra l’erba, a sesta. Maria entra sotto la pergola di gelsomini senza far scricchiolare il piccolo ponte di legno, né la ghiaia del suolo, e ancor più cautamente si accosta al Figlio che, vinto dalla stanchezza, si è addormentato col capo sul tavolo di pietra messo là sotto, il braccio sinistro a far da guanciale sotto il volto velato dai capelli. Maria si siede paziente vicino alla sua Creatura stanca. E la contempla… tanto… e un sorriso doloroso e amoroso è sul suo labbro, mentre senza rumore le cadono in grembo gocce di pianto; ma se le labbra sono chiuse e mute, prega il suo cuore, con tutta la forza che possiede, e tradisce la potenza di quella preghiera e del suo soffrire l’atteggiamento delle sue mani congiunte in grembo, strette, intrecciate per non tremare e pure scosse da un tremito lieve. Mani che si disgiungono soltanto per cacciare una mosca insistente che vuole posarsi sul Dormente e lo potrebbe svegliare. È la Madre che veglia il Figlio. L’ultimo sonno del Figlio che Ella possa vegliare. E se il volto della Madre, in questo mercoledì pasquale, è diverso da quello della Madre nel Natale del Signore, perché il dolore lo impallidisce e scava, la dolce purezza amorosa dello sguardo, la trepida cura è uguale a quella che Ella aveva quando, curva sulla greppia di Betlemme, proteggeva del suo amore il primo sonno disagiato della sua Creatura. Gesù ha un movimento e Maria si asciuga rapidamente gli occhi per non mostrare lacrime al Figlio. Ma Gesù non si è svegliato. Ha solo mutato posizione al volto, girandolo dall’altra parte, e Maria riprende la sua immobilità e la sua veglia.
27 Ma qualcosa fa schiantare il cuore di Maria. Ed è sentire che il suo Gesù piange nel sonno e con un bisbiglio confuso, perché parla con la bocca premuta contro il braccio e la veste, mormora il nome di Giuda… Maria si alza, si avvicina, si curva sul Figlio, segue quel confuso bisbigliare con le mani premute sul cuore perché, rotto ma non talmente da non poterlo seguire, il discorso di Gesù fa capire che Egli sogna e risogna il presente e il passato e poi anche il futuro, finché si desta con un sobbalzo, come per sfuggire a qualcosa che è orrendo. Ma trova il petto di sua Madre, le braccia di sua Madre, il sorriso di sua Madre, la dolce voce di sua Madre, il suo bacio, la sua carezza, lo sfiorare leggero del suo velo passato sul volto ad asciugare lacrime e sudore mentre gli dice: «Eri scomodo, e sognavi… Sei sudato e stanco, Figlio mio». E gli ravvia i capelli scomposti, gli asciuga il volto e lo bacia, tenendolo cinto del suo braccio, appoggiato al suo cuore poiché non può più raccoglierselo in grembo come quando era piccino. Gesù le sorride dicendo: «Sei sempre la Mamma. Quella che consola. Quella che ripaga di tutto. La mia Mamma!». Se la fa sedere vicino abbandonandole la mano nel grembo, e Maria prende quella mano lunga, così signorile eppure così robusta, di artiere, fra le sue piccine, e ne carezza le dita e il dorso, lisciandone le vene che si erano gonfiate mentre pendeva nel sonno. E cerca di distrarlo…
28 «Siamo venute. Ci siamo tutte. Anche Valeria. Le altre sono all’Antonia. Le ha volute Claudia, “che è molto rattristata” ha detto la liberta. Dice che, non so per quale cosa, ha il presagio di molto pianto. Superstizioni!… Solo Dio sa le cose…». «Dove sono le discepole?». «Là, al principio dei Giardini. Marta ha voluto prepararti cibi e bevande refrigeranti e confortanti, pensando a quanto ti spossi. Ma io, guarda, questo ti piace sempre e te l’ho portato io. La mia parte. È più buono perché è della tua Mamma». Gli mostra del miele ed una focaccetta di pane sul quale lo stende dandolo al Figlio e dicendo: «Come a Nazaret, quando prendevi un riposo nell’ora più calda e poi ti svegliavi accaldato, e io venivo dalla grotta fresca con questo ristoro…». Si ferma perché le trema la voce. Suo Figlio la guarda e poi dice: «E quando c’era Giuseppe, per due portavi il ristoro e la fresca acqua della giara porosa, tenuta sulla corrente perché fosse più fresca e ancor più la facevano tale gli steli di menta selvaggia che vi gettavi dentro. Quanta menta, là, sotto gli ulivi! E quante api sui fiori della menta! Il nostro miele sapeva sempre un poco di quel profumo…». Pensa… ricorda… «Abbiamo visto Alfeo, sai? Giuseppe si è attardato perché aveva un figlio un poco malato. Ma domani sarà certo qui con Simone. Salome di Simone guarda la nostra casa e quella di Maria».
29 «Mamma, quando sarai sola, con chi starai?». «Con chi Tu dirai, Figlio mio. Ti ho ubbidito prima di averti, Figlio. Continuerò a farlo dopo che mi avrai lasciata». Le trema la voce, ma il sorriso è eroico sulle labbra. «Tu sai ubbidire. Quanto riposo stare con te! Perché, vedi, Mamma? Il mondo non può capire, ma Io trovo ogni riposo presso gli ubbidienti… Sì. Dio riposa presso gli ubbidienti. Dio non avrebbe avuto a soffrire, a faticare, se la disubbidienza non fosse venuta nel mondo. Tutto accade perché non si ubbidì. Per questo il dolore del mondo… Per questo il nostro dolore». «Ma anche la nostra pace, Gesù. Perché noi sappiamo che la nostra ubbidienza consola l’Eterno. Oh! per me in specie, cosa è questo pensiero! Mi è concesso, a me, creatura, di consolare il mio Creatore!». «Oh! Gioia di Dio! Tu non sai, o nostra Gioia, cosa è per Noi questa tua parola! Supera le armonie dei celesti cori… Benedetta! Benedetta che mi insegni l’ultima ubbidienza, e me la rendi così gradita a compiersi con questo pensiero!». «Tu non hai bisogno che io ti insegni, Gesù mio. Tutto ho imparato da Te». «Tutto ha imparato da te Gesù di Maria di Nazaret, l’Uomo». «Era la tua luce che usciva da me. La Luce che Tu sei, e che veniva alla Luce Eterna annichilita in veste d’uomo…
30 Mi hanno detto i fratelli di Giovanna il discorso che hai pronunciato. Erano rapiti di ammirazione. Sei stato forte con i farisei…». «È l’ora delle supreme verità, Mamma. Per essi restano morte verità. Ma per gli altri saranno verità vive. E con l’amore e il rigore Io devo tentare l’ultima battaglia per strapparli al Male». «È vero. Mi hanno detto che Gamaliele, che era con altri in una delle sale dei portici, disse, alla fine, mentre molti erano inquieti: “Quando non si vuole il rimprovero si agisce da giusti”, e se ne è andato dopo questa osservazione». «Ho piacere che il rabbi mi abbia sentito. Chi te lo ha detto?». «Lazzaro. E a lui lo disse Eleazzaro, che era nella sala con gli altri. Lazzaro è venuto a sesta. Ha salutato ed è ripartito senza ascoltare le sorelle, che lo volevano trattenere fino al tramonto. Ha detto di mandare Giovanni, o altri, a ritirare quelle frutta e quei fiori, che sono al giusto punto». «Manderò Giovanni, domani». «Viene tutti i giorni Lazzaro. Ma Maria si inquieta perché dice che sembra una apparizione. Sale al Tempio, viene, dà ordini e riparte». «Anche Lazzaro sa ubbidire. Gli ho ordinato Io così, perché è insidiato lui pure. Ma non dirlo alle sorelle. Non gli accadrà nulla.
31 “E ora andiamo dalle discepole». «Non ti muovere. Io le chiamerò. I discepoli dormono tutti…». «E li lasceremo dormire. La notte poco dormono, perché Io li istruisco nella pace del Getsemani». Maria esce e torna con le donne, che sembrano aver abolito il loro peso tanto sono leggeri i loro passi. Lo salutano col loro ossequio profondo, che è famigliare solo in Maria Cleofe. E Marta da una capace borsa trae un’anforetta sudante, mentre Maria leva da un vaso, pure poroso, fresche frutta venute da Betania, e le dispone sul tavolo a fianco di quanto ha preparato la sorella, ossia un colombo arrostito alla fiamma, croccante, appetitoso, e prega Gesù di gradire, dicendo: «Mangia. Riconforta questa carne. Io stessa l’ho preparata». Giovanna invece ha portato dell’aceto rosato. Spiega: «Rinfresca tanto in questi primi calori. Lo usa anche il mio sposo quando si stanca nelle lunghe cavalcate». «Noi non abbiamo nulla», si scusano Maria Salome, Maria Cleofe, Susanna ed Elisa. E Niche e Valeria alla loro volta: «E neppure noi. Non sapevamo di dover venire». «Mi avete dato tutto il vostro cuore. Mi è sufficiente. E ancor mi darete…». Mangia, ma più che altro beve la fresca acqua melata che Marta gli mesce dall’anfora porosa, e le frutta fresche che sono un ristoro per l’Affaticato. Le discepole non parlano molto. Lo guardano ristorarsi. Nei loro occhi è amore e affanno. E d’improvviso Elisa si mette a piangere, e se ne scusa dicendo: «Non so. Ho il cuore gravato di mestizia…». «Tutte lo abbiamo. Persino Claudia nel suo palazzo…», dice Valeria. «Io vorrei che fosse già Pentecoste», sussurra Salome. «Io invece vorrei fermare il tempo a quest’ora», dice Maria di Magdala. «Saresti egoista, Maria», le risponde Gesù. «Perché, Rabboni?». «Perché vorresti per te sola la gioia della tua redenzione. Sono migliaia e milioni di esseri che attendono quest’ora, o che per quest’ora saranno redenti». «È vero. Non ci pensavo… », china il capo mordendosi le labbra per non far vedere le lacrime dei suoi occhi e il tremito delle sue labbra. Ma è sempre la forte lottatrice, e dice: «Se Tu vieni domani, potrai rivestirti della veste che hai mandata. È fresca e monda, degna della cena pasquale». «Verrò…
32 “Non avete nulla da dirmi? Siete mute ed afflitte. Non sono più Gesù?…», sorride alle donne, invitante. «Oh! sei Tu! Ma sei tanto grande in questi giorni che io non so più vederti come il fanciullino che ho portato fra le braccia!», esclama Maria d’Alfeo. «E io come il semplice rabbi che entrava nella mia cucina cercando Giovanni e Giacomo», dice Salome. «Io ti ho sempre conosciuto così: Re dell’anima mia!», proclama Maria di Magdala. E Giovanna, mite e soave: «E io pure: divino, dal sogno nel quale a me morente apparisti per chiamarmi alla Vita». «Tutto ci hai dato, o Signore. Tutto!», sospira Elisa che si è ripresa. «E tutto mi avete dato». «Troppo poco!» , dicono tutte. «Non cessa il dare dopo quest’ora. Cesserà soltanto quando sarete con Me nel mio Regno. Le mie discepole fedeli. Non siederete, no, al mio fianco, sui dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele, ma canterete l’osanna insieme agli angeli, facendo coro d’onore alla Madre mia, e allora come ora il cuore del Cristo troverà la sua gioia nel contemplarvi». «Io sono giovane! È lungo il tempo per salire al tuo Regno. Beata Annalia!», dice Susanna. «Io vecchia sono, e felice di esser tale. Spero prossima la morte», dice Elisa. «Io ho i figli… Vorrei servirli, questi servi di Dio!», sospira Maria Cleofe. «Non ti scordare di noi, Signore!», dice la Maddalena con ansia contenuta, direi con un grido d’anima, tanto la voce, tenuta bassa per non svegliare i dormenti, vibra di forza più di un grido. «Non mi scorderò di voi. Verrò. Tu, Giovanna, sai che Io posso venire anche se sono molto lontano… Le altre lo devono credere. E vi lascerò una cosa… un mistero che terrà Me in voi e voi in Me, finché saremo riuniti Io e voi nel Regno di Dio.
33 Ora andate. Direte che poco vi ho detto, che quasi era inutile per così poco farvi venire. Ma ho desiderato avere intorno cuori che mi hanno amato senza calcolo. Per Me. Per Me: Gesù. Non per il futuro, sognato Re d’Israele. Andate. E siate benedette una volta di più. Anche le altre. Che non ci sono, ma che pensano a Me con amore: Anna, Mirta, Anastasica, Noemi, e Sintica lontana, e Fotinai, e Aglae e Sara, Marcella, le figlie di Filippo, Miriam di Giairo, le vergini, le redente, le spose, le madri che sono venute a Me, che mi sono state sorelle e madri, migliori, oh! molto migliori degli uomini anche migliori!… Tutte, tutte! Benedico tutte. La grazia comincia già a scendere, la grazia e il perdono, sulla donna, per questa mia benedizione. Andate…». Le congeda trattenendo sua Madre: «Prima di sera sarò al palazzo di Lazzaro. Ho bisogno di vederti ancora. E con Me sarà Giovanni. Ma non voglio che te, Madre, e le altre Marie, Marta e Susanna. Ho tanta stanchezza…». «Saremo noi sole. Addio, Figlio…». Si baciano. Si separano… Maria se ne va lentamente. Si volge prima di uscire. Si volge prima di lasciare il ponticello. Si volge ancora, sinché può vedere Gesù… Sembra che non possa allontanarsi da Lui…
34 E Gesù è solo di nuovo. Si alza, esce. Va a chiamare Giovanni, che dorme bocconi fra i fiori come un bambino, e gli consegna l’anforetta dell’aceto rosato che Giovanna gli ha portato, dicendogli: «Andremo a sera da mia Madre. Ma noi due soli». «Ho capito. Sono venute?». «Sì. Ho preferito non svegliarvi…». «Hai fatto bene. La tua gioia sarà stata più grande. Esse sanno amarti meglio di noi…», dice sconsolato Giovanni. «Vieni con Me». Giovanni lo segue. «Che hai?», gli chiede Gesù quando sono nuovamente nella penombra verde della pergola dove sono ancora resti di cibo. «Maestro, siamo molto cattivi. Tutti. Non c’è ubbidienza in noi… e non c’è desiderio di stare con Te. Anche Pietro e Simone sono andati via. Non so dove. E Giuda ha trovato in questo l’occasione per essere rissoso». «È andato via anche Giuda?». «No, Signore. Non è andato via. Dice che non ne ha bisogno, che egli non ha complici nei maneggi che noi facciamo per vedere di ottenerti protezione. Ma se io sono andato da Anna, se altri sono andati dai galilei residenti qui, non è per fare del male! … E non credo che Simone di Giona e Simone Zelote siano uomini capaci di subdoli maneggi…». «Non ci badare. Infatti Giuda non ha bisogno di andare mentre voi riposate. Egli sa quando e dove andare per compiere tutto ciò che deve». «E allora perché parla così? Non è bello, davanti ai discepoli!». «Non è bello. Ma così è.
35 Rasserenati, mio agnello». «Io, tuo agnello? Agnello sei Tu solo!». «Sì. Tu. Io Agnello di Dio, e tu agnello dell’Agnello di Dio». «Oh!!! Un’altra volta, erano i primi giorni che ero con Te, Tu mi hai detto ancora questa parola. Eravamo noi due soli, come ora, fra il verde, come ora, e nella bella stagione». Giovanni è tutto rallegrato dal ricordo che ritorna. E mormora: «Sono sempre, ancora l’agnello dell’Agnello di Dio…». Gesù lo carezza. E gli offre parte del colombo arrostito, rimasto sulla tavola su di un foglio di pergamena che lo teneva avvolto. E poi gli apre dei fichi succosi e glieli offre, lieto di vederlo mangiare. Gesù si è seduto di sbieco sui margini del tavolo e guarda Giovanni così intensamente che questo chiede: «Perché mi guardi così? Perché mangio come un goloso?». «No. Perché sei come un fanciullo… Oh! mio diletto! Come ti amo per il tuo cuore!» , e Gesù si china a baciare l’apostolo sui capelli biondi e gli dice: «Resta così, sempre così, col tuo cuore senza orgoglio e rancori. Così, anche nelle ore della ferocia scatenata. Non imitare chi pecca, fanciullo».
36 Giovanni è ripreso dal suo dispiacere e dice: «Ma io non posso credere che Simone e Pietro…». «Sbaglieresti in verità, se li credessi peccatori. Bevi. È buona e fresca questa bevanda. L’ha preparata Marta… Ora sei riconfortato. Sono certo che tu non avevi finito il tuo pasto…». «È vero. Mi era venuto il pianto. Perché, finché il mondo si odia, si comprende. Ma che un di noi insinui… ». «Non ci pensare più. Io e te sappiamo che Simone e lo Zelote sono due onesti. E basta. E, purtroppo, tu sai che Giuda è peccatore. Ma taci. Quando saranno passati tanti, tanti lustri, e sarà giusto dire tutta la grandezza del mio dolore, dirai allora anche ciò che soffrii per le azioni di quell’uomo, oltre che per quelle di quell’apostolo. Andiamo. È ora di lasciare questo luogo per andare verso il campo dei Galilei e…». «Passiamo anche questa notte là? E prima andremo al Getsemani? Giuda lo voleva sapere. Dice che è stanco di stare alla guazza, e con poco e scomodo riposo». «Presto sarà finito. Ma Io non dirò a Giuda le mie intenzioni…». «Non ne sei tenuto. Sei Tu che devi guidare noi, e non noi Te». Giovanni è tanto lontano dal tradire che non comprende neppure la ragione di prudenza per la quale Gesù da qualche giorno non dice mai ciò che conta di fare.
37 Eccoli in mezzo ai dormenti. Li chiamano. Essi si svegliano. Anche Mannaen che, finito il suo compito, si scusa col Maestro se non può restare e se il domani non potrà essere vicino a Lui al Tempio, perché deve rimanere a palazzo. E nel dirlo guarda fisso Pietro e Simone, che sono nel frattempo ritornati, e Pietro ha un cenno rapido del capo come per dire: «Capito». Escono dai Giardini. Fa ancora caldo. C’è ancora sole. Ma già la brezza della sera tempera il calore e spinge qualche nuvoletta sul cielo terso. Si avviano su per Siloan evitando i luoghi dei lebbrosi, dai quali va Simone Zelote a portare, ai pochi superstiti che non hanno saputo credere in Gesù, i resti del loro pasto.
38 Mattia, l’ex pastore, si avvicina a Gesù e chiede: «Signore e Maestro mio, io ho molto pensato coi compagni alle tue parole finché la stanchezza ci prese, e dormimmo prima di avere potuto risolvere il quesito che ci eravamo posti. E ora siamo più stolti di prima. Se abbiamo bene capito i discorsi di questi giorni, Tu hai predetto che molte cose si cambieranno benché la Legge resti immutata e che si dovrà edificare un nuovo Tempio, con nuovi profeti, sapienti e scribi, contro il quale saranno date battaglie, e che non morrà, mentre questo, sempre se si è capito bene, pare destinato a perire». «È destinato a perire. Ricorda la profezia di Daniele…». (Daniele 9, 20-27). «Ma noi, poveri e pochi, come potremo edificarlo di nuovo se fecero fatica a edificare questo i re? Dove lo edificheremo? Non qui, perché Tu dici che questo luogo resterà deserto sino a che essi non ti benediranno come mandato da Dio». «Così è». «Nel tuo Regno, no. Siamo convinti che il tuo Regno è spirituale. E allora come, dove lo stabiliremo? Tu ieri hai detto che il vero Tempio – e non è quello il vero Tempio? – che il vero Tempio, quando crederanno di averlo distrutto, allora sarà che salirà trionfante alla Gerusalemme vera. Dove è dessa? Molta confusione è in noi». «Così è. I nemici distruggano pure il vero Tempio. In tre giorni Io lo farò risorgere, e non conoscerà più insidia salendo dove l’uomo non può nuocere.
39 Riguardo al Regno di Dio, esso è in voi e ovunque sono uomini che credono in Me. Sparso per ora, succedentesi sulla Terra nei secoli. Poi eterno, unito, perfetto nel Cielo. Là, nel Regno di Dio, sarà edificato il nuovo Tempio, ossia là dove sono spiriti che accettano la mia dottrina, la dottrina del Regno di Dio, e ne praticano i precetti. Come sarà edificato se siete poveri e pochi? Oh! in verità non necessitano denari e poteri per edificare l’edificio della nuova dimora di Dio, individuale o collettiva. Il Regno di Dio è in voi. E l’unione di tutti coloro che avranno in loro il Regno di Dio, di tutti coloro che avranno Dio in loro – Dio: la Grazia; Dio: la Vita; Dio: la Luce; Dio: la Carità – costituirà il grande Regno di Dio sulla Terra, la nuova Gerusalemme che giungerà ad espandersi per tutti i confini del mondo e che, completa e perfetta, senza mende, senza ombre, vivrà eterna nel Cielo. Come farete a edificare Tempio e città? Oh! non voi, ma Dio edificherà questi luoghi nuovi. Voi dovrete soltanto dargli la vostra buona volontà. Buona volontà è permanere in Me. Vivere la mia dottrina è buona volontà. Stare uniti è la buona volontà. Uniti a Me sino a fare un sol corpo che è nutrito, nelle sue singole parti e particelle, da un unico umore. Un unico edificio che è poggiato su un’unica base e tenuto unito da una mistica coesione. Ma siccome senza l’aiuto del Padre, che vi ho insegnato a pregare e che pregherò per voi prima di morire, voi non potreste essere nella Carità, nella Verità, nella Vita, ossia ancora in Me e con Me in Dio Padre e in Dio Amore, perché Noi siamo un’unica Divinità, per questo vi dico di avere Dio in voi per poter essere il Tempio che non conoscerà fine. Da voi non potreste fare. Se Dio non edifica, e non può edificare dove non può prendere dimora, inutilmente gli uomini si agitano a edificare o a riedificare.
40 Il Tempio nuovo, la mia Chiesa, sorgerà soltanto quando il vostro cuore ospiterà Dio, ed Egli con voi, vive pietre, edificherà la sua Chiesa». «Ma non hai detto che Simone di Giona ne è il Capo, la Pietra sulla quale si edificherà la tua Chiesa? E non hai fatto capire anche che Tu ne sei la pietra angolare? Chi dunque ne è il capo? C’è o non c’è questa Chiesa?», interrompe l’Iscariota. «Io sono il Capo mistico. Pietro ne è il capo visibile. Perché Io ritorno al Padre lasciandovi la Vita, la Luce, la Grazia, per la mia Parola, per i miei patimenti, per il Paraclito che sarà amico di coloro che mi furono fedeli. Io sono un’unica cosa con la mia Chiesa, mio Corpo spirituale di cui Io sono il Capo. Il capo contiene il cervello o mente. La mente è sede del sapere, il cervello è quello che dirige i moti delle membra coi suoi immateriali comandi, i quali sono più validi per far muovere le membra di ogni altro stimolo. Osservate un morto, nel quale morto è il cervello. Ha forse più moto nelle sue membra? Osservate uno completamente stolto. Non è forse inerte al punto da non saper avere quei rudimentali moti istintivi che l’animale più inferiore, il verme che schiacciamo passando, ha? Osservate uno nel quale la paralisi ha spezzato il contatto delle membra, uno o più membra, col cervello. Ha forse più moto nella parte che non ha più legame vitale col capo? Ma se la mente dirige con i suoi immateriali comandi, sono gli altri organi – occhi, orecchie, lingua, naso, pelle – che comunicano le sensazioni alla mente, e sono le altre parti del corpo che eseguiscono e fanno eseguire ciò che la mente, avvertita dagli organi, materiali e visibili quanto l’intelletto è invisibile, comanda. Potrei Io, senza dirvi: “sedete”, ottenere che voi sediate su questa costa di monte? Anche se Io lo penso che voglio vi mettiate seduti, voi non lo sapete finché Io non traduco il mio pensiero in parole e dico queste, usando lingua e labbra. Potrei Io stesso sedermi, se lo pensassi soltanto, perché sento la stanchezza delle gambe, ma se queste rifiutassero di piegarsi e mettermi così seduto? La mente ha bisogno di organi e membra per fare e per far fare le operazioni che il pensiero pensa. Così nel corpo spirituale che è la mia Chiesa Io sarò l’Intelletto, ossia la testa, sede dell’intelletto; Pietro e i suoi collaboratori coloro che osservano le reazioni e percepiscono le sensazioni e le trasmettono alla mente, perché essa illumini e ordini ciò che è da fare per il bene di tutto il corpo, e poi, illuminati e diretti dall’ordine mio, parlino e guidino le altre parti del corpo. La mano che respinge l’oggetto che può ferire il corpo, o allontana ciò che, corrotto, può corrompere; il piede che scavalca l’ostacolo senza urtarvi e cadere e ferirsi, hanno avuto comando di farlo dalla parte che dirige. Il fanciullo, e anche l’uomo, che è salvato da un pericolo, o che fa un guadagno di qualsiasi specie – istruzione, affari buoni, matrimonio, buona alleanza per un consiglio ricevuto, per una parola detta – è per quel consiglio e quella parola che non si nuoce o che si benefica. Così sarà nella Chiesa. Il capo, e i capi, guidati dal divino Pensiero e illuminati dalla divina Luce e istruiti dall’eterna Parola, daranno gli ordini e i consigli, e le membra faranno, avendo spirituale salute e spirituale guadagno.
41 La mia Chiesa già è, poiché già possiede il suo Capo soprannaturale e il suo Capo divino e ha le sue membra: i discepoli. Piccola ancora – un germe che si forma – perfetta unicamente nel Capo che la dirige, imperfetta nel resto, che ha bisogno del tocco di Dio per essere perfetta e del tempo per crescere. Ma in verità vi dico che essa già è, e che è santa per Colui che ne è il Capo e per la buona volontà dei giusti che la compongono. Santa e invincibile. Contro di essa si avventerà una e mille volte, e con mille forme di battaglia, l’inferno fatto di demoni e di uomini-demoni, ma non prevarranno. L’edificio sarà incrollabile. Ma l’edificio non è fatto di una sola pietra. Osservate il Tempio, là, vasto, bello, nel sole che tramonta. È forse fatto di una sola pietra? È un complesso di pietre che fanno un unico armonico tutto. Si dice: il Tempio. Cioè una unità. Ma questa unità è fatta delle molte pietre che l’hanno composta e formata. Inutile sarebbe stato fare le fondamenta, se esse non avessero poi dovuto sorreggere le mura e il tetto, se su esse non avessero poi avuto ad innalzarsi le mura. E impossibile sarebbe stato alzare le mura e sostenere il tetto, se non fossero state fatte per prime le fondamenta solide, proporzionate a sì gran mole. Così, con questa dipendenza delle parti, una dall’altra, sorgerà anche il Tempio novello. Nei secoli voi lo edificherete appoggiandolo sulle fondamenta che Io gli ho dato, perfette, per la sua mole. Lo edificherete con la direzione di Dio, con la bontà delle cose usate a innalzarlo: spiriti che Dio inabita. Dio nel vostro cuore, a fare di esso pietra polita e senza incrinature per il Tempio nuovo. Il suo Regno stabilito con le sue leggi nel vostro spirito. Altrimenti sareste mattoni malcotti, legno tarlato, pietre scheggiate e farinose che non reggono e che il costruttore, se avveduto, respinge, o che fallano, cedono, facendo crollare una parte se il costruttore, i costruttori preposti dal Padre alla costruzione del Tempio, sono costruttori idoli che si pavoneggiano nel loro onore senza vegliare e faticare sulla costruzione che si innalza e sui materiali usati per farla. Costruttori idoli, tutori idoli, custodi idoli, ladri! Ladri della fiducia di Dio, della stima degli uomini, ladri e orgogliosi che si compiacciono di aver modo di aver guadagno, e modo di avere numeroso mucchio di materiali, e non osservano se sono buoni o scadenti, causa di rovina.
42 Voi, novelli sacerdoti e scribi del novello Tempio, ascoltate. Guai a voi e a chi dopo voi si farà idolo e non veglierà e sorveglierà se stesso e gli altri, i fedeli, per osservare, saggiare la bontà delle pietre e del legname, senza fidarsi delle apparenze, e causerà rovine lasciando che materiali scadenti, o addirittura nocivi, siano lasciati usare per il Tempio, dando scandalo e provocando rovina. Guai a voi se lascerete crearsi crepacci e muraglie insicure, storte, facili al crollo non essendo equilibrate sulle basi che sono solide e perfette. Non da Dio, Fondatore della Chiesa, ma da voi verrebbe il disastro, e ne sareste responsabili davanti al Signore e agli uomini. Diligenza, osservazione, discernimento, prudenza! La pietra, il mattone, la trave debole, che in un muro maestro sarebbero rovina, possono servire per parti di minore importanza, e servire bene. Così dovete saper scegliere. Con carità per non disgustare le deboli parti, con fermezza per non disgustare Dio e rovinare il suo Edificio. E se vi accorgete che una pietra, già posta a sorreggere un angolo maestro, non è buona o non è equilibrata, siate coraggiosi, audaci, e sappiatela levare da quel posto, mortificatela squadrandola con lo scalpello di un santo zelo. Se urla di dolore non importa. Vi benedirà poi nei secoli, perché voi l’avrete salvata. Spostatela, mettetela ad altro ufficio. Non abbiate paura anche di allontanarla del tutto se la vedete oggetto di scandalo e rovina, ribelle al vostro lavoro. Meglio poche pietre che molta zavorra. Non abbiate fretta. Dio non ha mai fretta, ma ciò che crea è eterno, perché ben ponderato prima di eseguirlo. Se non eterno, è duraturo quanto i secoli. Guardate l’Universo. Da secoli, da migliaia di secoli, è come Dio lo fece con operazioni successive. Imitate il Signore. Siate perfetti come il Padre vostro. Abbiate la sua Legge in voi, il suo Regno in voi. E non fallirete. Ma, se non farete così, crollerebbe l’edificio, invano vi sareste affaticati a innalzarlo. Crollerebbe rimanendo di esso unicamente la pietra angolare, le fondamenta… Così come avverrà di quello!… In verità vi dico che di quello così sarà. E così del vostro se metterete in esso ciò che è in questo: le parti malate di orgoglio, di avidità, di peccato, di lussuria. Come si è disfatto per soffio di vento quel padiglione di nuvole che pareva posare, così vagamente bello, sulla cima di quel monte, ugualmente, al soffiare di un vento di castigo soprannaturale e umano, crolleranno gli edifici che di santo non hanno che il nome…».
43 Gesù tace pensoso. Quando riparla è per ordinare: «Sediamoci qui a riposare un poco». Si siedono su un pendio del monte Uliveto, di faccia al Tempio baciato dal sole calante. Gesù guarda fisso quel luogo, con mestizia. Gli altri con orgoglio per la sua bellezza, ma sull’orgoglio è steso un velo di cruccio, lasciato dalle parole del Maestro. E se quella bellezza dovesse proprio perire?… Pietro e Giovanni parlano fra di loro e poi sussurrano qualcosa a Giacomo d’Alfeo e ad Andrea, loro vicini, i quali annuiscono col capo. Allora Pietro si rivolge al Maestro e gli dice: «Vieni in disparte e spiegaci quando avverrà la tua profezia sulla distruzione del Tempio. Daniele ne parla, ma se fosse come lui dice e come Tu dici, poche ore avrebbe ancora il Tempio. Ma noi non vediamo eserciti né preparativi di guerra. Quando dunque avverrà? Quale sarà il segno di esso? Tu sei venuto. Tu, dici, stai per andare via. Eppure si sa che essa non sarà che quando Tu sarai fra gli uomini. Tornerai, allora? Quando, questo tuo ritorno? Spiegaci, perché noi si possa sapere…». «Non occorre mettersi in disparte. Vedi? Sono rimasti i discepoli più fedeli, quelli che saranno a voi dodici di grande aiuto. Essi possono sentire le parole che dico a voi. Venitemi tutti vicino! », grida in ultimo per radunare tutti. I discepoli, sparsi sul pendio, si avvicinano, fanno un mucchio compatto, stretto intorno a quello principale di Gesù coi suoi apostoli, e ascoltano.
44 «Badate che nessuno vi seduca in futuro. Io sono il Cristo e non vi saranno altri Cristi. Perciò, quando molti verranno a dirvi: “Io sono il Cristo” e sedurranno molti, voi non credete a quelle parole, neppure se saranno accompagnate da prodigi. Satana, padre di menzogna e protettore dei menzogneri, aiuta i suoi servi e seguaci con falsi prodigi, che però possono essere riconosciuti non buoni perché sempre uniti a paura, turbamento e menzogna. I prodigi di Dio voi li conoscete: dànno pace santa, letizia, salute, fede, conducono a desideri e opere sante. Gli altri no. Perciò riflettete sulla forma e le conseguenze dei prodigi che potrete vedere in futuro ad opera dei falsi Cristi e di tutti coloro che si ammanteranno nelle vesti di salvatori di popoli e saranno invece le belve che rovinano gli stessi. Sentirete anche, e vedrete anche, parlare di guerre e di rumori di guerre e vi diranno: “Sono i segni della fine”. Non turbatevi. Non sarà la fine. Bisogna che tutto questo avvenga prima della fine, ma non sarà ancora la fine. Si solleverà popolo contro popolo, regno contro regno, nazione contro nazione, continente contro continente, e seguiranno pestilenze, carestie, terremoti in molti luoghi. Ma questo non sarà che il principio dei dolori. Allora vi getteranno nella tribolazione e vi uccideranno, accusandovi di essere i colpevoli del loro soffrire e sperando di uscirne col perseguitare e distruggere i miei servi. Gli uomini fanno sempre accusa agli innocenti di esser causa del male che essi, peccatori, si creano. Accusano Dio stesso, perfetta Innocenza e Bontà suprema, di esser causa del loro soffrire, e così faranno con voi, e voi sarete odiati per causa del mio Nome. È Satana che li aizza. E molti si scandalizzeranno e si tradiranno e odieranno a vicenda. È ancor Satana che li aizza. E sorgeranno falsi profeti che indurranno molti in errore. Ancora sarà Satana il vero autore di tanto male. E per il moltiplicarsi dell’iniquità si raffredderà la carità in molti. Ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvo. E prima bisogna che questo Vangelo del Regno di Dio sia predicato in tutto il mondo, testimonianza a tutte le nazioni. Allora verrà la fine. Ritorno al Cristo di Israele che lo accoglie e predicazione della mia Dottrina in tutto il mondo.
45 E poi un altro segno. Un segno per la fine del Tempio e per la fine del mondo. Quando vedrete l’abominazione della desolazione predetta da Daniele – chi mi ascolta bene intenda, e chi legge il Profeta sappia leggere fra le parole – allora chi sarà in Giudea fugga sui monti, chi sarà sulla terrazza non scenda a prendere quanto ha in casa, e chi è nel suo campo non torni in casa a prendere il suo mantello, ma fugga senza volgersi indietro, ché non gli accada di non poterlo più fare, e neppure si volga nel fuggire a guardare, per non conservare nel cuore lo spettacolo orrendo e insanire per esso. Guai alle gravide e a quelle che allatteranno in quei giorni! E guai se la fuga dovesse compiersi in sabato! Non sarebbe sufficiente la fuga a salvarsi senza peccare. Pregate dunque perché non avvenga in inverno e in giorno di sabato, perché allora la tribolazione sarà grande quale mai non fu dal principio del mondo fino ad ora, né sarà mai più simile perché sarà la fine. Se non fossero abbreviati quei giorni in grazia degli eletti, nessuno si salverebbe, perché gli uomini-satana si alleeranno all’inferno per dare tormento agli uomini. E anche allora, per corrompere e trarre fuori della via giusta coloro che resteranno fedeli al Signore, sorgeranno quelli che diranno: “Il Cristo è là, il Cristo è qua. È in quel luogo. Eccolo”. Non credete. Nessuno creda, perché sorgeranno falsi Cristi e falsi profeti che faranno prodigi e portenti tali da indurre in errore, se fosse possibile, anche gli eletti, e diranno dottrine in apparenza così confortevoli e buone a sedurre anche i migliori, se con loro non fosse lo Spirito di Dio che li illuminerà sulla verità e l’origine satanica di tali prodigi e dottrine. Io ve lo dico. Io ve lo predico perché voi possiate regolarvi. Ma di cadere non temete. Se starete nel Signore non sarete tratti in tentazione e in rovina. Ricordate ciò che vi ho detto: “Vi ho dato il potere di camminare su serpenti e scorpioni, e di tutta la potenza del Nemico nulla vi nuocerà, perché tutto vi sarà soggetto”. Vi ricordo anche però che per ottenere questo dovete avere Dio in voi, e rallegrarvi dovete, non perché dominate le potenze del Male e le venefiche cose, ma perché il vostro nome è scritto in Cielo.
46 State nel Signore e nella sua verità. Io sono la Verità e insegno la verità. Perciò ancora vi ripeto: qualunque cosa vi dicano di Me, non credete. Io solo ho detto la verità. Io solo vi dico che il Cristo verrà, ma quando sarà la fine. Perciò, se vi dicono: “È nel deserto”, non andate. Se vi dicono: “È in quella casa”, non date retta. Perché il Figlio dell’uomo nella sua seconda venuta sarà simile al lampo che esce da levante e guizza fino a ponente, in un tempo più breve di quel che non sia il batter di una palpebra. E scorrerà sul grande Corpo, di subito fatto Cadavere, seguito dai suoi fulgenti angeli, e giudicherà. Là dovunque sarà corpo là si raduneranno le aquile. E subito dopo la tribolazione di quei giorni ultimi, che vi fu detta – parlo già della fine del tempo e del mondo e della risurrezione delle ossa, delle quali cose parlano i profeti (Ezechiele 37, 1-14) – si oscurerà il sole, e la luna non darà più luce, e le stelle del cielo cadranno come acini da un grappolo troppo maturo che un vento di bufera scuote, e le potenze dei Cieli tremeranno. E allora nel firmamento oscurato apparirà folgorante il segno del Figlio dell’uomo, e piangeranno tutte le nazioni della Terra, e gli uomini vedranno il Figlio dell’uomo venir sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria. Ed Egli comanderà ai suoi angeli di mietere e vendemmiare, e di separare i logli dal grano, e di gettare le uve nel tino, perché sarà venuto il tempo del grande raccolto del seme di Adamo, e non ci sarà più bisogno di serbare racimolo o semente, perché non ci sarà mai più perpetuazione della specie umana sulla Terra morta. E comanderà ai suoi angeli che a gran voce di trombe adunino gli eletti dai quattro venti, da un’estremità all’altra dei cieli, perché siano al fianco del Giudice divino per giudicare con Lui gli ultimi viventi ed i risorti.
47 Dal fico imparate la similitudine: quando vedete che il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che vicina è l’estate. Così anche, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che il Cristo sta per venire. In verità vi dico: non passerà questa generazione che non mi volle, prima che tutto ciò avvenga. La mia parola non cade. Ciò che dico sarà. Il cuore e il pensiero degli uomini possono mutare, ma non muta la mia parola. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto poi al giorno e all’ora precisa, nessuno li conosce, neppure gli angeli del Signore, ma soltanto il Padre li conosce.
48 Come ai tempi di Noè, così avverrà alla venuta del Figlio dell’uomo. Nei giorni precedenti al diluvio, gli uomini mangiavano, bevevano, si sposavano, si accasavano, senza darsi pensiero del segno sino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e si aprirono le cataratte dei cieli e il diluvio sommerse ogni vivente e ogni cosa. Anche così sarà per la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno accosto nel campo, e uno sarà preso e uno sarà lasciato, e due donne saranno intente a far andare la mola, e una sarà presa e una lasciata, dai nemici nella Patria e più ancora dagli angeli separanti il buon seme dal loglio, e non avranno tempo di prepararsi al giudizio del Cristo. Vegliate dunque perché non sapete a che ora verrà il vostro Signore. Ripensate a questo: se il capo di famiglia sapesse a che ora viene il ladro, veglierebbe e non lascerebbe spogliare la sua casa. Quindi vegliate e pregate, stando sempre preparati alla venuta, senza che i vostri cuori cadano in torpore, per abuso e intemperanza di ogni specie, e i vostri spiriti siano fatti distratti e ottusi alle cose del Cielo dalle eccessive cure per le cose della Terra, e il laccio della morte non vi colga improvviso quando siete impreparati. Perché, ricordate, tutti avete a morire. Tutti gli uomini, nati che siano, devono morire, ed è una singola venuta del Cristo questa morte e questo susseguente giudizio, che avrà il suo ripetersi universale alla venuta solenne del Figlio dell’uomo.
49 Che sarà mai di quel servo fedele e prudente, preposto dal padrone ad amministrare il cibo ai domestici in sua assenza? Beata sorte egli avrà se il suo padrone, tornando all’improvviso, lo trova a fare ciò che deve con solerzia, giustizia e amore. In verità vi dico che gli dirà: “Vieni, servo buono e fedele. Tu hai meritato il mio premio. Tieni, amministra tutti i miei beni”. Ma se egli pareva, e non era, buono e fedele, e nell’interno suo era cattivo come all’esterno era ipocrita, e partito il padrone dirà in cuor suo: “Il padrone tarderà a tornare! Diamoci al bel tempo”, e comincerà a battere e malmenare i conservi, facendo usura su loro nel cibo e in ogni altra cosa per avere maggior denaro da consumare coi gozzovigliatori e ubriaconi, che avverrà? Che il padrone tornerà all’improvviso, quando il servo non se lo pensa vicino, e verrà scoperto il suo malfare, gli verrà levato posto e denaro, e sarà cacciato dove giustizia vuole. E ivi starà. E così del peccatore impenitente, che non pensa come la morte può essere vicina e vicino il suo giudizio, e gode e abusa dicendo: “Poi mi pentirò”. In verità vi dico che egli non avrà tempo di farlo e sarà condannato a stare in eterno nel luogo del tremendo orrore, dove è solo bestemmia e pianto e tortura, e ne uscirà soltanto per il Giudizio finale, quando rivestirà la carne risorta per presentarsi completo al Giudizio ultimo come completo peccò nel tempo della vita terrena, e con corpo ed anima si presenterà al Giudice Gesù che egli non volle per Salvatore.
50 Tutti là accolti davanti al Figlio dell’uomo. Una moltitudine infinita di corpi, restituiti dalla terra e dal mare e ricomposti dopo essere stati cenere per tanto tempo. E gli spiriti nei corpi. Ad ogni carne tornata sugli scheletri corrisponderà il proprio spirito, quello che l’animava un tempo. E staranno ritti davanti al Figlio dell’uomo, splendido nella sua Maestà divina, seduto sul trono della sua gloria sorretto dai suoi angeli. Ed Egli separerà uomini da uomini, mettendo da un lato i buoni e dall’altro i cattivi, come un pastore separa le pecorelle dai capretti, e metterà le sue pecore a destra e i capri a sinistra. E dirà con dolce voce e benigno aspetto a quelli che, pacifici e belli di una bellezza gloriosa nello splendore del corpo santo, lo guarderanno con tutto l’amore del loro cuore: “Venite, o benedetti dal Padre mio, prendete possesso del Regno preparato per voi sino dall’origine del mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere, fui pellegrino e mi ospitaste, fui nudo e mi rivestiste, malato e mi visitaste, prigioniero e veniste a portarmi conforto”. E i giusti gli chiederanno: “Quando mai, Signore, ti vedemmo affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti vedemmo pellegrino e ti abbiamo accolto, nudo e ti abbiamo rivestito? Quando ti vedemmo infermo e carcerato e siamo venuti a visitarti?”. E il Re dei re dirà loro: “In verità vi dico: quando avete fatto una di queste cose ad uno di questi minimi fra i miei fratelli, allora lo avete fatto a Me”. E poi si volgerà a quelli che saranno alla sua sinistra e dirà loro, severo nel volto, e i suoi sguardi saranno come saette fulminanti i reprobi, e nella sua voce tuonerà l’ira di Dio: “Via di qua! Via da Me, o maledetti! Nel fuoco eterno preparato dal furore di Dio per il demonio e gli angeli tenebrosi e per coloro che li hanno ascoltati nelle loro voci di libidine triplice e oscena. Io ebbi fame e non mi sfamaste, sete e non mi dissetaste, fui nudo e non mi rivestiste, pellegrino e mi respingeste, infermo e carcerato e non mi visitaste. Perché non avevate che una legge: il piacere del vostro io”. Ed essi gli diranno: “Quando ti abbiamo visto affamato, assetato, nudo, pellegrino, infermo, carcerato? In verità noi non ti abbiamo conosciuto. Non eravamo, quando Tu eri sulla Terra”. Ed Egli risponderà loro: “È vero. Non mi avete conosciuto. Perché non eravate quando Io ero sulla Terra. Ma avete però conosciuto la mia Parola e avete avuto i poveri fra voi, gli affamati, i sitibondi, i nudi, i malati, i carcerati. Perché non avete fatto ad essi ciò che forse avreste fatto a Me? Perché non è già detto che coloro che mi ebbero fra loro fossero misericordiosi col Figlio dell’uomo. Non sapete che nei miei fratelli Io sono, e dove è uno di essi che soffra là sono Io, e che ciò che non avete fatto ad uno di questi miei minori fratelli lo avete negato a Me, Primogenito degli uomini? Andate e ardete nel vostro egoismo. Andate, e vi fascino le tenebre e il gelo perché tenebra e gelo foste, pur conoscendo dove era la Luce e il Fuoco d’Amore”. E costoro andranno all’eterno supplizio, mentre i giusti entreranno nella vita eterna. Queste le cose future…
51 Ora andate. E non dividetevi fra voi. Io vado con Giovanni e sarò a voi a metà della prima vigilia, per la cena e per andare poi alle nostre istruzioni». «Anche questa sera? Tutte le sere faremo questo? Io sono tutto indolenzito dalle guazze. Non sarebbe meglio entrare ormai in qualche casa ospitale? Sempre sotto le tende! Sempre veglianti e nelle notti, che sono fresche e umide…» , si lamenta Giuda. «È l’ultima notte. Domani… sarà diverso». «Ah! Credevo che volessi andare al Getsemani tutte le notti. Ma se è l’ultima … ». «Non ho detto questo, Giuda. Ho detto che sarà l’ultima notte da passare al campo dei Galilei tutti uniti. Domani prepareremo la Pasqua e consumeremo l’agnello, e poi andrò Io solo a pregare nel Getsemani. E voi potrete fare ciò che volete». «Ma noi verremo con Te, Signore! Quando mai abbiamo voglia di lasciarti?», dice Pietro. «Tu taci, che sei in colpa. Tu e lo Zelote non fate che svolazzare qua e là appena il Maestro non vi vede. Vi tengo d’occhio. Al Tempio… nel giorno… nelle tende lassù…», dice l’Iscariota, lieto di denunciare. «Basta! Se essi lo fanno, bene fanno. Ma però non mi lasciate solo… Io ve ne prego…». «Signore, non facciamo nulla di male. Credilo. Le nostre azioni sono note a Dio ed il suo occhio non si torce da esse con disgusto», dice lo Zelote. «Lo so. Ma è inutile. E ciò che è inutile può sempre essere dannoso. State il più possibile uniti». Poi si volge a Matteo: «Tu, mio buon cronista, ripeterai a costoro la parabola delle dieci vergini savie e delle dieci stolte, e quella del padrone che dà dei talenti ai suoi tre servi perché li facciano fruttare, e due ne guadagnano il doppio e l’infingardo lo sotterra. Ricordi?». (Le parabole, che Gesù ha narrato al Vol 3 Cap 206 e al Vol 4 Cap 281, ma che il Vangelo di Matteo riporta insieme con i discorsi del presente capitolo.) «Sì, Signor mio, esattamente». «Allora ripetile a questi. Non tutti le conoscono. E anche quelli che le sanno avranno piacere a riascoltarle. Passate così in sapienti discorsi il tempo sino al mio ritorno. Vegliate! Vegliate! Tenete desto il vostro spirito. Quelle parabole sono appropriate anche a ciò che dissi. Addio. La pace sia con voi». Prende Giovanni per mano e si allontana con lui verso la città… Gli altri si avviano verso il campo galileo.
52 Dice Gesù: «Metterai qui la seconda parte del faticosissimo Mercoledì Santo. Notte (1945). Ricordati di segnare in rosso i punti che ti ho detto. Dànno luce quelle parolette. Tanta luce, per chi la sa vedere».
53 Mi dice Gesu :«Inserisci qui la visione dell’obolo della vedova (19 giugno 44) corretta come ti indicherò», (come ho già corretto nel manoscritto che ho rimandato. Poi continua la visione.
Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, noi ci affidiamo a Te!
In quel tempo, [mentre era a mensa con i suoi discepoli,] Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: «In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». Rispose Gesù: «È colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò». E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariòta. Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Gli disse dunque Gesù: «Quello che vuoi fare, fallo presto». Nessuno dei commensali capì perché gli avesse detto questo; alcuni infatti pensavano che, poiché Giuda teneva la cassa, Gesù gli avesse detto: «Compra quello che ci occorre per la festa», oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte. Quando fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire». Simon Pietro gli disse: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte».
C: Parola del Signore. A: Lode a Te o Cristo.
Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Cap. DXCIV. Martedì santo. Lezioni dal fico seccato. I quesiti sul tributo a Cesare e sulla risurrezione.
1 aprile 1947.
1 Stanno per rientrare in città, sempre per la stessa stradicciuola remota presa la mattina avanti, quasi che Gesù non volesse essere circondato dalla gente in attesa prima di essere nel Tempio, al quale presto si accede entrando in città dalla porta del Gregge che è vicina alla Probatica. Ma oggi molti dei settantadue lo attendono già al di là del Cedron, prima del ponte, e non appena lo vedono apparire fra gli ulivi verde-grigi, nella sua veste porpurea, gli vanno incontro. Si riuniscono e procedono verso la città. Pietro, che guarda avanti, giù per la china, sempre in sospetto di veder apparire qualche malintenzionato, vede fra il verde fresco delle ultime pendici un ammasso di foglie vizze e pendenti che si spenzola sull’acqua del Cedron. Le foglie accartocciate e morenti, qua e là già macchiate come per ruggine, sono simili a quelle di una pianta che le fiamme hanno essiccata. Ogni tanto la brezza ne stacca una e la seppellisce nelle acque del torrente. «Ma quello è il fico di ieri! Il fico che Tu hai maledetto!», grida Pietro, una mano puntata ad indicare la pianta seccata, la testa volta indietro a parlare al Maestro. Accorrono tutti, meno Gesù che viene avanti col suo solito passo. Gli apostoli narrano ai discepoli il precedente del fatto che vedono e tutti insieme commentano guardando strabiliati Gesù. Hanno visto migliaia di miracoli su uomini ed elementi. Ma questo li colpisce come molti altri non lo hanno fatto.
2 Gesù, che è sopraggiunto, sorride nell’osservare quei visi stupiti e timorosi, e dice: «E che? Tanto vi fa meraviglia che per la mia parola sia seccato un fico? Non mi avete visto forse risuscitare i morti, guarire i lebbrosi, dar vista ai ciechi, moltiplicare i pani, calmare le tempeste, spegnere il fuoco? E vi stupisce che un fico dissecchi?». «Non è per il fico. È che ieri era vegeto quando l’hai maledetto, e ora è seccato. Guarda! Friabile come argilla disseccata. I suoi rami non hanno più midollo. Guarda. Vanno in polvere», e Bartolomeo sfarina fra le dita dei rami che ha con facilità spezzato. «Non hanno più midollo. Lo hai detto. Ed è la morte quando non c’è più midollo, sia in una pianta, che in una nazione, che in una religione, ma c’è soltanto dura corteccia e inutile fogliame: ferocia ed ipocrita esteriorità. Il midollo, bianco, interno, pieno di linfa, corrisponde alla santità, alla spiritualità. La corteccia dura e il fogliame inutile, all’umanità priva di vita spirituale e giusta. Guai a quelle religioni che divengono umane perché i loro sacerdoti e fedeli non hanno più vitale lo spirito. Guai a quelle nazioni i cui capi sono solo ferocia e risuonante clamore privo di idee fruttifere! Guai agli uomini in cui manca la vita dello spirito!». «Però, se Tu avessi a dire questo ai grandi d’Israele, ancorché il tuo parlare sia giusto, non saresti sapiente. Non ti lusingare perché essi ti hanno finora lasciato parlare. Tu stesso lo dici che non è per conversione di cuore, ma per calcolo. Sappi allora Tu pure calcolare il valore e le conseguenze delle tue parole. Perché c’è anche la sapienza del mondo, oltre che la sapienza dello spirito. E occorre saperla usare a nostro vantaggio. Perché, infine, per ora si è nel mondo, non già nel Regno di Dio», dice l’Iscariota senza acredine ma in tono dottorale. «Il vero sapiente è colui che sa vedere le cose senza che le ombre della propria sensualità e le riflessioni del calcolo le alterino. Io dirò sempre la verità di ciò che vedo».
3 «Ma insomma questo fico è morto perché sei stato Tu a maledirlo, o è un… caso… un segno… non so?», chiede Filippo.
«È tutto ciò che tu dici. Ma ciò che Io ho fatto voi pure potrete fare, se giungerete ad avere la fede perfetta. Abbiatela nel Signore altissimo. E quando l’avrete, in verità vi dico che potrete questo e ancor più. In verità vi dico che, se uno giungerà ad avere la fiducia perfetta nella forza della preghiera e nella bontà del Signore, potrà dire a questo monte: “Spostati di qua e gettati in mare”, e se dicendolo non esiterà nel suo cuore, ma crederà che quanto egli ordina si possa avverare, quanto ha detto si avvererà». «E sembreremo dei maghi e saremo lapidati, come è detto per chi esercita magia. Sarebbe un miracolo ben stolto, e a nostro danno!», dice l’Iscariota crollando il capo. «Stolto tu sei, che non capisci la parabola!», gli rimbecca l’altro Giuda. Gesù non parla a Giuda. Parla a tutti: «Io vi dico, ed è vecchia lezione che ripeto in quest’ora: qualunque cosa chiederete con la preghiera, abbiate fede di ottenerla e l’avrete. Ma se prima di pregare avete qualcosa contro qualcuno, prima perdonate e fate pace per aver amico il Padre vostro che è nei Cieli, che tanto, tanto vi perdona e benefica, dalla mattina alla sera e dal tramonto all’aurora».
4 Entrano nel Tempio. I soldati dell’Antonia li osservano passare. Vanno ad adorare il Signore, poi tornano nel cortile dove i rabbi insegnano. Subito verso Gesù, prima ancora che la gente accorra e si affolli intorno a Lui, si avvicinano dei saforim, dei dottori d’Israele e degli erodiani, e con bugiardo ossequio, dopo averlo salutato, gli dicono: «Maestro, noi sappiamo che Tu sei sapiente e veritiero, e insegni la via di Dio senza tener conto di cosa o persona alcuna, fuorché della verità e giustizia, e poco ti curi del giudizio degli altri su Te, ma soltanto di condurre gli uomini al Bene. Dicci allora: è lecito pagare il tributo a Cesare, oppure non è lecito farlo? Che te ne pare?». Gesù li guarda con uno di quei suoi sguardi di una penetrante e solenne perspicacia, e risponde: «Perché mi tentate ipocritamente? Eppure alcuno fra voi sa che Io non vengo ingannato con ipocriti onori! Ma mostratemi una moneta, di quelle usate per il tributo». Gli mostrano una moneta. La osserva nel retto e nel verso e, tenendola appoggiata sul palmo della sinistra, vi batte sopra l’indice della destra dicendo: «Di chi è quest’immagine e che dice questa scrittura?». «Di Cesare è l’immagine, e l’iscrizione porta il suo nome. Il nome di Caio Tiberio Cesare, che è ora imperatore di Roma». «E allora rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio date quel che è di Dio», e volge loro le spalle dopo aver reso il denaro a chi glielo aveva dato.
5 Ascolta questo e quello dei molti pellegrini che lo interrogano, conforta, assolve, guarisce. Passano le ore. Esce dal Tempio per andare forse fuori porta, a prendere il cibo che gli portano i servi di Lazzaro incaricati a questo. Rientra nel Tempio che è pomeriggio. Instancabile. Grazia e sapienza fluiscono dalle sue mani posate sugli infermi, dalle sue labbra in singoli consigli dati ai molti che lo avvicinano. Sembra che voglia tutti consolare, tutti guarire, prima di non poterlo più fare. È già quasi il tramonto e gli apostoli, stanchi, stanno seduti per terra sotto il portico, sbalorditi da quel continuo rimuoversi di folla che sono i cortili del Tempio nell’imminenza pasquale, quando all’Instancabile si avvicinano dei ricchi, certo ricchi a giudicare dalle vesti pompose. Matteo, che sonnecchia con un occhio solo, si alza scuotendo gli altri. Dice: «Vanno dal Maestro dei sadducei. Non lasciamolo solo, che non lo offendano o cerchino di nuocergli e di schernirlo ancora». Si alzano tutti raggiungendo il Maestro, che circondano subito. Credo intuire che ci sono state rappresaglie nell’andare o tornare al Tempio a sesta.
6 I sadducei, che ossequiano Gesù con inchini persino esagerati, gli dicono: «Maestro, hai risposto così sapientemente agli erodiani che ci è venuto desiderio di avere noi pure un raggio della tua luce. Senti. Mosè ha detto: (Deuteronomio 25, 5-6) “Se uno muore senza figli, il suo fratello sposi la vedova, dando discendenza al fratello”. Ora c’erano fra noi sette fratelli. Il primo, presa in moglie una vergine, morì senza lasciar prole e perciò lasciò la moglie al fratello. Anche il secondo morì senza lasciar prole, e così il terzo che sposò la vedova dei due che lo precederono, e così sempre, sino al settimo. In ultimo, dopo aver sposato tutti i sette fratelli, morì la donna. Di’ a noi: alla risurrezione dei corpi, se è pur vero che gli uomini risorgono e che a noi sopravviva l’anima e si ricongiunga al corpo all’ultimo giorno riformando i viventi, quale dei sette fratelli avrà la donna, posto che l’ebbero sulla Terra tutti e sette?». «Voi sbagliate. Non sapete comprendere né le Scritture né la potenza di Dio. Molto diversa sarà l’altra vita da questa, e nel Regno eterno non saranno le necessità della carne come in questo. Perché, in verità, dopo il Giudizio finale la carne risorgerà e si riunirà all’anima immortale riformando un tutto, vivo come e meglio che non sia viva la mia e la vostra persona ora, ma non più soggetto alle leggi e soprattutto agli stimoli e abusi che vigono ora. Nella risurrezione, gli uomini e le donne non si ammoglieranno né si mariteranno, ma saranno simili agli angeli di Dio in Cielo, i quali non si ammogliano né si maritano, pur vivendo nell’amore perfetto che è quello divino e spirituale. In quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto come Dio dal roveto parlò a Mosè? (Esodo 3, 1-6) Che disse l’Altissimo allora? “Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Non disse: “Io fui”, facendo capire che Abramo, Isacco e Giacobbe erano stati ma non erano più. Disse: “Iosono”. Perché Abramo, Isacco e Giacobbe sono. Immortali. Come tutti gli uomini nella parte immortale, sino a che i secoli durano, e poi, anche con la carne risorta per l’eternità. Sono, come lo è Mosè, i profeti, i giusti, come sventuratamente è Caino e sono quelli del diluvio, e i sodomiti, e tutti coloro morti in colpa mortale. Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi».
7 «Anche Tu morrai e poi sarai vivente?», lo tentano. Sono già stanchi di essere miti. L’astio è tale che non sanno contenersi. «Io sono il Vivente e la mia Carne non conoscerà sfacimento. L’arca ci fu levata e l’attuale sarà levata anche come simbolo. Il Tabernacolo ci fu tolto e sarà distrutto. Ma il vero Tempio di Dio non potrà essere levato e distrutto. Quando i suoi avversari crederanno di averlo fatto, allora sarà l’ora che si stabilirà nella vera Gerusalemme, in tutta la sua gloria. Addio». E si affretta verso il cortile degli Israeliti, perché le tube d’argento chiamano al sacrificio della sera.
8 Mi dice Gesù: «Così come ti ho fatto segnare la frase “al mio calice” nella visione della madre di Giovanni e Giacomo chiedente un posto per i suoi figli, così ti dico di segnare nella visione di ieri il punto: “chi cadrà contro questa pietra si sfracellerà”. Nelle traduzioni è sempre usato “sopra”. Ho detto contro e non sopra. Ed è profezia contro i nemici della mia Chiesa. Coloro che l’avversano, avventandosi contro ad Essa, perché Essa è la Pietra angolare, saranno sfracellati. La storia della Terra, da venti secoli, conferma il mio detto. I persecutori della Chiesa si sfracellano avventandosi sulla Pietra angolare. Però anche, e lo tengano presente anche quelli che per essere della Chiesa si credono salvi dai castighi divini, colui sul quale cadrà il peso della condanna del Capo e Sposo di questa mia Sposa, di questo mio Corpo mistico, colui sarà stritolato.
9 E prevenendo ad una obiezione dei sempre viventi scribi e sadducei, malevoli ai servi miei, Io dico: se in queste ultime visioni risultano frasi che non sono nei Vangeli, quali queste della fine della visione di oggi e del punto in cui Io parlo sul fico seccato e altri ancora, ricordino costoro che gli evangelisti erano sempre di quel popolo, e vivevano in tempi nei quali ogni urto troppo vivo poteva avere ripercussioni violente e nocive ai neofiti. Rileggano gli atti apostolici e vedranno che non era placida la fusione di tanti pensieri diversi, e che se a vicenda si ammirarono, riconoscendo gli uni agli altri i meriti, non mancarono fra loro i dissensi, perché vari sono i pensieri degli uomini e sempre imperfetti. E ad evitare più profonde fratture fra l’uno e l’altro pensiero, illuminati dallo Spirito Santo, gli evangelisti omisero volutamente dai loro scritti qualche frase che avrebbe scosso le eccessive suscettibilità degli ebrei e scandalizzato i gentili, che avevano bisogno di credere perfetti gli ebrei, nucleo dal quale venne la Chiesa, per non allontanarsene dicendo: “Sono simili a noi”. Conoscere le persecuzioni di Cristo, sì. Ma le malattie spirituali del popolo di Israele ormai corrotto, specie nelle classi più alte, no. Non era bene. E più che poterono velarono. Osservino come i Vangeli si fanno sempre più espliciti, sino al limpido Vangelo del mio Giovanni, più furono scritti in epoche lontane dalla mia Ascensione al Padre mio. Solo Giovanni riporta interamente anche le macchie più dolorose dello stesso nucleo apostolico, chiamando apertamente “ladro” Giuda, e riferisce integralmente le bassezze dei giudei (cap. 6° – finta volontà di farmi re, le dispute al Tempio, l’abbandono di molti dopo il discorso sul Pane del Cielo, l’incredulità di Tommaso). Ultimo sopravvissuto, vissuto sino a vedere già forte la Chiesa, alza i veli che gli altri non avevano osato alzare. Ma ora lo Spirito di Dio vuole conosciute anche queste parole. E ne benedicano il Signore, perché sono tante luci e tante guide per i giusti di cuore»
Cap. DXCV. Martedì notte al Getsemani con gli apostoli.
7 marzo 1945.
1 «Voi oggi avete udito parlare gentili e giudei. E avete visto come i primi a Me si inchinassero ed i secondi per poco non mi percuotessero. Tu, Pietro, per poco vieni alle mani, vedendo che ad arte mi venivano mandati contro agnelli, arieti e giovenchi per farmi crollare al suolo fra gli escrementi. Tu, Simone, pur tanto prudente come sei, hai aperto la bocca all’insulto verso i membri più astiosi del Sinedrio, che villanamente mi urtavano dicendomi: “Scansati, demonio, mentre passano i messi di Dio”. Tu, Giuda, cugino, e tu Giovanni, mio prediletto, avete urlato e svelti mi avete sottratto, l’uno dall’essere investito prendendo il cavallo alle briglie, l’altro mettendosi a Me davanti e ricevendo l’urto della stanga a Me diretto quando, con riso di scherno, Sadoch mi è marciato addosso col suo pesante carro, spinto volutamente in corsa veloce su Me. Io vi ringrazio del vostro amore, che vi fa insorgere contro gli offensori dell’Inerme. Ma vedrete ben altre offese ed atti crudeli. Quando questa luna riderà in cielo per la seconda volta dopo questa sera, le offese, per ora verbali o appena abbozzate se materiali, diverranno concrete, più fitte dei fiori che ora sono sugli alberi da frutto, e sempre più vi si affollano per fretta di fiorire.
2 Avete visto – e vi siete stupiti – un fico seccato e tutto un pometo senza fiori. Il fico, come Israele, ha negato ristoro al Figlio dell’uomo ed è morto nel suo peccato. Il pometo, come i gentili, attende l’ora che oggi ho detto, per fiorire e annullare l’ultimo ricordo della ferocia umana con la dolcezza dei fiori profusi sul capo e sotto i piedi del Vincitore». «Quale ora, Maestro?», domanda Matteo. «Hai parlato tanto e di tante cose oggi! Non ricordo bene. E vorrei tutto ricordare. Forse l’ora del ritorno di Cristo? Anche qui hai parlato di rami che si fanno teneri e mettono foglie». «Ma no! », esclama Tommaso. «Il Maestro parla come se questa congiura che lo attende sia imminente. Come può allora in poco tempo avvenire tutto quello che Egli dice precedere il suo ritorno? Guerre, distruzioni, schiavitù, persecuzioni, vangelo predicato a tutto il mondo, desolazione di abominazione nella casa di Dio, e poi terremoti, pesti, falsi profeti, segni nel sole e nelle stelle… Eh! ci vogliono secoli a fare tutto questo! Starebbe fresco quel padrone del pometo se il suo orto avesse ad attendere quell’ora per fiorire!». «Non mangerebbe più i suoi pomi, perché io dico che sarà la fine del mondo, allora», commenta Bartolomeo. «Per compiere la fine del mondo non occorrerebbe che un pensiero di Dio e tutto tornerebbe nel nulla. Perciò potrebbe anche quel pometo poco avere da attendere. Ma come ho detto avverrà. E perciò vi saranno secoli da questo a quello. Ossia al definitivo trionfo e ritorno del Cristo», spiega Gesù. «E allora? Che ora?». «Oh! io la so l’ora!», piange Giovanni. «Io la so. E sarà dopo la tua morte e la tua risurrezione! …», e Giovanni lo abbraccia stretto. «E piangi se risorge?», motteggia Giuda Iscariota. «Piango perché prima ha da morire.
3 Non schernirmi, demonio. Io capisco. E non posso pensare a quell’ora». «Maestro! Mi ha detto demonio. Ha peccato contro il compagno». «Giuda, sai di non meritarlo? E allora non te la prendere per la sua colpa. Io pure sono stato chiamato “demonio” e lo sarò ancora chiamato così». «Ma Tu hai detto che chi insulta il fratello è colpev…». «Silenzio. Davanti alla morte finiscano finalmente queste odiose accuse, dispute e menzogne. Non turbate chi muore». «Perdonami, Gesù», mormora Giovanni. «Ho sentito rivoltarsi qualcosa in me al suono del suo ridere… e non ho potuto trattenermi». Giovanni è tutto abbracciato, petto a petto, a Gesù e gli piange sul cuore. «Non piangere. Ti capisco. Lasciami parlare». Ma Giovanni non si stacca da Gesù neppure quando Egli si siede su un radicone sporgente. Gli resta con un braccio dietro la schiena e uno intorno al petto e la testa sulla spalla, e piange senza rumore. Solo brillano al raggio della luna le gocce del suo pianto, che cadono sulla veste porpurea di Gesù e sembrano rubini, gocce di pallido sangue colpite da una luce.
4 «Voi avete udito parlare giudei e gentili, oggi. Non vi deve dunque stupire se Io dico: (inizio di citazioni o allusioni riferite a: Isaia 45, 23-25; 49, 2-6) “Dalla mia bocca è uscita parola di giustizia, sempre. E non sarà revocata”. Se dirò, sempre con Isaia, parlando dei gentili che a Me verranno dopo che sarò innalzato da terra: “Dinanzi a Me piegherà ogni ginocchio, per Me e in Me giurerà ogni lingua”. E ancora non dubiterete, dopo che avete notato i modi dei giudei, che è facile dire senza tema di errore che a Me saranno condotti svergognati tutti quelli che mi si oppongono. Il Padre mio non mi ha fatto suo servo solo per fare rivivere le tribù di Giacobbe, per convertire ciò che rimane di Israele: i resti, ma mi ha donato a luce delle Nazioni affinché Io sia il “Salvatore” per tutta quanta la Terra. Per questo, in questi trentatré anni di esilio dal Cielo e dal seno del Padre, Io ho continuato a crescere in Grazia e Sapienza presso Dio e presso gli uomini, raggiungendo l’età perfetta, e in questi ultimi tre anni, dopo avere arroventato l’anima e la mente mia nel fuoco dell’amore e averla temprata col gelo della penitenza, ho fatto “della mia bocca come una spada tagliente”.
5 Il Padre santo, che è mio e vostro, mi ha fin qui custodito sotto l’ombra della sua mano, perché ancora non era l’ora dell’Espiazione. Ora mi lascia andare. La freccia scelta, la freccia della sua divina faretra, dopo aver ferito per sanare, ferito gli uomini per far breccia nei cuori alla Parola e alla Luce di Dio, ora va rapida e sicura a ferire la Seconda Persona, l’Espiatore, l’Ubbidiente per tutto Adamo disubbidiente… E come guerriero colpito Io cado, dicendo per troppi: “Invano Io mi sono affaticato senza ragione, senza nulla ottenere. Ho consumato le mie forze per nulla”. Ma no! No, per il Signore eterno che non fa mai nulla senza scopo! Indietro Satana che mi vuoi piegare allo sconforto e tentare alla disubbidienza! All’alfa e all’omega del mio ministero tu sei venuto e vieni. Ebbene, ecco, Io mi levo (e realmente si alza in piedi) a battaglia. Mi misuro con te. E, lo giuro a Me stesso, ti vincerò. Non è orgoglio dirlo. È verità. Il Figlio dell’uomo sarà nella sua carne vinto dall’uomo, il miserabile verme che morde e avvelena dal suo fango putrido. Ma il Figlio di Dio, la Seconda Persona della inesprimibile Triade, non sarà vinta da Satana. Tu sei l’Odio. E sei potente nel tuo odiare e nel tuo tentare. Ma con Me sarà una forza che ti sfugge, perché tu non la puoi raggiungere e non la puoi fissare. L’Amore è con Me!
6 So la sconosciuta tortura che mi attende. Non quella che domani vi dirò, perché sappiate che nulla di quanto per Me o intorno a Me si faceva e si agitava, che nulla di quanto in cuor vostro si formava, mi era ignoto. Ma l’altra tortura… Quella che non da lance e bastoni, non da scherni e percosse vien data al Figlio dell’uomo, ma da Dio stesso, e che non sarà conosciuta che da pochi per quello che realmente sarà di atroce, e accettata per possibile da ancor meno. Ma in quella tortura, in cui due saranno i principali torturatori: Dio con la sua assenza e tu, demonio, con la tua presenza, la Vittima avrà seco l’Amore. L’Amore vivente nella Vittima, forza prima della sua resistenza alla prova, e l’Amore nel confortatore spirituale, che già palpita le sue ali d’oro per ansia di scendere ad asciugare i miei sudori, e raccoglie tutte le lacrime degli angeli nel celeste calice e vi stempera il miele dei nomi dei miei redenti e amanti, per temperare con quella bevanda la grande sete del Torturato e la sua amarezza senza misura. E tu sarai vinto, demonio. Un giorno, uscendo da un ossesso, mi hai detto: (Vol 6 Cap 420) “Aspetto a vincerti quando sarai Tu uno sbrendolo di carne sanguinante”. Ma Io ti rispondo: “Non mi avrai. Io vinco. La mia fatica fu santa, la mia causa è presso il Padre mio. Egli difende l’operato del suo Figlio e non permetterà che defletta lo spirito mio”. Padre, Io ti dico, fin da ora ti dico per quell’ora atroce: “Nelle tue mani abbandono lo spirito mio”.
7 Giovanni, non mi lasciare… Voi andate. La pace del Signore sia dove non è ospite Satana. Addio». Tutto ha termine.
Cap. DC. L’ultima Cena pasquale.
9 marzo 1945
1 Comincia la sofferenza del Giovedì Santo. Gli apostoli, e sono dieci, si dànno un gran da fare a preparare il Cenacolo. Giuda, arrampicato sul tavolo, osserva se l’olio è in tutti i palloncini del grande lampadario, che pare una corolla di fucsia doppia, perché ha uno stelo circondato da cinque lumi in ampolle simili a petali, poi un secondo giro, più in basso, che è tutta una coroncina di fiammelle, poi ha, per ultimo, tre esili lampadine sospese a catenelle che sembrano i pistilli del luminoso fiore. Poi scende con un salto e aiuta Andrea a disporre con arte le stoviglie sulla tavola, su cui viene stesa una finissima tovaglia. Sento Andrea che dice: «Che splendido lino !». E l’Iscariota: «Uno dei migliori di Lazzaro. Marta l’ha voluta portare per forza». «E questi calici? e queste anfore, allora?», osserva Tommaso che ha messo il vino nelle anfore preziose e le rimira, specchiandosi nelle loro pance snelle, e ne carezza i manici a cesello con occhio d’intenditore. «Chissà che valore, eh?», chiede Giuda Iscariota. «È lavorato a martello. Mio padre ne andrebbe pazzo. L’argento e l’oro in foglia si piega, quando è caldo, con facilità. Ma trattato così… È un momento rovinare tutto. Basta un colpo mal dato. Ci vuole forza e leggerezza insieme. Vedi i manici? Tratti dal blocco. Non saldati. Cose da ricchi… Pensa che tutta la limatura e lo sbozzato si perdono. Non so se mi capisci». «Eh! se capisco! Insomma è come uno che fa scoltura». «Proprio così». Tutti ammirano. Poi tornano al loro lavoro. Chi dispone i sedili e chi fa pronte le credenze.
2 Entrano insieme Pietro e Simone. «Oh! siete venuti finalmente! Dove siete andati di nuovo? Dopo essere giunti col Maestro e noi, siete da capo fuggiti», dice l’Iscariota. «Ancora un’incombenza prima dell’ora», risponde breve Simone. «Hai delle malinconie?». «Credo che, con quello che si è udito in questi giorni, e da quelle labbra che mai trovammo menzognere, ce ne sia ben ragione». «E con quel puzzo di… Bene, sta’ zitto, Pietro», borbotta Pietro fra i denti. «Anche tu! … Mi sembri folle da qualche giorno. Hai la faccia di un coniglio selvatico che si sente dietro lo sciacallo», risponde Giuda Iscariota. «E tu hai il muso della faina. Anche tu non sei molto bello da qualche giorno. Guardi in un modo… Hai persino l’occhio storto… Chi aspetti, o che speri vedere? Sembri sicuro, vuoi farlo parere, ma assomigli a chi ha paura», rimbecca Pietro. «Oh! Quanto a paura!… Non sei certo un eroe neppure tu!». «Nessuno lo siamo, Giuda. Tu porti il nome del Maccabeo, ma non lo sei. Io dico, col mio, “Dio fa grazie”, ma ti giuro che ho in me il tremito di chi sa di portare disgrazia e di essere soprattutto in disgrazia di Dio. Simone di Giona, ribattezzato “la pietra”, è ora molle come cera al fuoco. Non si agguanta più col suo volere. E sì che mai lo vidi pauroso nelle più fiere tempeste! Matteo, Bartolmai e Filippo sembrano sonnambuli. Mio fratello e Andrea non fanno che sospirare. I due cugini, in cui è il dolore del sangue con quello dell’amore al Maestro, guardali. Sembrano uomini già vecchi. Tommaso ha perduto la sua giocondità. E Simone sembra tornato il lebbroso sfinito di or sono tre anni, tanto è scavato da un dolore, direi corroso, livido, avvilito», gli risponde Giovanni.
3 «Sì. Ci ha suggestionati tutti con la sua melanconia», osserva l’Iscariota. «Mio cugino Gesù, il mio e vostro Maestro e Signore, è e non è melanconico. Se vuoi dire, con questo nome, che è triste per il troppo dolore che tutto Israele gli sta dando, e che noi vediamo, e per l’altro occulto dolore che Egli solo vede, ti dico: “Hai ragione”. Ma se usi quel termine per dirlo folle, te lo proibisco», dice Giacomo di Alfeo. «E non è follia un’idea fissa di malinconia? Io ho studiato anche il profano. E so. Egli troppo ha dato di Sé. Ora è uno stanco di mente». «Il che significa demente. Non è vero?», chiede l’altro cugino Giuda, in apparenza calmo. «Proprio così! Aveva visto bene tuo padre (in una sua invettiva contro Gesù al Vol 2 Cap 100 che l’Iscariota aveva accolto con perfidia alcune righe più avanti), giusto di santa memoria, al quale tanto tu somigli in giustizia e sapienza! Gesù, triste destino di una illustre casa troppo vecchia e colpita da senilità psichica, ha sempre avuto una tendenza a questa malattia. Dolce dapprima, poi sempre più aggressiva. Tu hai visto come ha attaccato farisei e scribi, sadducei ed erodiani. Si è resa impossibile la vita come un cammino sparso di schegge di quarzo. E da Sé se le è sparse. Noi… lo amammo tanto che l’amore ci fu velo. Ma quelli che l’amarono non idolatramente – tuo padre, tuo fratello Giuseppe, e Simone dapprima – videro giusto… Dovevamo aprire gli occhi alle loro parole. Invece siamo stati tutti sedotti dal suo dolce fascino di malato. Ed ora… Mah! ». Giuda Taddeo, che, alto come l’Iscariota, gli è proprio di fronte e pare udirlo con pace, ha uno scatto violento e, con un manrovescio potente, getta Giuda supino su uno dei sedili, e con una collera contenuta nella voce gli fischia, curvandosi sul volto del vigliacco, che non reagisce forse temendo che il Taddeo sia a conoscenza del suo crimine: «Questo per la demenza, rettile! E solo perché Egli è di là, ed è sera di Pasqua, non ti strozzo. Ma pensa, pensalo bene! Se gli avviene del male, e non c’è più Lui a fermare la mia forza, nessuno ti salva. È come tu già avessi il capestro al collo, e saranno queste mie mani oneste e forti, di artiere galileo e di discendente del frombolatore di Golia, che te lo faranno. Alzati, smidollato libertino! E regolati!». Giuda si alza, livido, senza la minima reazione. E, ciò che mi stupisce, nessuno ha una reazione al gesto nuovo del Taddeo. Anzi! … È chiaro che tutti approvano.
4 È appena ricomposto l’ambiente che entra Gesù. Si affaccia sulla soglia della porticina, dalla quale la sua alta persona appena passa, mette piede sul ballatoio di così poco spazio e col suo mite, mesto sorriso dice, aprendo le braccia: «La pace sia con voi». La sua voce è stanca, come quella di uno che languisce nel fisico o nel morale. Scende. Carezza sul capo biondo Giovanni che gli è corso vicino. Sorride, come ignaro, al cugino Giuda e dice all’altro cugino: «Tua madre ti prega di essere dolce con Giuseppe. Ha chiesto di Me e di te poco fa alle donne. Mi spiace non averlo salutato». «Lo farai domani». «Domani?… Ma avrò sempre tempo di vederlo… Oh! Pietro! Staremo un poco insieme, finalmente! Da ieri mi sembri un fuoco fatuo. Ti vedo, poi non ti vedo più. Oggi quasi posso dire che ti ho perso. Anche tu, Simone». «I nostri capelli più bianchi che neri ti possono fare sicuro che non fummo assenti per fame di carne», dice serio Simone. «Per quanto… a tutte le età si possa avere quella fame… I vecchi! Peggio dei giovani…», dice l’Iscariota offensivo. Simone lo guarda e sta per ribattere. Ma lo guarda anche Gesù e dice: «Ti duole un dente? Hai la guancia destra gonfia e rossa». «Sì. Ho male. Ma non merita occuparsene». Gli altri non dicono nulla e la cosa muore così.
5 «Avete fatto tutto quanto era da fare? Tu, Matteo? Andrea? E tu, Giuda, hai pensato all’offerta al Tempio?». Tanto i due primi come l’Iscariota dicono: «Tutto fatto di quello che avevi detto da farsi per oggi. Sta’ quieto». «Io ho portato le primizie di Lazzaro a Giovanna di Cusa. Per i bambini. Mi hanno detto: “Erano più buone quelle mele!”. Avevano il sapore della fame, quelle! Ed erano le tue mele», dice sorridente e sognante Giovanni. Anche Gesù sorride ad un ricordo… «Io ho visto Nicodemo e Giuseppe», dice Tommaso. «Li hai visti? Hai parlato con loro?», chiede l’Iscariota con interesse esagerato. «Sì. Che c’è di strano? Giuseppe è un buon cliente del padre mio». «Non lo avevi detto prima… Mi sono stupito per questo!…». Giuda cerca rimediare all’impressione, data prima, di affanno per l’incontro di Giuseppe e Nicodemo con Tommaso. «Mi fa strano che non siano venuti qui a venerarti. Non loro, non Cusa, non Mannanen… Nessuno dei…». Ma l’Iscariota ride con una falsa risata, interrompendo Bartolomeo, e dice: «Il coccodrillo si rintana nell’ora buona». «Che vuoi dire? Che insinui?», interroga Simone, aggressivo quanto non fu mai. «Pace, pace! Ma che avete? È sera pasquale! Mai avemmo sì degno apparato alla consumazione dell’agnello. Consumiamo dunque la cena con spirito di pace. Vedo che vi ho molto turbato con le mie istruzioni di queste ultime sere. Ma, vedete? Ho finito! Ora non vi turberò più. Non tutto è detto di quanto a Me si riferisce. Solo l’essenziale. Il resto… lo capirete poi. Vi sarà detto… Sì. Verrà Chi ve lo dirà.
6 Giovanni, vai con Giuda e qualche altro a prendere le coppe per la purificazione. E poi sediamo alla mensa». Gesù è di una dolcezza straziante. Giovanni con Andrea, Giuda Taddeo con Giacomo, portano l’ampia coppa, vi mescono acqua e offrono l’asciugamani a Gesù e ai compagni, i quali poi fanno lo stesso con loro. La coppa (che è un bacile di metallo) viene messa in un angolo. «Ed ora ai propri posti. Io qui, e qui (alla destra) Giovanni, e dall’altro lato il mio fedele Giacomo. I due primi discepoli. Dopo Giovanni la mia Pietra forte, e dopo Giacomo colui che è come l’aria. Non si avverte. Ma è sempre presente e dà conforto: Andrea. Vicino a lui, mio cugino Giacomo. Tu non ti rammarichi, dolce fratello, se do il primo posto ai primi? Sei il nipote del Giusto, il cui spirito palpita e aleggia su Me, in questa sera, più che mai. Abbi pace, padre della mia debolezza di fanciullino, quercia alla cui ombra ebbero ristoro la Madre e il Figlio! Abbi pace!… Dopo Pietro, Simone… Simone, vieni un momento qui. Voglio fissare il tuo volto leale. Dopo non ti vedrò che male, perché altri mi copriranno la tua onesta faccia. Grazie, Simone. Di tutto», e lo bacia. Simone, quando è lasciato, va al suo posto portandosi per un attimo le mani al volto con atto di afflizione. «Di fronte a Simone, il mio Bartolmai. Due onestà e due sapienze che si rispecchiano. Stanno bene insieme. E vicino, tu, Giuda, fratello mio. Così ti vedo,… e mi sembra di essere a Nazaret… quando qualche festa ci riuniva tutti ad una mensa… Anche a Cana… Ricordi? Eravamo insieme. Una festa… una festa di nozze… il primo miracolo… l’acqua mutata in vino… Anche oggi una festa… e anche oggi vi sarà un miracolo… il vino cambierà natura… e sarà… ». Gesù si immerge nel suo pensiero. A capo chino, è come isolato nel suo mondo segreto. Gli altri lo guardano e non parlano. Rialza il capo e fissa Giuda Iscariota, al quale dice: «Tu mi starai di fronte». «Tanto mi ami? Più di Simone, che mi vuoi avere sempre di fronte?». «Tanto. Lo hai detto». «Perché, Maestro?». «Perché tu sei quello che hai fatto più di tutti per quest’ora». Giuda guarda con un mutevolissimo sguardo il Maestro e i compagni. Il primo con un che di ironica compassione, gli altri con aria di trionfo. «E vicino a te, da una parte Matteo, dall’altra Tommaso». «Allora Matteo alla mia sinistra e Toma a destra». «Come vuoi, come vuoi», dice Matteo. «Mi basta aver bene di fronte il mio Salvatore». «Ultimo, Filippo. Ecco, vedete? Chi non è al mio fianco nel lato d’onore, ha l’onore di essermi di fronte».
7 Gesù, ritto al suo posto, mesce nell’ampio calice collocato a Lui davanti (tutti hanno alti calici, ma Lui ne ha uno molto più ampio, oltre quello che hanno tutti. Deve essere il calice di rito). Mesce in esso il vino. Lo alza, lo offre. Lo posa. Poi tutti insieme chiedono con tono di salmo: «Perché questa cerimonia?». Domanda formale, si capisce. Di rito. Alla quale Gesù, come capo famiglia, risponde: «Questo giorno ricorda la nostra liberazione dall’Egitto. Sia benedetto Geové che ha creato il frutto della vigna». Beve un sorso di questo vino offerto e passa il calice agli altri. Poi offre il pane, lo spezza, lo distribuisce, indi le erbe intinte nella salsa rossastra che è in quattro salsiere. Finita questa parte di pasto, cantano dei salmi, tutti in coro. Viene portato dalla credenza sulla mensa, e posto di fronte a Gesù, il capace vassoio dell’agnello arrostito. Pietro, che ha il ruolo di… prima parte, di coro, se più le piace, chiede: «Perché quest’agnello, così?». «A ricordo di quando Israele fu salvo per l’agnello immolato. Non morì primogenito dove il sangue splendeva sugli stipiti e l’architrave. E dopo, mentre tutto l’Egitto piangeva sui primogeniti maschi morti, dalla reggia ai tuguri, gli ebrei, capitanati da Mosè, si mossero verso la terra della liberazione e della promessa. Coi fianchi già cinti, i calzari al piede, in mano il bordone, fu sollecito il popolo di Abramo a porsi in marcia cantando gli inni della gioia». Tutti si alzano in piedi e intonano: «Quando Israele uscì dall’Egitto e la casa di Giacobbe di mezzo ad un popolo barbaro, la Giudea divenne il suo santuario», ecc. ecc. (se trovo giusto, è il salmo 114. Quello che viene detto subito dopo è il Salmo 113). Ora Gesù taglia l’agnello, mesce un nuovo calice, lo passa dopo averne bevuto. Poi cantano ancora: «Fanciulli, lodate il Signore, sia benedetto il nome dell’Eterno ora e sempre nei secoli. Dall’oriente all’occidente deve essere lodato», ecc. Gesù dà le parti, badando che ognuno sia bon servito, proprio come un padre di famiglia fra figli a lui tutti cari. È solenne, un po’ triste, mentre dice: «Ho ardentemente desiderato di mangiare con voi questa Pasqua. È stato il mio desiderio dei desideri da quando, in eterno, Io fui “il Salvatore”. Sapevo che quest’ora precede quella. E la gioia di darmi metteva in anticipo questo sollievo al mio patire… Ho ardentemente desiderato di mangiare con voi questa Pasqua, perché mai più gusterò del frutto della vite finché sia venuto il Regno di Dio. Allora mi assiderò nuovamente cogli eletti al Banchetto dell’Agnello, per le nozze dei viventi col Vivente. Ma ad esso verranno soltanto coloro che sono stati umili e mondi di cuore come Io sono».
8 «Maestro, poco fa Tu hai detto che chi non ha l’onore del posto ha quello d’esserti di fronte. Come allora possiamo sapere chi è il primo fra noi?», chiede Bartolomeo. «Tutti e nessuno. Una volta… tornavamo stanchi… nauseati per l’astio farisaico. (Vol 5 Cap 352). Ma stanchi non eravate per disputare fra di voi chi fosse il più grande… Un bambino mi corse vicino… un mio piccolo amico… E la sua innocenza temperò il mio disgusto di tante cose. Non ultima la vostra umanità pervicace. Dove sei ora, piccolo Beniamino dalla sapiente risposta, a te venuta dal Cielo perché, angelo come eri, lo Spirito ti parlava? Io vi ho detto allora: “Se uno vuole essere il primo sia l’ultimo e servo di tutti”. E vi ho dato ad esempio il fanciullo saggio. Ora vi dico: “I re delle nazioni le signoreggiano. E i popoli oppressi, pur odiandoli, li acclamano e i re vengono detti ‘Benefattori’, ‘Padri della Patria’. Ma l’odio cova sotto il bugiardo ossequio”. Ma fra voi così non sia. Il maggiore sia come il minore, il capo come colui che serve. Chi infatti è più grande? Chi sta a mensa, o chi serve? È colui che sta a mensa. Eppure Io vi servo. E fra poco più vi servirò. Voi siete quelli che siete stati con Me nelle prove. Ed Io dispongo per voi un posto nel mio Regno, così come Io sarò in esso Re secondo il volere del Padre, acciocché mangiate e beviate alla mia mensa eterna e siate assisi sui troni giudicando le dodici tribù di Israele. Siete rimasti con Me nelle mie prove… Solo questo è quello che vi dà grandezza agli occhi del Padre». «E quelli che verranno? Non avranno posto nel Regno? Noi soli?». «Oh! quanti principi nella mia Casa! Tutti coloro che saranno stati fedeli al Cristo nelle prove della vita saranno principi nel Regno mio. Perché coloro che avranno perseverato sino alla fine nel martirio dell’esistenza saranno pari a voi, che con Me siete rimasti nelle mie prove. Io mi identifico nei miei credenti. Il Dolore che Io abbraccio per voi e per tutti gli uomini Io lo do come insegna ai più eletti. Chi nel Dolore mi sarà fedele sarà un mio beato pari a voi, o miei diletti».
9 «Noi abbiamo perseverato fino alla fine». «Lo credi, Pietro? Ed Io ti dico che l’ora della prova ha ancora da venire. Simone, Simone di Giona, ecco che Satana ha chiesto di vagliarvi come il grano. Io ho pregato per te, perché la tua fede non vacilli. Tu, quando sarai ravveduto, conferma i tuoi fratelli». «Lo so di essere un peccatore. Ma fedele a Te lo sarò fino alla morte. Non ho questo peccato. Mai l’avrò». «Non essere superbo, Pietro mio. Quest’ora muterà infinite cose, che prima erano così ed ora saranno diverse. Quante! … Esse portano e importano necessità nuove. Voi lo sapete. Io vi ho sempre detto, anche quando andavamo per luoghi remoti percorsi dai banditi: “Non temete. Nulla ci accadrà di male perché gli angeli del Signore sono con noi. Non preoccupatevi di nulla”. Vi ricordate quando vi dicevo: “Non abbiate sollecitudini per ciò che dovete mangiare e per le vesti. Il Padre sa di che abbiamo bisogno”? Vi dicevo anche: “L’uomo è molto più di un passero e del fiore che oggi è erba e domani è fieno. Eppure il Padre ha cura anche del fiore e dell’uccellino. Potete allora dubitare che non abbia cura di voi?”. Vi dicevo ancora: “Date a chiunque vi chiede, a chi vi offende presentate l’altra guancia”. Vi dicevo: “Non abbiate borsa né bastone”. Perché Io ho insegnato amore e fiducia. Ma ora… Ora non è più quel tempo. Ora Io vi dico: “Vi è mai mancato nulla fino ad ora? Foste mai offesi?”». «Nulla, Maestro. E solo Tu fosti offeso». «Vedete dunque che la mia parola era verità. Ma ora gli angeli sono tutti richiamati dal loro Signore. È ora di demoni… Con le ali d’oro essi, gli angeli del Signore, si coprono gli occhi, si fasciano e si dolgono che non siano ali di colore cruccioso, perché è ora di lutto, e lutto crudele, sacrilego… Non ci sono angeli sulla Terra questa sera. Sono presso il trono di Dio per coprire col loro canto le bestemmie del mondo deicida e il pianto dell’Innocente. E noi siamo soli… Io e voi: soli. E i demoni sono i padroni dell’ora. Perciò ora prenderemo le apparenze e le misure dei poveri uomini che diffidano e non amano. Ora, chi ha una borsa prenda anche una bisaccia, chi non ha spada venda il suo mantello e ne comperi una. Perché anche questo è detto di Me nella Scrittura e si deve compiere: (Isaia 53, 12) “Egli è stato annoverato fra i malfattori”. In verità tutto ciò che mi riguarda ha il suo fine».
10 Simone, che si è alzato andando alla cassapanca dove ha deposto il suo ricco mantello – perché questa sera sono tutti con gli abiti migliori e perciò hanno pugnali, damaschinati ma molto corti, più coltelli che pugnali, alle ricche cinture – prende due spade, due vere spade, lunghe, lievemente ricurve, e le porta a Gesù: «Io e Pietro ci siamo armati questa sera. Queste abbiamo. Ma gli altri non hanno che il corto pugnale». Gesù prende le spade, le osserva, ne snuda una e ne prova il taglio sull’unghia. È una strana vista e fa una ancora più strana impressione vedere quell’arnese feroce nelle mani di Gesù. «Chi ve le ha date?», chiede l’Iscariota mentre Gesù osserva e tace. E pare sulle spine Giuda… «Chi? Ti ricordo che mio padre era nobile e potente». «Ma Pietro…». «Ebbene? Da quando devo rendere conto dei doni che voglio fare ai miei amici?». Gesù alza il capo dopo avere ringuainato l’arma. Le rende allo Zelote. «Va bene. Bastano. Hai fatto bene a prenderle.
11 “Ma ora, avanti la bevuta al terzo calice, attendete un momento. Vi ho detto che il più grande è pari al più piccolo e che Io ho veste di servo a questa tavola, e più vi servirò. Finora vi ho dato cibo. Servizio per il corpo. Ora vi voglio dare un cibo per lo spirito. Non è un piatto del rito antico. È del nuovo rito. Io mi sono voluto battezzare prima di essere il “Maestro”. Per spargere la Parola bastava quel battesimo. Ora verrà sparso il Sangue. Ci vuole un altro lavacro anche su voi, che pure vi siete purificati dal Battista, a suo tempo, e anche oggi nel Tempio. Ma non basta ancora. Venite, che Io vi purifichi. Sospendete il pasto. Vi è qualcosa di più alto e necessario del cibo dato al ventre perché si empia, anche se è cibo santo come questo del rito pasquale. Ed è uno spirito puro, pronto a ricevere il dono del Cielo, che già scende per farsi trono in voi e darvi la Vita. Dare la Vita a chi è mondo». Gesù si alza in piedi, fa alzare Giovanni per uscire meglio dal suo posto, va ad una cassapanca e si leva la veste rossa deponendola piegata sul già piegato mantello, si cinge alla vita un ampio asciugamani, poi va ad un altro bacile, ancora vuoto e mondo. Vi versa dell’acqua, lo porta in mezzo alla stanza, presso la tavola, e lo mette su uno sgabello. Gli apostoli lo guardano stupefatti. «Non mi chiedete che faccio?». «Non sappiamo. Ti dico che siamo già purificati», risponde Pietro. «Ed Io ti ripeto che non importa. La mia purificazione servirà a chi è già puro ad essere più puro». Si inginocchia. Slaccia i sandali all’Iscariota ed uno per volta gli lava i piedi. È facile farlo, perché i letti-sedili sono fatti in modo che i piedi sono verso l’esterno. Giuda è sbalordito e non dice niente. Solo quando Gesù, prima di calzare il piede sinistro e alzarsi, fa l’atto di baciargli il piede destro già calzato, Giuda ritrae violentemente il piede e colpisce con la suola la bocca divina. Lo fa senza volere. Non è un colpo forte. Ma mi dà tanto dolore. Gesù sorride, e all’apostolo che gli chiede: «Ti ho fatto male? Non volevo… Perdona», dice: «No, amico. L’hai fatto senza malizia e non fa male». Giuda lo guarda… Uno sguardo turbato, sfuggente… Gesù passa a Tommaso, poi a Filippo… Gira il lato stretto della tavola e viene al cugino Giacomo. Lo lava e lo bacia, nell’alzarsi, in fronte. Passa ad Andrea, che è rosso di vergogna e fa sforzi per non piangere, lo lava, lo carezza come un bambino. Poi c’è Giacomo di Zebedeo, che non fa che mormorare: «Oh! Maestro! Maestro! Maestro! Annichilito, sublime Maestro mio!». Giovanni si è già slacciato i sandali e, mentre Gesù sta curvo ad asciugargli i piedi, si china e lo bacia sui capelli. Ma Pietro!… Non è facile persuaderlo a quel rito! «Tu lavare i piedi a me? Non te lo pensare! Sinché sono vivo, non te lo permetterò. Io sono il verme, Tu sei Dio. Ognuno a suo posto». «Ciò che Io faccio tu non lo puoi comprendere per ora. Ma poi lo comprenderai. Lasciami fare». «Tutto quello che vuoi, Maestro. Vuoi tagliarmi il collo? Fàllo. Ma lavarmi i piedi non lo farai». «Oh! mio Simone! Tu non sai che, se non ti lavo, non avrai parte nel mio Regno? Simone, Simone! Tu hai bisogno di quest’acqua per la tua anima e per il tanto cammino che devi fare. Non vuoi venire con Me? Se non ti lavo, non vieni nel mio Regno». «Oh! Signor mio benedetto! Ma allora lavami tutto! Piedi, mani e capo!». «Chi ha fatto come voi un bagno non ha bisogno che di lavarsi i piedi, giacché è interamente puro. I piedi… L’uomo coi piedi va nelle lordure. E poco ancora sarebbe perché, ve l’ho detto, non è ciò che entra ed esce col cibo quello che sporca, e non è quello che si posa sui piedi per via ciò che contamina l’uomo. (Vedi Vol 5 Capp 300 e 301, e il capitolo 567). Ma è quanto incuba e matura nel suo cuore e di lì esce a contaminare le sue azioni e le sue membra. E i piedi dell’uomo dall’animo impuro vanno alle crapule, alle lussurie, agli illeciti commerci, ai delitti… Perciò sono, fra le membra del corpo, quelle che hanno molta parte da purificare… con gli occhi, con la bocca… Oh! uomo! uomo! Perfetta creatura un giorno: il primo! E poi così corrotto dal Seduttore! E non c’era in te malizia, o uomo, e non peccato!… Ed ora? Sei tutto malizia e peccato, e non c’è parte di te che non pecchi!». Gesù ha lavato i piedi a Pietro, li bacia, e Pietro piange e prende con le sue grosse mani le due mani di Gesù, se le passa sugli occhi e le bacia poi. Anche Simone si è levato i sandali e senza parola si lascia lavare. Ma poi, quando Gesù sta per passare da Bartolomeo, Simone si inginocchia e gli bacia i piedi dicendo: «Mondami dalla lebbra del peccato come mi mondasti dalla lebbra del corpo, acciocché io non sia confuso nell’ora del giudizio, mio Salvatore! ». «Non temere, Simone. Verrai nella Città celeste bianco come neve alpina». «Ed io, Signore? Al tuo vecchio Bartolmai che dici? Tu mi hai visto sotto l’ombra del fico e mi hai letto nel cuore. Ed ora che vedi, e dove mi vedi? Rassicura un povero vecchio, che teme non avere forza e tempo per giungere a come Tu vuoi che si sia». Bartolomeo è molto commosso. «Anche tu non temere. Ho detto allora: “Ecco un vero israelita in cui non è frode”. Ora dico: “Ecco un vero cristiano degno del Cristo”. Dove ti vedo? Su un trono eterno, vestito di porpora. Io sarò sempre con te». È la volta di Giuda Taddeo. Questo, quando si vede ai piedi Gesù, non sa trattenersi, curva il capo sul braccio appoggiato sulla tavola e piange. «Non piangere, dolce fratello. Ora sei come uno che deve sopportare lo strappo di un nervo e ti pare di non poterlo sopportare. Ma sarà un breve dolore. Poi… oh! tu sarai felice, perché mi ami, tu. Ti chiami Giuda. E sei come il nostro grande Giuda: (cioè Giuda Maccabeo, celebrato in 1 Maccabei 3, 1-9) come un gigante. Sei colui che protegge. Le tue azioni sono da leone e lioncello che rugge. Tu scoverai gli empi che davanti a te indietreggeranno, e saranno atterriti gli iniqui. Io so. Sii forte. Un’eterna unione stringerà e renderà perfetta la nostra parentela in Cielo». Bacia anche lui sulla fronte come l’altro cugino. «Io sono peccatore, Maestro. Non a me…». «Tu eri peccatore, Matteo. Ora sei l’Apostolo. Sei una mia “voce”. Ti benedico. Questi piedi quanta strada hanno fatto per venire sempre avanti, verso Dio… L’anima li spronava ed essi hanno lasciato ogni via che non fosse la mia via. Procedi. Sai dove finisce il sentiero? Sul seno del Padre mio e tuo». Gesù ha finito. Si leva il telo, si lava in acqua pulita le mani, si riveste, torna al suo posto e dice, mentre si siede al suo posto: «Ora siete puri, ma non tutti. Solo coloro che ebbero volontà di esserlo». Fissa Giuda di Keriot che mostra di non udire, intento a spiegare al compagno Matteo come suo padre si decise a mandarlo a Gerusalemme. Un discorso inutile, che ha l’unico scopo di dare un contegno a Giuda che, per quanto audace, si deve sentire a disagio.
12 Gesù mesce per la terza volta nel calice comune. Beve, fa bere. Poi intona, e gli altri fanno coro: «Amo perché il Signore ascolta la voce della mia preghiera, perché piega il suo orecchio verso di me. Io lo invocherò per tutta la vita. Mi avevano circondato dolori di morte», ecc. (Vengono recitati, nell’ordine: Salmo 116, Salmo 117, Salmo 118 [lungo inno], Salmo 119 [quello che non finisce mai]). Un attimo di sosta. Poi riprende a cantare: «Ebbi fede, per questo ho parlato. Ma ero fortemente umiliato. E dicevo nel mio smarrimento: “Ogni uomo è menzognero”». Guarda fisso Giuda. La voce, stanca questa sera, del mio Gesù riprende lena quando esclama: «È preziosa al cospetto di Dio la morte dei santi», e «Tu hai spezzato le mie catene. A Te sacrificherò ostia di lode invocando il nome del Signore», ecc. ecc. Un’altra breve sosta nel canto e poi riprende: «Lodate tutte il Signore, o nazioni, tutti i popoli lodatelo. Perché si è affermata su noi la sua misericordia e la verità del Signore dura in eterno». Altra breve sosta e poi un lungo inno: «Celebrate il Signore, perché Egli è buono, perché la sua misericordia dura in eterno…». Giuda di Keriot canta stonato tanto che per due volte Tommaso lo rimette in tono col suo potente vocione baritonale e lo guarda fisso. Anche altri lo guardano, perché generalmente è sempre ben intonato, e della sua voce ho capito che se ne tiene come del resto. Ma questa sera! Certe frasi lo turbano al punto che stecca, e così certi sguardi di Gesù che sottolineano le frasi. Una è: «Meglio confidare nel Signore che confidare nell’uomo». Un’altra è: «Urtato, vacillavo e stavo per cadere. Ma il Signore mi ha sorretto». Un’altra è: «Io non morrò ma vivrò e narrerò le opere del Signore». E infine queste due, che dico ora, fanno strozzare la voce in gola al Traditore: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra angolare», e «Benedetto colui che viene nel nome del Signore! ». Finito il salmo, mentre Gesù taglia e porge di nuovo dell’agnello, Matteo chiede a Giuda di Keriot: «Ma ti senti male?». «No. Lasciami stare. Non ti occupare di me». Matteo si stringe nelle spalle. Giovanni, che ha udito, dice: «Anche il Maestro non sta bene. Che hai, Gesù mio? La tua voce è fioca. Come di malato o di chi ha molto pianto», e lo abbraccia stando col capo sul petto di Gesù. «Non ha che molto parlato, come io non ho che molto camminato e preso fresco», dice Giuda nervoso. E Gesù, senza rispondere a lui, dice a Giovanni: «Tu mi conosci ormai… e sai cosa è che mi stanca…».
13 L’agnello è quasi consumato. Gesù, che ha mangiato pochissimo, bevendo solo un sorso di vino ad ogni calice e bevendo in compenso molt’acqua come fosse febbrile, riprende a parlare: «Voglio che voi comprendiate il mio gesto di dianzi. Vi ho detto che il primo è come l’ultimo e che vi darò un cibo non corporale. Un cibo di umiltà vi ho dato. Per lo spirito vostro. Voi chiamate Me: Maestro e Signore. Dite bene, perché tale Io sono. Se dunque Io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete farvelo l’un l’altro. Io vi ho dato l’esempio affinché, come Io ho fatto, voi facciate. In verità vi dico: il servo non è da più del padrone, né l’apostolo è più di Colui che tale lo ha fatto. Cercate di comprendere queste cose. Se poi, comprendendole, le metterete in pratica, sarete beati. Ma non sarete tutti beati. Io vi conosco. So chi ho scelto. Non parlo di tutti ad un modo. Ma dico ciò che è vero. D’altra parte, deve compiersi ciò che è scritto a mio riguardo: (Salmo 41, 10) “Colui che mangia il pane con Me ha levato il suo calcagno su Me”. Tutto Io vi dico prima che avvenga, perché non abbiate dubbi su Me. Quando tutto sarà compiuto, voi crederete ancor più che Io sono Io. Chi accoglie Me accoglie Colui che mi ha mandato: il Padre santo che è nei Cieli; e chi accoglierà coloro che Io manderò, accoglierà Me stesso. Perché Io sono col Padre e voi siete con Me… Ma ora compiamo il rito». Versa di nuovo vino nel calice comune e, prima di berne e di farne bere, si alza, e con Lui si alzano tutti, e canta di nuovo uno dei salmi di prima: «Ebbi fede e per questo parlai…», e poi uno che non finisce mai. Bello… ma eterno! Credo di ritrovarlo per l’inizio e la lunghezza, nel salmo 119. Lo cantano così. Un pezzo tutti insieme. Poi, a turno, uno ne dice un distico e gli altri insieme un pezzo, e così via sino alla fine. Lo credo che alla fine abbiano sete!
14 Gesù si siede. Non si mette sdraiato. Resta seduto, come noi. E parla: «Ora che l’antico rito è compiuto, Io celebro il nuovo rito. Vi ho promesso un miracolo d’amore. È l’ora di farlo. Per questo ho desiderato questa Pasqua. Da ora in poi questo è l’ostia che sarà consumata in perpetuo rito d’amore. Vi ho amato per tutta la vita della Terra, amici diletti. Vi ho amato per tutta l’eternità, figli miei. E amare vi voglio sino alla fine. Non vi è cosa più grande di questa. Ricordatevelo. Io me ne vado. Ma resteremo per sempre uniti mediante il miracolo che ora Io compio». Gesù prende un pane ancora intiero, lo pone sul calice colmo. Benedice e offre questo e quello, poi spezza il pane e ne prende tredici pezzi e ne dà uno per uno agli apostoli dicendo: «Prendete e mangiate. Questo è il mio Corpo. Fate questo in memoria di Me che me ne vado». Dà il calice e dice: «Prendete e bevete. Questo è il mio Sangue. Questo è il calice del nuovo patto nel Sangue e per il Sangue mio, che sarà sparso per voi per la remissione dei vostri peccati e per darvi la Vita. Fate questo in memoria di Me». Gesù è tristissimo. Ogni sorriso, ogni traccia di luce, di colore lo hanno abbandonato. Ha già un volto d’agonia. Gli apostoli lo guardano angosciati.
15 Gesù si alza dicendo: «Non vi muovete. Torno subito». Prende il tredicesimo pezzetto di pane, prende il calice ed esce dal Cenacolo. «Va dalla Madre», sussurra Giovanni. E Giuda Taddeo sospira: «Misera donna! ». Pietro chiede in un soffio: «Credi che sappia?». «Tutto sa. Tutto ha sempre saputo». Parlano tutti a voce bassissima, come davanti ad un morto. «Ma credete che proprio…», chiede Tommaso che non vuole ancora credere. «E ne hai dubbi? È la sua ora», risponde Giacomo di Zebedeo. «Dio ci dia la forza di essere fedeli», dice lo Zelote. «Oh! io…» , sta per parlare Pietro. Ma Giovanni, che è all’erta, dice: «Sss. È qui». Gesù rientra. Ha in mano il calice vuoto. Appena sul fondo vi è un’ombra di vino, e sotto la luce del lampadario pare proprio sangue. Giuda Iscariota, che ha davanti il calice, lo guarda come affascinato e poi ne torce lo sguardo. Gesù l’osserva ed ha un brivido che Giovanni, appoggiato come è al suo petto, sente. «Ma dillo! Tu tremi…», esclama. «No. Non tremo per febbre…
16 Io tutto vi ho detto e tutto vi ho dato. Di più non potevo darvi. Me stesso vi ho dato». Ha il suo dolce gesto delle mani che, prima congiunte, ora si disgiungono e si allargano, mentre la testa si china come per dire: «Scusate se non posso di più. Così è». «Tutto vi ho detto e tutto vi ho dato. E ripeto. Il nuovo rito è compiuto. Fate questo in memoria di Me. Io vi ho lavato i piedi per insegnarvi ad essere umili e puri come il Maestro vostro. Perché in verità vi dico che, come è il Maestro, così devono essere i discepoli. Ricordatelo, ricordatelo. Anche quando sarete in alto, ricordatelo. Non vi è discepolo da più del Maestro. Come Io vi ho lavato, voi fatelo fra voi. Ossia amatevi come fratelli, aiutandovi l’un l’altro, venerandovi a vicenda, essendo l’un coll’altro d’esempio. E siate puri. Per essere degni di mangiare il Pane vivo disceso dal Cielo ed avere in voi e per Esso la forza d’essere i miei discepoli nel mondo nemico, che vi odierà per il mio Nome. Ma uno di voi non è puro. Uno di voi mi tradirà. Di questo sono fortemente conturbato nello spirito… La mano di colui che mi tradisce è meco su questa tavola, e non il mio amore, non il mio Corpo e il mio Sangue, non la mia parola lo ravvedono e lo fanno pentito. Io lo perdonerei, andando alla morte anche per lui». I discepoli si guardano esterrefatti. Si scrutano, in sospetto l’un dell’altro. Pietro fissa l’Iscariota in un risveglio di tutti i suoi dubbi. Giuda Taddeo scatta in piedi per guardare a sua volta l’Iscariota al disopra del corpo di Matteo. Ma l’Iscariota è così sicuro! A sua volta guarda fisso Matteo come sospettasse di lui. Poi fissa Gesù e sorride chiedendo: «Son forse io quello?». Pare il più sicuro della sua onestà e che dica così, tanto per non lasciare cadere la conversazione. Gesù ripete il suo gesto dicendo: «Tu lo dici, Giuda di Simone. Non Io. Tu lo dici. Io non ti ho nominato. Perché ti accusi? Interroga il tuo interno ammonitore, la tua coscienza di uomo, la coscienza che Dio Padre ti ha data per condurti da uomo, e senti se ti accusa. Tu lo saprai prima di tutti. Ma se essa ti rassicura, perché dici una parola e pensi un fatto che è anatema anche a dirlo o a pensarlo per gioco?». Gesù parla con calma. Sembra sostenga la tesi proposta come lo può fare un dotto alla sua scolaresca. Il subbuglio è forte. Ma la calma di Gesù lo placa.
17 Però Pietro, che è il più sospettoso di Giuda – forse lo è anche il Taddeo, ma lo pare meno, disarmato come è dalla disinvoltura dell’Iscariota – tira Giovanni per la manica e quando Giovanni, che si è tutto stretto a Gesù udendo parlare di tradimento, si volge, gli sussurra: «Chiedigli chi è». Giovanni riprende la sua posizione, solo alza lievemente il capo come per baciare Gesù, e intanto gli mormora all’orecchio: «Maestro, chi è?». E Gesù pianissimo, rendendogli il bacio fra i capelli: «Colui a cui darò un pezzo di pane intinto». E preso un pane ancora intero, non il resto di quello usato per l’Eucarestia, ne stacca un grosso boccone, lo intinge nel succo lasciato dall’agnello nel vassoio, allunga al disopra della tavola il braccio e dice: «Prendi, Giuda. Questo a te piace». «Grazie, Maestro. Mi piace, sì», e ignaro di ciò che è quel boccone se lo mangia, mentre Giovanni, inorridito, chiude persino gli occhi per non vedere l’orrido riso dell’Iscariota mentre coi denti forti morde il pane accusatore. «Bene. Ora che ti ho fatto felice, va’», dice Gesù a Giuda. «Tutto è compiuto qui (marca molto la parola). Quello che resta ancora da fare altrove fàllo presto, Giuda di Simone». «Ti ubbidisco subito, Maestro. Poi ti raggiungerò al Getsemani. Vai là, vero? Come sempre?». «Vado là… come sempre… sì». «Che ha da fare?», chiede Pietro. «Va solo?». «Non sono un pargolo», motteggia Giuda che si sta mettendo il mantello. «Lascialo andare. Io e lui sappiamo ciò che si deve fare», dice Gesù. «Sì, Maestro». Pietro tace. Forse pensa di avere peccato di sospetto verso il compagno. Con la mano sulla fronte, pensa. Gesù si stringe al cuore Giovanni e torna a sussurrargli fra i capelli: «Non dire nulla a Pietro, per ora. Sarebbe un inutile scandalo». «Addio, Maestro. Addio, amici». Giuda saluta. «Addio», dice Gesù. E Pietro: «Ti saluto, ragazzo». Giovanni, col capo quasi nel grembo di Gesù, mormora: «Satana! ». Solo Gesù l’ode e sospira. Qui mi cessa tutto, ma Gesù dice: «Sospendo per pietà di te. Ti darò la fine della Cena in altro momento».
18 (continua la Cena) Vi è qualche minuto di assoluto silenzio. Gesù sta a capo chino, carezzando macchinalmente i capelli biondi di Giovanni. Poi si scuote. Alza la testa, gira lo sguardo, ha un sorriso che conforta i discepoli. Dice: «Lasciamo la tavola. E sediamo tutti ben vicini, come tanti figli intorno al padre». Prendono i letti-sedili che erano dietro la tavola (quelli di Gesù, Giovanni, Giacomo, Pietro, Simone, Andrea ed il cugino Giacomo) e li portano dall’altro lato. Gesù prende posto sul suo, sempre fra Giacomo e Giovanni. Ma, quando vede che Andrea sta per sedersi al posto lasciato dall’Iscariota, grida: «No, là no». Un grido impulsivo, che la sua somma prudenza non riesce a impedire. Poi modifica dicendo così: «Non occorre tanto spazio. Stando seduti, si può stare su questi soli. Bastano. Vi voglio molto vicini». Ora, rispetto alla tavola, sono messi in forma ad U con Gesù al centro e avendo di fronte la tavola, spoglia di vivande ormai, e il posto di Giuda. Giacomo di Zebedeo chiama Pietro: «Siediti qui. Io mi siedo su questo sgabelletto, ai piedi di Gesù». «Che Dio ti benedica, Giacomo! Ne avevo tanta voglia!», dice Pietro e si serra al suo Maestro, che è così fra la stretta di Giovanni e Pietro, avendo ai piedi Giacomo. Gesù sorride: «Vedo che comincia ad operare la parola detta prima. I buoni fratelli si amano. Anche Io ti dico, Giacomo: “Che Dio ti benedica”. Anche questo tuo atto non sarà dimenticato dall’Eterno e lo troverai lassù.
19 “Tutto Io posso di quanto Io chiedo. Voi lo avete visto. È bastato un mio desiderio perché il Padre concedesse al Figlio di darsi in Cibo all’uomo. Con quanto è accaduto adesso è stato glorificato il Figlio dell’uomo, perché è testimonianza di potere il miracolo che non è che possibile agli amici di Dio. Più è grande il miracolo e più è sicura e profonda questa divina amicizia. Questo è un miracolo che, per la sua forma, durata e natura, per gli estremi di esso ed i limiti che tocca, più forte non ce ne può essere. Io ve lo dico: tanto è potente, soprannaturale, inconcepibile all’uomo superbo, che ben pochi lo comprenderanno come va compreso, e molti lo negheranno. Che dirò allora? Condanna per loro? No. Dirò: pietà! Ma più grande è il miracolo, più grande è la gloria che all’autore dello stesso viene. È Dio stesso che dice: “Ecco, questo mio diletto ciò che ha voluto ha avuto, ed Io l’ho concesso perché egli ha grande grazia agli occhi miei”. E qui dice: “Ha una grazia senza limiti così come è infinito il miracolo da Lui compiuto”. Parimenti alla gloria che si riversa sull’autore del miracolo da parte di Dio è la gloria che da esso autore si riversa sul Padre. Perché ogni gloria soprannaturale, essendo veniente da Dio, alla sua sorgente ritorna. E la gloria di Dio, per quanto già infinita, sempre più si aumenta e sfavilla perla gloria dei suoi santi. Onde Io dico: come è stato glorificato il Figlio dell’uomo da Dio, così Dio è stato glorificato dal Figlio dell’uomo. Io ho glorificato Dio in Me stesso. A sua volta, Dio glorificherà il suo Figlio in Lui. Ben presto lo glorificherà.
20 Esulta, Tu che torni alla tua Sede, o Essenza spirituale della Seconda Persona! Esulta, o Carne che torni ad ascendere dopo tanto esilio nel fango! E non già il Paradiso d’Adamo, ma l’eccelso Paradiso del Padre sta per esserti dato a dimora. Ché, se è stato detto che per lo stupore di un comando di Dio (Giosuè 10, 12-14), dato per bocca di un uomo, si arrestò il sole, che non avverrà negli astri quando vedranno il prodigio della Carne dell’Uomo ascendere e sedersi alla destra del Padre nella sua Perfezione di materia glorificata? Figliolini miei, per poco ancora Io resto con voi. E voi, dopo, mi cercherete come gli orfani cercano il morto genitore. E piangendo andrete parlando di Lui e picchierete invano al muto sepolcro, e poi ancora picchierete alle porte azzurre dei Cieli, con l’anima vostra lanciata in supplice ricerca d’amore, dicendo: “Dove il nostro Gesù? Lo vogliamo. Senza Lui non è più luce nel mondo, non letizia, né amore. O ce lo rendete, oppure lasciateci entrare. Noi vogliamo essere dove Egli è”. Ma non potete per ora venire dove Io vado. L’ho detto anche ai giudei: (Vedi Vol 7 Cap 488) “Poi mi cercherete, ma dove Io vado voi non potete venire”. Lo dico anche a voi.
21 Pensate alla Madre… Neppure Lei potrà venire dove Io vado. Eppure Io ho lasciato il Padre per venire a Lei e farmi Gesù nel suo seno senza macchia. Eppure dall’Inviolata Io sono venuto, nell’estasi luminosa del mio Natale. E del suo amore, divenuto latte, mi sono nutrito. Io sono fatto di purità e di amore perché Maria mi ha nutrito della sua verginità fecondata dall’Amore perfetto che vive in Cielo. Eppure per Lei Io sono cresciuto, costandole fatiche e lacrime… Eppure Io le chiedo un eroismo quale mai fu compito, e rispetto al quale quello di Giuditta e Giaele sono eroismi di povere femmine contrastanti colla rivale presso la fonte del paese. Eppure nessuno pari a Lei è nell’amarmi. E, ciononostate, Io la lascio e vado dove Lei non verrà che fra molto tempo. Per Lei non è il comando che do a voi: “Santificatevi anno per anno, mese per mese, giorno per giorno, ora per ora, per potere venire a Me quando sarà la vostra ora”. In Lei è ogni grazia e santità. È la creatura che ha tutto avuto e che tutto ha dato. Nulla vi è da aggiungere o da levare. È la santissima testimonianza di ciò che può Iddio.
22 Ma per essere certo che in voi sia capacità di potermi raggiungere e di dimenticare il dolore del lutto della separazione daI vostro Gesù, Io vi do un comandamento nuovo. Ed è che vi amiate gli uni con gli altri. Così come Io ho amato voi, ugualmente voi amatevi l’uno con l’altro. Da questo si conoscerà che siete miei discepoli. Quando un padre ha molti figli, da che si conosce che tali sono? Non tanto per l’aspetto fisico – perché vi sono uomini che sono in tutto simili ad un altro uomo, col quale non vi è nessun rapporto di sangue e neppure di nazione – quanto per il comune amore alla famiglia, al padre loro, e fra loro. Ed anche morto il padre non si disgrega la buona famiglia, perché il sangue è uno ed è sempre quello avuto dal seme del padre, e annoda legami che neppure la morte scioglie, perché più forte della morte è l’amore. Ora, se voi vi amerete anche dopo che Io vi avrò lasciati, tutti riconosceranno che voi siete miei figli, e perciò miei discepoli, e fra voi fratelli avendo avuto un unico padre».
23 «Signore Gesù, ma dove vai?», chiede Pietro. «Vado dove tu per ora non mi puoi seguire. Ma più tardi mi seguirai». «E perché non adesso? Ti ho seguito sempre da quando Tu mi hai detto: “Seguimi”. Ho tutto lasciato senza rimpianto… Ora, andartene senza il tuo povero Simone, lasciandomi privo di Te, mio Tutto, dopo che per Te ho lasciato il mio poco bene di prima, non è giusto né bello da parte tua. Vai alla morte? Sta bene. Ma io pu-re vengo. Andremo insieme nell’altro mondo. Ma prima ti avrò difeso. Io sono pronto a dare la vita per Te». «Tu darai la tua vita per Me? Ora? Ora no. In verità – oh! che in verità te lo dico – non avrà ancora cantato il gallo che tu mi avrai rinnegato tre volte. Ora è ancora la prima vigilia. Poi verrà la seconda… e poi la terza. Prima che scocchi il gallicinio, tu avrai per tre volte rinnegato il tuo Signore». «Impossibile, Maestro! Credo a tutto ciò che dici. Ma non a questo. Sono sicuro di me». «Ora, per ora sei sicuro. Ma perché ora hai ancora Me. Hai con te Iddio. Fra poco l’incarnato Iddio sarà preso e non l’avrete più. E Satana, dopo avervi già appesantiti – la tua stessa sicurezza è una astuzia di Satana, zavorra per appesantirti – vi spaurirà. Vi insinuerà: “Dio non è. Io sono”. E siccome, per quanto ottusi dallo spavento, ancora ragionerete, voi capirete che quando è Satana il padrone dell’ora è morto il Bene ed è operante il Male, abbattuto lo spirito e trionfante l’umano. Allora resterete come guerrieri senza duce, inseguiti dal nemico, e nello sbigottimento dei vinti curverete le schiene al vincitore, e per non essere uccisi rinnegherete il caduto eroe.
24 Ma, ve ne prego. Il vostro cuore non si turbi. Credete in Dio. E credete anche in Me. Contro tutte le apparenze, credete in Me. Creda nella mia misericordia e in quella del Padre tanto colui che resta come colui che fugge. Tanto colui che tace come colui che aprirà la bocca per dire: “Io non lo conosco”. Ugualmente credete nel mio perdono. E credete che, quali che siano in futuro le vostre azioni, nel Bene e nella mia Dottrina, nella mia Chiesa perciò, esse vi daranno un uguale posto in Cielo. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se così non fosse, Io ve lo avrei detto. Perché Io vado avanti. A preparare un posto per voi. Non fanno forse così i buoni padri quando devono portare altrove la loro piccola prole? Vanno avanti, preparano la casa, le suppellettili, le provviste. E poi tornano a prendere le loro creature più care. Così fanno per amore. Perché ai piccoli nulla manchi, e non provino disagio nel nuovo paese. Ugualmente così Io faccio. E per lo stesso motivo. Ora vado. E quando avrò preparato ad ognuno il posto nella Gerusalemme celeste, verrò di nuovo, vi prenderò con Me perché siate con Me dove Io sono, dove non ci sarà più né morte, né lutti, né lacrime, né grida, né fame, né dolore, né tenebre, né arsione, ma solo luce, pace, beatitudine e canto. Oh! canto dei Cieli altissimi quando i dodici eletti saranno sui troni coi dodici patriarchi delle tribù d’Israele, e nell’ardenza del fuoco dell’amore spirituale canteranno, eretti sul mare della beatitudine, il cantico eterno che avrà ad arpeggio l’eterno alleluia dell’esercito angelico…
25 Io voglio che dove Io sarò voi siate. E voi sapete dove Io vado e ne conoscete la via». «Ma Signore! Noi non sappiamo nulla. Tu non ci dici dove vai. Come possiamo noi sapere la via da prendere per venire verso Te e abbreviare l’attesa?», chiede Tommaso. «Io sono la Via, la Verità, la Vita. Me lo avete sentito dire e spiegare più volte, ed in verità alcuni, che neppure sapevano esservi un Dio, si sono incamminati avanti, per la mia via, e sono già avanti di voi. Oh! dove sei tu, pecora spersa di Dio che Io ho ricondotta all’ovile? E dove tu, risorta d’anima?». «Chi? Di chi parli? Di Maria di Lazzaro? È di là, con tua Madre. La vuoi? O vuoi Giovanna? Certo è nel suo palazzo. Ma, se vuoi, te l’andiamo a chiamare…». «No. Non loro… Penso a quella che sarà disvelata solo in Cielo… e a Fotinai… (La samaritana, incontrata nei capitoli 143-144 e in 147 del Vol 2, e ricordata in 571 e in 572; l’altra è Aglae, incontrata la prima volta nel capitolo 77 del Vol 1). Esse mi hanno trovato. E non hanno più lasciato la mia via. Ad una ho indicato il Padre come Dio vero e lo spirito come levita in questa individuale adorazione. All’altra, che neppur sapeva di avere uno spirito, ho detto: “Il mio nome è Salvatore, salvo chi ha buona volontà di salvarsi. Io sono Colui che cerca i perduti, che dà la Vita, la Verità e la Purezza. Chi mi cerca mi trova”. E ambedue hanno trovato Iddio… Vi benedico, deboli Eve divenute più forti di Giuditta… Vengo, dove voi siete vengo… Voi mi consolate… Siate benedette!… ».
26 «Mostraci il Padre, Signore, e saremo pari a queste», dice Filippo. «Da tanto tempo Io sono con voi, e tu, Filippo, non mi hai ancora conosciuto? Chi vede Me vede il Padre mio. Come puoi dunque dire: “Mostraci il Padre”? Non riesci a credere che Io sono nel Padre e il Padre è in Me? Le parole che Io vi dico non le dico da Me. Ma il Padre che dimora in Me compie ogni mia opera. E voi non credete che Io sono nel Padre e Lui è in Me? Che devo dire per farvi credere? Ma se non credete alle parole, credete almeno alle opere. Io vi dico, e ve lo dico con verità: chi crede in Me farà le opere che Io faccio, e ancor di maggiori ne farà, perché Io vado al Padre. E tutto quanto domanderete al Padre in mio nome Io lo farò, perché il Padre sia glorificato nel suo Figlio. E farò quanto mi domanderete in nome del mio Nome. Il mio Nome è noto, per quello che realmente è, a Me solo, al Padre che mi ha generato e allo Spirito che dal nostro amore procede. E per quel Nome tutto è possibile. Chi pensa al mio Nome con amore mi ama e ottiene. Ma non basta amare Me, occorre osservare i miei comandamenti per avere il vero amore. Sono le opere quelle che testificano dei sentimenti. E per questo amore Io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro Consolatore che resti per sempre con voi, Uno su cui Satana e il mondo non può infierire, lo Spirito di Verità che il mondo non può ricevere e non può colpire, perché non lo vede e non lo conosce. Lo deriderà. Ma Egli è tanto eccelso che lo scherno non lo potrà ferire, mentre, pietosissimo sopra ogni misura, sarà sempre con chi lo ama, anche se povero e debole. Voi lo conoscerete, perché già dimora con voi e presto sarà in voi.
27 Io non vi lascerò orfani. Già ve l’ho detto: “Ritornerò a voi”. Ma, prima che sia l’ora di venirvi a prendere per andare nel mio Regno, Io verrò. A voi verrò. Fra poco il mondo non mi vedrà più. Ma voi mi vedete e mi vedrete. Perché Io vivo e voi vivete. Perché Io vivrò e voi pure vivrete. In quel giorno voi conoscerete che Io sono nel Padre mio, e voi in Me ed Io in voi. Perché chi accoglie i miei precetti e li osserva, quello è colui che mi ama, e colui che mi ama sarà amato dal Padre mio e possederà Iddio, perché Dio è carità e chi ama ha in sé Dio. Ed Io lo amerò, perché in lui vedrò Iddio, e mi manifesterò a lui facendomi conoscere nei segreti del mio amore, della mia sapienza, della mia Divinità incarnata. Saranno i miei ritorni fra i figli dell’uomo, che Io amo nonostante siano deboli e anche nemici. Ma costoro saranno solo deboli. Ed Io li fortificherò; dirò loro: “Sorgi!”, dirò: “Vieni fuori!”, dirò: “Seguimi”, dirò: “Odi”, dirò: “Scrivi”… e voi siete fra questi». «Perché, Signore, Tu ti manifesti a noi e non al mondo?», chiede Giuda Taddeo. «Perché mi amate e osservate le mie parole. Chi così farà, sarà amato dal Padre e Noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui, in lui. Mentre chi non mi ama non osserva le mie parole e fa secondo la carne e il mondo. Ora sappiate che ciò che Io vi ho detto non è parola di Gesù Nazareno ma parola del Padre, perché Io sono il Verbo del Padre che mi ha mandato. Io vi ho detto queste cose parlando così, con voi, perché voglio lo stesso prepararvi al possesso completo della Verità e Sapienza. Ma ancora non potete capire né ricordare. Però, quando verrà a voi il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà in mio Nome, allora voi potrete capire, ed Egli tutto vi insegnerà, e vi ricorderà quanto Io vi ho detto.
28 Io vi lascio la mia pace. Io vi do la mia pace. Ve la do non come la dà il mondo. E neppure come fino ad ora ve l’ho data: saluto benedetto del Benedetto ai benedetti. Più profonda è la pace che ora vi do. In questo addio. Io vi comunico Me stesso, il mio Spirito di pace, così come vi ho comunicato il mio Corpo e il mio Sangue, perché in voi resti una forza nella imminente battaglia. Satana e il mondo sferrano guerra al vostro Gesù. È la loro ora. Abbiate in voi la Pace, il mio Spirito che è spirito di pace, perché Io sono il Re della pace. Abbiatela per non essere troppo derelitti. Chi soffre con la pace di Dio in sé soffre, ma non bestemmia e dispera. Non piangete. Avete pure sentito che ho detto: “Vado al Padre e poi tornerò”. Se mi amaste sopra la carne, vi rallegrereste, perché Io vado dal Padre dopo tanto esilio… Vado da Colui che è maggiore di Me e che mi ama. Io ve l’ho detto ora, prima che ciò si compia, così come vi ho detto tutte le sofferenze del Redentore prima di andare ad esse, affinché, quando tutto si compia, voi crediate sempre più in Me. Non turbatevi così! Non sgomentatevi. Il vostro cuore ha bisogno di equilibrio…
29 Poco più ho da parlarvi… e ancora tanto ho da dire! Giunto al termine di questa mia evangelizzazione, mi pare di non avere ancora nulla detto e che tanto, tanto, tanto ancora resti da fare. Il vostro stato aumenta questa mia sensazione. E che dirò allora? Che Io ho mancato al mio ufficio? O che voi siete così duri di cuore che a nulla esso è valso? Dubiterò? No. Mi affido a Dio, e a Lui affido voi, miei diletti. Egli compirà l’opera del suo Verbo. Non sono come un padre che muore e non ha altra luce che l’umana. Io spero in Dio. E pure sentendo in Me urgere tutti i consigli di cui vi vedo bisognosi e sentendo fuggire il tempo, vado tranquillo alla mia sorte. So che sui semi caduti in voi sta per scendere una rugiada che li farà tutti germogliare, e poi verrà il sole del Paraclito, ed essi diverranno albero potente. Sta per venire il principe di questo mondo, colui col quale Io non ho nulla a che fare. E, se non fosse per fine di redenzione, non avrebbe potuto nulla su Me. Ma ciò avviene affinché il mondo conosca che Io amo il Padre e lo amo fino alla ubbidienza di morte, e perciò faccio ciò che mi ha ordinato.
30È l’ora di andare. Alzatevi. E udite le ultime parole. Io sono la vera Vite. Il Padre ne è il Coltivatore. Ogni tralcio che non porta frutto Egli lo recide e quello che porta frutto lo pota perché ne porti più ancora. Voi siete già purificati per la mia parola. Rimanete in Me ed Io in voi per continuare ad essere tali. Il tralcio staccato dalla vite non può fare frutto. Così voi se non rimanete in Me. Io sono la Vite e voi i tralci. Colui che resta unito a Me porta abbondanti frutti. Ma se uno si stacca diviene ramo secco e viene buttato nel fuoco e là brucia. Perché, senza l’unione con Me, voi nulla potete fare. Rimanete dunque in Me e le mie parole restino in voi, poi domandate quanto volete e vi sarà fatto. Il Padre mio sarà sempre più glorificato quanto più voi porterete frutto e sarete miei discepoli.
31 Come il Padre mi ha amato, così Io con voi. Rimanete nel mio amore che salva. Amandomi sarete ubbidienti, e l’ubbidienza aumenta il reciproco amore. Non dite che Io mi ripeto. So la vostra debolezza. E voglio che vi salviate. Io vi dico queste cose perché la gioia che vi ho voluto dare sia in voi e sia completa. Amatevi, amatevi! Questo è il mio comandamento nuovo. Amatevi scambievolmente più di quanto ognuno ami se stesso. Non vi è maggior amore di quello di colui che dà la sua vita per i suoi amici. Voi siete i miei amici ed Io do la vita per voi. Fate ciò che Io vi insegno e comando. Non vi chiamo più servi. Perché il servo non sa ciò che fa il suo padrone, mentre voi sapete ciò che Io faccio. Tutto di Me sapete. Vi ho manifestato non solo Me stesso, ma anche il Padre ed il Paraclito e tutto quanto ho sentito da Dio. Non siete stati voi che vi siete scelti. Ma Io vi ho scelti e vi ho eletti, perché andiate fra i popoli, e facciate frutto in voi e nei cuori degli evangelizzati, e il vostro frutto rimanga e il Padre vi dia tutto ciò che gli chiederete in mio Nome.
32 Non dite: “E allora, se Tu ci hai scelti, perché hai scelto un traditore? Se tutto Tu sai, perché hai fatto questo?”. Non chiedetevi neppure chi è costui. Non è un uomo. È Satana. L’ho detto all’amico fedele e l’ho lasciato dire dal figlio diletto. È Satana. Se Satana non si fosse incarnato, l’eterno scimmiottatore di Dio, in una carne mortale, questo posseduto non avrebbe potuto sfuggire al mio potere di Gesù. Ho detto: “posseduto”. No. È molto di più: è un annullato in Satana». «Perché, Tu che hai cacciato i demoni, non lo hai liberato?», chiede Giacomo d’Alfeo. «Lo chiedi per amore di te, temendo essere tu quello? Non lo temere». «Io, allora?». «Io?». «Io?». «Tacete. Non dico quel nome. Uso misericordia e voi fate ugualmente». «Ma perché non lo hai vinto? Non potevi?». «Potevo. Ma, per impedire a Satana di incarnarsi per uccidermi, avrei dovuto sterminare la razza dell’uomo avanti la Redenzione. Che avrei allora redento?». «Dimmelo, Signore, dimmelo! ». Pietro è scivolato in ginocchio e scuote freneticamente Gesù come fosse in preda a delirio. «Sono io? Sono io? Mi esamino? Non mi pare. Ma Tu… Tu hai detto che ti rinnegherò… Ed io tremo… Oh! che orrore essere io!…». «No, Simone di Giona. Non tu». «Perché mi hai levato il mio nome di “Pietra”? Sono dunque tornato Simone? Lo vedi? Tu lo dici! … Sono io! Ma come ho potuto? Ditelo… ditelo voi… Quando è che ho potuto divenire traditore?… Simone?… Giovanni?… Ma parlate!…». «Pietro, Pietro, Pietro! Ti chiamo Simone perché penso al primo incontro, quando eri Simone. E penso come sei sempre stato leale dal primo momento. Non sei tu. Lo dico Io: Verità». «Chi, allora?». «Ma è Giuda di Keriot! Non lo hai ancora capito?», urla il Taddeo che non riesce più a contenersi. «Perché non me lo hai detto prima? Perché?», urla anche Pietro. «Silenzio. È Satana. Non ha altro nome. Dove vai, Pietro?». «A cercarlo». «Posa subito quel mantello e quell’arma. O ti devo scacciare e maledire?». «No, no! Oh! Signor mio! Ma io… ma io… Sono forse malato di delirio, io? Oh! Oh!». Pietro piange, gettato per terra ai piedi di Gesù.
33 «Io vi do comando di amarvi. E di perdonare. Avete capito? Se anche nel mondo è l’odio, in voi sia solo l’amore. Per tutti. Quanti traditori troverete sulla vostra via! Ma non li dovete odiare e rendere loro male per male. Altrimenti il Padre odierà voi. Prima di voi fui odiato e tradito Io. Eppure, voi lo vedete, Io non odio. Il mondo non può amare ciò che non è come esso. Perciò non vi amerà. Se foste suoi, vi amerebbe; ma non siete del mondo, avendovi Io presi da mezzo al mondo. E per questo siete odiati. Vi ho detto: il servo non è da più del padrone. Se hanno perseguitato Me, perseguiteranno voi pure. Se avranno ascoltato Me, ascolteranno pure voi. Ma tutto faranno per causa del mio Nome, perché non conoscono, non vogliono conoscere Colui che mi ha mandato. Se non fossi venuto e non avessi parlato, non sarebbero colpevoli. Ma ora il loro peccato è senza scusa. Hanno visto le mie opere, udito le mie parole, eppure mi hanno odiato, e con Me il Padre. Perché Io e il Padre siamo una sola Unità con l’Amore. Ma era scritto: (Salmi 35, 19; 69, 5) “Mi odiasti senza ragione”. Però, quando sarà venuto il Consolatore, lo Spirito di verità che dal Padre procede, sarà da Lui resa testimonianza di Me, e voi pure mi testimonierete, perché dal principio foste con Me. Questo vi dico perché, quando sarà l’ora, non rimaniate accasciati e scandalizzati. Sta per venire il tempo in cui vi cacceranno dalle sinagoghe e in cui chi vi ucciderà penserà di fare culto a Dio con ciò. Non hanno conosciuto né il Padre né Me. In ciò è la loro scusante. Non ve le ho dette così ampie prima di ora, queste cose, perché eravate come bambini pur mo’ nati. Ma ora la madre vi lascia. Io vado. Dovete assuefarvi ad altro cibo. Voglio lo conosciate.
34 Nessuno più mi chiede: “Dove vai?”. La tristezza vi fa muti. Eppure è bene anche per voi che Io me ne vada. Altrimenti non verrà il Consolatore. Io ve lo manderò. E quando sarà venuto, attraverso la sapienza e la parola, le opere e l’eroismo che infonderà in voi, convincerà il mondo del suo peccato deicida e di giustizia sulla mia santità. E il mondo sarà nettamente diviso nei reprobi, nemici di Dio, e nei credenti. Questi saranno più o meno santi, a seconda del loro volere. Ma il giudizio del principe del mondo e dei suoi servi sarà fatto. Di più non posso dirvi, perché ancora non potete intendere. Ma Egli, il divino Paraclito, vi darà la Verità intera, perché non parlerà di Se stesso. Ma dirà tutto quello che avrà udito dalla Mente di Dio e vi annunzierà il futuro. Prenderà ciò che da Me viene, ossia ciò che ancora è del Padre, e ve lo dirà. Ancora un poco da vedersi. Poi non mi vedrete più. E poi ancora un poco, e poi mi vedrete.
35 Voi mormorate fra voi ed in cuor vostro. Udite una parabola. L’ultima del vostro Maestro. Quando una donna ha concepito e giunge all’ora del parto, è in grande afflizione perché soffre e geme. Ma quando il piccolo figlio è dato alla luce ed ella lo stringe sul cuore, ogni pena cessa e la tristezza si muta in gioia, perché un uomo è venuto al mondo. Così voi. Voi piangerete e il mondo riderà di voi. Ma poi la vostra tristezza si muterà in gioia. Una gioia che il mondo mai conoscerà. Voi ora siete tristi. Ma, quando mi rivedrete, il vostro cuore diverrà pieno di un gaudio che nessuno avrà più potere di rapirvi. Una gioia così piena che vi offuscherà ogni bisogno di chiedere e per la mente e per il cuore e per la carne. Solo vi pascerete di rivedermi, dimenticando ogni altra cosa. Ma proprio da allora potrete tutto chiedere in mio Nome, e vi sarà dato dal Padre perché abbiate sempre più gioia. Domandate, domandate. E riceverete. Viene l’ora in cui potrò parlarvi apertamente del Padre. Sarà perché sarete stati fedeli nella prova e tutto sarà superato. Perfetto quindi il vostro amore, perché vi avrà dato forza nella prova. E quanto a voi mancherà Io ve lo aggiungerò prendendolo dal mio immenso tesoro e dicendo: “Padre, lo vedi. Essi mi hanno amato credendo che Io venni da Te”. Sceso nel mondo, ora lo lascio e vado al Padre, e pregherò per voi».
36 «Oh! ora Tu ti spieghi. Ora sappiamo ciò che vuoi dire e che Tu sai tutto e rispondi senza che nessuno ti interroghi. Veramente Tu vieni da Dio! ». «Adesso credete? All’ultima ora? È tre anni che vi parlo! Ma già in voi opera il Pane che è Dio e il Vino che è Sangue non venuto da uomo, e vi dà il primo brivido di deificazione. Voi diverrete dèi se sarete perseveranti nel mio amore e nel mio possesso. Non come lo disse Satana ad Adamo ed Eva, ma come Io ve lo dico. È il vero frutto dell’albero del Bene e della Vita. Il Male è vinto in chi se ne pasce, ed è morta la Morte. Chi ne mangia vivrà in eterno e diverrà “dio” nel Regno di Dio. Voi sarete dèi se permarrete in Me. Eppure ecco… pur avendo in voi questo Pane e questo Sangue, poiché sta venendo l’ora in cui sarete dispersi, voi ve ne andrete per vostro conto e mi lascerete solo… Ma non sono solo. Ho il Padre con Me. Padre, Padre! Non mi abbandonare! Tutto vi ho detto… Per darvi pace. La mia pace. Ancora sarete oppressi. Ma abbiate fede. Io ho vinto il mondo».
37 Gesù si alza, apre le braccia in croce e dice con volto luminoso la sublime preghiera al Padre. Giovanni la riporta integralmente. (Nel suo Vangelo: Giovanni 17). Gli apostoli lacrimano più o meno palesemente e rumorosamente. Per ultimo cantano un inno.
38 Gesù li benedice. Poi ordina: «Mettiamoci i mantelli, ora. E andiamo. Andrea, di’ al capo di casa di lasciare tutto così, per mio volere. Domani… vi farà piacere rivedere questo luogo». Gesù lo guarda. Pare benedire le pareti, i mobili, tutto. Poi si ammantella e si avvia, seguito dai discepoli. Al suo fianco è Giovanni, al quale si appoggia. «Non saluti la Madre?», gli chiede il figlio di Zebedeo. «No. È tutto già fatto. Fate, anzi, piano». Simone, che ha acceso una torcia alla lumiera, illumina l’ampio corridoio che va alla porta. Pietro apre cauto il portone ed escono tutti nella via e poi, facendo giocare un ordigno, chiudono dal di fuori. E si pongono in cammino.
39 Dice Gesù: «Dall’episodio della Cena, oltre la considerazione della carità di un Dio che si fa Cibo agli uomini, risaltano quattro ammaestramenti principali. Primo: la necessità per tutti i figli di Dio di ubbidire alla Legge. La Legge diceva che si doveva per Pasqua consumare l’agnello secondo il rituale dato dall’Altissimo a Mosè, ed Io, Figlio vero del Dio vero, non mi sono riputato, per la mia qualità divina, esente dalla Legge. Ero sulla Terra: Uomo fra gli uomini e Maestro degli uomini. Dovevo perciò fare il mio dovere di uomo verso Dio come e meglio degli altri. I favori divini non esimono dall’ubbidienza e dallo sforzo verso una sempre maggiore santità. Se paragonate la santità più eccelsa alla perfezione divina, la trovate sempre piena di mende, e perciò obbligata a sforzare se stessa per eliminarle e raggiungere un grado di perfezione per quanto più è possibile simile a quello di Dio.
40 Secondo: la potenza della preghiera di Maria. Io ero Dio fatto Carne. Una Carne che, per essere senza macchia, possedeva la forza spirituale per signoreggiare la carne. Eppure non ricuso, anzi invoco l’aiuto della Piena di Grazia, la quale anche in quell’ora di espiazione avrebbe trovato, è vero, sul suo capo il Cielo chiuso, ma non tanto che non riuscisse a strapparne un angelo, Lei, Regina degli angeli, per il conforto del suo Figlio. Oh! non per Lei, povera Mamma! Anche Lei ha assaporato l’amaro dell’abbandono del Padre, ma per questo suo dolore offerto alla Redenzione m’ha ottenuto di potere superare l’angoscia dell’orto degli Ulivi e di portare a termine la Passione in tutta la sua multiforme asprezza, di cui ognuna era volta a lavare una forma e un mezzo di peccato.
41 Terzo: il dominio su se stessi e la sopportazione dell’offesa, carità sublime su tutte, la possono avere unicamente quelli che fanno vita della loro vita la legge di carità che Io avevo bandita. E non bandita solo, ma praticata realmente. Cosa sia stato per Me aver meco alla mia tavola il mio Traditore, il dovere darmi ad esso, il dovere umiliarmi ad esso, il dovere dividere con esso il calice di rito e posare le labbra là dove egli le aveva posate, e farle posare a mia Madre, voi non potete pensare. I vostri medici hanno discusso e discutono sulla mia rapida fine e le dànno origine in una lesione cardiaca dovuta alle percosse della flagellazione. Sì, anche per queste il mio cuore divenne malato. Ma lo era già dalla Cena. Spezzato, spezzato nello sforzo di dover subire al mio fianco il mio Traditore. Ho cominciato a morire allora, fisicamente. Il resto non è stato che aumento della già esistente agonia. Quanto ho potuto fare l’ho fatto perché ero uno con la Carità. Anche nell’ora in cui Dio-Carità si ritirava da Me, ho saputo esser carità, perché ero vissuto, nei miei trentatré anni, di carità. Non si può giungere ad una perfezione, quale si richiede per perdonare e sopportare il nostro offensore, se non si ha l’abito della carità. Io l’avevo, e ho potuto perdonare e sopportare questo capolavoro di Offensore che fu Giuda.
42 Quarto: il Sacramento opera quanto più uno è degno di riceverlo. Se ne è fatto degno con una costante volontà, che spezza la carne e fa signore lo spirito, vincendo le concupiscenze, piegando l’essere alle virtù, tendendolo come arco verso la perfezione delle virtù e soprattutto della carità. Perché, quando uno ama, tende a far lieto chi ama. Giovanni, che mi amava come nessuno e che era puro, ebbe dal Sacramento il massimo della trasformazione. Cominciò da quel momento ad essere l’aquila, a cui è familiare e facile l’altezza nel Cielo di Dio e l’affissare il Sole eterno. Ma guai a chi riceve il Sacramento senza esserne affatto degno, ma anzi avendo accresciuto la sua sempre umana indegnità con le colpe mortali. Allora esso diviene non germe di preservazione e di vita ma di corruzione e di morte. Morte dello spirito e putrefazione della carne, per cui essa “crepa”, come dice Pietro di quella di Giuda. (Atti 1, 18). Non sparge il sangue, liquido sempre vitale e bello nella sua porpora, ma le sue interiora, nere di tutte le libidini, marciume che si riversa fuori dalla carne marcita come da carogna di animale immondo, oggetto di ribrezzo per i passanti. La morte del profanatore del Sacramento è sempre la morte di un disperato, e perciò non conosce il placido trapasso proprio di chi è in grazia, né l’eroico trapasso della vittima che soffre acutamente ma con lo sguardo fisso al Cielo e l’anima sicura della pace. La morte del disperato è atroce di contorsioni e di terrori, è una convulsione orrenda dell’anima già ghermita dalla mano di Satana, che la strozza per svellerla dalla carne e che la soffoca col suo nauseabondo fiato. Questa la differenza fra chi trapassa all’altra vita dopo essersi nutrito in essa di carità, fede, speranza e d’ogni altra virtù e dottrina celeste e del Pane angelico che l’accompagna coi suoi frutti – meglio se con la sua reale presenza – nel viaggio estremo, e chi trapassa dopo una vita di bruto con morte da bruto che la Grazia e il Sacramento non confortano. La prima è la serena fine del santo, a cui la morte apre il Regno eterno. La seconda è la spaventosa caduta del dannato, che si sente precipitare nella morte eterna e conosce in un attimo ciò che ha voluto perdere, né più può riparare. Per uno acquisto, per l’altro spogliamento. Per uno gioia, per l’altro terrore. Questo è quanto vi date a seconda del vostro credere ed amare, o non credere e deridere il dono mio. E questo è l’insegnamento di questa contemplazione».
Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, noi ci affidiamo a Te!
In quel tempo, Gesù disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro». Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato».
C: Parola del Signore. A: Lode a Te o Cristo.
Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Cap. DVII. La grande disputa con i Giudei e fuga dal Tempio con l’aiuto del levita Zaccaria.
30 settembre 1946
1 Gesù entra nel Tempio con apostoli e discepoli. E alcuni apostoli, e non soltanto apostoli, gli fanno osservare che è imprudente farlo. Ma Egli risponde: «Con quale diritto potrebbero negarmi di entrarvi? Sono forse condan-nato? No, per ora ancora non lo sono. Salgo dunque all’altare di Dio come ogni israelita che teme il Signore». «Ma Tu hai intenzione di parlare…». «E non è questo il luogo dove solitamente si adunano i rabbi per parlare? Essere fuori di qui per parlare e ammaestrare è l’eccezione, e può rappresentare il riposo preso da un rabbi, o una necessità personale. Ma il luogo dove ognuno ama tenere scuola ai discepoli è questo. Non vedete intorno ai rabbi gente di ogni nazionalità, che si accosta a sentire almeno una volta i celebri rabbi? Se non altro per poter dire, tornando al paese natio: “Abbiamo sentito un maestro o un filosofo parlare secondo il modo d’Israele”. Maestro, per quelli che già sono o tendono d’essere ebrei; filosofo, per i gentili veri e propri. Né i rabbi sdegnano di essere ascoltati da questi ultimi, poiché sperano di farne dei proseliti Senza questa speranza, che se fosse umile sarebbe santa, essi non starebbero nel cortile dei Pagani, ma esigerebbero di parlare in quello degli Ebrei e, fosse possibile, nel Santo stesso, ché, secondo il loro giudizio verso se stessi, essi sono tanto santi che solo Dio è a loro superiore… Ed Io, Maestro, parlo dove i maestri parlano. Ma non temete! Non è ancora il momento loro. Quando sarà il momento loro, Io ve lo dirò, perché voi fortifichiate il vostro cuore». «Tu non lo dirai», dice l’Iscariota. «Perché?». «Perché non lo potrai sapere. Nessun segno te lo indicherà. Non c’è segno. Sono quasi tre anni che sono con Te e ti ho sempre visto minacciato e perseguitato. Anzi, allora eri solo. Ora hai dietro a Te il popolo che ti ama e che i farisei temono. Sei dunque più forte. Da cosa vuoi capire il momento?». «Da ciò che vedo nel cuore degli uomini». Giuda resta un attimo interdetto, poi dice: «E non lo dirai anche perché… Tu ci risparmi temendo del nostro coraggio». «Per non affliggerci tace», dice Giacomo di Zebedeo. «Anche. Ma certo non lo dirai». «Io ve lo dirò. E, finché non ve lo dirò, qualunque sia la violenza e l’odio che vedrete contro di Me, non spaventatevene. Sono senza conseguenze.
2 Andate avanti. Io resto qui ad attendere Mannaen e Marziam». A malincuore i dodici e chi è con loro vanno avanti. Gesù torna verso la porta per attendere i due, e anzi esce nella strada e piega verso l’Antonia. Dei legionari, fermi presso la fortezza, se lo additano e confabulano tra loro. Sembra ci sia come un poco di discussione, poi uno dice forte: «Io glielo chiedo», e si stacca verso Gesù. «Salve, Maestro. Parli anche oggi là dentro?». «La Luce ti illumini. Sì. Parlerò». «Allora… guardati. Uno che sa ci ha avvertito. E una che ti ammira ha ordinato di vegliare. Noi saremo presso il sotterraneo d’oriente. Ne sai l’entrata?». «Non l’ignoro. Ma è chiusa dall’una e l’altra parte». «Lo credi?». Il legionario ride di un riso breve, e nell’ombra del suo elmo gli occhi e i denti brillano facendolo più giovane. Poi saluta irrigidendosi: «Salve, Maestro. Ricordati di Quinto Felice». «Ricorderò. La Luce ti illumini». Gesù torna a camminare e il legionario torna al posto di prima e parla coi suoi commilitoni. «Maestro, abbiamo tardato? Erano tanti i lebbrosi!», dicono insieme Mannaen, vestito semplicemente di marrone scuro, e Marziam. «No. Avete fatto presto. Andiamo però. Gli altri ci attendono. Mannaen, sei stato tu che hai avvisato i romani?». «Di che, Signore? Io non ho parlato con nessuno. E non saprei… Le romane non sono in Gerusalemme». Sono di nuovo presso la porta della cinta. Come ci fosse per caso, è lì presso il levita Zaccaria. «La pace a Te, Maestro. Ti voglio dire… Io cercherò di essere sempre dove Tu sei, qui dentro. E Tu non mi perdere d’occhio. E se c’è tumulto e vedi che io vado via, cerca di seguirmi sempre. Ti odiano tanto! Io non posso fare di più… Comprendimi…». «Dio ti compensi e benedica per la pietà che hai per il suo Verbo. Farò ciò che dici. E non temere, ché nessuno saprà del tuo amore per Me». Si separano. «Forse è stato lui a dire ai romani. Stando lì dentro, avrà saputo…», sussurra Mannaen.
3 Vanno a pregare, passando fra la gente che li guarda con sentimenti diversi e che si riunisce poi dietro a Gesù quando, finita la preghiera, Egli torna via dal cortile degli Ebrei. Fuori della seconda cinta Gesù fa per fermarsi, ma viene circondato da un gruppo misto di scribi, farisei e sacerdoti. Uno dei magistrati del Tempio parla per tutti. «Sei qui ancora? Non capisci che non ti vogliamo? Neppure temi il pericolo che qui ti incombe? Vattene. È già molto se ti lasciamo entrare per pregare. Non ti permettiamo più di insegnare le tue dottrine». «Sì. Vattene. Vattene, bestemmiatore!». «Sì. Me ne vado come voi volete. E non solo fuor da queste mura. Me ne andrò, sto già andando, più lontano, dove più non mi potete raggiungere. E verranno ore in cui mi cercherete anche voi, e non più per perseguitarmi soltanto, ma anche per un superstizioso terrore di esser percossi per avermi cacciato, per un ansia superstiziosa di essere perdonati del vostro peccato per ottenere misericordia. Ma Io ve lo dico. Questa è l’ora della misericordia. Questa è l’ora di farsi amico l’Altissimo. Passata questa, sarà inutile ogni riparo. Non mi avrete più e morirete nel vostro peccato. Percorreste anche tutta la Terra e riusciste a raggiungere gli astri e i pianeti, non mi trovereste più, perché dove Io vado voi non potete venire. Ve l’ho già detto. Dio viene e passa. Chi è sapiente lo accoglie coi suoi doni nel suo passaggio. Chi è stolto lo lascia andare e non lo ritrova mai più. Voi siete di quaggiù. Io sono di lassù. Voi siete di questo mondo. Io non sono di questo mondo. Perciò, una volta che Io sia tornato nella dimora del Padre mio, fuori di questo vostro mondo, non mi troverete più e morirete nei vostri peccati, perché neppure saprete raggiungermi spiritualmente con la fede». «Ti vuoi uccidere, insatanassato? Certo che allora, nell’Inferno dove scendono i violenti, noi non potremo venire a raggiungerti, ché l’Inferno è dei dannati, dei maledetti, e noi siamo i benedetti figli dell’Altissimo», dicono alcuni. E altri approvano dicendo: «Certo si vuole uccidere, perché dice che dove va noi non potremo andare. Comprende di essere scoperto e di aver fallito la prova, e si sopprime senza attendere di essere soppresso come l’altro galileo falso Cristo». E altri, benevoli: «E se fosse invece proprio il Cristo e tornasse proprio a Colui che lo ha mandato?». «Dove? In Cielo? Non vi è Abramo e vuoi che Egli ci vada? Prima deve venire il Messia». «Ma Elia fu rapito al Cielo su un carro di fuoco». «Su un carro, sì. Ma al Cielo!… Chi lo assicura?». E il contrasto dura mentre farisei, scribi, magistrati, sacerdoti, giudei servili ai sacerdoti, scribi e farisei, incalzano il Cristo per i vasti porticati come una muta di cani incalza la selvaggina scovata.
4 Ma alcuni, i buoni fra la massa ostile, quelli veramente mossi da desiderio onesto, si fanno largo sino a raggiungere Gesù e gli fanno l’ansiosa domanda, già tante volte sentita fare o con amore o con odio: «Chi sei Tu? Diccelo, perché noi si sappia regolarsi. Dì la verità in nome dell’Altissimo!». «Io sono la Verità stessa e non uso mai menzogna. Io sono quello che vi ho dichiarato sempre d’essere dal primo giorno che ho parlato alle turbe, in ogni luogo della Palestina, quello che ho detto d’essere qui, più volte, presso il Santo dei santi, del quale non temo le folgori perché Io dico la verità. Ho molte cose ancora da dire e da giudicare nel mio giorno e a riguardo di questo popolo e, per quanto paia già prossima per Me la sera, Io so che le dirò e giudicherò tutti, perché così mi ha promesso Colui che mi ha mandato e che è verace. Egli ha parlato con Me in un eterno amplesso d’amore, dicendomi tutto il suo Pensiero, perché Io lo potessi dire con la mia Parola al mondo, e non potrò tacermi, né alcuno potrà farmi tacere sino a che Io avrò annunziato al mondo tutto quanto ho sentito dal Padre mio». «E ancora bestemmi? E continui a dirti Figlio di Dio? Ma chi vuoi che ti creda? Chi vuoi che vede in Te il Figlio di Dio?», gli gestiscono i nemici quasi coi pugni sul viso, fatti stravolti dall’odio. Apostoli, discepoli e bene intenzionati li respingono, facendo come una barriera di protezione al Maestro. Il levita Zaccaria si insinua piano piano, con mosse attente e volte a non attirare l’attenzione degli energumeni, presso Gesù, vicino a Mannaen e ai due figli di Alfeo.
5 Sono ormai al termine del portico dei Pagani, perché l’andare è lento fra le correnti contrarie, e Gesù si ferma al suo solito posto, all’ultima colonna del lato orientale. Si ferma. Dal luogo dove stanno anche i pagani non possono cacciare un vero israelita, a meno di non eccitare la folla. Cosa che i subdoli evitano di fare. E di lì riprende a parlare, rispondendo ai suoi offensori e a tutti con essi: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo…». Urlano i farisei e scribi: «E chi vuoi che ti innalzi? Misero quel paese che ha per re un ciarlatore folle e un bestemmiatore inviso a Dio. Nessuno di noi ti innalzerà, stanne certo. E quel resto di lume che ti rimane te lo ha fatto capire in tempo quando fosti tentato. Tu lo sai che non potremo mai farti nostro re!». «Lo so. Non mi innalzerete su un trono, eppure mi innalzerete. E crederete di abbassarmi innalzandomi. Ma proprio quando crederete di avermi abbassato, sarò innalzato. Non soltanto sulla Palestina, non soltanto su tutto Israele sparso nel mondo, ma su tutto il mondo, e persino sulle nazioni pagane, persino su quei luoghi che ancora i dotti del mondo ignorano. E lo sarò non per una vita d’uomo, ma per tutta la vita della Terra, e sempre più l’ombra del padiglione del mio trono si espanderà sulla Terra finché tutta la coprirà. Solo allora tornerò e mi vedrete. Oh! mi vedrete!». «Ma udite che discorsi da folle! Lo innalzeremo abbassandolo e lo abbasseremo alzandolo! Un pazzo! Un pazzo! E l’ombra del suo trono su tutta la Terra! Più grande di Ciro! Più di Alessandro! Più di Cesare! Dove lo metti Cesare? Credi che ti lasci prendere l’impero di Roma? E durerà sul trono per tutto il tempo del mondo! Ah Ah! Ah!». Sono schiaffeggianti, peggio, staffilanti nella loro ironia più di un flagello.
6 Ma Gesù li lascia dire. Alza la voce per essere inteso nel clamore di chi deride e di chi difende, e che empie il luogo col rumore di un mare inquieto. «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora comprenderete Chi sono e che da Me nulla faccio, ma dico ciò che mio Padre mi ha insegnato e faccio ciò che Egli vuole. Né già Colui che mi ha mandato mi lascia solo, ma è meco. Così come l’ombra segue il corpo, altrettanto dietro Me, vegliante, presente se pur invisibile, è il Padre. È dietro di Me e mi conforta e aiuta e non si allontana, perché Io faccio sempre ciò che a Lui piace. Dio si allontana invece quando i suoi figli non ubbidiscono alle sue leggi e alle sue ispirazioni. Allora se ne va e li lascia soli. Per questo molti in Israele peccano. Perché l’uomo lasciato a se stesso difficilmente si conserva giusto e facilmente cade fra le spire del Serpente. E in verità, in verità vi dico che, per il vostro peccato di resistenza alla Luce e alla Misericordia di Dio, Dio si allontana da voi e lascerà vuoto di Sé questo luogo e i vostri cuori, e ciò che pianse Geremia nelle sue profezie e nelle sue lamentazioni si compirà esattamente. Meditate quelle parole profetiche e tremate (parole che sono in quasi tutto il libro di Geremia e in quello delle Lamentazioni, attribuito allo stesso profeta). Tremate e rientrate in voi stessi con spirito buono. Sentite non le minacce, ma ancora la bontà del Padre che avverte i suoi figli mentre ancora è loro concesso di riparare e salvarsi. Sentite Dio nelle parole e nei fatti e, se non volete credere alle mie parole, perché il vecchio Israele vi soffoca, credete almeno al vecchio Israele. In esso gridano i profeti i pericoli e le sciagure della Città Santa e di tutta la Patria nostra, se non si converte al Signore Iddio suo e non segue il Salvatore. Su questo popolo già pesò la mano di Dio nei secoli passati. Ma nulla sarà il passato e il presente rispetto al tremendo futuro che lo aspetta per non aver voluto accogliere il Mandato da Dio. Né in rigore, né in durata è paragonabile ciò che attende Israele che ripudia il Cristo. Io ve lo dico, spingendo lo sguardo nei secoli: come pianta stroncata e gettata su un turbinoso fiume, così sarà la razza ebraica colpita da anatema divino. Tenace, cercherà di fermarsi sulle rive, in questo o in quel punto, e rigogliosa come è getterà polloni e radici. Ma quando crederà di essersi messa a dimora, la riprenderà la violenza della fiumana e la strapperà ancora, la spezzerà nelle radici e nei polloni, ed essa andrà più là, a soffrire, per abbarbicarsi, per essere di nuovo strappata e dispersa. E nulla potrà darle pace, perché la fiumana che incalza sarà l’ira di Dio e lo sprezzo dei popoli. Solo gettandosi in un mare di Sangue vivo e santificante potrebbe trovare pace. Ma essa fuggirà quel Sangue perché, nonostante che esso avrà ancora voci d’invito per essa, sembrerà ad essa che abbia la voce del sangue d’Abele verso essa: Caino dell’Abele celeste». Altro vasto brusio che si propaga per il vasto recinto come rumore d’onde. Ma mancano in questo brusio le voci aspre dei farisei e scribi, e dei giudei a loro asserviti. Gesù ne approfitta per tentare di andarsene.
7 Ma alcuni che erano lontani si accostano a Lui e gli dicono: «Maestro, ascoltaci. Non tutti noi siamo come essi (e accennano i nemici), ma però facciamo fatica a seguirti, anche perché la tua voce è sola contro cento e mille che dicono il contrario di ciò che Tu dici. E sono le cose che dicono essi, quelle che abbiamo sentito dai padri nostri sino dall’infanzia. Però le tue parole ci inducono a credere. Ma come faremo a credere completamente e ad avere vita? Noi siamo come legati dal pensiero del passato…». «Se vi stabilirete nella mia Parola come se rinasceste ora, crederete completamente e diverrete miei discepoli. Ma occorre che vi spogliate del passato e accettiate la mia dottrina. Essa non cancella tutto il passato. Anzi, mantiene e rinvigorisce ciò che è santo e soprannaturale del passato, e leva il superfluo umano mettendo la perfezione della mia dottrina là dove ora sono le dottrine umane sempre imperfette. Se venite a Me conoscerete la Verità, e la Verità vi farà liberi». «Maestro, è vero che ti abbiamo detto che siamo come legati dal passato. Ma questo legame non è prigionia né schiavitù. Noi siamo posterità di Abramo. Nelle cose dello spirito. Perché la posterità di Abramo, se non siamo in errore, è detta per dire posterità spirituale contrapposta a quella di Agar, che è posterità di schiavi. Come dunque puoi dire che diverremo liberi?». «Era posterità di Abramo anche Ismaele ed i figli di lui, ve lo faccio notare. Perché Abramo fu padre e di Isacco e di Ismaele». «Ma impura, perché figlio di donna schiava ed egizia». «In verità, in verità vi dico: non vi è che una schiavitù, quella del peccato. Soltanto chi commette peccato è uno schiavo. E di una schiavitù che nessuna moneta riscatta. E verso un padrone inesorabile e crudele. E perdente ogni diritto alla libera sovranità nel Regno dei Cieli. Lo schiavo, l’uomo che una guerra o delle sciagure hanno fatto schiavo, può cadere anche in possesso di un buon padrone. Ma è sempre precario il suo benestare, perché il padrone lo può vendere ad altro padrone crudele. Egli è una merce e nulla più. Talora serve anche come moneta per saldare un debito. E non ha neppure il diritto di piangere. Il servo invece vive nella casa del padrone finché esso non lo licenzia. Ma il figlio resta sempre nella casa del padre, né il padre pensa a cacciarlo. Soltanto per sua libera volontà ne può uscire. E in questo stà la differenza fra schiavitù e servitù e figliolanza. La schiavitù mette l’uomo in catene. La servitù lo mette a servizio di un padrone. La figliolanza lo colloca per sempre, e con parità di vita, nella casa del padre. La schiavitù annichila l’uomo. La servitù lo rende soggetto. La figliolanza lo fa libero e felice. Il peccato fa l’uomo schiavo del padrone più crudele e senza termine: Satana. La servitù, in questo caso l’antica Legge, fa l’uomo timoroso di Dio come di un essere intransigente. La figliolanza, ossia il venire a Dio insieme al suo Primogenito, con Me, fa l’uomo libero e felice, che conosce la fiducia nella carità del Padre suo. Accettare la mia dottrina è venire a Dio insieme a Me, primogenito di molti figli diletti. Io spezzerò le vostre catene sol che voi veniate a Me perché le spezzi, e sarete veramente liberi e coeredi con Me del Regno dei Cieli.
8 Lo so che siete posterità di Abramo. Ma chi fra di voi cerca di farmi morire non onora più Abramo ma Satana, e lo serve da schiavo fedele. Perché? Perché respinge la mia Parola, ed essa non può penetrare in molti di voi. Dio non violenta l’uomo a credere. Non lo violenta ad accettarmi. Ma mi manda perché Io vi indichi la sua volontà. Ed Io vi dico quello che ho veduto e udito presso il Padre mio. E faccio ciò che Egli vuole. Ma quelli fra voi che mi perseguitano fanno quello che hanno imparato dal padre loro e quello che egli suggerisce». Come un parossismo che risorge dopo una sosta del male, l’ira dei giudei, farisei e scribi, che pareva calmata alquanto, si ridesta violenta. Si insinuano come un cuneo nel cerchio compatto che stringe Gesù e cercano avvicinarlo. La folla ha un ondeggiare di marosi contrari, come sono contrari i sentimenti dei cuori. Urlano i giudei lividi d’ira e di odio: «Il padre nostro è Abramo. Non abbiamo nessun altro padre». «Il padre degli uomini è Dio. Abramo stesso è figlio del Padre universale. Ma molti ripudiano il Padre vero per uno che padre non è, ma che essi eleggono tale perché sembra più potente e pronto ad accontentarli nei loro desideri smodati. I figli fanno le opere che vedono fare dal padre loro. Se siete figli di Abramo perché non fate le opere di Abramo? Non le conoscete? Ve le devo enumerare come natura e come simbolo? Abramo ubbidì andando nel paese che Dio gli indicò, figura dell’uomo che deve essere pronto a lasciare tutto per andare dove Dio lo manda. Abramo fu condiscendente col figlio di suo fratello e gli lasciò scegliere la regione preferita, figura del rispetto alla libertà d’azione e della carità che si deve avere per il prossimo nostro. Abramo fu umile dopo la predilezione di Dio e l’onorò in Mambre sentendosi sempre un nulla rispetto all’Altissimo che gli aveva parlato, figura della posizione di amore reverenziale che l’uomo deve sempre tenere verso il suo Dio. Abramo credette ed ubbidì a Dio anche nelle cose più difficili a credersi e penose a compiersi, e per sentirsi sicuro non si fece egoista, ma pregò per quei di Sodoma. Abramo non patteggiò col Signore volendo premio per le sue molte ubbidienze, ma anzi per onorarlo sino alla fine, al termine massimo gli sacrificò il figlio diletto…». «Non lo sacrificò». «Gli sacrificò il figlio diletto, perché in verità il suo cuore aveva già sacrificato, durante il tragitto, con la sua volontà di ubbidienza, arrestata dall’angelo quando già il cuore del padre si fendeva nel procinto di fendere il cuore del figlio. Uccideva il figlio per onorare Dio. Voi uccidete a Dio il Figlio per onorare Satana. Fate voi allora le opere di chi dite vostro padre? No, non le fate. Voi cercate di uccidere Me perché vi dico la verità così come l’ho udita da Dio. Abramo non faceva così. Non cercava di uccidere la voce che veniva dal Cielo, ma la ubbidiva. No, voi non fate le opere di Abramo, ma quelle che vi indica il padre vostro».
9 «Non siamo nati da una prostituta. Bastardi non siamo. Tu lo hai detto, Tu stesso, che il Padre degli uomini è Dio; e noi, poi, siamo del Popolo eletto, e delle caste elette fra questo Popolo. Perciò abbiamo Dio per unico Padre». «Se riconosceste Dio per Padre in spirito e in verità mi amereste, perché Io procedo e vengo da Dio; non vengo già da Me stesso, ma è Lui che mi ha mandato. Perciò, se veramente conosceste il Padre, conoscereste anche Me, suo Figlio e vostro fratello e Salvatore. Possono i fratelli non riconoscersi? Possono i figli di Un solo non conoscere il linguaggio che si parla nella Casa dell’unico Padre? Perché allora non capite il mio linguaggio e non tollerate le mie parole? Perché Io vengo da Dio e voi no. Voi avete lasciato la dimora paterna e dimenticato il volto e il linguaggio di Colui che l’abita. Siete andati volontariamente in altre regioni, in altre dimore, dove regna un altro che Dio non è, e dove si parla altro idioma. E chi vi regna impone che per entrarvi uno si faccia suo figlio e l’ubbidisca. E voi lo avete fatto e lo fate. Voi abiurate, rinnegate il Padre Iddio per scegliervi un altro padre. E questo è Satana. Voi avete a padre il demonio, e volete compiere ciò che egli vi suggerisce. E i desideri del demonio sono di peccato e di violenza, e voi li accogliete. Fin dal principio egli era omicida, e non perseverò nella verità perché egli, che si ribellò alla Verità, non può avere in sé amore alla verità. Quando egli parla, parla come egli è, ossia da bugiardo e tenebroso, perché in verità egli è bugiardo e ha generato e partorito la menzogna dopo essersi fecondato con la superbia e nutrito con la ribellione. Tutta la concupiscenza è nel suo seno, ed egli la sputa e la inocula ad avvelenare le creature. È il tenebroso, lo schernitore, lo strisciante rettile maledetto, è l’Obbrobrio e l’Orrore. Da secoli e secoli le sue opere tormentano l’uomo, e i segni e i frutti di esse sono davanti agli intelletti degli uomini. Eppure a lui, che mente e rovina, date ascolto, mentre, se Io parlo e dico ciò che è vero ed è buono, non mi credete e mi dite peccatore. Ma chi fra i tanti che mi hanno avvicinato, con odio o con amore, può dire di avermi visto peccare? Chi lo può dire con verità? Dove le prove per convincere Me e chi crede in Me che Io sono peccatore? A quale dei dieci comandamenti ho mancato? Chi davanti all’altare di Dio può giurare di avermi visto violare la Legge e le consuetudini, i precetti, le tradizioni, le preghiere? Chi fra tutti gli uomini potrà farmi mutare nel volto per essere, con prove sicure, convinto di peccato? Nessuno può fare questo. Nessuno fra gli uomini e nessuno fra gli angeli. Dio nel cuore degli uomini grida: “Egli è l’Innocente”. Di questo tutti ne siete convinti, e ancor più voi che mi accusate, di questi altri che sono incerti su chi fra Me e voi ha ragione. Ma soltanto chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Voi non le ascoltate per quanto esse rimbombino nelle vostre anime notte e giorno, e non le ascoltate perché non siete da Dio».
10«Noi, noi che viviamo per la Legge e nella più minuta osservanza dei precetti per onorare l’Altissimo, non siamo ha Dio? E Tu osi dirlo? Ah!!». Sembrano asfissiare dall’orrore come fosse un capestro. «E non dobbiamo dire che sei un indemoniato e un samaritano?». «Non sono né l’uno né l’altro, ma onoro il Padre mio, anche se voi lo negate per vituperarmi. Ma il vostro vituperio non mi addolora. Non cerco la mia gloria. Vi è chi ne prende cura e giudica. Questo dico a voi che mi volete avvilire. Ma a chi ha volontà buona dico che chi accoglierà la mia parola, o già l’ha accolta, e la saprà custodire, non vedrà mai la morte in eterno». «Ah! ora ben vediamo che per le tue labbra parla il demonio che ti possiede! Tu stesso lo hai detto: “Egli parla da bugiardo”. Ciò che Tu hai detto è parola di menzogna, perciò è parola demoniaca. Abramo è morto e morti sono i profeti. E Tu dici che chi custodisce la tua parola non vedrà mai la morte in eterno. Tu dunque non morirai?». «Io non morrò che come Uomo, per risorgere nel tempo di Grazia, ma come Verbo non morrò. La Parola è Vita e non muore. E chi accoglie la Parola ha in sé la Vita e non muore in eterno, ma risorge in Dio perché Io lo risusciterò». «Bestemmiatore! Folle! Demonio! Sei più del nostro padre Abramo, che è morto, e dei profeti? Chi pretendi di essere?». «Il Principio che vi parlo». Succede un pandemonio. E, mentre avviene, il levita Zaccaria spinge Gesù insensibilmente in un angolo del portico, aiutato in ciò dai figli di Alfeo e da altri che forse lo coadiuvano senza neppur sapere bene ciò che fanno.
11Quando Gesù è ben addossato al muro e con la protezione dei più fedeli davanti a Lui, e un poco si quieta il tumulto anche nel cortile, Egli dice con la sua voce così incisiva e bella, calma anche nei momenti più turbati: «Se Io mi glorifico da Me stesso, non ha valore la mia gloria. Ognuno può dire di sé ciò che vuole. Ma chi mi glorifica è il Padre mio che voi dite essere il vostro Dio, sebbene sia tanto poco vostro che voi non lo conoscete e non lo avete mai conosciuto né lo volete conoscere attraverso Me che ve ne parlo, perché Io lo conosco; e se dicessi di non conoscerlo per calmare il vostro odio verso di Me, sarei un mentitore come lo siete voi dicendo di conoscerlo. Io so che non devo mentire per nessuna ragione. Il Figlio dell’uomo non deve mentire, anche se dire la verità sarà cagione della sua morte. Perché, se il Figlio dell’uomo mentisse, non sarebbe più veramente Figlio della Verità, e la Verità lo respingerebbe da Sé. Io conosco Iddio, e come Dio e come Uomo. E come Dio e come Uomo conservo le sue parole e le osservo. Israele, rifletti! Qui è che si compie la promessa. In Me si compie. Riconoscimi per ciò che Io sono! Abramo vostro padre sospirò di vedere il mio giorno. Lo vide, profeticamente, per una grazia di Dio, e ne tripudiò. E voi che in verità lo vivete…». «Ma taci! Non hai ancora cinquanta anni e vuoi dire che Abramo ti ha veduto e Tu lo hai visto?», e la loro risata di scherno si propaga come un’onda di veleno e di acido che corrode. «In verità, in verità Io ve lo dico: prima che Abramo nascesse, Io sono». «”Io sono”? Solo Dio lo può dire che è, perché è eterno. Non Tu! Bestemmiatore! “Io sono”! Anatema! Sei forse Dio, Tu, per dirlo?», gli urla uno che deve essere un gran personaggio perché, sopraggiunto da poco, è già vicino a Gesù, dato che tutti si scansano quasi con terrore al suo venire. «Lo hai detto», risponde Gesù con voce tonante. Tutto diventa arma in mano di chi odia. Mentre l’ultimo che ha interrogato il Maestro si abbandona a tutta una mimica di scandalizzato orrore e si strappa dal capo il copricapo, si scompiglia capelli e barba e si slaccia le fibbie che tengono la veste al collo, come se si sentisse mancare dall’orrore, manciate di terra, e sassi, usati dai venditori di colombi e altre bestie per tenere tesi le funi dei recinti, e dai cambiavalute per… prudenziale tutela dei loro cofani di cui sono gelosi più della loro vita, vengono scagliati contro il Maestro, e naturalmente ricadono sulla folla stessa, perché Gesù è troppo in dentro, sotto il porticato, perché sia colpito, e la folla impreca e si lamenta…
12Zaccaria, il levita, dà un potente urto a Gesù, unico mezzo per fargli raggiungere una porticina bassa, celata nella muraglia del portico e già preparata ad aprirsi, e ve lo spinge insieme a i due figli di Alfeo, a Giovanni, Mannaen, Tommaso. Gli altri restano fuori, nel tumulto… E il rumore dello stesso giunge affievolito nel cunicolo, fra le potenti muraglie di pietre, che non so come si chiamino in architettura. Sono fatte a incastro, direi io, ossia pietre larghe e pietre più piccole, e sopra a queste più piccole le larghe e viceversa. Non so se mi spiego bene. Scure, potenti, scalpellate rudemente, appena visibili nella penombra che è prodotta da feritoie strette messe a distanza regolari nell’alto, per aerare e rendere non completamente tenebroso il luogo, che è una stretta galleria che non so a che serve, ma che mi dà l’impressione che giri per tutto il porticato. Forse era stata fatta per protezione, per ricovero, per rendere doppie, e perciò più resistenti, le muraglie dei portici che fanno come altrettante cinte al vero e proprio Tempio, al Santo dei santi. Insomma non so. Dico ciò che vedo. Odor di umido, e di quell’umido che non si sa dire se è freddo o no, come in certe cantine. «E che facciamo qui?», chiede Tommaso. «Taci! Mi ha detto Zaccaria che verrà lui, e di stare zitti e fermi», risponde il Taddeo. «Ma… c’è da fidarsi?». «Lo spero». «Non temete. L’uomo è buono», conforta Gesù. Fuori il tumulto si allontana. Passa del tempo. Poi un rumore sordo di passi e una piccola luce tremula, che viene avanti da profondità oscure. «Sei lì, Maestro?», dice una voce che vuol farsi sentire ma teme di esser sentita. «Sì, Zaccaria». «Lode a Jeovè! Mi sono fatto aspettare? Ho dovuto attendere che corressero tutti agli altri sbocchi. Vieni, Maestro… I tuoi apostoli… Sono riuscito a dire a Simone di andare tutti verso Betesda e di attendere. Di qui si scende… Poca luce. Ma via sicura. Si scende alle cisterne… e si esce verso il Cedron. Via antica. Non sempre destinata a buon uso. Ma questa volta sì… E questo la santifica…». Scendono continuamente in un’ombra rotta soltanto dalla fiammella ballonzolante del lume, finché un chiarore diverso si intravede là in fondo… e, oltre il chiarore, del verde che par lontano… Una cancellata, che è quasi una porta tanto è massiccia e fitta, termina la galleria. «Maestro ti ho salvato,. Puoi andare. Ma ascoltami. Non venire per qualche tempo. Non potrei sempre servirti senza essere notato. E… dimentica, dimenticate tutti questa via e me che vi ci ho condotto», dice Zaccaria facendo agire dei congegni che sono nella cancellata pesante e socchiudendola quel tanto che serva a lasciare uscire le persone. E ripete: «Dimenticate, per pietà di me». «Non temere. Nessuno di noi parlerà. E Dio sia con te per la tua carità». Gesù alza la mano posandola sul capo chino del giovane. Esce seguito dai cugini e dagli altri. Si trova su un piccolo spiazzo selvaggio di rovi che appena può riceverli tutti, di fronte all’Uliveto. Un sentierino da capre scende fra i rovi verso il torrente. «Andiamo. Risaliremo poi all’altezza della porta delle Pecore e Io con i fratello andrò da Giuseppe, mentre voi andrete a Betesda a prendere gli altri e mi raggiungerete. Andremo a Nobe domani sera dopo il tramonto».
Facoltativo (e dello stesso periodo della Vita di Gesù Cristo)
Cap. DVIII. Giovanni sarà la luce del Cristo fino alla fine dei tempi. Il piccolo Marziale-Manasse accolto da Giuseppe di Sefori.
7 ottobre 1966
1 La casa di Giuseppe non è quella di Giuseppe d’Arimatea, ma quella di un vecchio galileo di Sefori, amico dei figli di Alfeo e specie dei più anziani, perché era amico, forse anche un poco parente, col vecchio ormai defunto Alfeo. E, se non erro, è anche molto in relazione coi figli di Zebedeo per il commercio del pesce secco, che dal lago di Genezaret viene importato nella capitale insieme ad altri prodotti della Galilea, cari ai galilei spaesati in Gerusalemme. Così deduco dai discorsi che fanno i due figli di Alfeo e Giovanni a Tommaso. Gesù invece è un poco indietro con Mannaen, al quale dà l’incarico di andare da Giuseppe d’Arimatea e da Nicodemo pregandoli di recarsi da Lui. Cosa che Mannaen fa subito. Gesù si riunisce ancora un momento coi tre per raccomandare ancora di essere prudenti nel parlare «per amore verso il levita che li ha messi in salvo», poi si separa e a passi lunghi si dirige per una vietta…
2 Ma lo raggiunge presto Giovanni. «Perché sei venuto?». «Non potevamo lasciarti così solo… e sono venuto io». «E credi che potresti difendermi solo contro tanti?». «Non ne sono sicuro. Ma almeno morirei prima di Te. E mi basterebbe». «Morirai molto tempo dopo di Me, Giovanni. Ma non te ne rammaricare. Se l’Altissimo ti lascia nel mondo è perché tu lo serva e serva il suo Verbo». «Ma dopo…». «Dopo servirai. Quanto dovresti vivere per servirmi come i due nostri cuori vorrebbero. Ma anche dopo morto mi servirai». «Come farò, Maestro mio? Se sarò con Te in Cielo ti adorerò. Ma non potrò servirti sulla Terra quando l’avrò lasciata…». «Lo credi proprio? Ebbene Io ti dico che tu mi servirai sino alla nuova mia venuta, a quella finale. Molte cose si inaridiranno prima dell’ultimo tempo, così come fiumi che si disseccano e, da bel corso d’acqua azzurra e salutare, divengono terriccio polveroso e pietroni aridi. Ma tu sarai ancora fiume suonante la mia parola e riflettere la mia luce. Sarai la suprema luce che resta a ricordare Cristo. Perché sarai luce tutta spirituale, e gli ultimi tempi saranno lotta di tenebre contro luce, di carne contro spirito. Quelli che sapranno perseverare nella fede troveranno forza, speranza, conforto in ciò che tu lascerai dopo di te, e che sarà ancora te… e che soprattutto sarà ancora Me, perché Io e te ci amiamo, e dove tu sei Io sono, e dove Io sono tu sei. Ho promesso a Pietro che la Chiesa, che avrà a capo e a base la mia Pietra, non sarà scardinata dall’Inferno nei suoi ripetuti e sempre più feroci assalti, ma ora ti dico che ciò che sarà ancora Io, e che tu lascerai a luce per chi cerca la Luce, non sarà distrutto nonostante che l’Inferno, con ogni maniera, cercherà di annullarlo. Anzi, più! Anche coloro che crederanno in Me imperfettamente, perché pur accogliendo Me non accoglieranno il mio Pietro (Allusione ai protestanti futuri), saranno sempre accorrenti al tuo faro come navicella senza pilota e senza bussola, che si dirigono fra la loro tempesta verso una luce, perché luce vuol dire ancora salvezza». «Ma che lascerò, Signor mio? Io sono… povero… ignorante… Non ho che l’amore…». «Ecco: lascerai l’amore. E l’amore per il tuo Gesù sarà parola. E molti, molti, anche fra quelli che non saranno della mia Chiesa, che non saranno di nessuna chiesa, ma che cercheranno una luce e un conforto per aculeo dello spirito insoddisfatto, per bisogno di una compassione nelle pene, verranno a te e troveranno Me». «Vorrei che i primi a trovare Te fossero questi crudeli giudei, questi farisei e scribi… Ma non servo a tanto…». «Non entra cosa alcuna dove già è ripienezza. Ma non ti sconfortare. Tu…
3 Ma eccoci da Giuseppe. Bussa ed entriamo». È una casa stretta e alta, con a lato un fondaco basso e graveolente di mercanzie accatastate; e a fianco di questo un cortile, oscuro per le muraglie che lo sovrastano, un cortile dall’aspetto quasi di albergo, come erano allora gli alberghi: portici per le merci, stalle per i ciuchi, e stanzucce per gli ospiti o cameroni. Qui vi è un cortile selciato in mal modo, una vasca, due stalle basse e scure, una rustica tettoia che fa da portico, addossata alla casa, e con una portaccia che dà nel fondaco. Poi, oltre questo, la casa che ho detto, vecchia, scura, con una porta alta e stretta che si apre su tre gradini di pietra consunta all’uso. Giovanni bussa alla porta e attende finché uno spioncino si apre e un viso rugoso di vecchia scruta dalla penombra: «Oh! Giovanni! Apro subito. Dio sia con te», dice la bocca appartenente a quel viso rugoso, e la porta si apre con molto rumore di chiavistelli. «Non sono solo, Maria. Ho con me il Maestro». «La pace anche a Lui, onore di Galilea, e felice il giorno che porta i piedi del Santo fra le mura di un vero Israelita. Entra, Signore. Vado subito ad avvertire Giuseppe. Sta facendo le ultime consegne perché è sollecito il tramonto nel triste etamin». «Lascialo al suo lavoro, donna. Sosteremo qui sino a domani». «Grande gioia per noi. Ti attendevamo da tempo. E anche giorni or sono tuo fratello Giuseppe ha mandato a chiedere notizie di Te. Ma il mio sposo ti dirà meglio. Ecco, qui puoi sostare… E ti lascio, Signore, perché sto ultimando il pane. Prima che sia il tramonto deve esser cotto. Se vuoi cosa alcuna, Giovanni sa dove trovarmi». «Và in pace. Non ci occorre nulla fuorché di ospitarci».
4 Restano soli per qualche tempo. Poi un visetto bruno spunta da dietro una tenda che separa la stanza da un corridoio, e sbircia, timoroso e curioso insieme. «Chi è quel fanciullo?», chiede Gesù a Giovanni. «Non so, Signore. Non c’era le altre volte. Vero è che da quando sono con Te, qui, per mio padre, non sono più venuto. Vieni qui, fanciullo». Il bambino viene avanti a piccoli passi. «Chi sei?». «Non te lo dico». «Perché?». «Non voglio sentirmi dire brutte parole. Se le dici ti rispondo, e Giuseppe non vuole». «Questa è nuova! Maestro, che ne dici?», e Giovanni ride divertito delle ragioni dell’ometto. Anche Gesù sorride, ma alza la mano ad attirare a Sé il fanciullo e lo osserva. Poi dice: «E tu sai chi sono?». «Sì che lo so! Sei il Messia. Quello che farà tutto il mondo suo, e allora non si diranno più brutte parole ai bambini come me». «Non sei d’Israele, vero?». «Sono circonciso… e ha fatto molto male. Ma… ma faceva male anche la fame e… non avere più la mamma… e nessuno… Però fa male ancora sentire che si… che ci…», piange avendo perduto tutta la primitiva baldanza. «Deve essere qualche orfano straniero, Giovanni. Giuseppe lo deve aver raccolto per pietà e fatto circoncidere…», spiega Gesù a Giovanni, stupito delle ragioni e del pianto.
5 E Gesù alza il fanciullo di peso e se lo mette sulle ginocchia. «Dimmi il tuo nome, bambino. Io ti voglio bene. Gesù vuole bene a tutti i fanciulli e specie agli orfanelli. Ne ho uno anche Io che si chiama Marziam e che…». «Anche io così, perché io (la piccola voce si fa sussurro appena percettibile) perché io sono romano…». «Te lo avevo detto! E sei orfano, vero?». «Sì… Mio padre io non lo ricordo. La mamma sì. È morta che ero già grande… e sono rimasto solo, e nessuno mi voleva. Da Cesarea a piedi dietro i viandanti dopo che il padrone è tornato via, lontano. E tanta fame. E se dicevo il nome, busse… Perché si capiva dal nome, eh?! Poi sono venuto qui, per una festa, e avevo fame. Sono entrato nelle stalle con una carovana e mi sono nascosto nella paglia a mangiare le biade e carrube degli asini. E un asino mi ha morsicato e ho gridato, e sono corsi e mi volevano picchiare. Ma Giuseppe ha detto: “No. Egli lo ha fatto (in riferimento a Gesù che raccolse l’orfano Jabè, poi chiamato Marziam, dando un esempio da imitare), e dice di fare ciò che Egli fa. E io prendo il fanciullo e lo farò israelita”. E mi ha preso e curato insieme a Maria e mi ha messo un altro nome perché il mio… Ma la mamma mi chiamava Marziale…», e le lacrime tornano a gocciare. «E Io ti chiamerò Marziale come la mamma. È molto buono ciò che ha fatto Giuseppe. Tu gli devi volere molto bene». «Sì. Ma di più a Te. Lo dice lui. Dice sempre: “Se un giorno incontrerai Gesù di Nazaret, il Messia, amalo con tutto te stesso, perché è per Lui che sei salvato dall’errore”. Maria diceva di là, alla serva, che era in casa il Messia, e sono venuto a vedere chi mi ha salvato». «Non sapevo che Giuseppe avesse fatto questo. Era così… avaro… Mai avrei pensato che potesse… Povero Giuseppe! Avaro e disgustato dei suoi figli. Non hanno rispettato i suoi capelli bianchi». «Lo so. Ma vedi? Forse in questo fanciullo egli si rinnova… e dimentica. Dio lo compensa così dell’opera fatta verso il fanciullo. Come ti chiami adesso?». «Con un brutto nome. Non mi piace affatto perché principia come il mio. Manasse mi chiamo!… Ma Maria, che capisce, mi chiama “Man”». E il fanciullo lo dice con un visetto così desolato che Gesù e Giovanni non possono trattenersi dal sorridere. Ma Gesù, per consolarlo, spiega: «Manasse è un nome dal dolce significato per noi (Vedi Vol 6 Cap 364, che è in: Genesi 41, 51). Vuol dire: il Signore mi ha fatto dimenticare ogni dolore. Giuseppe te lo ha messo perché si è voluto dire che tu gli farai dimenticare ogni suo dolore. E tu lo farai, fanciullo, per essergli riconoscente. Tu stesso, col nuovo nome, ti dici che il Signore ti tanto amato e che ti ha ridato un padre, una madre e una casa. Non è vero?». «Sì. Spiegato così, sì… Ma Giuseppe dice che devo dimenticare anche la mia casa. Io non voglio dimenticare la mamma!». Gesù guarda Giovanni, e Giovanni guarda il Maestro, e al di sopra della testolina bruna vi è tutto un discorso di sguardi… «La mamma non va dimenticata, fanciullo. Giuseppe si è spiegato male, o meglio, tu hai capito male. Certo voleva dire che tu devi dimenticare tutto il dolore del tuo passato, il dolore della tua casa, perché ora hai questa e devi essere felice». «Ah! così sì. E Maria è buona e mi fa felice. Anche ora mi fa le focacce. Vado a vedere se sono cotte e le porto anche a Te», e scivola giù dai ginocchi di Gesù correndo fuori della stanza. Il rumore dei piedini scalzi si sperde nel lungo corridoio. «Sempre questa tendenza dura anche nei migliori fra noi! Pretendere l’impossibile! Sono più severi di Dio e figli del suo popolo! Povero fanciullo! Si può forse pretendere che un figlio dimentichi la madre perché ora egli è circonciso? Lo dirò a Giuseppe». «Non sapevo proprio che avesse fatto questo. Mio padre, come molti galilei, scende qui, nelle feste. E non me ne ha parlato come non sapesse la cosa…
6 Ma sento la voce di Giuseppe…». Gesù si alza in piedi e Giovanni lo imita, pronti a salutare, coi dovuti onori, il padrone di casa, che entra e che a sua volta si sprofonda in inchini finendo ad inginocchiarsi ai piedi di Gesù. «Alzati, Giuseppe. Sono venuto. Lo vedi». «Perdona se ti ho fatto attendere. Il venerdì è sempre un gran giorno! Salute a te, Giovanni. Hai notizie di Zebedeo?». «No, dai Tabernacoli, nei quali lo vidi». «Allora sappi che sta bene e così Salome. Notizie fresche. Di questa mattina. Con l’ultimo carico di pesce. E anche a Te, Maestro, posso dire che i parenti stanno tutti bene a Nazaret. Il dì dopo il sabato partirà chi venne. Se volete mandare notizie… Siete soli?». «No. Fra poco saranno qui gli altri…». «Bene! Vi è posto per tutti. È casa fedele. Mi spiace che Maria sia stata occupata col pane e io colle vendite. Lasciati così soli… Abbiamo mancato di farti onore e compagnia come si conviene all’ospite. E grande ospite!». «Un figlio di Dio come te, Giuseppe. Tutti uguali coloro che seguono la Legge di Dio». «Eh! no. Tu sei Tu. Non sono stolto come questi giudei. Tu sei il Messia!». «Ciò per volere di Dio. Ma per mio volere e dovere sono come te figlio della Legge». «Eh! quelli che ti calunniano non sanno dire e fare ciò che Tu ora dici e sempre fai!». «Tu però molto fai di ciò che Io insegno.
7 Ho visto il fanciullo, Giuseppe…». «Ah! lo hai visto? È venuto! Sa che non voglio! Per Te… ho piacere. Ma potevi non essere Te…». «E allora? Che sarebbe accaduto?». «Che… non ho piacere, ecco!». «Perché, Giuseppe? Per non averne lode? È encomiabile il tuo pensiero. Ma il fanciullo potrebbe pensare che tu ti vergogni di mostrarlo…». «Ed è vero!». «È vero? Perché? Spiegami la cosa». «Ecco. Il fanciullo non è nato ebreo da ebrei, neppure da proseliti, neppure da donna ebrea e padre gentile. È figlio di due romani, liberti in casa di un romano che era a Cesarea Marittima. Si era tenuto il fanciullo finché rimase lì. Ma partendo non se ne curò e rimase solo. Gli ebrei, naturalmente, non lo accolsero. I romani… Cosa sono i romani Tu lo sai… E quei romani, poi, di Cesarea! Il fanciullo, mendicando…». «Sì, lo so. È giunto qui e tu lo hai accolto. Dio ha segnato il tuo atto in Cielo». «E ne ho fatto un circonciso! E gli ho cambiato il nome. Il suo! Pagano! Idolatra! Ma non voglio si faccia vedere e ricordi il suo passato». «Perché, Giuseppe?», chiede dolcemente Gesù e continua: «Il fanciullo soffre di questo. Ricorda la madre. È comprensibile!». «Ma è comprensibile anche il mio desiderio di non essere criticato per aver accolto un…». «Un innocente. Nulla più che questo, Giuseppe. Perché temi il giudizio degli uomini quando un più alto giudizio, quello divino, sancisce il tuo atto come santo? Perché ti vergogni, per rispetto umano, o per timore di rappresaglie, di un’azione buona? Perché vuoi dare al fanciullo un esempio di doppiezza quale quello che sorge dall’avergli cambiato nome, dal soffocare il passato per tema di averne danno? Perché vuoi inculcare al fanciullo il disprezzo del padre e della madre? Vedi, Giuseppe, tu hai fatto un’azione degna di lode, ma la copri di polvere con queste… idee imperfette. Tu hai imitato un mio gesto. Hai accolto le mie parole. Ciò è bene. Ma perché non rendi perfetta la mia imitazione col compiere francamente l’opera e dire: “Sì. Il fanciullo era romano. E io non ne ho avuto ribrezzo, perché egli è figlio del Creatore così come noi. Soltanto l’ho voluto nella nostra Legge e l’ho circonciso”? Veramente… la vera circoncisione sta per venire e il nuovo taglio sarà sul cuore degli uomini, dal quale verrà asportato lo strozzante anello della concupiscenza triplice, e perciò, se anche il fanciullo fosse rimasto un innocente fino a quel momento… Ma non ti voglio rimproverare per questo. Hai fatto bene, tu ebreo, a farlo ebreo. Però lasciagli il suo nome. Oh! in futuro quanti Marziale, e Caio, e Felice, e Cornelio, e Claudio, e così via, saranno del Cristo e del Cielo! Può esserci anche lui, il fanciullo che non sa di ebrei e di gentili, che giungerà ad essere eternamente maggiorenne quando la vera e la nuova Legge sarà fondata col nuovo Tempio e i nuovi sacerdoti, e non come tu credi, ma esaminato da Dio e trovato degno del suo vero Tempio. Lascialo col nome che sua madre gli ha dato. È ancora una carezza materna per lui. Capisco ciò che hai voluto dire col dirlo Manasse. Ma lascialo Marziale. E a chi ti interroga dì pure: “Sì. È Marziale. Quasi come il discepolo del Cristo al quale ha dato quel nome Maria”. Abbi coraggio nel bene, Giuseppe. E sarai grande, tanto grande». «Maestro… come Tu vuoi. Io non ti voglio disgustare. E credi che… ho fatto bene anche come uomo?». «Hai fatto bene. Il tuo dolore ti ha fatto buono. Perciò tutto è bene ciò che hai fatto. E bene è questo atto». Dei picchi alla porta di strada interrompono la conversazione.
Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, noi ci affidiamo a Te!
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