Vangelo Lc 18, 9-14: “chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”

Liturgia Novus Ordo: Lc 18, 9-14

Vangelo Lc 18, 9-14
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Vetus Ordo 

   Cap. CDXCIV. La donna adultera e l’ipocrisia dei suoi accusatori. Vari insegnamenti.

   20 marzo 1944.

   494.1Vedo l’interno del recinto del Tempio, ossia uno dei tanti cortili contornati da porticati. E vedo anche Gesù, il quale, molto ammantellato nel suo manto che lo fascia sopra la veste, non bianca ma rosso cupo (sembra una stoffa di lana pesante), parla a della folla che lo circonda.
   Direi che è una giornata invernale, perché vedo che tutti sono molto ammantellati, e che faccia piuttosto freddo, perché invece di star fermi tutti camminano alla svelta come per scaldarsi. Vi è del vento che smuove i mantelli e solleva la polvere dei cortili.
   Il gruppo che si stringe intorno a Gesù, l’unico che stia fermo mentre tutti gli altri, intorno a questo o a quel maestro, vanno avanti e indietro, si fende per lasciar passare un drappello di scribi e farisei gesticolanti e più che mai velenosi. Sprizzano veleno dallo sguardo, dal colore del volto, dalla bocca. Che vipere! Più che condurre, trascinano una donna sui trent’anni, scapigliata, disordinata nelle vesti come chi è stata malmenata, e piangente. La buttano ai piedi di Gesù come fosse un mucchio di cenci o una spoglia morta. E lei resta là, rannicchiata su se stessa, col volto appoggiato alle due braccia, nascosto da esse che le fanno cuscino fra il volto e il suolo.
   «Maestro, costei è stata colta in flagrante adulterio. Suo marito l’amava, nulla le faceva mancare. Ella era regina nella sua casa. E lei lo ha tradito perché è una peccatrice, una viziosa, un’ingrata, una profanatrice. Adultera è, e come tale va lapidata. Mosé l’ha detto. Nella sua legge lo comanda che queste tali siano lapidate come bestie immonde. E immonde sono. Perché tradiscono la fede e l’uomo che le ama e le cura, perché come terra mai sazia sempre sono affamate di lussuria. Peggio delle meretrici sono, perché senza morso di bisogno danno se stesse per dare cibo alla loro impudicizia. Corrotte sono. Contaminatrici sono. A morte devono esser condannate. Mosè l’ha detto. E Tu, Maestro, che ne dici?».

   494.2Gesù, che aveva interrotto di parlare all’arrivo tumultuoso dei farisei e che aveva guardato la muta astiosa con sguardo penetrante e poi aveva chinato lo sguardo sulla donna avvilita, gettata ai suoi piedi, tace. Si è curvato, restando seduto, e con un dito scrive sulle pietre del portico, che la polvere sollevata dal vento copre di terriccio. Quelli parlano e Lui scrive.
   «Maestro? Parliamo a Te. Ascoltaci. Rispondici. Non hai capito? Questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Nella sua casa. Nel letto dell’uomo suo. Ella lo ha sporcato con la sua libidine».
   Gesù scrive.
   «Ma è stolto quest’uomo! Non vedete che non capisce nulla e traccia dei segni sulla polvere come un povero folle?».
   «Maestro, per il tuo buon nome, parla. La tua sapienza risponda al nostro interrogare. Ti ripetiamo: questa donna non mancava di nulla. Aveva vesti, cibo, amore. E ha tradito».
   Gesù scrive.
   «Ha mentito all’uomo che aveva fiducia in lei. Con bocca mendace l’ha salutato e col sorriso l’ha accompagnato alla porta, e poi ha aperto la porta segreta e ha ammesso il suo amante. E mentre il suo uomo era assente per lavorare per lei, essa, come una bestia immonda, s’è avvoltolata nella sua lussuria».
   «Maestro, è una profanatrice della Legge oltre che del talamo. Una ribelle, una sacrilega, una bestemmiatrice».
   Gesù scrive. Scrive e cancella lo scritto col piede calzato dal sandalo e scrive più là, girandosi piano su Se stesso per trovare altro spazio. Sembra un bambino che giuochi. Ma quello che scrive non è parola di giuoco. Ha scritto successivamente: «Usuraio», «Falso», «Figlio irriverente», «Fornicatore», «Assassino», «Profanatore della Legge», «Ladro», «Libidinoso», «Usurpatore», «Marito e padre indegno», «Bestemmiatore», «Ribelle a Dio», «Adultero». Scritto e riscritto mentre sempre nuovi accusatori parlano.
   «Ma insomma, Maestro! Il tuo giudizio. La donna va giudicata. Non può col suo peso contaminare la terra. Il suo fiato è veleno che turba i cuori».

   494.3Gesù si alza. Misericordia! Che viso! È un balenare di lampi che si avventano sugli accusatori. Sembra ancor più alto, tanto tiene la testa eretta. Sembra un re sul suo trono, tanto è severo e solenne. Il manto gli è caduto da una spalla e fa un lieve strascico dietro a Lui. Ma Egli non se ne cura. Con volto chiuso e senza la più lontana traccia di sorriso sulla bocca e negli occhi, pianta questi occhi in volto alla folla, che arretra come davanti a due lame ben pontute. Fissa uno per uno. Con una intensità di indagine che fa paura. I fissati cercano di arretrare nella folla e di nascondersi in essa. Il cerchio così si allarga e sgretola come minato da una forza occulta.
   Infine parla. «Chi di voi è senza peccato scagli sulla donna la prima pietra». E la voce è un tuono accompagnato da un ancor più vivo lampeggiare di sguardi. Gesù ha conserto le braccia sul petto e sta così, ritto come un giudice, in attesa. Il suo sguardo non dà pace. Fruga, penetra, accusa.
   Prima uno, poi due, poi cinque, poi a gruppi, i presenti si allontanano a capo basso. Non solo gli scribi e i farisei, ma anche quelli che erano prima intorno a Gesù ed altri che si erano accostati per sentire il giudizio e la condanna e che, tanto quelli che questi, si erano uniti per insolentire la colpevole e chiedere la lapidazione.
   Gesù resta solo con Pietro e Giovanni. Non vedo gli altri apostoli.
   Gesù si è rimesso a scrivere, mentre la fuga degli accusatori avviene, e ora scrive: «Farisei», «Vipere», «Sepolcri di marciume», «Menzogneri», «Traditori», «Nemici di Dio», «Insultatori del suo Verbo»…

   494.4Quando tutto il cortile si è svuotato e un gran silenzio si è fatto, non rimanendo che il fruscio del vento e quello di una fontanella in un angolo, Gesù alza il capo e guarda. Ora il volto si è placato. È mesto, ma non più irato. Dà un’occhiata a Pietro, che si è lievemente allontanato appoggiandosi ad una colonna, ed una a Giovanni che, quasi dietro a Gesù, lo guarda col suo sguardo innamorato. Gesù ha un’ombra di sorriso guardando Pietro e un più vivo sorriso guardando Giovanni. Due sorrisi diversi.
   Poi guarda la donna, ancora prostrata e piangente ai suoi piedi. L’osserva. Si alza, si riaggiusta il manto come fosse in procinto di mettersi in cammino. Fa un cenno ai due apostoli di avviarsi verso l’uscita.
   Quando resta solo, chiama la donna. «Donna, ascoltami. Guardami». Ripete il comando, perché essa non osa alzare il viso. «Donna, siamo soli. Guardami».
   La disgraziata alza un viso su cui pianto e polvere fanno una maschera di avvilimento.
   «Dove sono, o donna, quelli che ti accusavano?». Gesù parla piano. Con serietà pietosa. Tiene il volto e il corpo lievemente piegati verso terra, verso quella miseria, e gli occhi sono pieni di una espressione indulgente e risanatrice. «Nessuno ti ha condannata?».
   La donna, fra un singulto e l’altro, risponde: «Nessuno, Mae­stro».
   «E neppure Io ti condannerò. Va’. E non peccare più. Va’ alla tua casa. E sappi farti perdonare. Da Dio e dall’offeso. Non abusare della benignità del Signore. Va’». E la aiuta a rialzarsi prendendola per una mano. Ma non la benedice e non le dà la pace. La guarda avviarsi, a capo chino e lievemente barcollante sotto la sua vergogna, e poi, quando è scomparsa, si avvia a sua volta coi due discepoli.

   494.5Dice Gesù:
   «Quello che mi feriva era la mancanza di carità e di sincerità negli accusatori. Non che mentissero nell’accusa. La donna era realmente colpevole. Ma erano insinceri facendosi scandalo di cosa da loro commessa le mille volte e che unicamente una maggior astuzia e una maggior fortuna avevano permesso rimanesse occulta. La donna, al suo primo peccato, era stata meno astuta e meno fortunata. Ma nessuno dei suoi accusatori ed accusatrici — perché anche le donne, se non alzavano la loro parola, la accusavano in fondo al cuore — erano scevri di colpa.
   Adultero è chi trascende all’atto e chi appetisce all’atto e lo desidera con tutte le sue forze. La lussuria è tanto in chi pecca che in chi desidera peccare. Ricordati, Maria, la prima parola[133] del tuo Maestro, quando ti ho chiamata dall’orlo del precipizio dove eri: “Il male non basta non farlo. Bisogna anche non desiderare di farlo”. Chi accarezza pensieri di senso, e suscita con letture e spettacoli cercati appositamente e con abitudini malsane sensazioni di senso, è ugualmente impuro come chi commette la colpa materialmente. Oso dire: è maggiormente colpevole. Perché va col pensiero contro natura, oltre che contro morale. Non parlo poi di chi trascende a veri atti contro natura. L’unica attenuante di costui è in una malattia organica o psichica. Chi non ha tale scusante è di dieci gradi inferiore alla bestia più lurida.
   Per condannare con giustizia occorrerebbe essere immuni da colpa. Vi rimando a dettati passati, quando parlo delle condizioni essenziali per esser giudice. A Me non erano ignoti i cuori di quei farisei e di quegli scribi, non quelli di coloro che si erano uniti ad essi nell’inveire contro la colpevole. Peccatori contro Dio e contro il prossimo, erano in loro colpe contro il culto, colpe contro i genitori, colpe contro il prossimo, colpe, soprattutto numerose, contro le mogli loro. Se per un miracolo avessi ordinato al loro sangue di scrivere sulla loro fronte il loro peccato, fra le molte accuse avrebbe imperato quella di “adulteri” di fatto o di desiderio.

   494.6Io ho detto[134]: “È quello che viene dal cuore che contamina l’uomo”. E, tolto il mio cuore, non vi era alcuno fra i giudici che avesse il cuore incontaminato. Senza sincerità e senza carità. Neppure l’esser simili a lei nella fame concupiscente li induceva a carità. Io ero che avevo carità per l’avvilita. Io, l’Unico che ne avrei dovuto aver schifo. Ma ricordatevi però questo: che quanto più uno è buono e più è pietoso verso i colpevoli. Non indulge alla colpa per se stessa. Questo no. Ma compatisce i deboli che alla colpa non hanno saputo resistere.
   L’uomo! Oh! più che canna fragile e vilucchio sottile è facile ad esser piegato dalla tentazione e portato ad avvinghiarsi là dove spera trovare un conforto. Perché molte volte la colpa avviene, specie nel sesso più debole, per questa ricerca di conforto. Perciò Io dico che chi manca di affetto per la sua donna, ed anche per la figlia sua propria, è per novanta parti su cento responsabile della colpa della sua donna o della sua creatura e ne risponderà per esse. Tanto l’affetto stolto, che è soltanto stupido schiavismo di un uomo ad una donna o di un genitore ad una figlia, quanto una trascuratezza d’affetti, o peggio una colpa di propria libidine che porta un marito ad altri amori e dei genitori ad altre cure che non siano i figli, sono fomite ad adulterio e prostituzione e, come tali, sono da Me condannati.
   Siete esseri dotati di ragione e guidati da una legge divina e da una legge morale. Avvilirsi perciò ad una condotta da selvaggi o da bruti dovrebbe fare orrore alla vostra grande superbia. Ma la superbia, che in questo caso sarebbe anche utile, voi l’avete per ben altre cose.

   494.7Ho guardato Pietro e Giovanni in diversa maniera, perché al primo, uomo, ho voluto dire: “Pietro, non mancare tu pure di carità e di sincerità”, e dirgli pure, come a futuro mio Pontefice: “Ricorda quest’ora e giudica come il tuo Maestro, in avvenire”; mentre al secondo, giovane dall’anima di bambino, ho voluto dire: “Tu puoi giudicare e non giudichi perché hai il mio stesso cuore. Grazie, amato, d’esser tanto mio da essere un secondo Me”.
   Ho allontanato i due prima di chiamare la donna per non aumentare la sua mortificazione con la presenza di due testimoni. Imparate, o uomini senza pietà. Per quanto uno sia colpevole, va sempre trattato con rispetto e carità. Non gioire del suo annichilimento, non accanircisi contro neppure con sguardi curiosi. Pietà, pietà per chi cade!
   Alla colpevole indico la via da seguirsi per redimersi. Tornare alla sua casa, umilmente chiedere perdono e ottenerlo con una vita retta. Non cedere più alla carne. Non abusare della bontà divina e della bontà umana per non scontare più duramente di ora la duplice o molteplice colpa. Dio perdona, e perdona perché è la Bontà. Ma l’uomo, per quanto Io abbia detto[135]:
   “Perdona al fratello tuo settanta volte sette”, non sa perdonare due volte.
   Non le do pace e benedizione perché non era in lei quella completa recisione dal suo peccato che è richiesta per esser perdonati. Nella sua carne, e purtroppo nel suo cuore, non era la nausea per il peccato. Maria di Magdala, sentito il sapore del mio Verbo, aveva avuto disgusto per il peccato ed era venuta a Me con la volontà totale di essere un’altra. In costei era ancora un ondeggiamento fra le voci della carne e dello spirito. Né ella, nel turbamento dell’ora, aveva ancora potuto mettere la scure contro il ceppo della carne e reciderla per andare mutilata del suo peso bramoso al Regno di Dio. Mutilata di ciò che era rovina, ma accresciuta di ciò che è salvezza.
   Vuoi sapere se si è poi salvata? Non a tutti fui Salvatore. Per tutti lo volli essere, ma non lo fui perché non tutti ebbero la volontà d’esser salvati. E questo è stato uno dei più penetranti strali della mia agonia del Getsemani.
   Va’ in pace tu, Maria di Maria, e non voler più peccare neppure nelle inezie. Sotto il manto di Maria non stanno che cose pure. Ricordalo.
   […]».


Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo

   Cap. DXXIII. A Gerico. La richiesta a Gesù di giudicare su una donna. La parabola del fariseo e del pubblicano dopo un paragone tra peccatori a malati.

  2 novembre 1946

 Gesù esce dalla casa di Zaccheo. È mattina inoltrata. È con Zaccheo, Pietro e Giacomo di Alfeo. Gli altri apostoli sono forse già sparsi per la campagna per annunciare che il Maestro è in città.
   Dietro al gruppo di Gesù con Zaccheo e gli apostoli ve ne è un altro, molto… variato per fisionomie, età, vesti. Non è difficile dichiarare con sicurezza che questi uomini appartengono a razze diverse, forse anche antagoniste fra di loro. Ma gli eventi della vita hanno portato questi in questa città palestinese e li hanno riuniti perché dal loro profondo risalissero verso la luce. Sono per lo più volti appassiti di chi ha usato e abusato della vita in più modi, occhi stanchi per la più parte; in altri, sguardi che la lunga abitudine ad occupazioni di… rapina fiscale o di comando brutale ha fatto rapaci o duri, e ogni tanto questo loro antico sguardo riaffiora da sotto un velo dimesso e pensoso che vi ha messo la nuova vita. E ciò avviene specialmente quando qualcuno di Gerico li guarda con sprezzo o borbotta qualche insolenza a loro carico. Poi l’occhio torna stanco, dimesso, e le teste si riabbassano avvilite.
   Gesù si volta per due volte ad osservarli e, vedendoli indietro, rallentanti il loro passo più si avvicinano al luogo prescelto per parlare, e già pieno di gente, rallenta il suo per attenderli, e infine dice loro: «Passatemi avanti e non temete. Avete sfidato il mondo quando facevate il male; non dovete temerlo ora che vi siete spogliati di esso. Ciò che avete usato per domarlo allora ? l’indifferenza al giudizio del mondo, unica arma per stancarlo di giudicare ? usatelo anche ora, ed esso si stancherà di occuparsi di voi, e vi assorbirà, seppure lentamente, annullandovi nella grande massa anonima che è questo misero mondo, al quale in verità si dà troppo peso».
   Gli uomini, quindici, ubbidiscono e passano avanti.

 «Maestro, là sono i malati della campagna», dice Giacomo di Zebedeo andando incontro a Gesù e indicando un angolo tiepido di sole.
   «Vengo. Gli altri dove sono?».
   «Fra la gente. Ma già ti hanno visto e stanno venendo. Con loro sono anche Salomon, Giuseppe di Emmaus, Giovanni d’Efeso, Filippo di Arbela. Sono diretti alla casa di quest’ultimo e vengono da Joppe, Lidda e Modin. Hanno seco loro uomini della costa del mare e donne. Ti cercavano, anzi, perché è discordia fra loro sul giudicare una donna. Ma parleranno con Te…».
   Gesù è infatti presto circondato dagli altri discepoli e salutato con venerazione. Dietro ad essi sono i nuovi attirati alla dottrina di Gesù. Ma non c’è Giovanni d’Efeso, e Gesù ne chiede la ragione.
   «Si è fermato con una donna e con i parenti della stessa in una casa lontana dalla gente. La donna non si sa se è indemoniata o profetessa. Dice cose meravigliose, a detta di quelli del suo paese. Ma gli scribi che l’hanno ascoltata l’hanno giudicato posseduta. I parenti hanno chiamato gli esorcisti più volte, ma essi non poterono cacciare il demonio parlante che la tiene. Però un di loro disse al padre della donna (è una vedova vergine rimasta in famiglia): “Per tua figlia ci vuole il Messia Gesù. Egli capirà le sue parole e saprà donde vengono. Io ho provato di imporre allo spirito che parla in lei di andarsene in nome di Gesù detto il Cristo. Sempre gli spiriti tenebrosi sono fuggiti quando ho usato questo Nome. Questa volta no. Da questo io dico che, o è lo stesso Belzebù che parla  e  riesce  a resistere anche a quel Nome detto da me, o è lo stesso Spirito di Dio, e perciò non teme essendo che è una cosa sola col Cristo. Io sono convinto più di questo che del primo caso. Ma, per esserne certi, solo il Cristo può giudicare. Egli conoscerà le parole e la loro origine”. E fu malmenato dagli scribi presenti, che lo dissero posseduto lui pure come la donna e come Te. Perdona se dobbiamo dirlo… E degli scribi non ci hanno più lasciati, e sono di guardia alla donna perché vogliono stabilire se può essere avvisata del tuo arrivo. Perché essa dice che conosce il tuo volto e la tua voce, e fra mille e mille ti riconoscerebbe, mentre è provato che essa mai è uscita dal paese, anzi, dalla sua casa da quando, quindici anni or sono, le morì lo sposo la vigilia della festa nuziale; ed è anche provato che mai Tu sei passato dal suo paese che è Betlechi. E gli scribi attendono questa ultima prova per dirla indemoniata. 

Vuoi vederla subito?».
   «No. Devo parlare alla gente. E sarebbe troppo chiassoso l’incontro qui, fra le turbe. Va’ a dire a Giovanni d’Efeso e ai parenti della donna, e anche agli scribi, che li attendo tutti all’inizio del tramonto nei boschi lungo il fiume, sul sentiero del guado. Va’».
   E Gesù, congedato Salomon, che ha parlato per tutti, va dai malati invocanti guarigione e li guarisce. Sono una donna anziana anchilosata dall’artrite, un paralitico, un giovanetto ebete, una fanciulla che direi etica e due malati agli occhi. La gente ha i suoi trillanti gridi di gioia.
   Ma non è finita ancora la serie dei malati. Una madre si avanza, sfigurata dal dolore, sorretta da due amiche o parenti, e si inginocchia dicendo: «Ho il figlio morente. Non può essere portato qui… Pietà di me!».
   «Puoi credere senza misura?».
   «Tutto, o mio Signore!».
   «E allora torna a casa tua».
   «A casa mia?… Senza Te?…». La donna lo guarda un momento con affanno, poi comprende. Il povero viso si trasfigura. Grida: «Vado, Signore. E benedetto Te e l’Altissimo che ti ha mandato!». E corre via, più svelta delle stesse sue compagne…
   Gesù si volge ad uno di Gerico, ad un dignitoso cittadino. «Quella donna è ebrea?».
   «No. Di nascita almeno, no. Viene da Mileto. Sposa però a uno di noi e da allora nella nostra fede».
   «Ha saputo credere meglio di molti ebrei», osserva Gesù.

 4 Poi, salendo sull’alto gradino di una casa, fa il gesto abituale, di aprire le braccia, che precede il suo parlare e serve ad imporre silenzio. Ottenutolo, raccoglie le pieghe del manto, apertosi sul petto nel gesto, e lo tiene fermo con la sinistra mentre abbassa la destra nell’atto di chi giura, dicendo:
   «Ascoltate, o cittadini di Gerico, le parabole del Signore, e ognuno poi le mediti nel suo cuore e  ne tragga la lezione per nutrire il suo spirito. Lo potete fare perché non da ieri, né dalla passata luna, e neppure dall’altro inverno, conoscete la Parola di Dio. Prima che Io fossi il Maestro, Giovanni, mio Precursore, vi aveva preparato al mio venire e, dopo che lo fui, i miei discepoli hanno arato questo suolo sette e sette volte per seminarvi ogni seme che Io avevo loro dato. Dunque potete capire la parola e la parabola.

 A che paragonerò Io coloro che, dopo essere stati peccatori, poi si convertono? Li paragonerò a malati che guariscono. A che paragonerò gli altri che non hanno pubblicamente peccato, o che, rari più di perle nere, non hanno fatto mai, neppur nel segreto, colpe gravi? Li paragonerò a delle persone sane. Il mondo è composto di queste due categorie. Sia nello spirito che nella carne e sangue. Ma, se uguali sono i paragoni, diverso è il modo del mondo di usare coi malati guariti, che erano malati nella carne, da quello che esso usa coi peccatori convertiti, ossia coi malati dello spirito che tornano in salute.
   Noi vediamo che quando anche un lebbroso, che è il malato più pericoloso e più isolato perché pericoloso, ottiene la grazia di guarigione, dopo essere stato osservato dal sacerdote e purificato, viene riammesso nel consorzio delle genti, e anzi quelli della sua città lo festeggiano perché guarito, perché risuscitato alla vita, alla famiglia, agli affari. Gran festa in famiglia e in città, quando uno che era lebbroso riesce ad ottenere grazia e a guarire! È una gara fra i famigliari e i cittadini a portargli questo e quello e, se è solo e senza casa o mobili, a offrirgli tetto o mobiglia, e tutti dicono: “È uno prediletto da Dio. Il suo dito lo ha sanato. Facciamogli dunque onore, e onoreremo Colui che lo ha creato e ricreato”. È giusto di fare così. E quando, sventuratamente invece, uno ha i primi segni di lebbra, con che amore angoscioso parenti e amici lo colmano di tenerezze, finché è possibile ancora farlo, quasi per dargli, tutto in una volta, il tesoro di affetti che gli avrebbero dato in molti anni, perché se lo porti seco nel suo sepolcro di vivo.
   Ma perché allora per gli altri malati non si fa così? Un uomo comincia a peccare, e famigliari e soprattutto concittadini lo vedono? Perché allora non cercano con amore di strapparlo al peccare? Una madre, un padre, una sposa, una sorella ancora lo fanno. Ma è già difficile che lo facciano i fratelli, e non dico poi che lo facciano i figli del fratello del padre o della madre. I concittadini, infine, non sanno che criticare, schernire, insolentire, scandalizzarsi, esagerare i peccati del peccatore, segnarselo a dito, tenerlo discosto come un lebbroso quelli che sono più giusti, farsi suoi complici, per godere alle sue spalle, quelli che giusti non sono. Ma non c’è che ben raramente una bocca, e soprattutto un cuore, che vada dall’infelice con pietà e fermezza, con pazienza e amore soprannaturale, e si affanni a frenarne la discesa nel peccato.
   E come? Non è forse più grave, veramente grave e mortale la malattia dello spirito? Non priva essa, e per sempre, del Regno di Dio? La prima delle carità verso Dio e verso il prossimo non deve essere questo lavoro di sanare un peccatore per il bene della sua anima e la gloria di Dio?
   E quando un peccatore si converte, perché quell’ostinatezza di giudizio su di lui, quel quasi rammaricarsi che egli sia tornato alla salute spirituale? Vedete smentiti i vostri pronostici di certa dannazione di un vostro concittadino? Ma dovreste esserne felici, perché Colui che vi smentisce è il misericordioso Iddio, che vi dà una misura della sua bontà a rincuorarvi nelle vostre colpe più o meno gravi.
   E perché quel persistere a voler vedere sporco, spregevole, degno di stare nell’isolamento, ciò che Dio e la buona volontà di un cuore hanno fatto netto, ammirevole, degno della stima dei fratelli, anzi della loro ammirazione?
   Ma ben giubilate anche se un vostro bue, un vostro asino o cammello, o la pecora del gregge, o il colombo preferito guariscono da una malattia! Ben giubilate se un estraneo, che appena ricordate a nome per averne sentito parlare al tempo in cui fu isolato perché lebbroso, torna guarito! E perché allora non giubilate per queste guarigioni di spirito, per queste vittorie di Dio? Il Cielo giubila quando un peccatore si converte. Il Cielo: Dio, gli angeli purissimi, quelli che non sanno cosa è peccare. E voi, voi uomini, volete essere più intransigenti di Dio?

 Fate, fate giusto il vostro cuore e riconoscete il Signore non soltanto come presente fra le nuvole d’incenso e i canti del Tempio, nel luogo dove solamente la santità del Signore, nel Sommo Sacerdote, deve entrare, e dovrebbe essere santa come il nome lo indica. Ma anche nel prodigio di questi spiriti risorti, di questi altari riconsacrati, sui quali l’Amore di Dio scende coi suoi fuochi ad accendere il sacrificio».
   Gesù viene interrotto dalla madre di prima, che con gridi di benedizione lo vuole adorare. Gesù la ascolta e benedice e la rimanda a casa, riprendendo il discorso interrotto.
   «E se da un peccatore, che un tempo vi ha dato spettacolo di scandalo, ricevete ora spettacoli di edificazione, non vogliate schernire ma imitare. Perché nessuno è mai tanto perfetto da essere impossibile che un altro lo ammaestri. E il Bene è sempre lezione che va accolta, anche se colui che lo pratica un tempo era oggetto di riprovazione. Imitate e aiutate. Perché, così facendo, glorificherete il Signore e dimostrerete che avete capito il suo Verbo. Non vogliate essere come quelli che in cuor vostro criticate perché le loro azioni non corrispondono alle loro parole. Ma fate che ogni vostra buona azione sia il coronamento di ogni vostra buona parola. E allora veramente sarete guardati e ascoltati benevolmente dall’Eterno.

 Udite quest’altra parabola, per comprendere quali sono le cose che hanno valore agli occhi di Dio. Essa vi insegnerà a correggervi da un pensiero non buono che è in molti cuori. I più degli uomini si giudicano da se stessi e, posto che solo un uomo su mille è veramente umile, così avviene che l’uomo si giudica perfetto, lui solo perfetto, mentre nel prossimo nota cento e cento peccati.
   Un giorno due uomini, andati a Gerusalemme per affari, salirono al Tempio, come si conviene ad ogni buon israelita ogni qualvolta pone piede nella Città Santa. Uno era un fariseo. L’altro un pubblicano. Il primo era venuto per riscuotere il fitto di alcuni empori e per fare i conti con i suoi fattori, che abitavano nelle vicinanze della città. L’altro per versare le imposte riscosse e per invocare pietà in nome di una vedova che non poteva pagare la tassazione della barca e delle reti, perché la pesca, fatta dal figlio maggiore, le era appena sufficiente per dare da mangiare ai molti altri figli.
   Il fariseo, prima di salire al Tempio, era passato dai tenutari degli empori e, gettato uno sguardo in essi empori, vistili pieni di merci e di compratori, si era compiaciuto in se stesso e poi aveva chiamato il tenutario del luogo e gli aveva detto: “Vedo che i tuoi commerci vanno bene”.
   “Sì, per grazia di Dio. Sono contento del mio lavoro. Ho potuto aumentare le merci e spero di farlo ancora di più. Ho migliorato il luogo, e l’anno veniente non avrò le spese dei banchi e scaffali, e perciò avrò più guadagno”.
   “Bene! Bene! Ne sono felice! Quanto paghi tu per questo luogo?”.
   “Cento didramme al mese. È caro, ma la posizione è buona…”.
   “Lo hai detto. La posizione è buona. Perciò io ti raddoppio il fitto’’.
   “Ma signore”, esclamò il negoziante. “In tal maniera tu mi levi ogni utile!”.
   “È giusto. Devo forse io arricchire te? E sul mio? Presto. O tu mi dai duemilaquattrocento didramme, e subito, o ti caccio fuori e mi tengo la merce. Il luogo è mio e ne faccio ciò che voglio” .
   Così al primo, così al secondo e al terzo dei suoi affittuari, ad ognuno raddoppiando il prezzo, sordo ad ogni preghiera. E perché il terzo, carico di figli, volle fare resistenza, chiamò le guardie e fece porre i sigilli di sequestro, cacciando fuori l’infelice.
   Poi, nel suo palazzo, esaminò i registri dei fattori, trovando di che punirli come fannulloni e sequestrando loro la parte che si erano tenuta di diritto.
   Uno aveva il figlio morente, e per le molte spese aveva venduto una parte del suo olio per pagare le medicine. Non aveva dunque che dare all’esoso padrone. “Abbi pietà di me, padrone. Il mio povero figlio sta per morire, e dopo farò dei lavori straordinari per rifonderti ciò che ti sembra giusto. Ma ora, tu lo comprendi, non posso”.
   “Non puoi? Io ti farò vedere se puoi o non puoi”. E, andato col povero fattore nel frantoio, lo privò anche di quel resto d’olio che l’uomo si era tenuto per il misero cibo e per alimentare la lampada che permetteva di vegliare il figlio nella notte.
   Il pubblicano invece, andato dal suo superiore e versate le imposte riscosse, si sentì dire: “Ma qui mancano trecentosettanta assi. Come mai ciò?”.
   “Ecco, ora ti dico. Nella città è una vedova con sette figli. Il primo solo è in età di lavorare. Ma non può andare lontano da riva con la barca, perché le sue braccia sono deboli ancora per il remo e la vela, e non può pagare un garzone di barca. Stando vicino a riva, poco pesca, e il pescato basta appena a sfamare quelle otto infelici persone. Non ho avuto cuore di esigere la tassa”.
   “Comprendo. Ma la legge è legge. Guai se si sapesse che essa è pietosa! Tutti troverebbero ragioni per non pagare. Il giovinetto cambi mestiere e venda la barca se non possono pagare” .
   “È il loro pane futuro… ed è il ricordo del padre”.
   “Comprendo. Ma non si può transigere”.
   “Va bene. Ma io non posso pensare otto infelici privati dell’unico bene. Pago io i trecentosettanta assi”.

 Fatte queste cose, i due salirono al Tempio e, passando presso il gazofilacio, il fariseo trasse con ostentazione una voluminosa borsa dal seno e la scosse sino all’ultimo picciolo nel Tesoro. In quella borsa erano le monete prese in più ai negozianti e il ricavato dell’olio levato al fattore e subito venduto ad un mercante. Il pubblicano invece gettò un pugnello di piccioli, dopo aver levato quanto gli era necessario al ritorno al suo luogo. L’uno a l’altro dettero perciò quanto avevano. Anzi, in apparenza, il più generoso fu il fariseo, perché dette fino all’ultimo dei piccioli che aveva seco. Però occorre riflettere che nel suo palazzo egli aveva altre monete e aveva crediti aperti presso dei ricchi cambiavalute.
   Indi andarono davanti al Signore. Il fariseo proprio avanti, presso il limite dell’atrio degli Ebrei, verso il Santo; il pubblicano in fondo, quasi sotto la volta che portava nel cortile delle Donne, e stava curvo, schiacciato dal pensiero della sua miseria rispetto alla Perfezione divina. E pregavano l’uno e l’altro.
   Il fariseo, ben ritto, quasi insolente, come fosse il padrone del luogo e fosse lui che si degnasse di ossequiare un visitatore, diceva: “Ecco che sono venuto a venerarti nella Casa che è la nostra gloria. Sono venuto benché senta che Tu sei in me, perché io sono giusto. So esserlo. Però, per quanto sappia che soltanto per mio merito sono tale, ti ringrazio, come è legge, di ciò che sono. Io non sono rapace, ingiusto, adultero, peccatore come quel pubblicano che ha gettato contemporaneamente a me un pugnello di piccioli nel Tesoro. Io, lo hai visto, ti ho dato tutto quanto avevo meco. Quell’esoso, invece, ha fatto due parti e a Te ha dato la minore. L’altra, certamente, la terrà per le gozzoviglie e le femmine. Ma io sono puro. Non mi contamino io. Io sono puro e giusto, digiuno due volte alla settimana, pago le decime di quanto possiedo. Sì. Sono puro, giusto e benedetto, perché santo. Ricòrdatelo, o Signore”.
   Il pubblicano, dal suo angolo remoto, senza osare di alzare lo sguardo verso le porte preziose dell’hecal, (luogo santo ed era la sala che nel Tempio di Gerusalemme precedeva il debir [sarà menzionato al capitolo 534] o Santo dei santi [menzionato spesso], dove era custodita l’Arca e dove poteva entrare soltanto il Sommo Sacerdote una volta all’anno), e battendosi il petto, pregava così: “Signore, io non son degno di stare in questo luogo. Ma Tu sei giusto e santo, e me lo concedi ancora perché sai che l’uomo è peccatore e, se non viene da Te, diviene un demonio. Oh! mio Signore! Vorrei onorarti notte e giorno, e devo per tante ore essere schiavo del mio lavoro. Lavoro rude che mi avvilisce, perché è dolore al mio prossimo più infelice. Ma devo ubbidire ai miei superiori, perché è il mio pane. Fa’, o mio Dio, che io sappia temperare il dovere verso i superiori con la carità verso i miei poveri fratelli, perché nel mio lavoro non trovi la mia condanna. Ogni lavoro è santo se operato con carità. Tieni la tua carità sempre presente al mio cuore perché io, miserabile qual sono, sappia compatire i miei soggetti, come Tu compatisci me, gran peccatore. Avrei voluto onorarti di più, o Signore. Tu lo sai. Ma ho pensato che levare il denaro destinato al Tempio per sollevare otto cuori infelici fosse cosa migliore che versarlo nel gazofilacio e poi far versare lacrime di desolazione a otto innocenti infelici. Però se ho sbagliato fammelo comprendere, o Signore, e io ti darò fino all’ultimo picciolo, e tornerò al paese a piedi mendicando un pane. Fammi capire la tua giustizia. Abbi pietà di me, o Signore, perché io sono un gran peccatore”.   

 Questa la parabola. In verità, in verità vi dico che, mentre il fariseo uscì dal Tempio con un nuovo peccato aggiunto a quelli già fatti avanti di salire al Moria, il pubblicano uscì di là giustificato, e la benedizione di Dio lo accompagnò a casa sua e restò in essa. Perché egli era stato umile e misericordioso, e le sue azioni erano state ancor più sante delle sue parole. Mentre il fariseo solo a parole e all’esterno era buono, mentre nel suo interno era e faceva opere da satana per superbia e durezza di cuore, e Dio lo odiava perciò.
   Chi si esalta sarà sempre, prima o poi, umiliato. Se non qui nell’altra vita. E chi si umilia sarà esaltato, specie lassù nel Cielo, ove si vedono le azioni degli uomini nella loro vera verità.
   Vieni, Zaccheo. Venite voi che siete con lui. E voi, miei apostoli e discepoli. Vi parlerò ancora in privato».
   E, avvolgendosi nel mantello, torna alla casa di Zaccheo.

Vangelo Lc 1, 26-38: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio».

Vangelo Lc 1, 26-38
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
«Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».

Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Paralleli Vetus e Novus Ordo

   Cap. XVI. L’Annunciazione.

   8 marzo 1944.
   
   16.1Ciò che vedo. Maria, fanciulla giovanissima, quindici anni al massimo all’aspetto, è in una piccola stanza rettangolare. Una vera stanza di fanciulla. Contro una delle due pareti più lunghe è il giaciglio: un basso lettuccio senza sponde, coperto di alte stuoie o tappeti. Si direbbe che sono stesi o su una tavola o su un traliccio di canne, perché stanno molto rigidi e senza curve come avviene nei nostri letti. Contro l’altra parete, una scansia con una lucerna ad olio, dei rotoli di pergamena, un lavoro di cucito piegato con cura, pare un ricamo.
   Di fianco a questa, verso la porta che è aperta sull’orto, ma velata da una tenda che palpita ad un leggero vento, è seduta su uno sgabello basso la Vergine. Fila del lino candidissimo e morbido come una seta. Le sue piccole mani, solo di poco più scure del lino, prillano sveltamente il fuso. Il visetto giovanile, e tanto tanto bello, è lievemente curvo e lievemente sorridente, come se accarezzasse o seguisse qualche dolce pensiero.
   Vi è molto silenzio nella casetta e nell’orto. Vi è molta pace tanto sul viso di Maria quanto nell’ambiente che la circonda. Pace e ordine. Tutto è lindo e ordinato, e l’ambiente, umilissimo nel suo aspetto e nelle suppellettili, quasi nudo come una cella, ha un che di austero e regale per il grande nitore e la cura con cui sono disposte le stoffe sul lettuccio, i rotoli, il lume, la piccola brocca di rame presso al lume, con entro un fascio di rami fioriti, rami di pesco o di pero. Non so. Sono certo di alberi da frutto di un bianco lievemente rosato.

   16.2Maria si mette a cantare sottovoce e poi alza lievemente la voce. Non va al gran canto. Ma è già una voce che vibra nella stanzetta e nella quale si sente una vibrazione d’anima. Non capisco le parole, dette certo in ebraico. Ma, dato che ripete ogni tanto: «Jehovà», intuisco che sia qualche canto sacro, forse un salmo. Forse Maria ricorda i canti del Tempio. E deve essere un dolce ricordo, perché posa sul grembo le mani sorreggenti il filo e il fuso e alza il capo appoggiandolo indietro alla parete, accesa da un bel rossore nel viso, con gli occhi persi dietro a chissà quale soave pensiero, fatti lucidi da un’onda di pianto che non trabocca ma che li fa più grandi. Eppure quegli occhi ridono, sorridono al pensiero che vedono e che l’astrae dal sensibile. Il viso di Maria, emergente dalla veste bianca e semplicissima, così rosato e cinto dalle trecce che porta avvolte come corona intorno al capo, pare un bel fiore.
   Il canto si muta in preghiera: «Signore Iddio Altissimo, non tardare oltre a mandare il tuo Servo per portare la pace sulla Terra. Suscita il tempo propizio e la vergine pura e feconda per l’avvento del tuo Cristo. Padre, Padre santo, concedi alla tua serva di offrire la sua vita a questo scopo. Concedimi di morire dopo aver visto la tua Luce e la tua Giustizia sulla Terra e di aver conosciuto che la Redenzione è compiuta. O Padre santo, manda alla Terra il Sospiro dei Profeti. Manda alla tua serva il Redentore. Che nell’ora in cui cessi il mio giorno, si apra per me la tua Dimora, perché le sue porte sono state già aperte dal tuo Cristo per tutti coloro che hanno sperato in Te. Vieni, vieni, o Spirito del Signore. Vieni ai tuoi fedeli che ti attendono. Vieni, Principe della Pace!…». Maria resta assorta così… 

   16.3La tenda palpita più forte, come se qualcuno dietro ad essa ventilasse con qualcosa o la scuotesse per scostarla. E una luce bianca di perla fusa ad argento puro fa più chiare le pareti lievemente gialline, più vivi i colori delle stoffe, più spirituale il volto sollevato di Maria. Nella luce, e senza che la tenda sia scostata sul mistero che si compie — anzi non palpita più, pende ben rigida contro gli stipiti, come fosse parete che isola l’interno dall’esterno — si prosterna l’Arcangelo.
   Deve necessariamente assumere aspetto umano. Ma è un aspetto trasumanato. Di quale carne è composta questa figura bellissima e folgorante? Di quale sostanza l’ha materializzata Iddio per renderla sensibile ai sensi della Vergine? Solo Dio può possedere queste sostanze e usarle in tal maniera perfetta. È un volto, è un corpo, sono occhi, bocca, capelli e mani come le nostre. Ma non sono la nostra opaca materia. È una luce che ha preso colore di carne, di occhi, di chioma, di labbra, una luce che si muove e sorride e guarda e parla. 

   16.4«Ave, Maria, piena di Grazia, ave!». La voce è un dolce arpeggio come di perle gettate su un metallo prezioso.
   Maria trasale e abbassa lo sguardo. E più trasale quando vede la fulgida creatura inginocchiata ad un metro circa di distanza da Lei e che, con le mani incrociate sul petto, la guarda con una venerazione infinita.
   Maria balza in piedi e si stringe alla parete. Diviene pallida e rossa alternativamente. Il suo viso esprime stupore e sgomento. Si stringe inconsciamente le mani sul seno nascondendole sotto le larghe maniche, si curva quasi per nascondere il più possibile il suo corpo. Un atto di pudore soave.
   «No. Non temere. Il Signore è teco! Tu sei benedetta fra tutte le donne».
   Ma Maria continua a temere. Da dove è venuto quell’essere straordinario? È un messo di Dio o dell’Ingannatore?
   «Non temere, Maria!», ripete l’Arcangelo. «Io sono Gabriele, l’Angelo di Dio. Il mio Signore mi ha mandato a te. Non temere, perché tu hai trovato grazia presso Dio. Ed ora tu concepirai nel seno e partorirai un Figlio e gli porrai nome “Gesù”. Questi sarà grande, sarà chiamato Figlio dell’Altissimo (e tale sarà in vero) e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe, e il suo Regno non avrà mai fine. Comprendi, o santa Vergine amata dal Signore, Figlia benedetta di Lui, chiamata ad esser Madre del suo Figlio, quale Figlio tu genererai».
   «Come può avvenire questo se io non conosco uomo? Forse che il Signore Iddio più non accoglie l’offerta della sua serva e non mi vuole vergine per amor di Lui?».
   «Non per opera di uomo sarai Madre, o Maria. Tu sei l’eterna Vergine, la Santa di Dio. Lo Spirito Santo scenderà in te e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà. Perciò Santo si chiamerà Colui che nascerà da te, e Figlio di Dio. Tutto può il Signore Iddio nostro. Elisabetta, la sterile, nella sua vecchiaia ha concepito un figlio che sarà il Profeta del tuo Figlio, colui che ne prepara le vie. Il Signore ha levato a questa il suo obbrobrio, e la sua memoria resterà nelle genti congiunta al nome tuo, come il nome della sua creatura a quello del tuo Santo, e fino alla fine dei secoli le genti vi chiameranno beate per la Grazia del Signore venuta a voi ed a te specialmente; venuta alle genti per mezzo tuo. Elisabetta è nel suo sesto mese ed il suo peso la solleva al gaudio, e più la solleverà quando conoscerà la tua gioia. Nulla è impossibile a Dio, Maria, piena di Grazia. Che devo dire al mio Signore? Non ti turbi pensiero di sorta. Egli tutelerà gli interessi tuoi se a Lui ti affidi. Il mondo, il Cielo, l’Eterno attendono la tua parola!».
   Maria, incrociando a sua volta le mani sul petto e curvandosi in un profondo inchino, dice: «Ecco l’ancella di Dio. Si faccia di me secondo la sua parola».
   L’Angelo sfavilla nella gioia. Adora, poiché certo egli vede lo Spirito di Dio abbassarsi sulla Vergine curva nell’adesione, e poi scompare senza smuover tenda, ma lasciandola ben tirata sul Mistero santo.

     Cap. XVII. La disubbidienza di Eva e l’ubbidienza di Maria

   5 marzo 1944.

   17.1Dice Gesù:
   «[…][47].
   Non si legge nella Genesi[48] che Dio fece l’uomo dominatore su tutto quanto era sulla Terra, ossia su tutto meno che su Dio e i suoi angelici ministri? Non si legge che fece la donna perché fosse compagna all’uomo nella gioia e nella dominazione su tutti i viventi? Non si legge che di tutto potevano mangiare fuorché dell’albero della scienza del Bene e del Male? Perché? Quale sottosenso è nella parola “perché domini”? Quale in quello dell’albero della scienza del Bene e del Male? Ve lo siete mai chiesto, voi che vi chiedete tante cose inutili e non sapete chiedere mai alla vostra anima le celesti verità?
   La vostra anima, se fosse viva, ve le direbbe, essa che quando è in grazia è tenuta come un fiore fra le mani dell’angelo vostro, essa che quando è in grazia è come un fiore baciato dal sole e irrorato dalla rugiada per lo Spirito Santo che la scalda e illumina, che la irriga e la decora di celesti luci. Quante verità vi direbbe la vostra anima se sapeste conversare con essa, se l’amaste come quella che mette in voi la somiglianza con Dio, che è Spirito come spirito è la vostra anima. Quale grande amica avreste se amaste la vostra anima in luogo di odiarla sino ad ucciderla; quale grande, sublime amica con la quale parlare di cose di Cielo, voi che siete così avidi di parlare e vi rovinate l’un l’altro con amicizie che, se non sono indegne (qualche volta lo sono) sono però quasi sempre inutili e vi si mutano in frastuono vano o nocivo di parole, e parole tutte di Terra.
   Non ho Io detto[49]: “Chi mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio l’amerà, e verremo presso di lui e faremo in lui dimora”? L’anima in grazia possiede l’amore e, possedendo l’amo­­re, possiede Dio, ossia il Padre che la conserva, il Figlio che l’ammaestra, lo Spirito che la illumina. Possiede quindi la Conoscenza, la Scienza, la Sapienza. Possiede la Luce. Pensate perciò quali conversazioni sublimi potrebbe intrecciare con voi la vostra anima. Sono quelle che hanno empito i silenzi delle carceri, i silenzi delle celle, i silenzi degli eremitaggi, i silenzi delle camere degli infermi santi. Sono quelle che hanno confortato i carcerati in attesa di martirio, i claustrati alla ricerca della Verità, i romiti anelanti alla conoscenza anticipata di Dio, gli infermi alla sopportazione, ma che dico?, all’amore della loro croce.

   17.2Se sapeste interrogare la vostra anima, essa vi direbbe che il significato vero, esatto, vasto quanto il creato, di quella parola “domini” è questo: “Perché l’uomo domini su tutto. Su tutti i suoi tre strati[50]. Lo strato inferiore, animale. Lo strato di mezzo, morale. Lo strato superiore, spirituale. E tutti e tre li volga ad un unico fine: possedere Dio”. Possederlo meritandolo con questo ferreo dominio, che tiene soggette tutte le forze dell’io e le fa ancelle di questo unico scopo: meritare di possedere Dio. Vi direbbe che Dio aveva proibito la conoscenza del Bene e del Male, perché il Bene lo aveva elargito alle sue creature gratuitamente, e il Male non voleva che lo conosceste, perché è frutto dolce al palato ma che, sceso col suo succo nel sangue, ne desta una febbre che uccide e produce arsione, per cui più si beve di quel suo succo mendace e più se ne ha sete.

   17.3Voi obbietterete: “E perché ce l’ha messo?”. E perché! Perché il Male è una forza che è nata da sola, come certi mali mostruosi nel corpo più sano.
   Lucifero era angelo, il più bello degli angeli. Spirito perfetto, inferiore a Dio soltanto. Eppure nel suo essere luminoso nacque un vapore di superbia che esso non disperse. Ma anzi condensò covandolo. E da questa incubazione è nato il Male. Esso era prima che l’uomo fosse. Dio l’aveva precipitato fuor dal Paradiso, l’Incubatore maledetto del Male, questo insozzatore del Paradiso. Ma esso è rimasto l’eterno Incubatore del Male e, non potendo più insozzare il Paradiso, ha insozzato la Terra.

   17.4Quella metaforica pianta sta a dimostrare questa verità. Dio aveva detto all’uomo e alla donna: “Conoscete tutte le leggi ed i misteri del creato. Ma non vogliate usurparmi il diritto di essere il Creatore dell’uomo. A propagare la stirpe umana basterà il mio amore che circolerà in voi, e senza libidine di senso ma per solo palpito di carità susciterà i nuovi Adami della stirpe. Tutto vi dono. Solo mi serbo questo mistero della formazione dell’uomo”.

   17.5Satana ha voluto levare questa verginità intellettuale al­l’uomo, e con la sua lingua serpentina ha blandito e accarezzato membra e occhi di Eva, suscitandone riflessi e acutezze che prima non avevano, perché la Malizia non li aveva intossicati.
   Essa “vide”. E vedendo volle provare. La carne era destata. Oh! se avesse chiamato Dio! Se fosse corsa a dirgli: “Padre! Io son malata. Il Serpente mi ha accarezzata e il turbamento è in me”. Il Padre l’avrebbe purificata e guarita col suo alito, che, come le aveva infuso la vita, poteva infonderle nuovamente innocenza, smemorandola del tossico serpentino ed anzi mettendo in lei la ripugnanza per il Serpente, come è in quelli che un male ha assalito e che, guariti di quel male, ne portano una istintiva ripugnanza. Ma Eva non va al Padre. Eva torna dal Serpente. Quella sensazione è dolce per lei. “Vedendo che il frutto dell’albero era buono a mangiarsi e bello all’occhio e gradevole all’aspetto, lo colse e ne mangiò”.
   E “comprese”. Ormai la malizia era scesa a morderle le viscere. Vide con occhi nuovi e udì con orecchi nuovi gli usi e le voci dei bruti. E li bramò con folle bramosia.

   17.6Iniziò sola il peccato. Lo portò a termine col compagno. Ecco perché sulla donna pesa condanna maggiore. È per lei che l’uomo è divenuto ribelle a Dio e che ha conosciuto lussuria e morte. È per lei che non ha più saputo dominare i suoi tre regni: dello spirito, perché ha permesso che lo spirito disubbidisse a Dio; del morale, perché ha permesso che le passioni lo signoreggiassero; della carne, perché l’avvilì alle leggi istintive dei bruti. “Il Serpente mi ha sedotta”, dice Eva. “La donna m’ha offerto il frutto ed io ne ho mangiato”, dice Adamo. E la cupidigia triplice abbranca da allora i tre regni dell’uomo.

   17.7Non c’è che la Grazia che riesca ad allentare la stretta di questo mostro spietato. E, se è viva, vivissima, mantenuta sempre più viva dalla volontà del figlio fedele, giunge a strozzare il mostro ed a non aver più a temere di nulla. Non dei tiranni interni, ossia della carne e delle passioni; non dei tiranni esterni, ossia del mondo e dei potenti del mondo. Non delle persecuzioni. Non della morte. È come dice l’apostolo Paolo[51]: “Nessuna di queste cose io temo, né tengo alla mia vita più di me, purché io compia la mia missione ed il ministero ricevuto dal Signore Gesù per rendere testimonianza al Vangelo della Grazia di Dio”.
   […]».

   [8 marzo 1944.]   

   17.8Dice Maria:
   «Nella gioia, poiché quando ho compreso la missione a cui Dio mi chiamava fui ripiena di gioia, il mio cuore si aprì come un giglio serrato e se ne effuse quel sangue che fu zolla al Germe del Signore.

   17.9Gioia di esser madre.
   M’ero consacrata a Dio dalla prima età, perché la luce dell’Altissimo m’aveva illuminato la causa del male del mondo ed avevo voluto, per quanto era in mio potere, cancellare da me la traccia di Satana.
   Io non sapevo di esser senza macchia. Non potevo pensare d’esserlo. Il solo pensarlo sarebbe stata presunzione e superbia, perché, nata da umani genitori, non m’era lecito pensare che proprio io ero l’Eletta ad esser la Senza Macchia.
   Lo Spirito di Dio mi aveva istruita sul dolore del Padre davanti alla corruzione di Eva, che aveva voluto avvilire sé, creatura di grazia, ad un livello di creatura inferiore. Era in me l’intenzione di addolcire quel dolore riportando la mia carne alla purezza angelica col serbarmi inviolata da pensieri, desideri e contatti umani. Solo per Lui il mio palpito d’amore, solo a Lui il mio essere. Ma, se non era in me arsione di carne, era però ancora il sacrificio di non esser madre.
   La maternità, priva di quanto ora la avvilisce, era stata concessa dal Padre creatore anche ad Eva. Dolce e pura maternità senza pesantezza di senso! Io l’ho provata! Di quanto s’è spogliata Eva rinunciando a questa ricchezza! Più che dell’immortalità. E non vi paia esagerazione. Il mio Gesù, e con Lui io, sua Madre, abbiamo conosciuto il languore della morte. Io il dolce languore di chi stanco si addormenta, Egli l’atroce languore di chi muore per la sua condanna. Dunque anche a noi è venuta la morte. Ma la maternità, senza violazioni di sorta, è venuta a me sola, Eva nuova, perché io potessi dire al mondo di qual dolcezza fosse la sorte della donna chiamata ad esser madre senza dolore di carne. E il desiderio di questa pura maternità poteva essere ed era anche nella vergine tutta di Dio, poiché essa è la gloria della donna. Se voi pensate, poi, in quale onore era tenuta la donna madre presso gli israeliti, ancor più potete pensare quale sacrificio avevo compiuto consacrandomi a questa privazione.
   Ora alla sua serva l’eterno Buono dava questo dono senza levarmi il candore di cui m’ero vestita per esser fiore sul suo trono. Ed io ne giubilavo con la duplice gioia d’esser madre di un uomo e d’esser Madre di Dio 

   17.10Gioia d’esser Quella per cui la pace si rinsaldava fra Cielo e Terra.
   Oh! aver desiderato questa pace per amore di Dio e di prossimo, e sapere che per mezzo di me, povera ancella del Potente, essa veniva al mondo! Dire: “Oh! uomini, non piangete più. Io porto in me il segreto che vi farà felici. Non ve lo posso dire, perché è sigillato in me, nel mio cuore, come è chiuso il Figlio nel seno inviolato. Ma già ve lo porto fra voi, ma ogni ora che passa è più prossimo il momento in cui lo vedrete e ne conoscerete il Nome santo”.

   17.11Gioia d’aver fatto felice Iddio: gioia di credente per il suo Dio fatto felice.
   Oh! l’aver levato dal cuore di Dio l’amarezza della disubbidienza d’Eva! Della superbia d’Eva! Della sua incredulità!
   Il mio Gesù ha spiegato di qual colpa si macchiò la Coppia prima. Io ho annullato quella colpa rifacendo a ritroso, per ascendere, le tappe della sua discesa.

   17.12Il principio della colpa fu nella disubbidienza. “Non mangiate e non toccate di quell’albero”, aveva detto Iddio. E l’uomo e la donna, i re del creato, che potevano di tutto toccare e mangiare fuor che di quello, perché Dio voleva non renderli che inferiori agli angeli, non tennero conto di quel divieto.
   La pianta: il mezzo per provare l’ubbidienza dei figli.
   Che è l’ubbidienza al comando di Dio? È bene, perché Dio non comanda che il bene. Che è la disubbidienza? È male, perché mette l’animo nelle disposizioni di ribellione su cui Satana può operare.
   Eva va alla pianta da cui sarebbe venuto il suo bene con lo sfuggirla o il suo male coll’avvicinarla. Vi va trascinata dalla curiosità bambina di vedere che avesse in sé di speciale, dall’imprudenza che le fa parere inutile il comando di Dio, dato che lei è forte e pura, regina dell’Eden, in cui tutto le ubbidisce e in cui nulla potrà farle del male. La sua presunzione la rovina. La presunzione è già lievito di superbia.
   Alla pianta trova il Seduttore il quale, alla sua inesperienza, alla sua vergine tanto bella inesperienza, alla sua maltutelata da lei inesperienza, canta la canzone della menzogna. “Tu credi che qui sia del male? No. Dio te l’ha detto, perché vi vuol tenere schiavi del suo potere. Credete d’esser re? Non siete neppur liberi come lo è la fiera. Ad essa è concesso di amarsi di amor vero. Non a voi. Ad essa è concesso d’esser creatrice come Dio. Essa genererà figli e vedrà crescere a suo piacere la famiglia. Non voi. A voi negata è questa gioia. A che pro dunque farvi uomo e donna se dovete vivere in tal maniera? Siate dèi. Non sapete quale gioia è l’esser due in una carne sola, che ne crea una terza e molte più terze? Non credete alle promesse di Dio di avere gioia di posterità vedendo i figli crearsi nuove famiglie, lasciando per esse e padre e madre. Vi ha dato una larva di vita: la vita vera è di conoscere le leggi della vita. Allora sarete simili a dèi e potrete dire a Dio: ‘Siamo tuoi uguali’”.
   E la seduzione è continuata, perché non vi fu volontà di spezzarla, ma anzi volontà di continuarla e di conoscere ciò che non era dell’uomo. Ecco che l’albero proibito diviene, alla razza, realmente mortale, perché dalle sue rame pende il frutto dell’amaro sapere che viene da Satana. E la donna diviene femmina e, col lievito della conoscenza satanica in cuore, va a corrompere Adamo. Avvilita così la carne, corrotto il morale, degradato lo spirito, conobbero il dolore e la morte dello spirito privato della Grazia, e della carne privata dell’immortalità. E la ferita di Eva generò la sofferenza, che non si placherà finché non sarà estinta l’ultima coppia sulla Terra.

   17.13Io ho percorso a ritroso la via dei due peccatori. Ho ubbidito. In tutti i modi ho ubbidito. Dio m’aveva chiesto d’esser vergine. Ho ubbidito. Amata la verginità, che mi faceva pura come la prima delle donne prima di conoscere Satana, Dio mi chiese d’esser sposa. Ho ubbidito, riportando il matrimonio a quel grado di purezza che era nel pensiero di Dio quando aveva creato i due Primi. Convinta d’esser destinata alla solitudine nel matrimonio e allo sprezzo del prossimo per la mia sterilità santa, ora Dio mi chiedeva d’esser Madre. Ho ubbidito. Ho creduto che ciò fosse possibile e che quella parola venisse da Dio, perché la pace si diffondeva in me nell’udirla. Non ho pensato: “Me lo sono meritato”. Non mi son detta: “Ora il mondo mi ammirerà, perché sono simile a Dio creando la carne di Dio”. No. Mi sono annichilita nella umiltà.
   La gioia m’è sgorgata dal cuore come uno stelo di rosa fiorita. Ma si ornò subito di acute spine e fu stretta nel viluppo del dolore, come quei rami che sono avvolti dai vilucchi dei convolvoli. Il dolore del dolore dello sposo: ecco la strettoia nel mio gioire. Il dolore del dolore del mio Figlio: ecco le spine del mio gioire.
   Eva volle il godimento, il trionfo, la libertà. Io accettai il dolore, l’annichilimento, la schiavitù. Rinunciai alla mia vita tranquilla, alla stima dello sposo, alla libertà mia propria. Non mi serbai nulla. Divenni l’Ancella di Dio nella carne, nel morale, nello spirito, affidandomi a Lui non solo per il verginale concepimento, ma per la difesa del mio onore, per la consolazione dello sposo, per il mezzo con cui portare egli pure alla sublimazione del coniugio, di modo da fare di noi coloro che rendono all’uomo e alla donna la dignità perduta.

   17.14Abbracciai la volontà del Signore per me, per lo sposo, per la mia Creatura. Dissi: “Sì” per tutti e tre, certa che Dio non avrebbe mentito alla sua promessa di soccorrermi nel mio dolore di sposa che si vede giudicata colpevole, di madre che si vede generare per dare il Figlio al dolore.
“Sì”, ho detto. Sì. E basta. Quel “sì” ha annullato il “no” di Eva al comando di Dio. “Sì, Signore, come Tu vuoi. Conoscerò quel che Tu vuoi. Vivrò come Tu vuoi. Gioirò se Tu vuoi. Soffrirò per quel che Tu vuoi. Sì, sempre sì, mio Signore, dal momento in cui il tuo raggio mi fe’ Madre al momento in cui mi chiamasti a Te. Sì, sempre sì. Tutte le voci della carne, tutte le passioni del morale sotto il peso di questo mio perpetuo sì. E sopra, come su un piedestallo di diamante, il mio spirito a cui mancan l’ali per volare a Te, ma che è signore di tutto l’io domato e servo tuo. Servo nella gioia, servo nel dolore. Ma sorridi, o Dio. E sii felice. La colpa è vinta. È levata, è distrutta. Essa giace sotto al mio tallone, essa è lavata nel mio pianto, distrutta dalla mia ubbidienza. Dal mio seno nascerà l’Albero nuovo che porterà il Frutto che conoscerà tutto il Male, per averlo patito in Sé, e darà tutto il Bene. A questo potranno venire gli uomini, ed io sarò felice se ne coglieranno anche senza pensare che esso nasce da me. Purché l’uomo si salvi e Dio sia amato, si faccia della sua ancella quel che si fa della zolla su cui un albero sorge: gradino per salire”.

   17.15Maria, bisogna sempre saper essere gradino perché gli altri salgano a Dio. Se ci calpestano, non fa niente. Purché riescano ad andare alla Croce. È il nuovo albero che ha il frutto della conoscenza del Bene e del Male, perché dice all’uomo ciò che è male e ciò che è bene, perché sappia scegliere e vivere, e sa nel contempo fare di sé liquore per guarire gli intossicati dal male voluto gustare. Il nostro cuore sotto ai piedi degli uomini, purché il numero dei redenti cresca e il Sangue del mio Gesù non sia effuso senza frutto. Ecco la sorte delle ancelle di Dio. Ma poi meritiamo di ricevere nel grembo l’Ostia santa e ai piedi della Croce, intrisa del suo Sangue e del nostro pianto, dire: “Ecco, o Padre, l’Ostia immacolata che ti offriamo per la salute del mondo. Guardaci, o Padre, fuse con Essa, e per i suoi meriti infiniti dàcci la tua benedizione”.
   Ed io ti do la mia carezza. Riposa, figlia. Il Signore è con te».

   17.16Dice Gesù:
   «La parola della Madre mia dovrebbe sperdere ogni titubanza di pensiero anche nei più inceppati nelle formule.
[…].
   Ho detto: “metaforica pianta”. Dirò ora: “simbolica pianta”. Forse capirete meglio. Il suo simbolo è chiaro: dal come i due figli di Dio avrebbero agito rispetto ad essa, si sarebbe compreso come era in loro tendenza al Bene o al Male. Come acqua regia che prova l’oro e bilancia d’orafo che ne pesa i carati, quella pianta, divenuta una “missione” per il comando di Dio rispetto ad essa, ha dato la misura della purezza del metallo d’Adamo e di Eva.

   17.17Sento già la vostra obbiezione: “Non è stata soverchia la condanna e puerile il mezzo usato per giungere a condannarli?”.
   Non è stato. Una disubbidienza attualmente in voi, che siete gli eredi loro, è meno grave che non fosse in essi. Voi siete redenti da Me. Ma il veleno di Satana rimane sempre pronto a risorgere, come certi morbi che non si annullano mai totalmente nel sangue. Essi, i due Progenitori, erano possessori della Grazia senza aver mai avuto sfioramento con la Disgrazia. Perciò più forti, più sorretti dalla Grazia, che generava innocenza e amore. Infinito era il dono che Dio aveva loro dato. Ben più grave perciò la loro caduta nonostante quel dono.

   17.18Simbolico anche il frutto offerto e mangiato. Era il frutto di una esperienza voluta compiere per istigazione satanica contro il comando di Dio. Io non avevo interdetto agli uomini l’amore. Volevo unicamente che si amassero senza malizia; come Io li amavo con la mia santità, essi dovevano amarsi in santità d’affetti, che nessuna libidine insozza.

   17.19Non si deve dimenticare che la Grazia è lume, e chi la possiede conosce ciò che è utile e buono conoscere. La Piena di Grazia conobbe tutto, perché la Sapienza la istruiva, la Sapienza che è Grazia, e si seppe guidare santamente. Eva conosceva perciò ciò che le era buono conoscere. Non oltre, perché è inutile conoscere ciò che non è buono. Non ebbe fede nelle parole di Dio e non fu fedele nella sua promessa di ubbidienza. Credette a Satana, infranse la promessa, volle sapere il non buono, lo amò senza rimorso, rese l’amore, che Io avevo dato così santo, una corrotta cosa, una avvilita cosa. Angelo decaduto, si rotolò nel fango e sullo strame, mentre poteva correre felice fra i fiori del Paradiso terrestre e vedersi fiorire intorno la prole, così come una pianta si copre di fiori senza curvare la chioma nel pantano.

   17.20Non siate come i fanciulli stolti che Io indico[52] nel Vangelo, i quali hanno udito cantare e si sono turati gli orecchi, hanno udito suonare e non hanno ballato, hanno udito piangere e hanno voluto ridere. Non siate gretti e non siate negatori. Accettate, accettate senza malizia e cocciutaggine, senza ironia e incredulità, la Luce. E basta su ciò.

   17.21Per farvi capire di quanto dovete esser grati a Colui che è morto per rialzarvi al Cielo e per vincere la concupiscenza di Satana, ho voluto parlarvi, in questo tempo di preparazione alla Pasqua, di questo che è stato il primo anello della catena con cui il Verbo del Padre fu tratto alla morte, l’Agnello divino al macello. Ve ne ho voluto parlare perché ora il novanta per cento fra voi è simile ad Eva intossicata dal fiato e dalla parola di Lucifero, e non vivete per amarvi ma per saziarvi di senso, non vivete per il Cielo ma per il fango, non siete più creature dotate d’anima e ragione ma cani senz’anima e senza ragione. L’anima l’avete uccisa e la ragione depravata. In verità vi dico che i bruti vi superano nella onestà dei loro amori».

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Lc 11, 14-23: « Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio».

Vangelo Lc 11, 14-23
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. Ma alcuni dissero: «È per mezzo di Beelzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni». Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo.
Egli, conoscendo le loro intenzioni, disse: «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. Ora, se anche satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebùl. Ma se io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebùl, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio.
Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino.
Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
” Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” .


Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’

Paralleli Novus ordo

   Cap. CCLXIX. La disputa con scribi e farisei a Cafarnao. L’arrivo della Madre e dei fratelli.

   2 settembre 1945

 1 La stessa scena della passata visione. Gesù si accomiata dalla vedova, tenendo però già per mano il piccolo Giuseppe, e dice alla donna: «Non verrà nessuno prima del mio ritorno, a meno che non sia un gentile. Ma chiunque venga trattienilo fino a dopo domani dicendo che verrò senza fallo».
  «Lo dirò, Maestro. E se vi saranno malati li ospiterò come Tu mi hai insegnato».
  «Addio, allora, e la pace sia con voi. Vieni, Mannaen».
  Da questo breve spunto comprendo che malati e infelici in genere lo hanno raggiunto a Corozim e che all’evangelizzazione del lavoro Gesù ha unito quella del miracolo. E se Corozim resta sempre indifferente è proprio segno che è terreno selvaggio e incoltivabile. Pure Gesù la traversa, salutando quelli che lo salutano, come nulla fosse, e poi riprendendo a parlare con Mannaen, che è incerto se ripartire per Macheronte o rimanere ancora una settimana…

 2 … Nella casa di Cafarnao intanto si preparano al sabato. Matteo, un poco zoppicante, riceve i compagni, li soccorre d’acqua e di frutta fresche, chiedendo delle loro missioni.
  Pietro arriccia il naso vedendo che già dei farisei bighellonano presso la casa: «Hanno voglia di avvelenarci il sabato.
  Quasi direi di andare incontro al Maestro e dirgli di andare a Betsaida lasciando costoro delusi».
  «E credi che il Maestro lo farebbe?», chiede suo fratello.
  «E poi c’è nella stanza bassa quel povero infelice che aspetta», osserva Matteo.
  «Si potrebbe portarlo con la barca a Betsaida, e io, o qualche altro, andare incontro al Maestro», dice Pietro.
  «Quasi quasi…», dice Filippo che, avendo famiglia a Betsaida, ci andrebbe volentieri.
  «Molto più che, vedete, vedete! Oggi la guardia è rinforzata con degli scribi. Andiamo senza perdere tempo. Voi, col malato, passate dall’orto, e via per il dietro della casa. Io porto la barca al “pozzo del fico” e Giacomo fa la stessa cosa. Simone Zelote e i fratelli di Gesù vanno incontro al Maestro».
  «Io non vado via coll’indemoniato», proclama l’Iscariota.
  «Perché? Hai paura che ti si attacchi il demonio?».
  «Non mi inquietare, Simone di Giona. Ho detto che io non vado e non vado».
  «Va’ coi cugini incontro a Gesù».
  «No».
  «Auf! Vieni in barca».
  «No».
  «Ma insomma che vuoi? Sei sempre quello degli ostacoli…».
  «Voglio rimanere dove sono: qui. Non ho paura di nessuno e non scappo. E del resto il Maestro non vi sarebbe grato della trovata. E sarebbe un’altra predica di rimprovero, e io non ho voglia di averla per vostra colpa. Voi andate. Io resterò a riferire…».
  «No proprio! O tutti o nessuno», urla Pietro.
  «Allora nessuno, perché il Maestro è qui. Eccolo che si avanza», dice serio lo Zelote che guardava sulla via.
  Pietro, malcontento, borbotta fra la barba. Ma va incontro a Gesù con gli altri. 

 3 Dopo i primi saluti gli dicono di un indemoniato, cieco e muto, che attende coi parenti la sua venuta da molte ore.
  Matteo spiega: «È come inerte. Si è gettato su dei sacchi vuoti e non si è più mosso. I parenti sperano in Te. Vieni a ristorarti e poi lo soccorrerai».
  «No. Vado subito da lui. Dove è?».
  «Nella stanza bassa presso al forno. L’ho messo lì coi parenti perché ci sono molti farisei, e anche scribi, che sembrano in agguato…».
  «Sì, e sarebbe meglio non farli contenti», brontola Pietro.
  «Giuda di Simone non c’è?», chiede Gesù.
  «È rimasto in casa. Lui deve fare ciò che gli altri non fanno», brontola ancora Pietro.
  Gesù lo guarda ma non lo rimprovera. Si affretta alla casa affidando il bambino proprio a Pietro, che se lo carezza tirando subito fuori dall’alta cintura un fischietto dicendo: «Uno a te e uno a mio figlio. Domani sera ti ci porto a vederlo. Me li sono fatti fare da un pastore al quale ho parlato di Gesù».
  Gesù entra in casa, saluta Giuda che sembra tutto occupato ad ordinare le stoviglie, e poi tira diritto fino ad una specie di dispensa bassa e scura che è addossata al forno.
  «Fate uscire il malato», ordina Gesù.
  Un fariseo che non è di Cafarnao, ma che ha una mùtria peggiore ancora a quelle dei farisei locali, dice: «Non è un malato. È un indemoniato».
  «È sempre una malattia dello spirito…».
  «Ma lui ha legati gli occhi e la favella…».
  «È sempre una malattia dello spirito, che si estende alle membra e agli organi, la possessione. Se mi avessi lasciato terminare avresti saputo che volevo dire questo. Anche la febbre è nel sangue quando si è malati, ma dal sangue attacca poi questa o quella parte del corpo».
  Il fariseo non sa che ribattere e tace.

 4 L’indemoniato è stato condotto di fronte a Gesù. Inerte. Ha detto bene Matteo. Molto impedito dal demonio.
  La gente intanto si affolla. È incredibile come, specie nelle ore, dirò così, di svago, facesse presto un tempo ad accorrere gente dove c’era da vedere qualche cosa. Vi sono ora i notabili di Cafarnao, fra i quali i quattro farisei, vi è Giairo, e in un angolo, con la scusa di sorvegliare l’ordine, vi è il centurione romano, e con lui cittadini di altre città.
  «In nome di Dio, lascia le pupille e la lingua di costui! Lo voglio! Libera di te questa creatura! Non ti è più lecito tenerla. Via!», grida Gesù tendendo le mani nel comando.
  Il miracolo si inizia con un urlo di rabbia del demonio e finisce con un urlo di gioia del liberato che grida: «Figlio di Davide! Figlio di Davide! Santo e Re!».

 5 «Come fa costui a sapere chi è colui che lo ha guarito?», chiede uno scriba.
  «Ma è tutta una commedia! Questa gente è pagata per fare ciò!», dice alzando le spalle un fariseo.
  «Ma da chi, se è lecito chiedervelo?», interroga Giairo.
  «Anche da te».
  «E a che scopo?».
  «Per rendere celebre Cafarnao».
  «Non umiliare la tua intelligenza dicendo stoltezze e la tua lingua sporcandola di menzogne. Tu sai che ciò non è vero, e dovresti capire che dici una stoltezza. Ciò che qui avviene è avvenuto in molte parti di Israele. Allora dovunque vi sarà chi paga? In verità non sapevo che in Israele la plebe fosse molto ricca! Perché voi, e con voi i grandi tutti, non pagate certo per questo. Allora paga la plebe, che è l’unica che ami il Maestro».
  «Tu sei sinagogo e lo ami. Là è Mannaen. E a Betania è Lazzaro di Teofilo. Questi non sono plebe».
  «Ma sono essi, e sono io, onesti. E non truffiamo nessuno, in niente. E tanto meno nelle cose di fede. Non ce lo permettiamo noi, temendo Dio e avendo capito ciò che a Dio piace: l’onestà».
  I farisei voltano le spalle a Giairo e attaccano i parenti del guarito: «Chi vi ha detto di venire qui?».
  «Chi? Molti. Già guariti o parenti di guariti».
  «Ma che vi hanno dato?».
  «Dato? La assicurazione che Egli ce lo avrebbe guarito».
  «Ma era proprio malato?».
  «Oh! Menti subdole! Credete che si sia finto tutto ciò? Andate a Gadara e chiedete, se non credete, della sventura della famiglia di Anna di Ismaele».
  La gente di Cafarnao, sdegnata, tumultua, mentre dei galilei, venuti da presso Nazaret, dicono: «Eppure costui è figlio di Giuseppe legnaiolo!».
  I cittadini di Cafarnao, fedeli a Gesù, urlano: «No. È quello che Lui dice e che il guarito ha detto: “Figlio di Dio e Figlio di Davide”».
  «Ma non aumentate l’esaltazione del popolo con le vostre asserzioni!», dice sprezzante uno scriba.
  «E che è allora, secondo voi?».
  «Un Belzebù!».
  «Uh! Lingue di vipere! Bestemmiatori! Posseduti voi! Ciechi di cuore! Rovina nostra. Anche la gioia del Messia vorreste levarci, eh? Strozzini! Selci aride!». Un bel baccano!
  Gesù, che si era ritirato in cucina per bere un poco d’acqua, si affaccia sulla soglia in tempo per sentire una volta ancora la trita e stolta accusa farisaica: «Costui non è che un Belzebù, perché i demoni lo ubbidiscono. Il grande Belzebù suo padre lo aiuta, ed Egli caccia i demoni non con altro che con l’opera di Belzebù principe dei demoni».

 6 Gesù scende i due piccoli scalini della soglia e viene avanti, diritto, severo e calmo, fermandosi proprio di fronte al gruppo scribo-farisaico, e fissatili acutamente dice loro:
  «Anche sulla Terra noi vediamo che un regno diviso in partiti contrari fra di loro diviene debole all’interno e facile ad essere aggredito e devastato dagli stati vicini che lo rendono suo schiavo. Anche sulla Terra vediamo che una città divisa in parti contrarie non ha più benessere, e così lo è di una famiglia i cui componenti siano divisi dall’astio fra di loro. Essa si sgretola, diviene un inutile sbocconcellamento che non serve a nessuno e che fa ridere i concittadini. La concordia, oltre che dovere, è furbizia. Perché mantiene indipendenti, forti e amorosi. Questo dovrebbero riflettere i patriotti, i cittadini, i famigliari, quando per l’uzzolo di un utile singolo vengono tentati a separazioni e a sopraffazioni che sono sempre pericolose, essendo alterne nei partiti, essendo distruttrici negli affetti. E questa furbizia infatti esercitano coloro che sono i padroni del mondo. Osservate Roma nella sua innegabile potenza, a noi tanto penosa. Domina il mondo. Ma è unita in un unico parere, in una sola volontà: “dominare”. Anche fra di loro ci saranno certo contrasti, antipatie, ribellioni. Ma questo sta nel fondo. Alla superficie è un blocco solo, senza incrinature, senza turbamenti. Vogliono tutti la stessa cosa e riescono perché vogliono. E riusciranno finché vorranno la stessa cosa.
  Guardate questo esempio umano di furbizia coesiva e pensate: se questi figli del secolo sono così, cosa non sarà Satana? Essi sono per noi dei satana. Ma la loro satanicità pagana è nulla rispetto alla satanicità perfetta di Satana e dei suoi demoni. Là, in quel regno eterno, senza secolo, senza fine, senza limite di astuzia e di cattiveria, là dove si gode di nuocere a Dio e agli uomini — ed è loro respiro il nuocere, loro doloroso godimento, unico, atroce — con perfezione maledetta si è raggiunta la fusione degli spiriti, uniti in un solo volere: “nuocere”. Ora se, come voi volete sostenere per insinuare dubbi sul mio potere, Satana è colui che mi aiuta perché Io sono un Belzebù minore, non avviene che Satana è in discordia con se stesso e coi suoi demoni, se caccia questi dai suoi possessi? E se in discordia è, potrà mai durare il suo regno? No, che ciò non è. Satana è furbissimo e non si nuoce. Egli mira ad estendere non a ridurre il suo regno nei cuori. La sua vita è “rubare – nuocere mentire – offendere – turbare”. Rubare anime a Dio e pace agli uomini. Nuocere alle creature del Padre dando dolore allo stesso. Mentire per traviare. Offendere per godere. Turbare perché egli è il Disordine. E non può mutare. È eterno nel suo essere e nei suoi metodi.

 7 Ma rispondete a questa domanda: se Io caccio i demoni in nome di Belzebù, in nome di chi li cacciano i vostri figli? Vorrete confessare allora che essi pure sono Belzebù? Ora, se voi lo dite, essi vi giudicheranno calunniatori. E se la loro santità sarà tale da non reagire all’accusa, vi giudicherete da voi stessi confessando che credete di avere molti demoni in Israele, e vi giudicherà Iddio in nome dei figli d’Israele accusati d’essere demoni. Perciò, da qual che venga il giudizio, essi in fondo saranno i vostri giudici, là dove il giudizio non è subornato da pressioni umane.
  Se poi, come è verità, Io caccio i demoni per lo Spirito di Dio, è dunque prova che è giunto a voi il Regno di Dio e il Re di questo Regno. Il quale Re ha un potere tale che nessuna forza contraria al suo Regno gli può resistere. Onde Io lego e costringo gli usurpatori dei figli del mio Regno ad uscire dai luoghi occupati ed a restituirmi la preda perché Io ne prenda possesso. Non fa forse così uno che voglia entrare in una casa abitata da un forte per levargli i beni, bene o male acquistati? Così fa. Entra e lo lega. E dopo averlo fatto può spogliare la casa. Io lego l’angelo tenebroso che si è preso ciò che è mio, e gli levo il bene che mi ha rubato. E Io solo posso farlo, perché Io solo sono il Forte, il Padre del secolo futuro, il Principe della pace».

 8 «Spiegaci cosa vuoi dire dicendo: “Padre del secolo futuro”. Credi Tu di vivere fino al nuovo secolo e, più stoltamente ancora, pensi di creare il tempo, Tu, povero uomo? Il tempo è di Dio», chiede uno scriba.
  «E tu, scriba, me lo chiedi? Non sai dunque che vi sarà un secolo che avrà inizio ma fine non avrà, e che sarà il mio? In esso Io trionferò radunando intorno a Me coloro che sono i figli di esso, ed essi vivranno eterni come quel secolo che Io avrò creato, e già lo sto creando mettendo lo spirito in valore, sulla carne e sul mondo e sugli inferi che Io scaccio perché tutto Io posso. Per questo vi dico che chi non è con Me è contro di Me, e chi con Me non raccoglie disperde. Perché Io sono Colui che sono. E chi non crede questo, già profetizzato, pecca contro lo Spirito Santo, la cui parola fu detta dai Profeti e non è menzogna né errore, e va creduta senza resistenza.
  Perché Io ve lo dico: tutto sarà perdonato agli uomini, ogni loro peccato e bestemmia. Perché Dio sa che l’uomo non è solo spirito ma è carne, e carne tentata che soggiace ad improvvise debolezze. Ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. Chi avrà parlato contro il Figlio dell’uomo sarà ancora perdonato, perché la pesantezza della carne, che avvolge la mia Persona e avvolge l’uomo che contro Me parla, può ancora trarre in errore. Ma chi avrà parlato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato né in questa né nella vita futura, perché la Verità è quella che è: netta, santa, innegabile, ed espressa allo spirito e in maniera che non induce ad errore. Altro che in coloro che volutamente vogliono l’errore. Negare la Verità detta dallo Spirito Santo è negare la Parola di Dio e l’Amore che quella Parola ha dato per amore degli uomini. E il peccato contro l’Amore non è perdonato.

 9 Ma ognuno dà i frutti della sua pianta. Voi date i vostri, e frutti buoni non sono. Se voi date un albero buono perché sia messo nel verziere, esso darà buoni frutti; ma se date un albero cattivo, cattivo sarà il frutto che da esso sarà colto, e tutti diranno: “Questo albero non è buono”. Perché è dal frutto che si conosce l’albero. E voi come credete di poter parlare bene, voi che siete cattivi? Perché la bocca parla di ciò che gli riempie il cuore. È dalla sovrabbondanza di ciò che abbiamo in noi che noi traiamo i nostri atti e discorsi. L’uomo buono trae dal suo buon tesoro cose buone; il malvagio dal suo cattivo tesoro leva le male cose. E parla e agisce secondo il suo intimo.
  E in verità vi dico che l’ozio è colpa. Ma meglio è oziare che fare opere malvagie. E anche vi dico che è meglio tacere che parlare oziosamente e malvagiamente. Anche se il tacere è ozio, fatelo piuttosto che peccare con la lingua. Io vi assicuro che di ogni parola detta oziosamente agli uomini sarà chiesta la giustificazione nel giorno del Giudizio, e che per le parole dette saranno gli uomini giustificati, e dalle parole stesse saranno condannati. Attenti, perciò, voi che tante ne dite di più che oziose, perché sono non solo oziose ma operanti nel male e allo scopo di allontanare i cuori dalla Verità che vi parla».

10 I farisei si consultano con gli scribi e poi tutti insieme, fingendo cortesia, chiedono: «Maestro, si crede meglio a quello che si vede. Dàcci dunque un segno perché noi si possa credere che Tu sei ciò che dici d’essere».
  «Vedete che in voi è il peccato contro lo Spirito Santo, che per Verbo incarnato mi ha indicato più volte? Verbo e Salvatore, venuto nel tempo segnato, preceduto e seguito dai segni profetizzati, operante ciò che lo Spirito dice».
 Essi rispondono: «Allo Spirito crediamo, ma come possiamo credere a Te se non vediamo un segno coi nostri occhi?».
  «Come potete allora credere allo Spirito le cui azioni sono spirituali, se non credete alle mie che sono sensibili ai vostri occhi? La mia vita ne è piena. Non basta ancora? No. Io stesso rispondo che no. Non basta ancora. A questa generazione adultera e malvagia, che cerca un segno, sarà dato un segno soltanto: quello del profeta Giona. Infatti, come Giona stette per tre giorni nel ventre della balena, così il Figlio dell’uomo starà tre giorni nelle viscere della Terra. In verità vi dico che i Niniviti risorgeranno nel giorno del Giudizio come tutti gli uomini e insorgeranno contro questa generazione e la condanneranno. Perché essi fecero penitenza alla predicazione di Giona e voi no. E qui vi è Uno che è da più di Giona. E così risorgerà e insorgerà contro di voi la Regina del Mezzogiorno e vi condannerà, perché essa venne dagli ultimi confini della Terra per udire la sapienza di Salomone. E qui vi è Uno da più di Salomone».

11 «Perché dici che questa generazione è adultera e malvagia? Non lo sarà da più delle altre. In essa vi sono gli stessi santi che vi erano nelle altre. La compagine di Israele non è mutata. Tu ci offendi».
  «Voi vi offendete da voi stessi nuocendovi nelle vostre anime, perché le allontanate dalla Verità, e dalla Salvezza perciò. Ma Io vi rispondo lo stesso. Questa generazione non è santa che nelle vesti e nell’esterno. Dentro, santa non è. Vi sono in Israele gli stessi nomi per significare le stesse cose. Ma non c’è la realtà delle cose. Vi sono gli stessi usi, vesti e riti. Ma manca lo spirito di essi. Siete adulteri perché avete respinto il soprannaturale maritaggio con la Legge divina e avete sposato, in seconda adultera unione, la legge di Satana. Non siete circoncisi che in un membro caduco. Il cuore non è più circonciso. E malvagi siete, perché vi siete venduti al Maligno. Ho detto».
  «Tu troppo ci offendi. Ma perché, se così è, Tu non liberi Israele dal demonio acciò santo diventi?».
  «Ha Israele questa volontà? No. L’hanno quei poveri che vengono per essere liberati dal demonio perché lo sentono in loro come un peso e una vergogna. Voi questo non lo sentite. E inutilmente voi ne sareste liberati, perché, non avendo volontà di esserlo, subito sareste ripresi ed in maniera ancor più forte. Perché, quando uno spirito immondo è uscito da un uomo, vagola per luoghi aridi in cerca di riposo e non lo trova. Luoghi aridi non materialmente, notate. Aridi perché gli sono ostili non accogliendolo, così come la terra arida è ostile al seme. Allora dice: “Tornerò alla casa mia da dove sono stato cacciato a forza e contro la sua volontà. E certo sono che mi accoglierà e mi darà riposo”. Infatti torna a colui che era suo, e molte volte lo trova disposto ad accoglierlo, perché in verità ve lo dico che l’uomo ha più nostalgia di Satana che di Dio, e se Satana non gli opprime le membra per nessun’altra possessione si lamenta. Va dunque e trova la casa vuota, spazzata, adorna, odorosa di purezza. Allora va a prendere altri sette demoni perché non vuole più perderla, e con questi sette spiriti peggiori di lui entra in essa e vi si stabiliscono tutti. E questo secondo stato, di uno convertito una volta e che si pervertisce una seconda, è peggiore del primo. Perché il demonio ha la misura di quanto quell’uomo sia amante di Satana e ingrato a Dio, ed anche perché Dio non ritorna là dove si calpestano le sue grazie e, già esperti di una possessione, si riaprono le braccia ad una maggiore. La ricaduta nel satanismo è peggio di una ricaduta in etisia mortale già sanata una volta. Non è più passibile di miglioramento e guarigione. Così accadrà anche di questa generazione che, convertita dal Battista, ha rivoluto essere peccatrice perché è amante del Malvagio e non di Me».

12 Un brusio, che non è né di approvazione né di protesta, scorre per la folla, che si pigia ormai tanto numerosa che anche la via ne è stipata, oltre l’orto e la terrazza. Vi è gente a cavalcioni del muretto, arrampicata sul fico dell’orto e sulle piante degli orti vicini, perché tutti vogliono sentire la disputa fra Gesù e i suoi nemici. Il brusio, come un’onda che dal largo giunge al lido, arriva di bocca in bocca fino agli apostoli che più sono vicino a Gesù, ossia Pietro, Giovanni, lo Zelote e i figli di Alfeo. Perché gli altri sono parte sulla terrazza e parte nella cucina. Meno Giuda Iscariota che è sulla via, fra la folla.
  E Pietro, Giovanni, lo Zelote, i figli d’Alfeo lo raccolgono questo brusio e dicono a Gesù: «Maestro, c’è tua Madre e i tuoi fratelli. Sono là fuori, sulla via, e ti cercano perché ti vogliono parlare. Da’ ordine che la folla si allontani perché essi possano venire a Te, perché certo un gran motivo li ha portati fin qui a cercarti».
  Gesù alza il capo e vede in fondo alla gente il viso angosciato di sua Madre che lotta per non piangere, mentre Giuseppe di Alfeo le parla concitatamente, e vede i segni di diniego di Lei, ripetuti, energici, nonostante l’insistenza di Giuseppe. Vede anche il viso imbarazzato di Simone, palesemente addolorato, disgustato… Ma non sorride e non ordina nulla. Lascia l’Afflitta nel suo dolore e i cugini là dove sono.
  Abbassa gli occhi sulla folla e, rispondendo agli apostoli vicini, risponde anche a quelli lontani che tentano di far valere il sangue più del dovere. «Chi è mia Madre? Chi sono i miei fratelli?». Gira l’occhio, severo nel volto che impallidisce per que sta violenza che si deve fare, per mettere il dovere al disopra dell’affetto e del sangue e per fare questa sconfessione del suo legame alla Madre per servire il Padre, e dice, accennando con un largo gesto la folla che si pigia intorno a Lui al lume rosso delle torce e alla luce argentea della luna quasi piena: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli. Coloro che fanno la volontà di Dio sono i miei fratelli e sorelle, sono mia madre. Non ne ho altri. E i miei saranno tali se, per primi e con maggior perfezione di ogni altro, faranno la volontà di Dio fino al sacrificio totale di ogni altra volontà o voce di sangue e di affetto».
  La folla ha un mormorio più forte, come se fosse un mare sconvolto da un subito vento.
  Gli scribi iniziano la fuga dicendo: «È un demonio! Rinnega persino il suo sangue!».
  I parenti avanzano dicendo: «È un folle! Tortura persino sua Madre!».
  Gli apostoli dicono: «In verità che in questa parola c’è tutto l’eroismo!».
  La folla dice: «Come ci ama!».

13 A fatica, Maria con Giuseppe e Simone fendono la folla. Lei tutta dolcezza, Giuseppe tutto furia, Simone tutto imbarazzo. Giungono presso a Gesù.
  E Giuseppe lo investe subito: «Sei folle! Offendi tutti. Non rispetti neppure tua Madre. Ma ora sono qui io e te lo impedirò. È vero che vai come lavorante qua e là? E allora, se vero è, perché non lavori nella tua bottega, sfamando tua Madre? Perché menti dicendo che il tuo lavoro è la predicazione, ozioso e ingrato che sei, se poi vai al lavoro prezzolato in casa estranea? Veramente mi sembri preso da un demonio che ti travia. Rispondi!».
  Gesù si volta e prende per mano il bambino Giuseppe, se lo tira vicino e poi lo alza tenendolo per le ascelle e dice: «Il mio lavoro fu sfamare questo innocente e i suoi parenti e persuaderli che Dio è buono. È stato predicare a Corozim l’umiltà e la carità. E non a Corozim soltanto. Ma anche a te, Giuseppe, fratello ingiusto. Ma Io ti perdono perché ti so morso da denti di serpe. E perdono anche a te, Simone incostante. Non ho nulla da perdonare né da farmi perdonare da mia Madre, perché Ella giudica con giustizia. Il mondo faccia ciò che vuole. Io faccio ciò che Dio vuole. E con la benedizione del Padre e della Madre mia sono felice più che se tutto il mondo mi acclamasse re secondo il mondo. Vieni, Madre. Non piangere. Essi non sanno ciò che fanno. Perdonali».
  «Oh! Figlio mio! Io so. Tu sai. Non c’è altro da dire…».
  «Non c’è altro da dire fuorché alla gente questo: “Andate in pace”».
  E Gesù benedice la folla e poi, tenendo con la destra Maria, con la sinistra il bambino, si avvia alla scaletta e la sale per il primo.

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Mt 5, 17-19: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti».

Vangelo Novus Ordo Mt 5, 17-19
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto.
Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
« Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli».

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo

   Cap. CLXXI. Terzo discorso della Montagna: i consigli evangelici che perfezionano la Legge.

  25 maggio 1945

 1 Continua il discorso del Monte.
   Il luogo e l’ora sono sempre gli stessi. La gente è ancora più aumentata. In un angolo, presso un sentiero, come volesse udire ma non eccitare ripugnanze fra la folla, è un romano. Lo distinguo per la veste corta e il mantello diverso. Ancora vi sono Stefano ed Erma.
   E Gesù va lentamente al suo posto e riprende a parlare. 
   «Con quanto vi ho detto ieri non dovete giungere al pensiero che Io sia venuto per abolire la Legge. No. Solo, poiché sono l’Uomo e comprendo le debolezze dell’uomo, Io ho voluto rincuorarvi a seguirla col dirigere il vostro occhio spirituale non all’abisso nero, ma all’Abisso luminoso. Perché, se la paura di un castigo può trattenere tre volte su dieci, la certezza di un premio slancia sette volte su dieci. Perciò più che la paura fa la fiducia. Ed Io voglio che voi l’abbiate piena, sicura, per potere fare non sette parti di bene su dieci, ma dieci parti su dieci e conquistare questo premio santissimo del Cielo.
   Io non muto un iota della Legge. E chi l’ha data fra i fulmini del Sinai? L’Altissimo.
   Chi è l’Altissimo? Il Dio uno e trino.
   Da dove l’ha tratta? Dal suo Pensiero.
   Come l’ha data? Con la sua Parola.
   Perché l’ha data? Per il suo Amore.
   Vedete dunque che la Trinità era presente. Ed il Verbo, ubbidiente come sempre al Pensiero e all’Amore, parlò per il Pensiero e per l’Amore.
   Potrei smentire Me stesso? Non potrei. Ma posso, poiché tutto Io posso, completare la Legge, farla divinamente completa, non quale la fecero gli uomini che durante i secoli non la fecero completa ma soltanto indecifrabile, inadempibile, sovrapponendo leggi e precetti, e precetti e leggi, tratti dal loro pensiero, secondo il loro utile, e gettando tutta questa macia a lapidare e soffocare, a sotterrare e sterilire la Legge santissima data da Dio. Può una pianta sopravvivere se la sommergono per sempre valanghe, macerie e innondazioni? No. La pianta muore. La Legge è morta in molti cuori, soffocata sotto le valanghe di troppe soprastrutture. Io sono venuto a levarle tutte e, disseppellita la Legge, risuscitata la Legge, ecco che Io la faccio non più legge ma regina.

 2 Le regine promulgano le leggi. Le leggi sono opera delle regine, ma non sono da più delle regine. Io invece faccio della Legge la regina: la completo, l’incorono, mettendo sul suo sommo il serto dei consigli evangelici. Prima era l’ordine. Ora è più dell’ordine. Prima era il necessario. Ora è più del necessario. Ora è la perfezione. Chi la disposa, così come Io ve la dono, all’istante è re perché ha raggiunto il “perfetto”, perché non è stato soltanto ubbidiente ma eroico, ossia santo, essendo la santità la somma delle virtù portate al vertice più alto che possa esser raggiunto da creatura, eroicamente amate e servite col distacco completo da tutto quanto è appetito e riflessione umana verso qual che sia cosa. Potrei dire che il santo è colui al quale l’amore e il desiderio fanno da ostacolo ad ogni altra vista che Dio non sia. Non distratto da viste inferiori, egli ha le pupille del cuore ferme nello Splendore Ss. che è Dio e nel quale vede, poiché tutto è in Dio, agitarsi i fratelli e tendere le mani supplici. E senza staccare gli occhi da Dio, il santo si effonde ai fratelli supplicanti. Contro la carne, contro le ricchezze, contro le comodità, egli drizza il suo ideale: servire. Povero il santo? Menomato? No. E’ giunto a possedere la sapienza e la ricchezza vere. Possiede perciò tutto. Né sente fatica perché, se è vero che è un produttore continuo, è pur anche vero che è un nutrito di continuo. Perché, se è vero che comprende il dolore del mondo, è anche vero che si pasce della letizia del Cielo. Di Dio si nutre, in Dio si allieta. È la creatura che ha compreso il senso della vita.
   Come vedete, Io non muto e non mutilo la Legge, come non la corrompo con le sovrapposizioni di fermentanti teorie umane. Ma la completo. Essa è quello che è, e tale sarà fino all’estremo giorno, senza che se ne muti una parola o se ne levi un precetto. Ma è incoronata del perfetto. Per avere salute basta accettarla così come fu data. Per avere immediata unità con Dio occorre viverla come Io la consiglio. Ma poiché gli eroi sono l’eccezione, Io parlerò per le anime comuni, per la massa delle anime, acciò non si dica che per volere il perfetto rendo ignoto il necessario. Però di quanto dico ritenete bene questo: colui che si permette di violare uno fra i minimi di questi comandamenti sarà tenuto minimo nel Regno dei Cieli. E colui che indurrà altri a violarli sarà ritenuto minimo per lui e per colui che egli indusse alla violazione. Mentre colui che con la vita e le opere, più ancora che con la parola, avrà persuaso altri all’ubbidienza, costui grande sarà nel Regno dei Cieli, e la sua grandezza si aumenterà per ognuno di quelli che egli avrà portato ad ubbidire e a santificarsi così. 

 3 Io so che ciò che sto per dire sarà agro alla lingua di molti. Ma Io non posso mentire anche se la verità che sto per dire mi farà dei nemici.
   In verità vi dico che se la vostra giustizia non si ricreerà, distaccandosi completamente dalla povera e ingiustamente definita giustizia che vi hanno insegnata scribi e farisei; che se non sarete molto più, e veramente, giusti dei farisei e scribi, che credono esserlo con l’aumentare delle formule ma senza mutazione sostanziale degli spiriti, voi non entrerete nel Regno dei Cieli.
   Guardatevi dai falsi profeti e dai dottori d’errore. Essi vengono a voi in veste d’agnelli e lupi rapaci sono, vengono in veste di santità e sono derisori di Dio, dicono di amare la verità e si pascono di menzogne. Studiateli prima di seguirli.
   L’uomo ha la lingua e con questa parla, ha gli occhi e con questi guarda, ha le mani e con esse accenna. Ma ha un’altra cosa che testimonia con più verità del suo vero essere: ha i suoi atti. E che volete che sia un paio di mani congiunte in preghiera se poi l’uomo è ladro e fornicatore? E che due occhi che volendo fare gli ispirati si stravolgono in ogni senso, se poi, cessata l’ora della commedia, si sanno fissare ben avidi sulla femmina, o sul nemico, per lussuria o per omicidio? E che volete che sia la lingua che sa zufolare la bugiarda canzone delle lodi e sedurvi con i suoi detti melati, mentre poi alle vostre spalle vi calunnia ed è capace di spergiurare pur di farvi passare per gente spregevole? Che è la lingua che fa lunghe orazioni ipocrite e poi veloce uccide la stima del prossimo o seduce la sua buona fede? Schifo è! Schifo sono gli occhi e le mani menzognere.
   Ma gli atti dell’uomo, i veri atti, ossia il suo modo di comportarsi in famiglia, nel commercio, verso il prossimo ed i servi, ecco quello che testimoniano: “Costui è un servo del Signore”. Perché le azioni sante sono frutto di una vera religione. Un albero buono non dà frutti malvagi e un albero malvagio non dà frutti buoni. Questi pungenti roveti potranno mai darvi uva saporita? E quegli ancora più tribolanti cardi potranno mai maturarvi morbidi fichi? No, che in verità poche e aspre more coglierete dai primi e immangiabili frutti verranno da quei fiori, spinosi già pur essendo ancora fiori. L’uomo che non è giusto potrà incutere rispetto con l’aspetto, ma con quello solo. Anche quel piumoso cardo sembra un fiocco di sottili fili argentei che la rugiada ha decorato di diamanti. Ma se inavvertitamente lo toccate, vedete che fiocco non è, ma mazzo di aculei, penosi all’uomo, nocivi alle pecore, per cui i pastori lo sterpano dai loro pascoli e lo gettano a perire nel fuoco acceso nella notte perché neppure il seme si salvi. Giusta e previdente misura. Io non vi dico: “Uccidete i falsi profeti e gli ipocriti fedeli”. Anzi vi dico: “Lasciatene a Dio il compito”. Ma vi dico: “Fate attenzione, scostatevene per non intossicarvi dei loro succhi”.

 4 Come debba essere amato Dio, ieri l’ho detto. Insisto a come debba essere amato il prossimo.
   Un tempo era detto: “Amerai il tuo amico e odierai il tuo nemico” No. Non così. Questo è buono per i tempi in cui l’uomo non aveva il conforto del sorriso di Dio. Ma ora vengono i tempi nuovi, quelli in cui Dio tanto ama l’uomo da mandargli il suo Verbo per redimerlo. Ora il Verbo parla. Ed è già Grazia che si effonde. Poi il Verbo consumerà il sacrificio di pace e di redenzione e la Grazia non solo sarà effusa, ma sarà data ad ogni spirito credente nel Cristo. Perciò occorre innalzare l’amore di prossimo a perfezione che unifica l’amico al nemico.
   Siete calunniati? Amate e perdonate. Siete percossi? Amate e porgete l’altra guancia a chi vi schiaffeggia pensando che è meglio che l’ira si sfoghi su voi, che la sapete sopportare, anziché su un altro che si vendicherebbe dell’affronto. Siete derubati? Non pensate: “Questo mio prossimo è un avido”, ma pensate caritativamente: “Questo mio povero fratello è bisognoso” e dategli anche la tunica se già vi ha levato il mantello. Lo metterete nella impossibilità di fare un doppio furto perché non avrà più bisogno di derubare un altro della tunica.
   Voi dite: “Ma potrebbe essere vizio e non bisogno”. Ebbene, date ugualmente. Dio ve ne compenserà e l’iniquo ne sconterà. Ma molte volte, e ciò richiama quanto ho detto ieri sulla mansuetudine, vedendosi così trattato, cade dal cuore del peccatore il suo vizio, ed egli si redime giungendo a riparare il furto col rendere la preda.
   Siate generosi con coloro che, più onesti, vi chiedono, anziché derubarvi, ciò di cui abbisognano. Se i ricchi fossero realmente poveri di spirito come ho insegnato ieri, non vi sarebbero le penose disuguaglianze sociali, cause di tante sventure umane e sovrumane. Pensate sempre: “Ma se io fossi nel bisogno, che effetto mi farebbe la ripulsa di un aiuto?”, e in base alla risposta del vostro io agite. Fate agli altri ciò che vorreste vi fosse fatto e non fate agli altri ciò che non vorreste fatto a voi.
   L’antica parola: “Occhio per occhio, dente per dente”, che non è nei dieci comandi ma che è stata messa perché l’uomo privo della Grazia è tal belva che non può che comprendere la vendetta, è annullata, questa sì che è annullata, dalla nuova parola: “Ama chi ti odia, prega per chi ti perseguita, giustifica chi ti calunnia, benedici chi ti maledice, benefica chi ti fa danno, sii pacifico col rissoso, condiscendente con chi ti è molesto, soccorri di buon grado chi a te ricorre e non fare usura, non criticare, non giudicare”. Voi non sapete gli estremi delle azioni degli uomini. In tutti i generi di soccorso siate generosi, misericordiosi siate. Più darete più vi sarà dato, e una misura colma e premuta sarà versata da Dio in grembo a chi fu generoso. Dio non solo vi darà per quanto avete dato, ma più e più ancora. Cercate di amare e di farvi amare. Le liti costano più di un accomodamento amichevole e la buona grazia è come un miele che a lungo resta col suo sapore sulla lingua.

 5 Amate, amate! Amate amici e nemici per essere simili al Padre vostro che fa piovere sui buoni e sui cattivi e fa scendere il sole sui giusti e sugli ingiusti riservandosi di dare sole e rugiade eterne, e fuoco e grandine infernali, quando i buoni saranno scelti, come elette spighe, fra i covoni del raccolto. Non basta amare coloro che vi amano e dai quali sperate un contraccambio. Questo non è un merito, è una gioia, e anche gli uomini naturalmente onesti lo sanno fare. Anche i pubblicani lo fanno e anche i gentili. Ma voi amate a somiglianza di Dio e amate per rispetto a Dio, che è Creatore anche di quelli che vi sono nemici o poco amabili. Io voglio in voi la perfezione dell’amore e perciò vi dico: “Siate perfetti come perfetto è il Padre vostro che è nei Cieli.
   Tanto è grande il precetto d’amore verso il prossimo, il perfezionamento del precetto d’amore verso il prossimo, che Io più non vi dico come era detto: “Non uccidete”, perché colui che uccide sarà condannato dagli uomini. Ma vi dico: “Non vi adirate” perché un più alto giudizio è su voi e calcola anche le azioni immateriali. Chi avrà insultato il fratello sarà condannato dal Sinedrio. Ma chi lo avrà trattato da pazzo, e perciò danneggiato, sarà condannato da Dio. Inutile fare offerte all’altare se prima non si è sacrificato nell’interno del cuore i propri rancori per amore di Dio e non si è compito il rito santissimo del saper perdonare. Perciò se quando stai per offrire a Dio tu ti sovvieni di avere mancato verso il tuo fratello o di avere in te rancore per una sua colpa, lascia la tua offerta davanti all’altare, fa’ prima l’immolazione del tuo amor proprio, riconciliandoti col tuo fratello, e poi vieni all’altare, e santo sarà allora, solo allora, il tuo sacrificio. Il buon accordo è sempre il migliore degli affari. Precario è il giudizio dell’uomo, e chi ostinato lo sfida potrebbe perdere la causa e dovere pagare all’avversario fino all’ultima moneta o languire in prigione. Alzate in tutte le cose lo sguardo a Dio. Interrogatevi dicendo: “Ho io il diritto di fare ciò che Dio non fa con me?”. Perché Dio non è così inesorabile e ostinato come voi siete. Guai a voi se lo fosse! Non uno si salverebbe. Questa riflessione vi induca a sentimenti miti, umili, pietosi. E allora non vi mancherà da parte di Dio, qui e oltre, la ricompensa.

 6 Qui, a Me davanti, è anche uno che mi odia e che non osa dirmi: “Guariscimi”, perché sa che Io so i suoi pensieri. Ma Io dico: “Sia fatto ciò che tu vuoi. E come ti cadono le scaglie dagli occhi così ti cadano dal cuore il rancore e le tenebre”.
   Andate tutti con la mia pace. Domani ancora vi parlerò». 
   La gente sfolla lentamente, forse in attesa di un grido di miracolo che non viene. Anche gli apostoli e i discepoli più antichi, che restano sul monte, chiedono: «Ma chi era? Non è guarito forse?» e insistono presso il Maestro che è rimasto in piedi, a braccia conserte, a veder scendere la gente. 
Ma Gesù sulle prime non risponde; poi dice: «Gli occhi sono guariti. L’anima no. Non può perché è carica di odio». 
   «Ma chi è? Quel romano forse?». 
   «No. Un disgraziato».
   «Ma perché lo hai guarito, allora? » chiede Pietro. 
   «Dovrei fulminare tutti i suoi simili?». 
   «Signore… io so che Tu non vuoi che dica: “sì “, e perciò non lo dico.. – ma lo penso.. – ed è lo stesso…»   
   «E’ lo stesso, Simone di Giona. Ma sappi che allora… Oh! quanti cuori pieni di scaglie d’odio intorno a Me! Vieni. Andiamo proprio là in cima, a guardare dall’alto il nostro bel mare di Galilea. Io e te soli».

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te


Vangelo Mt 16, 21-35: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».

Vangelo Novus Ordo Mt 18, 21-35
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette».

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli  (Vetus) Novus ordo

   Cap. CCLXXVIII. Il perdono e la parabola del servo iniquo. Il mandato a settantadue discepoli.

   17 settembre 1945.

   278.1 Licenziati dopo il pasto i poveri, Gesù resta cogli apostoli e discepoli nel giardino di Maria di Magdala. Vanno a sedersi al limite di esso, proprio vicino alle acque quiete del lago, su cui delle barche veleggiano intente alla pesca.
   «Avranno buona pesca», commenta Pietro che osserva.
   «Anche tu avrai buona pesca, Simone di Giona».
   «Io, Signore? Quando? Intendi che io esca a pescare per il cibo di domani? Vado subito e…».
   «Non abbiamo bisogno di cibo in questa casa. La pesca che tu farai sarà in futuro e nel campo spirituale. E con te saranno pescatori ottimi la maggior parte di questi».
   «Non tutti, Maestro?», chiede Matteo.
   «Non tutti. Ma quelli che perseverando diverranno miei sacerdoti avranno buona pesca».
   «Conversioni, eh?», domanda Giacomo di Zebedeo.
   «Conversioni, perdoni, guide a Dio. Oh! tante cose».

   278.2 «Senti, Maestro. Tu prima hai detto che, se uno non ascolta il fratello neppure alla presenza di testimoni, sia fatto consigliare dalla sinagoga. Ora, se io ho ben capito quanto Tu ci hai detto da quando ci conosciamo, mi pare che la sinagoga sarà sostituita dalla Chiesa, questa cosa che Tu fonderai. Allora, dove andremo per fare consigliare i fratelli zucconi?».
   «Andrete da voi stessi, perché voi sarete la mia Chiesa. Perciò i fedeli verranno a voi, o per consiglio da avere per causa propria, o per consiglio da dare ad altri. Vi dico di più. Non solo potrete consigliare. Ma potrete anche assolvere in mio Nome. Potrete sciogliere dalle catene del peccato e potrete legare due che si amano facendone una carne sola. E quanto avrete fatto sarà valido agli occhi di Dio come fosse Dio stesso che lo avesse fatto. In verità vi dico: quanto avrete legato sulla Terra sarà legato nel Cielo, quanto sarà sciolto da voi sulla Terra sarà sciolto in Cielo. E ancora vi dico, per farvi comprendere la potenza del mio Nome, dell’amore fraterno e della preghiera, che se due miei discepoli, e per tali intendo ora tutti coloro che crederanno nel Cristo, si riuniranno a chiedere qualsiasi giusta cosa in mio Nome, sarà loro concessa dal Padre mio. Perché grande potenza è la preghiera, grande potenza è l’unione fraterna, grandissima, infinita potenza è il mio Nome e la mia presenza fra voi. E dove due o tre saranno adunati in mio Nome, ivi Io sarò in mezzo a loro, e pregherò con loro, e il Padre non negherà a chi con Me prega. Perché molti non ottengono perché pregano soli, o per motivi illeciti, o con orgoglio, o con peccato sul cuore. Fatevi il cuore mondo, onde Io possa essere con voi, e poi pregate e sarete ascoltati».
   Pietro è pensieroso. Gesù lo vede e gliene chiede ragione. E Pietro spiega: «Penso a che gran dovere siamo destinati. E ne ho paura. Paura di non sapere fare bene».
   «Infatti Simone di Giona o Giacomo di Alfeo o Filippo e così via non saprebbero fare bene. Ma il sacerdote Pietro, il sacerdote Giacomo, il sacerdote Filippo, o Tommaso, sapranno fare bene perché faranno insieme alla divina Sapienza».

   278.3 «E… quante volte dovremo perdonare ai fratelli? Quante, se peccano contro i sacerdoti; e quante, se peccano contro Dio? Perché, se succederà allora come ora, certo peccheranno contro di noi, visto che peccano contro di Te tante e tante volte. Dimmi se devo perdonare sempre o se un numero di volte. Sette volte, o più ancora, ad esempio?».
   «Non ti dico sette, ma settanta volte sette. Un numero senza misura. Perché anche il Padre dei Cieli perdonerà a voi molte volte, un numero grande di volte, a voi che dovreste essere perfetti. E come Egli fa con voi, così voi dovete fare, perché voi rappresenterete Dio in Terra. Anzi, sentite. Racconterò una parabola che servirà a tutti».
   E Gesù, che era circondato dai soli apostoli in un chioschetto di bossi, si avvia verso i discepoli che sono invece rispettosamente aggruppati su uno spiazzo decorato di una vasca piena di limpide acque. Il sorriso di Gesù è come un segnale di parola. E mentre Lui va col suo passo lento e lungo, per cui percorre molto spazio in pochi momenti, e senza affrettarsi perciò, essi si rallegrano tutti e, come bambini intorno a chi li fa felici, si stringono in cerchio. Una corona di visi attenti, finché Gesù si mette contro un alto albero e inizia a parlare.

   278.4 «Quanto ho detto prima al popolo va perfezionato per voi che siete gli eletti fra esso.
   Dall’apostolo Simone di Giona mi è stato detto: “Quante volte devo perdonare? A chi? Perché?”. Ho risposto a lui in privato ed ora a tutti ripeto la mia risposta in ciò che è giusto voi sappiate sin da ora. Udite quante volte e come e perché va perdonato.
   Perdonare bisogna come perdona Dio, il quale, se mille volte uno pecca e se ne pente, perdona mille volte. Purché veda che nel colpevole non c’è la volontà del peccato, la ricerca di ciò che fa peccare, ma sibbene il peccato è solo frutto di una debolezza dell’uomo. Nel caso di persistenza volontaria nel peccato, non può esservi perdono per le colpe fatte alla Legge. Ma per quanto queste colpe vi danno di dolore, a voi, individualmente, perdonate. Perdonate sempre a chi vi fa del male. Perdonate per essere perdonati, perché anche voi avete colpe verso Dio e i fratelli. Il perdono apre il Regno dei Cieli tanto al perdonato come al perdonante. Esso è simile a questo fatto che avvenne fra un re ed i suoi servi.
   Un re volle fare i conti coi suoi servi. Li chiamò dunque uno dopo l’altro cominciando da quelli che erano i più in alto. Venne uno che gli era debitore di diecimila talenti. Ma il suddito non aveva con che pagare l’anticipo che il re gli aveva fatto per potersi costruire case e beni d’ogni genere, perché in verità non aveva, per molti motivi più o meno giusti, con molta solerzia usato della somma ricevuta per questo. Il re-padrone, sdegnato della sua infingardia e della mancanza di parola, comandò fosse venduto lui, la moglie, i figli e quanto aveva, finché avesse saldato il suo debito. Ma il servo si gettò ai piedi del re e con pianti e suppliche lo pregava: “Lasciami andare. Abbi un poco di pazienza ancora ed io ti renderò tutto quanto ti devo, fino all’ultimo denaro”. Il re, impietosito da tanto dolore — era un re buono — non solo acconsentì a questo ma, saputo che fra le cause della poca solerzia e del mancato pagamento erano anche delle malattie, giunse a condonargli il debito.
   Il suddito se ne andò felice. Uscendo di lì, però, trovò sulla sua via un altro suddito, un povero suddito al quale egli aveva prestato cento denari tolti ai diecimila talenti avuti dal re. Persuaso del favore sovrano, si credette tutto lecito e, preso quell’infelice per la gola, gli disse: “Rendimi subito quanto mi devi”. Inutilmente l’uomo piangendo si curvò a baciargli i piedi gemendo: “Abbi pietà di me che ho tante disgrazie. Porta un poco di pazienza ancora e ti renderò tutto, fino all’ultimo spicciolo”. Il servo, spietato, chiamò i militi e fece condurre in prigione l’infelice perché si decidesse a pagarlo, pena la perdita della libertà o anche della vita[85].
   La cosa fu risaputa dagli amici del disgraziato i quali, tutti contristati, andarono a riferirlo al re e padrone. Questi, saputa la cosa, ordinò gli fosse tradotto davanti il servitore spietato e, guardandolo severamente, disse: “Servo iniquo, io ti avevo aiutato prima perché tu diventassi misericordioso, perché ti facessi una ricchezza, poi ti ho aiutato ancora col condonarti il debito per il quale tanto ti raccomandavi che io avessi pazienza. Tu non hai avuto pietà di un tuo simile mentre io, re, per te ne avevo avuta tanta. Perché non hai fatto ciò che io ti ho fatto?”. E lo consegnò sdegnato ai carcerieri, perché lo tenessero finché avesse tutto pagato, dicendo: “Come non ebbe pietà di uno che ben poco gli doveva, mentre tanta pietà ebbe da me che re sono, così non trovi da me pietà”.

   278.5 Così pure farà il Padre mio con voi se voi sarete spietati ai fratelli, se voi, avendo avuto tanto da Dio, sarete colpevoli più di quanto non lo è un fedele. Ricordate che in voi è l’obbligo di essere più di ogni altro senza colpe. Ricordate che Dio vi anticipa un gran tesoro, ma vuole che gliene rendiate ragione. Ricordate che nessuno come voi deve saper praticare amore e perdono.
   Non siate servi che per voi molto volete e poi nulla date a chi a voi chiede. Come fate, così vi sarà fatto. E vi sarà chiesto anche conto del come fanno gli altri, trascinati al bene o al male dal vostro esempio. Oh! che in verità se sarete santificatori possederete una gloria grandissima nei Cieli! Ma, ugualmente, se sarete pervertitori, o anche solamente infingardi nel santificare, sarete duramente puniti.
   Io ve lo dico ancora una volta. Se alcuno di voi non si sente di essere vittima della propria missione, se ne vada. Ma non manchi ad essa. E dico: non manchi nelle cose veramente rovinose alla propria e all’altrui formazione. E sappia avere amico Dio, avendo sempre in cuore perdono ai deboli. Allora ecco che ad ognun di voi che sappia perdonare sarà da Dio Padre dato perdono.

   278.6 La sosta è finita. Il tempo dei Tabernacoli è prossimo.
   Quelli ai quali ho parlato in disparte questa mattina, da domani andranno, precedendomi e annunciandomi alle popolazioni. Quelli che restano non si avviliscano. Ho trattenuto alcuni di loro per prudenziale motivo, non per spregio di loro. Essi staranno con Me, e presto li manderò come mando i settantadue primi. La messe è molta e gli operai saranno sempre pochi rispetto al bisogno. Vi sarà dunque lavoro per tutti. E non basta ancora. Perciò, senza gelosie, pregate il Padrone della messe che mandi sempre nuovi operai per la sua mietitura.
   Andate, intanto. Io e gli apostoli abbiamo in questi giorni di sosta completato la vostra istruzione sul lavoro che avete da fare, ripetendo[86] quello che Io dissi prima di mandare i dodici.
   Uno fra voi mi ha chiesto: “Ma come guarirò in tuo Nome?”. Curate sempre prima lo spirito. Promettete agli infermi il Regno di Dio se sapranno credere in Me e, vista in essi la fede, comandate al morbo di andarsene, ed esso se ne andrà. E così fate per i malati dello spirito. Accendete per prima cosa la fede. Comunicate con la parola sicura la speranza. Io sopraggiungerò a mettere in essi la divina carità, così come a voi l’ho messa in cuore dopo che in Me avete creduto e nella misericordia avete sperato. E non abbiate paura né degli uomini né del demonio. Non vi faranno male. Le uniche cose di cui dovete temere sono la sensualità, la superbia, l’avarizia. Per esse potrete consegnarvi a Satana e agli uomini-satana, ché ci sono essi pure.
   Andate, dunque, precedendomi per le vie del Giordano. E, giunti a Gerusalemme, andate a raggiungere i pastori nella valle di Betlemme e con essi venite a Me nel posto che sapete, e insieme celebreremo la festa santa, tornando poi più corroborati che mai al nostro ministero.
   Andate con pace. Io vi benedico nel Nome santo del Signore».

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Lc 13, 1-9: «Io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

Vangelo Novus Ordo Lc 13, 1-9
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
“Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime”.

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo

   Cap. CCLXXXI. Al Tempio nella festa dei Tabernacoli. Le condizioni per seguire Gesù. La parabola dei talenti e la parabola del buon samaritano.

   20 settembre 1945

 1 Gesù è diretto al Tempio. Lo precedono a gruppi i discepoli, lo seguono in gruppo le discepole, ossia la Madre, Maria Cleofe, Maria Salome, Susanna, Giovanna di Cusa, Elisa di Betsur, Annalia di Gerusalemme, Marta e Marcella. Non c’è la Maddalena. Intorno a Gesù, i dodici apostoli e Marziam.
  Gerusalemme è nella pompa dei suoi tempi di solennità.
  Gente in ogni via e di ogni terra. Canti, discorsi, mormorio di preghiere, imprecazioni di asinai, qualche pianto di bambino. E su tutto un cielo nitido che si mostra fra casa e casa, e un sole che scende allegro a ravvivare i colori delle vesti, ad accendere i morenti colori delle pergole e degli alberi che si intravvedono qua e là oltre i muri dei chiusi giardini o delle terrazze.
  Talora Gesù incrocia persone di conoscenza, e il saluto è più o meno deferente a seconda degli umori dell’incrociante. Così è profondo ma sussiegato quello di Gamaliele, il quale guarda fisso Stefano, che gli sorride dal gruppo dei discepoli e che Gamaliele, dopo essersi inchinato a Gesù, chiama in disparte e gli dice poche parole, dopo di che Stefano torna nel gruppo. Venerante è il saluto del vecchio sinagogo Cleofa di Emmaus, diretto insieme ai suoi concittadinial Tempio. Aspro come una maledizione è quello di risposta dei farisei di Cafarnao.

 2 Un gettarsi a terra baciando i piedi di Gesù nella polvere della via è quello dei contadini di Giocana, capitanati dall’intendente. La folla si ferma ad osservare stupita questo gruppo di uomini che ad un quadrivio si precipita con un grido ai piedi di un giovane uomo, che non è un fariseo né uno scriba famoso, che non è un satrapo né un potente cortigiano, e qualcuno domanda chi è, e un bisbiglio corre: «È il Rabbi di Nazaret, quello che si dice sia il Messia».
  Proseliti e gentili si affollano allora curiosi, stringendo il gruppo contro al muro, facendo ingombro nella minuscola piazzetta, finché un gruppo di asinai li disperde vociando imprecazioni all’ostacolo. Ma la folla subito si riunisce di nuovo, separando le donne dagli uomini, esigente, brutale nella sua manifestazione che è anche di fede. Tutti vogliono toccare le vesti di Gesù, dirgli una parola, interrogarlo. Ed è sforzo inutile, perché la loro stessa fretta, la loro ansia, la loro irrequietezza per farsi avanti, respingendosi a vicenda, fa sì che nessuno ci riesce, e anche le domande e le risposte si confondono in un unico rumore incomprensibile.
  L’unico che si astrae dalla scena è il nonno di Marziam, il quale ha risposto con un grido al grido del nipotino e, subito dopo aver venerato il Maestro, si è stretto al cuore il nipote e stando così, ancora rilassato sui calcagni, i ginocchi a terra, se lo è seduto nel grembo e se lo ammira e carezza con lacrime e baci, beati, e lo interroga e ascolta. Il vecchio è già in Paradiso tanto è beato.
  Accorrono le milizie romane credendo che vi sia qualche rissa e si fanno largo. Ma quando vedono Gesù hanno un sorriso e si ritirano tranquille, limitando a consigliare i presenti a lasciare libero l’importante quadrivio. E Gesù subito ubbidisce, approfittando dello spazio fatto dai romani che lo precedono di qualche passo come per fargli strada, in realtà per tornare al loro posto di picchetto perché la guardia romana è molto rinforzata, come se Pilato sapesse esservi malcontento nella folla e temesse sommosse in questi giorni in cui Gerusalemme è colma di ebrei di ogni parte. Ed è bello vederlo andare preceduto dal drappello romano, come un re al quale si fa largo mentre va ai suoi possessi.
  Ha detto, nel muoversi, al bambino e al vecchio: «State insieme e seguitemi»; e all’intendente: «Ti prego lasciarmi i tuoi uomini. Mi saranno ospiti fino a sera».
  L’intendente risponde ossequioso: «Tutto ciò che Tu vuoi sia fatto», e se ne va da solo dopo un profondo saluto.

 3 È ormai prossimo il Tempio — e il formicolio della folla, proprio come di formiche presso la buca del formicaio, è ancor più forte — quando un contadino di Giocana grida: «Ecco il padrone!», e cade a ginocchi per salutare, imitato da altri.
  Gesù resta in piedi in mezzo ad un gruppo di prostrati, perché i contadini si erano stretti a Lui, e gira lo sguardo verso il luogo indicato, incontrando lo sguardo di un impaludato fariseo, che non mi è nuovo, ma che non so dove l’ho visto.
  Il fariseo Giocana è con altri della sua casta: un mucchio di stoffe preziose, di frange, di fibbie, di cinture, di filatterie, tutte più ampie delle comuni. Giocana guarda attento Gesù, uno sguardo di pura curiosità, ma però non irriverente. Anzi ha un saluto impettito, appena un inchino del capo. Ma è sempre un saluto, al quale Gesù risponde deferente. Anche due o tre altri farisei salutano, mentre altri guardano sprezzanti o fingono di guardare altrove, e uno solo lancia un’offesa di certo, perché vedo che chi circonda Gesù sussulta e lo stesso Giocana si volta tutto d’un pezzo a fulminare con lo sguardo l’offensore, che è un uomo più giovane di lui, dai tratti marcati e duri.
  Quando sono sorpassati e i contadini osano parlare, uno di essi dice: «È Doras, Maestro, quello che ti ha maledetto».
  «Lascialo fare. Ho voi che mi benedite», dice calmo Gesù.
  Appoggiato ad un archivolto, insieme ad altri, è Mannaen, e come vede Gesù alza le braccia con una esclamazione di gioia:
  «Giornata gioconda è questa poiché io ti trovo!», e viene verso Gesù, seguito da chi è con lui. Lo venera sotto l’ombroso archivolto che fa rimbombare le voci come sotto una cupola.
  Proprio mentre lo venera, passano rasente al gruppo apostolico i cugini Simone e Giuseppe con altri nazareni… e non salutano… Gesù li guarda accorato ma non dice nulla.
  Giuda e Giacomo si parlano fra loro concitati, e Giuda avvampa di sdegno e poi parte di corsa, inutilmente trattenuto dal fratello. Ma Gesù lo richiama con un talmente imperioso:
  «Giuda, vieni qui!», che l’inquieto figlio d’Alfeo torna indietro… «Lasciali fare. Sono semi che ancora non hanno sentito la primavera. Lasciali nel buio della zolla restia. Io penetrerò lo stesso anche se la zolla divenisse un diaspro chiuso intorno al seme. A suo tempo Io lo farò».
  Ma più forte della risposta di Giuda d’Alfeo risuona il pianto di Maria d’Alfeo, desolata. Un pianto lungo di persona avvilita… Ma Gesù non si volge a consolarla, benché sia ben netto quel lamento sotto l’archivolto pieno d’echi.
  Continua a parlare con Mannaen che gli dice: «Questi che con me sono, sono discepoli di Giovanni. Vogliono come me essere tuoi».
  «La pace sia ai buoni discepoli. Là avanti sono Mattia, Giovanni e Simeone, con Me per sempre. Accolgo voi come accolsi loro, perché caro mi è tutto ciò che a Me viene dal santo Precursore».

 4 È raggiunta la cinta del Tempio.
  Gesù dà gli ordini all’Iscariota e a Simone Zelote per gli acquisti di rito e le offerte di rito. Poi chiama il sacerdote Giovanni e dice: «Tu che sei di questo luogo provvederai ad invitare qualche levita che sai degno di conoscere la Verità. Perché veramente quest’anno Io posso celebrare una festa di letizia. Mai più sarà così dolce il giorno…».
  «Perché, Signore?», chiede lo scriba Giovanni.
  «Perché ho voi intorno, tutti, o con la presenza visibile o col loro spirito».
  «Ma sempre vi saremo! E con noi molti altri», assicura veementemente l’apostolo Giovanni. E tutti fanno coro.
  Gesù sorride e tace mentre il sacerdote Giovanni, insieme a Stefano, va avanti, nel Tempio, ad eseguire l’ordine. Gesù gli grida dietro: «Raggiungeteci al portico dei Pagani».
  Entrano e quasi subito incontrano Nicodemo, che fa un profondo saluto ma non si avvicina a Gesù. Però ha con Gesù un sorriso di intesa pieno di pace.
  Mentre le donne si fermano dove possono, Gesù con gli uomini va alla preghiera, nel luogo degli ebrei, e poi torna indietro, compito ogni rito, per riunirsi a chi lo attende nel portico dei Pagani.
  I porticati, vastissimi e altissimi, sono pieni di popolo che ascolta le lezioni dei rabbi. Gesù si dirige al punto dove vede fermi i due apostoli e i due discepoli mandati avanti. Subito si fa cerchio intorno a Lui, e agli apostoli e discepoli si uniscono anche altre numerose persone che erano sparse nell’affollato cortile marmoreo. La curiosità è tale che anche alcuni allievi di rabbi, non so se spontaneamente o se perché mandati dai maestri, si accostano al cerchio stretto intorno a Gesù.

 5 Gesù chiede a bruciapelo: «Perché intorno a Me vi pigiate?
  Ditelo. Avete rabbi noti e sapienti, benvisti da tutti. Io sono l’Ignoto e il Malvisto. Perché allora venite a Me?».
  «Perché ti amiamo», dicono alcuni, ed altri: «Perché hai parole diverse dagli altri», ed altri ancora: «Per vedere i tuoi miracoli», e: «Perché di Te abbiamo sentito parlare», e: «Perché Tu solo hai parole di vita eterna e opere corrispondenti alle parole», e infine: «Perché vogliamo unirci ai tuoi discepoli».
  Gesù guarda la gente man mano che parla, quasi volesse trafiggerla con lo sguardo per leggerne le più occulte sensazioni; e qualcuno, non resistendo a quello sguardo, si allontana o, quanto meno, si nasconde dietro a una colonna o a gente più alta di lui.
  Gesù riprende:
  «Ma sapete voi cosa vuol dire e vuole essere venire dietro a Me? Io rispondo a queste sole parole, perché non merita risposta la curiosità e perché chi ha fame delle mie parole è, di con seguenza, di Me amante e desideroso di unirsi a Me. Perciò, fra chi ha parlato, vi sono due gruppi: i curiosi che trascuro, i volonterosi che ammaestro senza inganno sulla severità di questa vocazione.

 6 Venire a Me come discepolo vuol dire rinuncia di tutti gli amori a un solo amore: il mio. Amore egoista verso se stessi, amore colpevole verso le ricchezze o il senso o la potenza, amore onesto verso la sposa, santo verso la madre, il padre, amore amabile dei e ai figli e fratelli, tutto deve cedere al mio amore se si vuole essere miei. In verità vi dico che più liberi di uccelli spazianti nei cieli devono essere i miei discepoli, più liberi dei venti che scorrono i firmamenti senza che nessuno li trattenga, nessuno e nessuna cosa. Liberi, senza catene pesanti, senza lacci d’amore materiale, senza neppure le ragnatele sottili delle più lievi barriere. Lo spirito è come una delicata farfalla serrata dentro al bozzolo pesante della carne, e può appesantirne il volo, o arrestarlo del tutto, anche l’iridescente e impalpabile tela di un ragno: il ragno della sensibilità, della ingenerosità nel sacrificio. Io voglio tutto, senza riserve. Lo spirito abbisogna di questa libertà di dare, di questa generosità di dare, per poter esser certo di non essere impigliato nella ragnatela delle affezioni, consuetudini, riflessioni, paure, tese come tanti fili da quel ragno mostruoso che è Satana, rapinatore di anime.
  Se uno vuol venire a Me e non odia santamente suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli e le sue sorelle, e persino la sua vita, non può esser mio discepolo. Ho detto “odia santamente”. Voi in cuor vostro dite: “L’odio, Egli lo insegna, non è mai santo. Perciò Egli si contraddice”. No. Non mi contraddico. Io dico di odiare la pesantezza dell’amore, la passionalità carnale dell’amore al padre e madre, e sposa e figli, e fratelli e sorelle, e alla stessa vita, ma anzi ordino di amare, con la libertà leggera che è propria degli spiriti, i parenti e la vita. Amateli in Dio e per Dio, non posponendo mai Dio a loro, occupandovi e preoccupandovi di portarli dove il discepolo è giunto, ossia a Dio Verità. Così amerete santamente i parenti e Dio, conciliando i due amori e facendo dei legami di sangue non peso ma ala, non colpa ma giustizia.
  Anche la vostra vita dovete esser pronti a odiare per seguire Me. Odia la sua vita colui che, senza paura di perderla o di renderla umanamente triste, la fa servire a Me. Ma non è che una apparenza di odio. Un sentimento erroneamente detto “odio” dal pensiero dell’uomo che non sa elevarsi, dell’uomo tutto terrestre, di poco superiore al bruto. In realtà questo apparente odio, che è il negare le soddisfazioni sensuali alla esistenza per dare una sempre più vasta vita allo spirito, è amore. Amore è, e del più alto che esista, del più benedetto. Questo negarsi le basse soddisfazioni, questo interdirsi la sensualità degli affetti, questo procurarsi rimproveri e commenti ingiusti, questo rischiare punizioni, ripudi, maledizioni e forse anche persecuzioni, è una sequela di pene. Ma occorre abbracciarle e imporsele come una croce, un patibolo sul quale si espia ogni passata colpa per andare giustificati a Dio, e dal quale si ottiene ogni grazia, vera, potente, santa grazia di Dio per coloro che noi amiamo. Chi non porta la sua croce e non viene dietro a Me, chi non sa fare questo, non può essere mio discepolo.

 7 Pensateci dunque molto, molto, voi che dite: “Siamo venuti perché vogliamo unirci ai tuoi discepoli”. Non è vergogna ma sapienza pesarsi, giudicarsi e confessare, a se stessi e agli altri: “Io non ho stoffa di discepolo”. E che? I pagani hanno a base di un loro insegnamento la necessità di “conoscere se stessi”; e voi israeliti, per conquistare il Cielo, non lo sapreste fare? Perché, ricordatevelo sempre, beati quelli che verranno a Me. Ma piuttosto che venire per poi tradire Me e Colui che mi ha mandato, meglio è non venire affatto e rimanere i figli della Legge come fin qui foste. Guai a coloro che, avendo detto: “Vengo”, portano poi danno al Cristo essendo i traditori dell’idea cristiana, gli scandalizzatori dei piccoli, dei buoni! Guai a loro! Eppure vi saranno, e sempre vi saranno!
  Imitate perciò colui che vuole edificare una torre. Prima calcola attentamente la spesa necessaria e fa i conti del suo denaro per vedere se ha di che portarla a termine, perché, terminate le fondamenta, non debba sospendere i lavori non avendo più denaro. In questo caso perderebbe anche quanto aveva prima, rimanendo senza torre e senza talenti, e in cambio si attirerebbe le beffe del popolo che direbbe: “Costui ha cominciato a fabbricare senza poter finire. Ora può empirsi lo stomaco delle rovine della sua incompiuta fabbrica”.
  Imitate ancora i re della Terra, facendo servire i poveri avvenimenti del mondo a insegnamento soprannaturale. Costoro, quando vogliono muovere guerra ad un altro re, esaminano con calma e attenzione ogni cosa, il pro e il contro, meditano se l’utile della conquista valga il sacrificio delle vite dei sudditi, studiano se è possibile conquistare quel luogo, se le loro milizie, inferiori della metà a quelle del rivale, anche se più combattive, possono vincere; e giustamente pensando che è improbabile che diecimila vincano ventimila, prima che avvenga lo scontro mandano incontro al rivale una ambasceria con ricchi doni e, ammansendo il rivale, già insospettito dalle mosse militari dell’altro, lo disarmano con prove di amicizia, ne annullano i sospetti e fanno con esso trattato di pace, in verità sempre più vantaggioso, tanto umanamente che spiritualmente, di una guerra.
  Così dovete fare voi prima di iniziare la nuova vita e di schierarvi contro il mondo. Perché questo è essere miei discepoli: andare contro la turbinosa e violenta corrente del mondo, della carne, di Satana. E, se non sentite in voi il coraggio di rinunciare a tutto per amor mio, non venite a Me perché non potete essere miei discepoli». 

8 «Va bene. Ciò che Tu dici è vero», ammette uno scriba che si è mescolato al gruppo. «Ma se ci spogliamo di tutto, con che ti serviamo poi? La Legge ha dei comandi che sono come monete che Dio dà all’uomo perché usandole si compri la vita eterna. Tu dici: “Rinunciate a tutto” e accenni il padre, la madre, le ricchezze, gli onori. Dio ha pur dato queste cose e ci ha detto, per bocca di Mosè, di usarle con santità per apparire giusti agli occhi di Dio. Se Tu ci levi tutto, che ci dài?».
 «Il vero amore, l’ho detto, o rabbi. Vi do la mia dottrina che non leva un iota alla antica Legge, ma anzi la perfeziona».
  «Allora tutti siamo discepoli uguali, perché tutti abbiamo le stesse cose».
  «Tutti le abbiamo secondo la Legge mosaica. Non tutti secondo la Legge perfezionata da Me secondo l’Amore. Ma non tutti raggiungono, nella stessa, la stessa somma di meriti. Anche fra i miei stessi discepoli non tutti giungeranno ad avere somma di meriti in uguale misura, e alcuno fra essi non solo non avrà somma ma perderà anche l’unica sua moneta: la sua anima».
  «Come? A chi più è dato più resterà. I tuoi discepoli, meglio i tuoi apostoli, ti seguono nella tua missione e sono al corrente dei tuoi modi, hanno avuto moltissimo; molto hanno avuto i discepoli effettivi, meno i discepoli solo di nome, nulla quelli che, come me, non ti ascoltano che per accidente. È ovvio che moltissimo avranno in Cielo gli apostoli, molto i discepoli effettivi, meno i discepoli di nome, nulla quelli che sono come me».
  «Umanamente è ovvio, e male anche umanamente. Perché non tutti sono capaci di far fruttare i beni avuti. Odi questa parabola e perdona se troppo a lungo qui insegno. Ma Io sono la rondine di passaggio, e non sosto che per poco nella Casa del Padre, essendo venuto per tutto il mondo e non volendo, questo piccolo mondo che è il Tempio di Gerusalemme, permettermi di raccogliere il volo e rimanere là dove la gloria del Signore mi chiama».
  «Perché dici così?».
  «Perché è verità».
  Lo scriba si guarda intorno e poi china la testa. Che sia verità lo vede scritto su troppi volti di sinedristi, rabbi e farisei che sono andati sempre più ingrossando l’assembramento che è intorno a Gesù. Volti verdi di bile o porpurei d’ira, sguardi che equivalgono a parole di maledizione e a sputi di veleno, rancore che lievita da ogni parte, desiderio di malmenare il Cristo, che resta desiderio solo per paura dei molti che circondano il Maestro con devozione e che sono pronti a tutto per difenderlo, paura forse anche di punizioni da parte di Roma che ha benignità verso il mite Maestro galileo.

 9 Gesù riprende calmo a esporre con la parabola il suo pensiero:
  «Un uomo, essendo in procinto di fare un lungo viaggio e una lunga assenza, chiamò tutti i suoi servi e consegnò a loro tutti i suoi beni. A chi diede cinque talenti d’argento, a chi due d’argento, a chi uno solo d’oro. A ciascuno a seconda del suo grado e della sua abilità. E poi partì.
  Ora, il servo che aveva avuto cinque talenti d’argento andò a negoziare con accortezza i suoi talenti, e dopo qualche tempo essi gliene procurarono altri cinque. Quello che aveva avuto due talenti d’argento fece lo stesso e raddoppiò la somma avuta. Ma quello al quale il padrone aveva più dato — un talento d’oro schietto — preso dalla paura di non saper fare, dei ladri, di mille cose chimeriche, e soprattutto dall’infingardia, fece una grande buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone.
  Passarono molti e molti mesi e tornò il padrone. Chiamò subito i suoi servi perché rendessero il denaro avuto in deposito.
  Venne quello che aveva avuto cinque talenti d’argento e disse: “Ecco, mio signore. Tu me ne desti cinque. Io, parendomi male di non fare fruttare quanto mi avevi dato, mi sono industriato e ti ho guadagnato altri cinque talenti. Di più non ho potuto…”. “Bene, molto bene, servo buono e fedele. Sei stato fedele nel poco, volonteroso e onesto. Ti darò autorità su molto. Entra nella gioia del tuo signore”.
  Poi venne l’altro dei due talenti e disse: “Mi sono permesso di usare i tuoi beni per tuo utile. Ecco qui i conti che ti mostrano come ho usato il tuo denaro. Vedi? Erano due talenti d’argento. Ora sono quattro. Sei contento, mio signore?”. E il padrone dette al servo buono la stessa risposta data al primo servo.
  Venne per ultimo quello che, godendo della massima fiducia del padrone, aveva avuto dallo stesso il talento d’oro. Lo svolse dalla sua custodia e disse: “Tu mi hai affidato il maggior valore, perché mi sai prudente e fedele, così come io so che tu sei intransigente ed esigente e che non tolleri perdite nel tuo denaro, ma se disgrazia ti incoglie ti rifai su chi ti è prossimo, perché in verità mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, non condonando uno spicciolo al tuo banchiere o al tuo fattore, per nessuna ragione. Tanto deve essere il denaro quanto tu dici. Ora io, temendo di sminuire questo tesoro, l’ho preso e l’ho nascosto. Non mi sono fidato di nessuno, neppure di me stesso. Ora l’ho dissotterrato e te lo rendo. Eccoti il tuo talento”.
 “O servo iniquo ed infingardo! In verità tu non mi hai amato, poiché non mi hai conosciuto e non hai amato il mio benessere perché l’hai lasciato inerte. Hai tradito la stima che avevo posta in te, e da te stesso ti smentisci, ti accusi e condanni. Tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso. E perché allora non hai fatto che io potessi mietere e raccogliere? Così rispondi alla mia fiducia? Così mi conosci? Perché non hai portato il denaro ai banchieri, che lo avrei al ritorno ritirato con gli interessi? A questo con particolare cura ti avevo istruito, e tu, stolto infingardo, non ne hai fatto conto.
  Ti sia dunque levato il talento e ogni altro bene e sia dato a quello che ha i dieci talenti”.
  “Ma colui ne ha già dieci, mentre questo ne resta privo…”, gli obbiettarono.
  “Bene sta. A chi ha e, su quanto ha, lavora, sarà dato più ancora e fino alla sovrabbondanza. Ma a chi non ha, perché non volle avere, sarà tolto anche quello che gli fu dato. Riguardo al servo disutile, che ha tradito la fiducia mia e lasciato inerti i doni datigli, gettatelo fuori dalla mia proprietà e vada piangendo e rodendosi in cuor suo”.
  Questa è la parabola. Come tu vedi, o rabbi, a chi più aveva meno restò, perché non seppe meritare di conservare il dono di Dio. E non è detto che uno di quelli che tu chiami discepoli solo di nome, aventi ben poco da negoziare perciò, e anche fra chi, ascoltandomi solo per accidente, come tu dici, e avendo per unica moneta l’anima, non giungano ad avere il talento d’oro, e i frutti dello stesso anche, che verrà levato ad uno dei più beneficati. Infinite sono le sorprese del Signore, perché infinite sono le reazioni dell’uomo. Vedrete gentili giungere alla Vita eterna e samaritani possedere il Cielo, e vedrete israeliti puri e seguaci miei perdere il Cielo e l’eterna Vita».

10 Gesù tace e, come volesse troncare ogni discussione, si volge verso la cinta del Tempio.
  Ma un dottore della Legge, che si era seduto in serio ascolto sotto il porticato, si alza e gli si para davanti chiedendogli:
  «Maestro, che debbo fare per ottenere la Vita eterna? Hai risposto ad altri, rispondi a me pure».
  «Perché mi vuoi tentare? Perché vuoi mentire? Speri che Io dica cosa disforme alla Legge perché aggiungo concetti più luminosi e perfetti ad essa? Cosa c’è scritto nella Legge? Rispondi! Quale è il comandamento principale di essa?».
  «”Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, con tutta la tua intelligenza. Amerai il tuo prossimo come te stesso”».
  «Ecco. Bene hai risposto. Fa’ questo e avrai la Vita eterna».
  «E chi è il mio prossimo? Il mondo è pieno di gente buona e malvagia, nota e ignota, amica e nemica di Israele. Quale è il mio prossimo?».
  «Un uomo, scendendo da Gerusalemme a Gerico per le gole delle montagne, incappò nei ladroni, i quali, dopo averlo ferito crudelmente, lo spogliarono di ogni suo avere e fin delle vesti, lasciandolo più morto che vivo sul bordo della strada.
  Per la stessa via passò un sacerdote che aveva cessato il suo turno al Tempio. Oh! era ancor profumato degli incensi del Santo! E avrebbe dovuto avere l’anima profumata di bontà soprannaturale e di amore, essendo stato nella Casa di Dio, quasi a contatto coll’Altissimo. Il sacerdote aveva fretta di tornare alla sua casa. Guardò dunque il ferito ma non si arrestò. Passò oltre sollecito, lasciando il disgraziato sulla proda.
  Passò un levita. Contaminarsi lui che deve servire nel Tempio? Ohibò! Raccolse la veste perché non si sporcasse di sangue, gettò uno sguardo sfuggente su colui che gemeva nel suo sangue e affrettò il passo verso Gerusalemme, verso il Tempio.
  Terzo, venendo dalla Samaria, diretto al guado, venne un samaritano. Vide il sangue, si fermò, scoperse il ferito nel crespuscolo che si infittiva, scese dal giumento, si accostò al ferito, lo ristorò con un sorso di vino gagliardo, strappò il suo mantello per farne fasce e, lavate e unte le ferite prima con aceto e poi con olio, gliele fasciò con amore, e caricato il ferito sul suo giumento guidò con accortezza la bestia, sorreggendo nel contempo il ferito, confortandolo con buone parole, non preoccupandosi della fatica né sdegnandosi per essere questo ferito di nazionalità giudea. Giunto in città, lo condusse all’albergo, lo vegliò per tutta la notte e all’alba, vedendolo migliorato, lo affidò all’oste, pagandolo in anticipo con dei denari e dicendo: “Abbine cura come fossi io stesso. Al mio ritorno, quanto avrai speso in più io te lo renderò e con buona misura, se bene avrai fatto”. E se ne andò.
  Dottore della Legge, rispondimi. Quale di questi tre fu “prossimo” per colui che incappò nei ladroni? Forse il sacerdote? Forse il levita? O non piuttosto il samaritano che non si chiese chi era il ferito, perché era ferito, se faceva male a soccorrerlo perdendo tempo, denaro e risicando di essere accusato d’essere il feritore?».
  Il dottore della Legge risponde: «Fu “prossimo” costui, perché ebbe misericordia».
  «Fa’ tu pure il simigliante e amerai il prossimo e Dio nel prossimo, meritando vita eterna».

11 Nessuno osa più parlare e Gesù ne approfitta per raggiungere le donne, che erano in attesa presso la cinta, e con esse andare di nuovo in città. Ora ai discepoli si è aggiunta una coppia di sacerdoti, o meglio, un sacerdote e un levita, giovanissimo quest’ultimo, patriarcale l’altro.
  Ma Gesù ora parla con la Madre avendo in mezzo, fra Sé e Lei, Marziam. E le chiede: «Mi hai udito, Madre?».
  «Sì, Figlio mio, e alla tristezza di Maria Cleofe si è aggiunta la mia. Ella ha pianto poco prima di entrare nel Tempio…».
  «Lo so, Madre. E ne so il motivo. Ma non deve piangere. Solo pregare».
  «Oh! prega tanto! In queste sere, sotto la sua capanna, fra i figli dormenti, ella pregava e piangeva. Io la sentivo piangere attraverso la parete sottile delle frasche vicine. Vedere a pochi passi Giuseppe e Simone, vicini ma divisi così!… E non è la sola a piangere. Con me ha pianto Giovanna che ti pare tanto serena…».
  «Perché, Madre?».
  «Perché Cusa… Ha una condotta… inesplicabile. Un poco la seconda in tutto. Un poco la respinge in tutto. Se sono soli, dove nessuno li vede, è il marito esemplare di sempre. Ma se con lui sono altre persone, della Corte, è naturale, ecco allora che egli diviene autoritario e sprezzante per la mite sua sposa.
  Ella non capisce perché…».
  «Io te lo dico. Cusa è servo di Erode. Comprendimi, Madre.
  “Servo”. Io non lo dico a Giovanna per non darle dolore. Ma così è. Quando non teme biasimo e derisione sovrana, è il buon Cusa. Quando li può temere, non è più tale».
  «È perché Erode è molto irritato per Mannaen e…».
  «È perché Erode è folle del rimorso tardivo di aver ceduto ad Erodiade. Ma Giovanna ha già tanto bene nella vita. Deve, sotto il diadema, portare il suo cilizio».
  «Anche Annalia piange…».
  «Perché?».
  «Perché lo sposo devia contro di Te».
  «Non pianga. Diglielo. Ciò è una risoluzione. Una bontà di Dio. Il suo sacrificio porterà di nuovo Samuele al Bene. Per ora questo la lascerà libera da pressioni per il matrimonio. Le ho promesso di prenderla con Me. Mi precederà nella morte…».
  «Figlio!…». Maria stringe la mano di Gesù, col viso che si fa esangue.
  «Mamma cara! È per gli uomini. Lo sai. È per amore degli uomini. Beviamo il nostro calice con buona volontà. Non è vero?».
  Maria inghiotte le lacrime e risponde: «Sì». Un “sì” straziato e straziante tanto.

12 Marziam alza il visetto e dice a Gesù: «Perché dici queste brutte cose che fanno dolore alla Mamma? Io non ti lascerò morire. Come ho difeso gli agnelli, così difenderò Te».
  Gesù lo carezza e, per sollevare il morale dei due afflitti, chiede al bambino: «Che faranno, ora, le tue pecorelle? Non le rimpiangi?».
  «Oh! sono con Te! Però ci penso sempre e mi chiedo: “Porfirea le avrà portate al pascolo? e avrà fatto attenzione che Spuma non vada nel lago?”. È tanto vivace Spuma, sai? Sua madre lo chiama, lo chiama… Macché! Fa ciò che vuole. E Neve, così ghiotta che mangia fino a star male? Sai, Maestro? Io capisco cosa è esser sacerdote in tuo Nome. Meglio degli altri lo capisco. Loro (e accenna con la mano gli apostoli che vengono dietro) dicono tanti paroloni, fanno tanti progetti… per dopo. Io dico: “Farò il pastore. Come per le pecorine, per gli uomini. E sarà sufficiente”. La Mamma mia e tua mi ha detto ieri un così bel punto dei profeti… e mi ha detto: “Proprio così è il nostro Gesù”. E io nel cuore ho detto: “E io pure sarò proprio così”. Poi ho detto alla Mamma nostra: “Per ora sono agnello, poi sarò pastore. Invece ora Gesù è Pastore e poi è anche Agnello. Ma tu sei sempre l’Agnella, solo l’Agnella nostra, bianca, bella, cara, dalle parole più dolci del latte. È per questo che Gesù è tanto Agnello: perché è nato da te, Agnellina del Signore”».
  Gesù si china e lo bacia, con slancio. Poi chiede: «Tu dunque vuoi proprio essere sacerdote?».
  «Certo, mio Signore! Per questo cerco di farmi buono e di sapere tanto. Vado sempre da Giovanni di Endor. Mi tratta sempre da uomo e con tanta bontà. Voglio essere pastore delle pecore sviate e non sviate, e medico-pastore delle ferite e fratturate, come dice il Profeta. Oh! che bello!», e il bambino fa un salto, battendo le mani.
  «Cosa ha questo capinero da esser tanto felice?», chiede Pietro venendo avanti.
  «Vede la sua via. Nettamente. Sino alla fine. Ed Io consacro questa sua visione col mio “sì”».

13 Si fermano davanti ad un’alta casa che, se non erro, è verso il sobborgo di Ofel, ma in luogo più signorile.
  «Qui ci fermiamo?».
  «Questa è la casa che Lazzaro mi ha offerta per il banchetto di letizia. Qui già vi è Maria».
  «Perché non è venuta con noi? Per paura degli scherni?».
  «Oh! no! Io solo gliel’ho ordinato».
  «Perché, Signore?».
  «Perché il Tempio è più suscettibile di una sposa gravida.
  Finché posso, e non per viltà, non voglio urtarlo».
  «Non ti servirà a niente, Maestro. Io, se fossi Tu, non solo lo urterei. Ma lo butterei giù dal Moria con tutti quelli che ci sono dentro».
  «Sei un peccatore, Simone. Occorre pregare per i propri simili, non ucciderli».
  «Io sono peccatore. Ma Tu no… e… dovresti farlo».
  «Ci sarà chi lo fa. E dopo che la misura del peccato sarà raggiunta».
  «Quale misura?».
  «Una misura tale che empierà tutto il Tempio, traboccando per Gerusalemme. Non puoi capire… Oh! Marta! Apri dunque al Pellegrino la tua casa!».
  Marta si fa riconoscere e aprire. Entrano tutti in un lungo atrio che finisce in un cortile selciato, avente quattro alberi ai quattro angoli. Una vasta sala si apre sopra al terreno, e dalle finestre aperte si vede tutta la città nei suoi sali-scendi. Arguisco perciò che la casa sia sulle pendici meridionali, o sudorientali, della città. La sala è apparecchiata per molti, molti ospiti. Tavole e tavole sono messe le une parallele alle altre. Un centinaio di persone può comodamente prendervi ristoro.
  Accorre Maria Maddalena, che era altrove, intenta alle dispense, e si prostra davanti a Gesù. E viene Lazzaro con un sorriso beato sul volto malaticcio. Entrano man mano gli ospiti, un poco impacciati taluni, più sicuri gli altri. Ma la genti lezza delle donne li fa tutti presto a loro agio.

14 Il sacerdote Giovanni conduce a Gesù i due presi nel Tempio. «Maestro, il mio buon amico Gionata e il mio giovane amico Zaccaria. Sono veri israeliti senza malizia e senz’astio».
  «La pace a voi. Sono lieto di avervi. Il rito deve essere osservato anche in queste dolci consuetudini. È bello che la Fede antica dia la mano di amica alla nuova Fede venuta dal suo stesso ceppo. Sedete al mio fianco mentre viene l’ora del pasto».
  Parla il patriarcale Gionata, mentre il giovane levita guarda qua e là curioso, stupito, e forse anche intimidito. Penso che si voglia dare un contegno spigliato, ma in realtà sia come un pesce fuor d’acqua. Per fortuna Stefano viene in suo soccorso e gli porta, uno dopo l’altro, gli apostoli e i discepoli principali.
  Il vecchio sacerdote, lisciandosi la barba di neve, dice:
  «Quando Giovanni venne a me, proprio a me, suo maestro, a mostrarmi la sua guarigione, io ebbi voglia di conoscerti. Ma, Maestro, io quasi più non esco dal mio recinto. Vecchio sono… Speravo vederti però prima di morire. E Jeové mi ha esaudito. Lode sia a Lui! Oggi ti ho sentito al Tempio. Tu superi Hillele, il vecchio, il saggio. Io non voglio, anzi io non posso dubitare che Tu sia ciò che il mio cuore attende. Ma sai cosa è avere bevuto per quasi ottanta anni la fede d’Israele quale è divenuta in secoli di… lavorazione umana? Si è fatta sangue nostro. E io sono così vecchio! Sentire Te è come sentire l’acqua che esce da una fresca sorgente. Oh! sì! Un’acqua vergine! Ma io… ma io sono saturo dell’acqua stanca che viene da tanto lontano… che si è appesantita di tante cose. Come farò per levarmi questa saturazione e gustare di Te?».
  «Credermi e amarmi. Non necessita altro per il giusto Gionata».
  «Ma presto io morirò! Farò in tempo a credere tutto quello che dici? Non riuscirò più neppure a seguire tutte le tue parole, o a conoscerle dalla bocca altrui. E allora?».
  «Le imparerai in Cielo. Non muore alla Sapienza che il dannato. Mentre chi muore in grazia di Dio attinge la Vita e vive nella Sapienza. Cosa credi tu che Io sia?».
  «Non puoi essere che l’Atteso che ha precorso il figlio del mio amico Zaccaria. Lo hai conosciuto?».
  «Mi era parente».
  «Oh! Allora Tu sei parente del Battista?».
  «Sì, sacerdote».
  «Egli è morto… e non posso dire: “Infelice!”. Perché è morto fedele alla giustizia, dopo aver compiuto la sua missione, e perché… Oh! tempi atroci che viviamo! Non è meglio tornare ad Abramo?».
  «Sì. Ma più atroci verranno, sacerdote».
  «Tu dici? Roma, eh?».
  «Non Roma sola. Israele colpevole ne sarà la causa prima».
  «È vero. Dio ci colpisce. Lo meritiamo. Ma però anche Roma… 

15 Hai sentito parlare dei galilei uccisi da Pilato mentre consumavano un sacrificio? Il loro sangue si fuse con quello della vittima. Fin presso l’altare! Fin presso l’altare!».
  «Ho sentito».
  Tutti i galilei tumultuano per questo sopruso. Gridano: «È vero che egli era un falso Messia. Ma perché uccidere i suoi seguaci dopo aver già percosso lui? E perché in quell’ora? Erano più peccatori forse?».
  Gesù impone pace e poi dice: «Vi chiedete se erano più peccatori quelli di tanti altri galilei e se è per questo che furono uccisi? No, che non lo erano. In verità vi dico che essi hanno pagato e che molti altri pagheranno se non vi convertite al Signore. Se non farete tutti penitenza, perirete tutti in ugual misura, in Galilea e altrove. Dio è sdegnato del suo popolo. Io ve lo dico. Non bisogna credere che i colpiti siano sempre i peggiori. Ognuno esamini se stesso, sé giudichi e non altro. Anche quei diciotto su cui cadde la torre di Siloe e li uccise non erano i più colpevoli in Gerusalemme. Io ve lo dico. Fate, fate penitenza se non volete essere stritolati come essi, e anche nello spirito. 

16 Vieni, sacerdote d’Israele. La mensa è pronta. Tocca a te, perché il sacerdote è sempre colui che va onorato per l’Idea che rappresenta e richiama, tocca a te, patriarca fra noi, tutti più giovani, offrire e benedire».
  «No, Maestro! No! Non posso davanti a Te! Tu sei il Figlio di Dio!».
  «Offri pure l’incenso davanti all’altare! E non credi forse che là è Dio?».
  «Sì che lo credo! Con tutte le mie forze!».
  «E allora? Se non tremi di offrire davanti alla Gloria Ss. dell’Altissimo, perché vuoi tremare davanti alla Misericordia che si è vestita di carne per portare anche a te la benedizione di Dio prima che venga a te la notte? Oh! che non sapete voi di Israele che, proprio perché l’uomo possa avvicinare Dio e non morirne, ho messo sulla mia Divinità insostenibile il velo della carne. Vieni e credi e sii felice. In te Io venero tutti i sacerdoti santi, da Aronne all’ultimo che sarà sacerdote d’Israele con giustizia, a te forse, perché in verità la santità sacerdotale langue fra noi come pianta senza soccorso».

    Cap. CCCXXXVIII. Giuda Iscariota perde il potere del miracolo. La parabola del coltivatore.

   22 Novembre 1945

 1 La strada che conduce a Sefet lascia la pianura di Corozim per assalire un gruppo montagnoso abbastanza rilevante e molto folto di piante. Un corso d’acqua scende da questi monti, certo diretto al lago di Tiberiade.
   I pellegrini attendono a questo ponte che li raggiungano gli altri mandati al lago Merom. Non attendono molto, infatti. Puntuali all’appuntamento, essi vengono avanti lesti e si riuniscono con gioia al Maestro e ai compagni, riferendo sul come si svolse il loro viaggio, benedetto da alcuni miracoli fatti a turno da «tutti gli apostoli», dicono. Ma Giuda di Keriot corregge: «Meno che da me, che non sono riuscito a nulla». E la sua mortificazione, nel confessarlo, è penosa.
   «Ti abbiamo detto che era perché avevamo di fronte un grande peccatore» gli risponde Giacomo di Zebedeo. E spiega: «Sai, Maestro? Era Giacobbe, molto ammalato. E ti invoca per questo, perché ha paura della morte e del giudizio di Dio. Ma è più avaro che mai, ora che prevede un vero disastro nei suoi raccolti, completamente rovinati dal gelo. Ha perduto tutto il grano da seme e non può seminarne altro, perché è malato e la serva, sfiancata di fatiche e di fame – perché lui economizza anche la farina da pane, preso come è dalla paura di essere un giorno senza mangiare – non ce la fa ad arare il campo. Noi – abbiamo forse peccato, perché abbiamo lavorato tutto il venerdì e oltre il tramonto, fino all’ultima luce e persino con delle fiaccole e dei falò accesi per vedere – noi abbiamo arato una grande estensione di terreno. Filippo, Giovanni e Andrea sanno fare e io anche. Abbiamo sgobbato… Simone, Matteo e Bartolomeo ci venivano dietro ripulendo le zolle dal grano nato e morto, e Giuda è andato in tuo nome a chiedere un poco di seme a Giuda ed Anna, promettendo la nostra visita di oggi. Lo ha avuto, ed eletto. Allora abbiamo detto: “Domani semineremo”. Per questo abbiamo tardato un poco. Perché abbiamo cominciato all’inizio del tramonto. L’Eterno ci perdoni per il motivo per cui peccammo. Giuda, intanto, rimaneva presso il letto di Giacobbe per convertirlo. Lui sa parlare meglio di noi. Almeno così hanno voluto dire di loro anche Bartolomeo e lo Zelote. Ma Giacobbe era sordo ad ogni argomento. Voleva la guarigione perché la malattia gli costa, e insolentiva la serva come una poltrona. Per calmarlo, visto che diceva: “Mi convertirò se guarisco”, Giuda gli impose le mani. Ma Giacobbe restò malato come prima. Giuda, sconfortato, ce lo disse. Provammo noi prima di coricarci. Ma non ebbimo miracolo. Ora Giuda sostiene che è perché lui è in tua disgrazia, avendoti dispiaciuto, ed è avvilito. Ma noi diciamo che è perché avevamo di fronte un peccatore ostinato, il quale pretende di ottenere tutto ciò che vuole, mettendo termini e dando ordini anche a Dio. Chi ha ragione?».
   «Voi sette. Avete detto il vero.

 2 E Giuda ed Anna? I loro campi?».
   «Rovinati alquanto. Ma loro hanno mezzi, e tutto è già riparato. Ma sono buoni, quelli! Tieni. Ti mandano quest’offerta e questi cibi. Sperano vederti qualche volta. Quello che rattrista è lo stato d’animo di Giacobbe. Io avrei voluto guarirgli l’anima più che il corpo…» dice Andrea.
   «E negli altri luoghi?».
   «Oh! Sulla via di Deberet, presso il paese, abbiamo – è stato Matteo – guarito uno con le febbri, che tornava da un medico che lo aveva dato per spacciato. Sostammo da lui e la febbre non è tornata dal tramonto all’aurora, ed egli asseriva di sentirsi bene e forte. Poi a Tiberiade fu Andrea che guarì un barcaiolo che si era spezzata una spalla cadendo sul ponte. Gli impose le mani e la spalla guarì. Figurati l’uomo! Ci volle portare senza spesa a Magdala e a Cafarnao, poi a Betsaida, e là è rimasto, perché vi sono i discepoli di Timoneo di Aera, Filippo d’Arbela, Ermasteo e Marco di Giosia, uno dei liberati dal demonio presso Gamala. Vuole essere discepolo anche Giuseppe il barcaiolo… I bambini, da Giovanna, stanno bene. Non sembrano più quelli. Erano nel giardino e giocavano con Giovanna e Cusa…».
   «Li ho visti. Ci sono passato Io pure. Continuate».
   «A Magdala è stato Bartolomeo che ha convertito un cuore vizioso e guarito un corpo vizioso. Come ha parlato bene! Ha mostrato che il disordine dello spirito genera disordine nel corpo, e ogni concessione alla disonestà degenera in perdita della tranquillità, della salute e infine dell’anima. Quando lo ha visto pentito e persuaso, gli ha imposto le mai e l’uomo è guarito. Volevano trattenerci a Magdala. Ma noi abbiamo ubbidito proseguendo, dopo la notte, per Cafarnao. Lì vi erano cinque che chiedevano grazia da Te. E stavano per tornare via sconfortati. Li guarimmo. Non abbiamo visto nessuno perché ci rimbarcammo subito per Betsaida, per evitare domande da Eli, Uria e compagni.

 3 Ma racconta tu, Andrea, a tuo fratello…» termina Giacomo di Zebedeo che ha sempre parlato.
   «Oh! Maestro! Oh! Simone! Ma se vedeste Marziam! Non si riconosce più!…».
   «Oh! sorte! Non sarà già divenuto una femmina?» esclama e interroga Pietro.
   «No, anzi. Un bel giovinetto, alto ed esile per la grande crescita… Una cosa meravigliosa! Stentammo a conoscerlo. È alto come tua moglie e come me…».
   «Oh! bene! Né io, né te, né Porfirea siamo palme! Tutt’al più potremo essere paragonati a piante di pruno…» dice Pietro, che però gongola sentendo che il suo figlio d’adozione si è sviluppato.
   «Sì, fratello. Ma solo alle Encenie egli era ancora uno stento fanciullino che a malapena ci raggiungeva le spalle. Ora è proprio un giovane uomo, nella statura, nella voce e nella gravità. Ha fatto come quelle piante che stagnano per anni e poi all’improvviso hanno un rigoglio stupefacente. Tua moglie ha avuto un gran da fare ad allungare vesti e a farne di nuove. E le fa con grandi orli e grandi balze alla vita, perché giustamente prevede che Marziam crescerà ancora. E più cresce in sapienza. Maestro, l’umiltà saggia di Natanaele non ti aveva detto che per quasi due mesi Bartolomeo fu maestro al più piccolo e più eroico dei discepoli, che si alza avanti giorno per pasturare le pecore, spezzare le legna, attingere l’acqua, accendere il fuoco, spazzare, fare gli acquisti per amore della mamma putativa, e poi nel pomeriggio, fino a notte tarda, studia e scrive come un piccolo dottore. Pensa! Ha riunito tutti i fanciulli di Betsaida e al sabato tiene loro piccole lezioni evangeliche. Così i piccoli, che per non avere turbamento alle funzioni vengono esclusi dalla sinagoga, hanno la loro giornata di preghiera come i grandi. E mi dicono le madri che è bello sentirlo parlare, e che i fanciulli lo amano e ubbidiscono con rispetto divenendo più buoni. Che discepolo si farà!».
   «Ma guarda! guarda! Io… sono commosso… Il mio Marziam! Ma già anche a Nazaret, eh!, che eroismo per… quella bambina. Rachele, vero?». Pietro si è fermato in tempo, divenendo di porpora per la paura di aver detto troppo.
   Per fortuna Gesù lo soccorre e Giuda è cogitabondo e distratto. O finge d’esserlo. Gesù dice: «Già, Rachele. Ricordi bene. È guarita. E i campi daranno molto grano. Vi passammo Io e Giacomo. Tanto può il sacrificio di un fanciullo giusto».
   «A Betsaida fu Giacomo che fece miracolo su un povero storpio, e Matteo, sulla via, verso la casa di Giacobbe, guarì un fanciullo. Ma proprio oggi, sulla piazza di quel villaggio presso il ponte, Filippo e Giovanni hanno guarito, il primo un malato d’occhi, e il secondo un fanciullo indemoniato».

 4 «Avete fatto tutti bene. Molto bene. Ora andremo fino a quel paese sulle pendici e ci fermeremo in qualche casa a dormire».
   «E Tu, Maestro mio, che hai fatto? Come sta Maria? E l’altra Maria?» chiede Giovanni.
   «Stanno bene e vi salutano tutti. Stanno preparando vesti e quanto occorre per il pellegrinaggio di primavera. E non vedono l’ora di farlo per stare con noi».
   «Anche Susanna e Giovanna e nostra madre hanno la stessa ansia» dice sempre Giovanni.
   Bartolomeo dice: «Anche mia moglie con le figlie vuole venire quest’anno, dopo tanti anni, a Gerusalemme. Dice che mai più sarà bello come quest’anno… Non so perché lo dica. Ma ella sostiene che se lo sente in cuore».
   «Certo allora verrà anche la mia. Non me l’ha detto… Ma ciò che fa Anna fa sempre anche Maria» dice Filippo.
   «E le sorelle di Lazzaro? Voi che le avete viste…» chiede Simone Zelote.
   «Ubbidiscono con sofferenza all’ordine del Maestro e alla necessità… Lazzaro è molto sofferente, vero Giuda? Quasi sempre è coricato. Ma con molta ansia attendono il Maestro» dice Tommaso.
   «Presto sarà Pasqua ed andremo da Lazzaro».
   «Ma Tu che hai fatto a Nazaret e Corozim?».
   «A Nazaret ho salutato i parenti e gli amici e i parenti dei due discepoli. A Corozim ho parlato nella sinagoga e ho guarito una donna. Abbiamo sostato dalla vedova alla quale è morta la madre. Un dolore e un sollievo insieme, per le poche risorse e per quanto tempo sottraeva l’assistenza dell’inferma al lavoro della vedova, che si è messa a filare per conto di altri. Ma non è più disperata. Ha il necessario assicurato ed è paga di ciò. Giuseppe va ogni mattina presso un falegname del Pozzo di Giacobbe per apprendere il mestiere».

 5 «Sono più buoni quelli di Corozim?» chiede Matteo.
   «No, Matteo. Sono sempre più cattivi» confessa schiettamente Gesù.    «E ci hanno maltrattati. I più potenti, è naturale. Non è il popolo semplice».
   «È un gran postaccio. Non ci andare più» dice Filippo.
   «Ne avrebbe dolore il discepolo Elia, e la vedova e la donna guarita oggi e gli altri buoni».
   «Sì. Ma sono tanto pochi che… io non mi occuperei più del luogo. Tu lo hai detto: “È inlavorabile”» dice Tommaso.
   «Altra cosa è la resina e altra i cuori. Qualcosa resterà, come seme sprofondato sotto zolle e zolle molto compatte. Ci terrà molto a spuntare. Ma finalmente spunterà. Così di Corozim. Un giorno nascerà ciò che Io ho seminato. Non bisogna stancarsi alle prime sconfitte.

 6 Sentite questa parabola. Potrebbe essere intitolata: “La parabola del buon coltivatore”.
   Un ricco aveva una grande e bella vigna, nella quale erano anche piante di fichi di diverse qualità. Alla vigna attendeva un suo servo, esperto vignaiolo e potatore di piante da frutto, che faceva il suo dovere con amore al padrone e alle piante. Tutti gli anni il ricco, nella stagione migliore, andava a più riprese alla sua vigna per vedere maturare le uve e i fichi e gustarne, cogliendoli con le sue mani dalle piante. Un giorno, dunque, si diresse a un fico che era di qualità buonissima, l’unica pianta di quella qualità che fosse nella vigna. Ma anche quel giorno, come nei due anni precedenti, lo trovò tutto fogliame e niente frutta. Chiamò il vignaiolo e disse: “Sono tre anni che vengo a cercare frutta su questo fico e non trovo che foglie. Si capisce che la pianta ha finito di fruttificare. Tagliala, dunque. È inutile che sia qui ad occupare posto e ad occupare il tuo tempo, per poi non concludere niente. Segala, bruciala, ripulisci il terreno dalle sue radici e nel posto suo mettici una pianticina novella. Fra qualche anno darà frutto essa”. Il vignaiolo, che era paziente e amoroso, rispose: “Tu hai ragione. Ma lasciami fare ancora per un anno. Io non segherò la pianta. Ma, anzi, con ancora maggior cura le zapperò intorno il suolo, la concimerò e la poterò. Chissà che non fruttifichi ancora. Se dopo quest’ultima prova non farà frutto, ubbidirò al tuo desiderio e la taglierò”.
   Corozim è il fico che non dà frutti. Io sono il buon Coltivatore. E il ricco impaziente siete voi. Lasciate fare al buon Coltivatore».

 7 «Va bene. Ma la tua parabola non conclude. Il fico, l’anno di poi, fece frutto?» chiede lo Zelote.
   «Non fece frutto e fu reciso. Ma il coltivatore fu giustificato del recidere una pianta ancora giovine e fiorente, perché aveva fatto tutto il suo dovere. Io pure voglio essere giustifico per causa di coloro sui quali dovrò mettere la scure e reciderli dalla mia vigna, dove sono piante sterili o velenose, nidi di serpi, succhiatori di succhi, parassiti o tossici che guastano e nuocciono i compagni discepoli, o anche che penetrano strisciando con le loro radici malevole per proliferare, non chiamati, nella mia vigna, ribelli ad ogni innesto, entrati solo per spiare, denigrare e sterilire il mio campo. Questi li reciderò quando tutto sarà tentato per convertirli. E per intanto, prima della scure, alzo la cesoia e il coltello del potatore e sfrondo ed innesto… Oh! sarà un lavoro duro. Per Me che lo faccio, per coloro che lo subiranno. Ma va fatto. Perché si possa dire in Cielo: “Egli ha tutto compiuto, ma essi sono divenuti sempre più sterili e malvagi più Egli li ha potati, innestati, scalzati, concimati, con sudore e lacrime, con fatiche e sangue”…

 8 Eccoci al paese. Andate avanti tutti e chiedete alloggio. Tu, Giuda di Keriot, resta con Me».
   Restano soli e, nelle penombre della sera, procedono vicini nel massimo silenzio.
   Infine Gesù dice, come parlando a Se stesso: «Eppure, anche se si è caduti in disgrazia di Dio per avere contravvenuto alla sua Legge, sempre si può tornare ad essere ciò che eravamo, rinunciando al peccato…».
Giuda non risponde niente.
   Gesù riprende: «E se si è capito che non si può più avere il potere da Dio, perché Dio non è là dove è Satana, con facilità si può rimediare, preferendo ciò che Dio concede a ciò che vuole la superbia nostra».
   Giuda tace.
   Gesù – e sono già alla prima casa del paese – sempre come parlando a Se stesso, dice: «E pensare che Io ho sofferto aspra penitenza perché egli si ravveda e torni al Padre suo…».
   Giuda ha un sussulto, alza il capo, lo guarda… ma non dice nulla.
   Anche Gesù lo guarda… e poi chiede: «Giuda, a chi parlo?».
   «A me, Maestro. È per Te che io non ho più potere. Perché Tu me lo hai levato per aumentarlo a Giovanni, a Simone, a Giacomo, a tutti, fuorché a me. Non mi ami, ecco! E finirò per non amarti e per maledire l’ora in cui ti ho amato, rovinandomi agli occhi del mondo per un re imbelle che si lascia soverchiare anche dalla plebe. Non questo speravo da Te!».
   «Neppure Io da te. Ma non ti ho mai ingannato, Io. E non ti ho mai costretto. Perché dunque rimani al mio fianco?».
   «Perché ti amo. Non posso separarmi più da Te. Mi attiri e mi fai ribrezzo. Ti desidero come l’aria per il respiro e… mi fai paura. Ah! Sono maledetto! Sono dannato! Perché non mi cacci il demonio, Tu che puoi?». Il viso di Giuda è livido e stravolto, pazzo, pieno di paura e di odio… Ricorda già, sebbene pallidamente, la maschera satanica del Giuda del Venerdì Santo.
   E Gesù ricorda nel volto il Nazareno flagellato che, seduto nel cortile del Pretorio sul mastello capovolto, guarda i suoi schernitori con tutta la sua pietà amorosa. Dice, e sembra che un singhiozzo sia già nella sua voce: «Perché non c’è pentimento in te, ma solo ira contro Dio, quasi Egli fosse il colpevole del tuo peccato».
   Giuda dice fra i denti una brutta imprecazione…

 9 «Maestro, abbiamo trovato. Cinque in un luogo, tre nell’altro, due in un altro, e uno e uno in altri due. Non fu possibile fare meglio» dicono i discepoli.
   «Va bene. Io vado con Giuda di Keriot» dice Gesù.
   «No. Preferisco essere solo. Sono inquieto. Non ti lascerei riposare…».
   «Come vuoi tu… Allora andrò con Bartolomeo. Voi farete ciò che vorrete. Intanto andiamo dove è più posto, per poter cenare insieme».

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Mt 1, 16.18-21.24: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa».

Vangelo Mt 1, 16.18-21.24
Dal Vangelo secondo Matteo

Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
“Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore”.


Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Paralleli Vetus e Novus Ordo

   Cap. XXV. Presentazione di Giovanni Battista al Tempio e partenza di Maria. La Passione di Giuseppe

   5-6 aprile 1944

   1Nella notte fra il mercoledì e il giovedì della settimana santa vedo così.
   Da un comodo carro, al quale è legato anche il somarello di Maria, vedo scendere Zaccaria, Elisabetta e Maria con in braccio il piccolo Giovanni, e Samuele con un agnello e una cesta col colombo. Scendono davanti al solito stallaggio, che deve esser la tappa di tutti i pellegrini al Tempio, per depositare le loro cavalcature.
   Maria chiama l’ometto che ne è padrone e chiede se nessun nazareno è giunto nella giornata di ieri o nelle prime ore del mattino. «Nessuno, donna», risponde il vecchietto. Maria resta stupita, ma non aggiunge altro.
   Fa sistemare da Samuele il ciuchino e poi raggiunge i due maturi genitori e spiega il ritardo di Giuseppe: «Sarà stato trattenuto da qualche cosa. Ma oggi verrà certo». Riprende il bambino, che aveva consegnato a Elisabetta, e si avviano al Tempio.

   2Zaccaria è ricevuto con onore dalle guardie e salutato e complimentato da altri sacerdoti. È tutto bello, oggi, Zaccaria nelle sue vesti sacerdotali e nella sua gioia di padre felice. Pare un patriarca. Penso che Abramo gli doveva somigliare quando gioiva di offrire Isacco al Signore.
   Vedo la cerimonia della presentazione del nuovo israelita e la purificazione della madre. Ed è ancor più pomposa di quella di Maria, perché per il figlio di un sacerdote i sacerdoti fanno gran festa. Accorrono in massa e si dànno un gran da fare intorno al gruppetto delle donne e del neonato.
   Anche della gente si è accostata curiosa e odo i commenti. Dato che Maria ha sulle braccia l’infante mentre si avviano al luogo stabilito, la gente la crede la madre.
   Ma una donna dice: «Non può essere. Non vedete che Ella è incinta? Il bambino non ha più di pochi giorni ed Ella è già grossa».
  «Eppure», dice un altro, «non può esser che Ella la madre. L’altra è vecchia. Sarà una parente. Ma madre a quell’età non può essere».
   «Andiamo loro dietro e vedremo chi ha ragione».
  E lo stupore diviene ben grande quando si vede che colei che compie il rito della purificazione è Elisabetta, la quale offre il suo agnellino belante per l’olocausto e il suo colombo per il peccato.
  «La madre è quella. Hai visto?».
  «No!».
  «Sì».
  La gente bisbiglia incredula ancora. Bisbiglia tanto che un «Ssst!» imperioso parte dal gruppo sacerdotale presente al rito. La gente tace un momento, ma bisbiglia più forte quando Elisabetta, raggiante di santo orgoglio, prende il bambino e si inoltra nel Tempio per farne la presentazione al Signore.
  «È proprio quella».
  «È sempre la madre che lo offre».
  «Che miracolo è mai questo?».
  «Che sarà quel bambino concesso in così tarda età a quella donna?».
  «Qual segno è mai questo?».
  «Non sapete?», dice uno che giunge trafelato. «È figlio del sacerdote Zaccaria della stirpe di Aronne, quello che divenne muto mentre offriva l’incenso nel Santuario».
  «Mistero! Mistero! E ora parla di nuovo! La nascita del figlio gli ha slegata la lingua».
  «Quale spirito gli avrà mai parlato e resa morta la sua lingua per abituarlo al silenzio sui segreti di Dio?».
  «Mistero! Quale verità conoscerà Zaccaria?».
  «Sia il figlio suo il Messia atteso da Israele?».
  «In Giudea è nato. Ma non a Betlem e non da una vergine. Messia esser non può».
  «Chi dunque mai?».
  Ma la risposta resta nei silenzi di Dio, e la gente rimane con la sua curiosità.
  Il cerimoniale è compiuto. I sacerdoti festeggiano, ora, anche la madre e il piccino. L’unica poco osservata, anzi schivata quasi con ribrezzo(Gn 17,9-14; Lv 12; Es 13,1-2.11-16; 34,19-20; Nm 3,13; 18,15-16) quando si accorgono del suo stato, è Maria.

  3Finite tutte le felicitazioni, i più tornano sulla via, e Maria vuole tornare allo stallaggio per vedere se è giunto Giuseppe. Non è giunto. Maria resta delusa e pensierosa.
  Elisabetta si preoccupa per Lei. «Fino all’ora sesta possiamo restare, ma poi dobbiamo partire per essere a casa avanti la prima vigilia. È ancor troppo piccino per stare oltre nella notte».
  E Maria, calma e mesta: «Resterò in un cortile del Tempio. Andrò dalle mie maestre… Non so. Qualcosa farò».
  Zaccaria interviene con un progetto subito accettato come buona risoluzione. «Andiamo dai parenti di Zebedeo. Giuseppe certo là ti cerca e, se non avesse a venire là, ti sarà facile trovare chi ti accompagna verso la Galilea, ché in quella casa è un continuo andare e venire di pescatori di Genezareth».
  Prendono il ciuchino e vanno da questi parenti di Zebedeo, i quali altro non sono che quelli dai quali hanno sostato Giuseppe e Maria or sono quattro mesi.
  Le ore passano veloci e Giuseppe non compare. Maria domina il suo cruccio ninnando il piccolo, ma si vede che è pensierosa. Come per nascondere il suo stato, non si è mai levato il manto, nonostante il caldo intenso che fa sudare tutti.

  4Finalmente un gran picchio alla porta annuncia Giuseppe. Il volto di Maria splende rasserenato.
  Giuseppe la saluta, poiché Ella si presenta per prima e lo saluta con riverenza. «La benedizione di Dio su te, Maria!».
  «E su di te, Giuseppe. E lode al Signore che sei venuto! Ecco, Zaccaria ed Elisabetta stavano per partire, per esser a casa avanti notte».
  «Il tuo messo giunse a Nazareth mentre io ero a Cana per dei lavori. Ieri l’altro a sera lo seppi. E subito partii. Ma, per quanto abbia camminato senza sostare, ho fatto tardi, perché s’era perso un ferro all’asinello. Perdona!».
  «Tu perdona per esser stata tanto tempo lontana da Nazareth! Ma, vedi, tanto felici erano d’avermi seco, che ho voluto accontentarli sino ad ora».
  «Bene hai fatto, Donna. Il bambino dove è?».
 Entrano nella stanza dove è Elisabetta che dà il latte a Giovanni avanti di partire. Giuseppe complimenta i genitori per la robustezza del bambino che, staccato dalla mammella per mostrarlo a Giuseppe, strilla e scalcia come lo scorticassero. Ridono tutti davanti alle sue proteste. Anche i parenti di Zebedeo, che sono accorsi portando frutta fresca e latte e pane per tutti e un gran vassoio di pesce, ridono e si uniscono alla conversazione degli altri.

  5Maria parla molto poco. Sta quieta e silenziosa, seduta nel suo angolino con le mani in grembo sotto il suo manto. E, anche quando beve una tazza di latte e mangia un grappolo d’uva dorata con un poco di pane, poco parla e poco si muove. Guarda Giuseppe con un misto di pena e di indagine.
  Anche egli la guarda. E dopo qualche tempo, curvandosi sulla sua spalla, le chiede: «Sei stanca o soffri? Sei pallida e triste».
  «Ho dolore a separarmi da Giovannino. Gli voglio bene. L’ho avuto sul cuore da pochi momenti nato…».
  Giuseppe non chiede altro.
  L’ora della partenza di Zaccaria è venuta. Il carro si ferma alla porta e tutti si avviano ad esso. Le due cugine si abbracciano con amore. Maria bacia e ribacia il piccino prima di deporlo sul grembo della madre, già seduta nel suo carro. Poi saluta Zaccaria e gli chiede la benedizione. Nell’inginocchiarsi davanti al sacerdote, il manto le scivola dalle spalle e le forme le appaiono nella luce intensa del pomeriggio estivo. Non so se Giuseppe le noti in questo momento, intento come è a salutare Elisabetta. Il carro parte.

  6Giuseppe rientra in casa con Maria, che riprende il suo posto nell’angolo semioscuro. «Se non ti spiace viaggiare di notte, io proporrei di partire al tramonto. Il caldo è forte nel giorno. La notte invece è fresca e quieta. Dico per te, per non farti prendere troppo sole. Per me è cosa da nulla stare sotto al solleone. Ma tu…».
  «Come vuoi, Giuseppe. Credo io pure che sia bene andare di notte».
  «La casa è tutta in ordine. E l’orticello. Vedrai che bei fiori! Giungi in tempo per vederli tutti fiorire. Il melo, il fico e la vite sono carichi di frutti come non mai, e il melograno ho dovuto sorreggerlo, tanto ha i rami carichi di frutti così già formati che mai si vide esser tali di questo tempo. L’ulivo, poi… Avrai olio in abbondanza. Ha fatto una fiorita miracolosa e non si è perso un fiore. Tutti sono già piccole ulive. Quando saranno mature, la pianta sembrerà piena di scure perle. Non c’è che il tuo orto così bello in tutta Nazareth. Anche i parenti ne sono stupiti. E Alfeo dice che questo è un prodigio».
  «Le tue cure lo hanno creato».
  «Oh! no! Povero uomo! Che devo aver fatto io? Un poco di cura alle piante ed un poco d’acqua ai fiori… Sai? Ti ho fatto una fonte in fondo, presso la grotta, e vi ho messo una vasca. Così non avrai ad uscire per aver l’acqua. L’ho condotta da quella sorgente che sta sopra all’uliveto di Mattia. È pura e abbondante. Un piccolo rivolo l’ho condotto a te. Ho fatto un piccolo canale ben coperto, e ora viene e canta come un’arpa. Mi doleva che tu andassi alla fonte del paese e ne tornassi carica delle anfore piene d’acqua».
  «Grazie, Giuseppe. Tu sei buono!».
  I due sposi tacciono, ora, come stanchi. E Giuseppe sonnecchia anche. Maria prega.

  7Viene la sera. Gli ospiti insistono perché prima di mettersi in viaggio i due mangino ancora. Giuseppe mangia infatti pane e pesce. Maria solo frutta e latte.
  Poi partono. Montano sui loro ciuchini. Giuseppe ha legato sul suo, come nel venire, il cofano di Maria, e prima che Ella monti sul somarello osserva che la sella sia ben sicura. Vedo che Giuseppe osserva Maria quando monta in sella. Ma non dice nulla.
  Il viaggio ha inizio sotto le prime stelle che cominciano a palpitare in cielo. Si affrettano alle porte per giungervi avanti che siano chiuse, forse. Quando escono da Gerusalemme e prendono la via maestra che va verso la Galilea, le stelle gremiscono ormai tutto il cielo sereno. E un grande silenzio è per la campagna. Solo si sente cantare qualche usignolo e il battere degli zoccoli dei due asinelli sul terreno duro della via arsa dall’estate.

  8Dice Maria:
   «È la vigilia del Giovedì santo. A taluni parrà fuori posto questa visione. Ma il tuo dolore di amante del mio Gesù Crocifisso è nel tuo cuore e vi resta anche se una dolce visione si presenta. Essa è come il tepore che si sviluppa da una fiamma, che è ancora fuoco ma non è già più fuoco. Il fuoco è la fiamma, non il tepore di essa, che ne è unicamente una derivazione. Nessuna visione beatifica o pacifica varrà a toglierti quel dolore dal cuore. E tienilo caro più della tua stessa vita. Perché è il dono più grande che Dio possa concedere ad un credente nel suo Figlio. Inoltre non è la mia, nella sua pace, visione disforme alle ricorrenze di questa settimana.

  9Anche il mio Giuseppe ha avuto la sua Passione. Ed essa è nata in Gerusalemme quando gli apparve il mio stato. Ed essa è durata dei giorni come per Gesù e per me. Né essa fu spiritualmente poco dolorosa. E unicamente per la santità del Giusto che m’era sposo fu contenuta in una forma, che fu talmente dignitosa e segreta che è passata nei secoli poco notata.
  Oh! la nostra prima Passione! Chi può dirne la intima e silenziosa intensità? Chi il mio dolore nel constatare che il Cielo non mi aveva ancora esaudita rivelando a Giuseppe il mistero?
  Che egli lo ignorasse l’avevo compreso vedendolo meco rispettoso come di solito. Se egli avesse saputo che portavo in me il Verbo di Dio, egli avrebbe adorato quel Verbo, chiuso nel mio seno, con atti di venerazione che sono dovuti a Dio e che egli non avrebbe mancato di fare, come io non avrei ricusato di ricevere, non per me, ma per Colui che era in me e che io portavo così come l’Arca dell’alleanza portava il codice di pietra e i vasi della manna.
  Chi può dire la mia battaglia contro lo scoramento, che voleva soverchiarmi per persuadermi che avevo sperato invano nel Signore? Oh! io credo che fu rabbia di Satana! Sentii il dubbio sorgermi alle spalle e allungare le sue branche gelide per imprigionarmi l’anima e fermarla nel suo orare. Il dubbio che è così pericoloso, letale allo spirito. Letale, perché è il primo agente della malattia mortale che ha nome “disperazione” e al quale si deve reagire con ogni forza, per non perire nell’anima e perdere Dio.
  Chi può dire con esatta verità il dolore di Giuseppe, i suoi pensieri, il turbamento dei suoi affetti? Come piccola barca presa in gran bufera, egli era in un vortice di opposte idee, in una ridda di riflessioni l’una più mordente e più penosa dell’altra. Era un uomo, in apparenza, tradito dalla sua donna. Vedeva crollare insieme il suo buon nome e la stima del mondo, per lei si sentiva già segnato a dito e compassionato dal paese, vedeva il suo affetto e la sua stima in me cadere morti davanti all’evidenza di un fatto.

 10 La sua santità qui splende ancor più alta della mia. Ed io ne rendo questa testimonianza con affetto di sposa, perché voglio lo amiate il mio Giuseppe, questo saggio e prudente, questo paziente e buono, che non è separato dal mistero della Redenzione, ma sibbene è ad esso intimamente connesso, perché consumò il dolore per esso e se stesso per esso, salvandovi il Salvatore a costo del suo sacrificio e della sua santità. Fosse stato men santo, avrebbe agito umanamente, denunciandomi come adultera perché fossi lapidata e il figlio del mio peccato perisse con me.
   Fosse stato men santo, Dio non gli avrebbe concesso la sua luce per guida in tal cimento. Ma Giuseppe era santo. Il suo spirito puro viveva in Dio. La carità era in lui accesa e forte. E per la carità vi salvò il Salvatore, tanto quando non mi accusò agli anziani, quanto quando, lasciando tutto con pronta ubbidienza, salvò Gesù in Egitto. 

11Brevi come numero, ma tremendi di intensità i tre giorni della Passione di Giuseppe. E della mia, di questa mia prima passione. Perché io comprendevo il suo soffrire, né potevo sollevarlo in alcun modo per l’ubbidienza al decreto di Dio, che mi aveva detto: “Taci!”.  E quando, giunti a Nazareth, lo vidi andarsene dopo un laconico saluto, curvo e come invecchiato in poco tempo, né venire a me alla sera come sempre usava, vi dico, figli, che il mio cuore pianse con ben acuto duolo. 
   Chiusa nella mia casa, sola, nella casa dove tutto mi ricordava l’Annuncio e l’Incarnazione, e dove tutto mi ricordava Giuseppe a me sposato in una illibata verginità, io ho dovuto resistere allo sconforto, alle insinuazioni di Satana e sperare, sperare, sperare. E pregare, pregare, pregare. E perdonare, perdonare, perdonare al sospetto di Giuseppe, al suo sommovimento di giusto sdegno.  
   Figli, occorre sperare, pregare, perdonare per ottenere che Dio intervenga in nostro favore. Vivete anche voi la vostra passione. Meritata per le vostre colpe. Io vi insegno come superarla e mutarla in gioia. Sperate oltre misura. Pregate senza sfiducia. Perdonate per esser perdonati. Il perdono di Dio sarà la pace che desiderate, o figli.

 12Null’altro per ora vi dirò. Sin dopo il trionfo pasquale sarà silenzio. È la Passione. Compassionate il Redentore vostro. Uditene i lamenti e numeratene ferite e lacrime. Ognuna di esse è scesa per voi e per voi fu patita. Ogni altra visione scompaia davanti a questa che vi ricorda la Redenzione compiuta per voi».

   Cap. XXXIX. Preparativi per la maggiore età di Gesù e partenza da Nazareth

   25 novembre 1944

  1[…]. Ho avuto da Lui una promessa. Gli dicevo: «Gesù, come mi piacerebbe vedere la cerimonia della tua maggiore età!». E Lui: «Te la darò per prima cosa appena potremo esser “noi” senza che si turbi il mistero. E la metterai dopo la scena della Madre mia, mia maestra e maestra di Giuda e Giacomo, che ti ho data recentemente (29-10). La metterai fra questa e la Disputa al Tempio». […].

   19 dicembre 1944

  2Vedo Maria curva su un mastello, meglio, su una conca di terra cotta, che mescola qualcosa che fuma nell’aria fredda e serena che empie l’orto di Nazaret.
   Deve essere pieno inverno, perché, meno gli ulivi, tutte le piante sono brulle e scheletrite. In alto, un cielo tersissimo e anche un bel sole. Ma non tempera la sizza che tira e che fa sbattere fra loro i rami spogli e ondulare le ramette grigie verdi degli ulivi.
  La Madonna è tutta vestita di una pesante veste di un marrone quasi nero e si è legata davanti una rustica tela, come un grembiale, per proteggere la veste. Estrae dalla tinozza il bastone con cui dimenava il contenuto e ne vedo cadere gocce di un bel color arrubinato. Maria osserva, si bagna un dito con le gocce che cadono, prova il colore sul grembiale. Pare soddisfatta.
  Entra in casa ed esce con molte matasse di lana candidissima. Le tuffa una per una nella tinozza, con pazienza e accortezza.

  3Mentre fa questo, entra, venendo dal laboratorio di Giuseppe, sua cognata Maria di Alfeo. Si salutano. Si parlano.
  «Viene bene?», chiede Maria d’Alfeo.
  «Ne ho speranza».
  «Mi ha assicurato quella gentile(Gv 18,28; At 10,28; 11,1-3; 21,27-28)che è proprio la tinta e il modo che usano a Roma. Me lo ha dato proprio perché sei tu e hai fatto quei lavori. Dice che neppure a Roma vi è chi ricama come te. Ti devi essere accecata a farli…».
  Maria sorride e fa un movimento col capo come per dire: «Cose da nulla!».
  La cognata guarda, prima di porgerle a Maria, le ultime matasse di lana.  «Come le hai filate! Paiono capelli tanto sono fini e regolari. Fai tutto bene tu… e come svelta! Queste ultime verranno più chiare?».
  «Sì, per la veste. Il mantello è più scuro».
  Le due donne lavorano insieme alla tinozza. Poi estraggono le matasse di un bel colore porporino e corrono svelte a tuffarle nell’acqua ghiaccia che empie la vaschetta, sotto alla sottile polla che cade con noterelle di risatine sommesse. Sciacquano e sciacquano, poi stendono su delle canne le matasse e le assicurano da ramo a ramo degli alberi.
  «Asciugheranno bene e presto con questo vento», dice la cognata.
  «Andiamo da Giuseppe. C’è fuoco. Devi essere gelata», dice Maria Ss. «Sei stata buona ad aiutarmi. Ho fatto presto e con meno fatica. Te ne sono grata».
  «Oh! Maria! Che non farei per te! Starti vicino è una festa. E poi… è per Gesù tutto questo lavoro. Ed è così caro, tuo Figlio!… Mi sembrerà di essergli anche io mamma se ti aiuterò per la sua festa di maggiorenne».
  Le due donne entrano nel laboratorio, pieno di quell’odore di legni piallati proprio delle officine di falegname.

  4E la visione ha un arresto… per riprendersi all’atto della partenza per Gerusalemme di Gesù dodicenne.
  Egli appare, bellissimo e tanto ben sviluppato da parere un fratello minore della sua giovane Madre. Già le giunge alle spalle con la sua testa bionda e inanellata, le cui chiome, non più corte come nei primi anni di vita, ma lunghe fino a sotto le orecchie, paiono un caschetto d’oro lavorato tutto a lucenti boccoli.
  È vestito di rosso. Un bel rosso di rubino chiaro. Una lunga veste che scende sino ai malleoli scoprendo solo i piedi calzati di sandali. La veste è sciolta, con maniche lunghe e ampie. Al collo, alla base delle maniche, alla balza, una greca tessuta colore su colore, molto bella…
  (nel copiare la visione attendere il resto che sarà sul nuovo quaderno).
 
  20 dicembre 1944.
  Vedo entrare Gesù insieme a sua Mamma nella stanza, dirò così, da pranzo di Nazaret.
  Gesù è un bel fanciullo dodicenne, alto, ben formato, robusto senza esser grasso. Sembra più adulto di quanto non sia, per la sua complessione. È già alto, tanto che raggiunge la spalla della Madre. Ha ancora il viso rotondo e roseo del Gesù fanciullo, viso che poi, con l’età giovanile e virile, si assottiglierà e si farà di un color senza colore, un colore di certi delicati alabastri, appena tendenti al giallo-rosa.
  Gli occhi, anche gli occhi, sono ancora occhi di bambino. Grandi, bene aperti a guardare, e con una scintilla di letizia persa nel serio dello sguardo.Dopo non saranno più così aperti… Le palpebre si caleranno a mezz’occhio per velare il troppo male, che è nel mondo, al Puro e Santo. Solo nei momenti di miracolo saranno aperti e sfavillanti, più ancora di ora… per cacciare i demoni e la morte, per guarire le malattie ed i peccati. E non saranno neppur più con quella scintilla di letizia mescolata alla serietà… La morte e il peccato saranno sempre più presenti e vicini, e con essi la conoscenza, anche umana, della inutilità del sacrificio, per la volontà contraria dell’uomo. Solo in rarissimi momenti di gioia, per essere con dei redenti e specie con dei puri, bambini per lo più, lo faranno brillare di letizia, questo occhio santo e buono.
  Ma ora è con la sua Mamma, in casa sua, e di fronte a Lui è S. Giuseppe che gli sorride con amore, e sono i cuginetti che lo ammirano e la zia Maria d’Alfeo che lo carezza… È felice. Ha bisogno di amore, il mio Gesù, per esser felice. E in questo momento lo ha.
  È vestito di una sciolta veste di lana rosso rubino chiaro. Morbida, di tessitura perfetta nella sua compatta sottigliezza. Al collo, sul davanti, in basso delle maniche lunghe e ampie, e della veste che scende sino a terra, scoprendo appena i piedi calzati di sandali nuovi e molto ben fatti — non le solite suole fissate con striscerelle di cuoio al piede — è una greca, non ricamata, ma tessuta in colore più scuro sul rubino della veste. Deve essere opera della Mamma, perché la cognata l’ammira e la loda.
  I bei capelli biondi sono già più carichi, nella loro tinta, di quando era fanciullino, con scintille di rame nelle volute dei boccoli che terminano sotto le orecchie. Non sono più i ricciolini corti e vaporosi dell’infanzia. Non sono ancora le chiome ondulate e lunghe sino agli omeri, dove terminano in morbido cannolo, dell’età adulta. Ma già tendono più a queste ultime nel colore e nella foggia.

  5«Ecco il Figlio nostro», dice Maria alzando la sua mano destra, nella quale è la mano sinistra di Gesù. Pare lo presenti a tutti e riconfermi la paternità del Giusto, che sorride. E aggiunge: «Benedicilo, Giuseppe, prima di partire per Gerusalemme. Non fu necessaria la rituale benedizione per la sua andata a scuola, primo passo nella vita. Ma, ora che Egli va al Tempio per esser dichiarato maggiorenne, fàllo. E benedici me con Lui. La tua benedizione… (Maria ha un sommesso singhiozzo) fortificherà Lui e darà forza a me di staccarmelo un poco di più…».
  «Maria, Gesù sarà sempre tuo. La formola non inciderà i nostri mutui rapporti. Né io te lo contenderò, questo Figlio a noi caro. Nessuno come te merita di guidarlo nella vita, o mia Santa».
  Maria si curva e prende la mano di Giuseppe e la bacia. È la sposa, oh! quanto rispettosa e amorosa del consorte!
  Giuseppe accoglie quel segno di rispetto e d’amore con dignità, ma poi alza quella baciata mano e la posa sul capo della Sposa e le dice: «Sì. Ti benedico, Benedetta, e Gesù con te. Venite, mie sole gioie, mio onore e scopo». Giuseppe è solenne. A braccia tese e palme volte a terra sopra le due teste chine, ugualmente bionde e sante, pronuncia la benedizione: «Il Signore vi guardi e vi benedica. Abbia di voi misericordia e vi dia pace. Il Signore vi dia la sua benedizione». E poi dice: «E ora andiamo. L’ora è propizia per il viaggio».

  6Maria prende un ampio drappo di un color granata scuro e lo drappeggia sul corpo del Figlio. Come se lo carezza nel farlo!
  Escono, chiudono. Si incamminano. Altri pellegrini vanno per la stessa direzione. Fuori del paese le donne si separano dagli uomini. I bimbi vanno con chi pare loro. Gesù resta con la Mamma.
  I pellegrini vanno, salmodiando per lo più, per le campagne tutte belle nel più lieto tempo di primavera. Freschi prati e fresche biade, e fresche fronde sugli alberi che hanno da poco fiorito. Canti di uomini per i campi e per le vie e canti d’uccelli in amore fra le fronde. Ruscelli limpidi che fan da specchio ai fiori delle rive, agnellini saltellanti presso le madri… Pace e letizia sotto il più bel cielo d’aprile.
  La visione cessa così.

   Cap. XLI. La disputa di Gesù nel Tempio coi dottori. L’angoscia della Madre e la risposta del Figlio.

  1Vedo Gesù. È adolescente. Vestito di una tunica che mi sembra di lino candido, lunga sino ai piedi. Su questa si posa e si drappeggia un drappo rettangolare d’un rosso pallido. È a testa nuda, coi capelli lunghi sino a metà orecchie, più carichi di tinta di quando lo vidi bambino. È un fanciullo robusto e molto alto per la sua età che, come dimostra il viso, è molto fanciulla.
   Mi guarda e sorride tendendomi le mani. Un sorriso però che somiglia già a quello che gli vedo da uomo: dolce e piuttosto serio. È solo. Non vedo altro per ora. Sta appoggiato ad un muretto su una stradellina tutta a sali e scendi, sassosa e con una fossa verso il centro che certo in tempo di pioggia si muta in rigagnolo. Ma ora è asciutta perché è giornata serena.
   Mi pare di accostarmi io pure al muretto e di guardare intorno e in basso come fa Gesù. Vedo un agglomerato di case. Un agglomerato disordinato. Le case sono quali alte, quali basse, e vanno in tutti i sensi. Sembra, con un paragone molto povero ma molto somigliante, una manciata di ciottoli bianchi gettata su un terreno scuro. Le vie e viette sono come vene in quel biancore. Qua e là delle piante sporgono dai muri. Molte sono in fiore e molte sono già coperte di foglie novelle. Deve essere primavera.
   A sinistra, rispetto a me che guardo, vi è un grande agglomerato, fatto a tre ordini di terrazze coperte di fabbricati, e torri e cortili e porticati, al centro del quale si alza un più alto, maestoso, ricchissimo fabbricato a cupole tonde, splendenti al sole come fossero coperte di metallo: rame od oro. Il tutto è recinto da una muraglia merlata: come fosse una fortezza. Una torre più alta delle altre, posta a cavalcioni di una via piuttosto stretta e che è in salita, domina nettamente quel vasto agglomerato. Sembra una sentinella severa.
  Gesù guarda fissamente quel luogo. Poi torna a voltarsi, riappoggiando la schiena al muretto, come era prima, e guarda un monticiattolo che sta di fronte all’agglomerato. Un monticiattolo assalito dalle case sino alla base, poi lasciato nudo. Vedo che una via termina là con un arco, oltre il quale non c’è che una via lastricata a pietre quadrangolari, irregolari e sconnesse. Non sono troppo grandi, non come le pietre delle strade consolari romane; sembrano piuttosto le classiche pietre dei vecchi marciapiedi viareggini (non so se ne esistano ancora) ma messe senza connessione. Una stradaccia. Il volto di Gesù si fa tanto serio che io mi fisso a cercare su quel monticiattolo la causa di questa malinconia. Ma non trovo nulla di speciale. È un’altitudine nuda. E basta. In cambio perdo Gesù, perché quando mi volgo non è più lì. E mi assopisco con questa visione.

 Mi guarda e sorride tendendomi le mani. Un sorriso però che somiglia già a quello che gli vedo da uomo: dolce e piuttosto serio. È solo. Non vedo altro per ora. Sta appoggiato ad un muretto su una stradellina tutta a sali e scendi, sassosa e con una fossa verso il centro che certo in tempo di pioggia si muta in rigagnolo. Ma ora è asciutta perché è giornata serena.
 Mi pare di accostarmi io pure al muretto e di guardare intorno e in basso come fa Gesù. Vedo un agglomerato di case. Un agglomerato disordinato. Le case sono quali alte, quali basse, e vanno in tutti i sensi. Sembra, con un paragone molto povero ma molto somigliante, una manciata di ciottoli bianchi gettata su un terreno scuro. Le vie e viette sono come vene in quel biancore. Qua e là delle piante sporgono dai muri. Molte sono in fiore e molte sono già coperte di foglie novelle. Deve essere primavera.
 A sinistra, rispetto a me che guardo, vi è un grande agglomerato, fatto a tre ordini di terrazze coperte di fabbricati, e torri e cortili e porticati, al centro del quale si alza un più alto, maestoso, ricchissimo fabbricato a cupole tonde, splendenti al sole come fossero coperte di metallo: rame od oro. Il tutto è recinto da una muraglia merlata: come fosse una fortezza. Una torre più alta delle altre, posta a cavalcioni di una via piuttosto stretta e che è in salita, domina nettamente quel vasto agglomerato. Sembra una sentinella severa.
 Gesù guarda fissamente quel luogo. Poi torna a voltarsi, riappoggiando la schiena al muretto, come era prima, e guarda un monticiattolo che sta di fronte all’agglomerato. Un monticiattolo assalito dalle case sino alla base, poi lasciato nudo. Vedo che una via termina là con un arco, oltre il quale non c’è che una via lastricata a pietre quadrangolari, irregolari e sconnesse. Non sono troppo grandi, non come le pietre delle strade consolari romane; sembrano piuttosto le classiche pietre dei vecchi marciapiedi viareggini (non so se ne esistano ancora) ma messe senza connessione. Una stradaccia. Il volto di Gesù si fa tanto serio che io mi fisso a cercare su quel monticiattolo la causa di questa malinconia. Ma non trovo nulla di speciale. È un’altitudine nuda. E basta. In cambio perdo Gesù, perché quando mi volgo non è più lì. E mi assopisco con questa visione.

  2…Mi guarda e sorride tendendomi le mani. Un sorriso però che somiglia già a quello che gli vedo da uomo: dolce e piuttosto serio. È solo. Non vedo altro per ora. Sta appoggiato ad un muretto su una stradellina tutta a sali e scendi, sassosa e con una fossa verso il centro che certo in tempo di pioggia si muta in rigagnolo. Ma ora è asciutta perché è giornata serena.
 Mi pare di accostarmi io pure al muretto e di guardare intorno e in basso come fa Gesù. Vedo un agglomerato di case. Un agglomerato disordinato. Le case sono quali alte, quali basse, e vanno in tutti i sensi. Sembra, con un paragone molto povero ma molto somigliante, una manciata di ciottoli bianchi gettata su un terreno scuro. Le vie e viette sono come vene in quel biancore. Qua e là delle piante sporgono dai muri. Molte sono in fiore e molte sono già coperte di foglie novelle. Deve essere primavera.
 A sinistra, rispetto a me che guardo, vi è un grande agglomerato, fatto a tre ordini di terrazze coperte di fabbricati, e torri e cortili e porticati, al centro del quale si alza un più alto, maestoso, ricchissimo fabbricato a cupole tonde, splendenti al sole come fossero coperte di metallo: rame od oro. Il tutto è recinto da una muraglia merlata: come fosse una fortezza. Una torre più alta delle altre, posta a cavalcioni di una via piuttosto stretta e che è in salita, domina nettamente quel vasto agglomerato. Sembra una sentinella severa.
 Gesù guarda fissamente quel luogo. Poi torna a voltarsi, riappoggiando la schiena al muretto, come era prima, e guarda un monticiattolo che sta di fronte all’agglomerato. Un monticiattolo assalito dalle case sino alla base, poi lasciato nudo. Vedo che una via termina là con un arco, oltre il quale non c’è che una via lastricata a pietre quadrangolari, irregolari e sconnesse. Non sono troppo grandi, non come le pietre delle strade consolari romane; sembrano piuttosto le classiche pietre dei vecchi marciapiedi viareggini (non so se ne esistano ancora) ma messe senza connessione. Una stradaccia. Il volto di Gesù si fa tanto serio che io mi fisso a cercare su quel monticiattolo la causa di questa malinconia. Ma non trovo nulla di speciale. È un’altitudine nuda. E basta. In cambio perdo Gesù, perché quando mi volgo non è più lì. E mi assopisco con questa visione.

  3Mi accosto al gruppo dei dottori, dove si è iniziata una disputa[87] teologica. Molta folla fa la stessa cosa.
  Fra i “dottori” vi è un gruppo capitanato da uno chiamato Gamaliele e da un altro, vecchio e quasi cieco, che sostiene Gamaliele nella disputa. Costui, che sento chiamare Hillel (metto l’h perché sento una aspirazione in principio al nome) mi pare maestro o parente di Gamaliele, perché questo lo tratta con confidenza e rispetto insieme. Il gruppo di Gamaliele ha vedute più larghe, mentre un altro gruppo, ed è il più numeroso, è diretto da uno che chiamano Sciammai, ed è dotato di quell’intransigenza astiosa e retriva che il Vangelo tanto bene ci illustra.
  Gamaliele, circondato da un folto gruppo di discepoli, parla della venuta del Messia e, appoggiandosi alla profezia di Daniele, sostiene che il Messia deve ormai essere nato, perché da una decina d’anni circa le settanta settimane profetate sono compiute da quando era uscito il decreto di ricostruzione del Tempio. Sciammai lo combatte asserendo che, se è vero che il Tempio è stato riedificato, è anche vero che la schiavitù di Israele è aumentata, e la pace, che avrebbe dovuto portare seco Colui che i Profeti chiamavano «Principe della Pace», è ben lontana d’essere nel mondo e specie a Gerusalemme, oppressa da un nemico che osa spingere la sua dominazione fin entro il recinto del Tempio, dominato dalla torre Antonia piena di legionari romani, pronti a sedare con la spada ogni tumulto di indipendenza patria.
  La disputa, piena di cavilli, va per le lunghe. Ogni maestro fa sfoggio di erudizione, non tanto per vincere il rivale, quanto per imporsi all’ammirazione degli ascoltatori. È palese questo intento.

  4Dal folto del gruppo dei fedeli esce una fresca voce di fanciullo: «Gamaliele ha ragione».
  Movimento della folla e del gruppo dottorale. Si cerca l’interruttore. Ma non occorre cercarlo. Non si nasconde. Si fa largo da sé e si accosta al gruppo dei “rabbi”. Riconosco il mio Gesù adolescente. È sicuro e franco, con due sfavillanti occhi pieni di intelligenza.
  «Chi sei?», gli chiedono.
  «Un figlio di Israele venuto a compiere ciò che la Legge ordina».
  La risposta ardita e sicura piace e ottiene sorrisi di approvazione e benevolenza. Ci si interessa del piccolo israelita.
  «Come ti chiami?».
  «Gesù di Nazareth».
  La benevolenza si smorza nel gruppo di Sciammai. Ma Gamaliele, più benigno, prosegue il dialogo insieme ad Hillel. Anzi è proprio Gamaliele che con deferenza dice al vecchio: «Chiedi al fanciullo qualcosa».
  «Su cosa fondi la tua sicurezza?», chiede Hillel.
  (Metto i nomi in testa alle risposte per abbreviare e rendere chiaro).
  Gesù: «Sulla profezia che non può errare nell’epoca e sui segni che l’hanno accompagnata quando fu il tempo del suo avverarsi. È vero che Cesare ci domina. Ma il mondo era tanto in pace e la Palestina tanto in calma quando si compirono le settanta settimane, che fu possibile a Cesare ordinare il censimento nei suoi domini. Non lo avrebbe potuto se la guerra fosse stata nell’Impero e le sommosse in Palestina. Come era compìto quel tempo, così si sta compiendo l’altro delle sessantadue più una dal compimento del Tempio, perché il Messia sia unto e si avveri il seguito della profezia per il popolo che non lo volle. Potete avere dubbi? Non ricordate che la stella fu vista dai Savi d’Oriente e che andò a posarsi proprio sul cielo di Betlemme di Giuda e che le profezie e le visioni, da Giacobbe in poi, indicano quel luogo come il destinato ad accogliere la nascita del Messia, figlio del figlio del figlio di Giacobbe, attraverso Davide che era di Betlemme? Non ricordate Balaam? “Una stella nascerà da Giacobbe”. I Savi d’Oriente, che la purezza e la fede rendevano occhi e orecchi aperti, hanno visto la stella e compreso il suo nome: “Messia”, e sono venuti ad adorare la Luce scesa nel mondo».

  5Sciammai, con sguardo livido: «Tu dici che il Messia nacque nel tempo della stella a Betlemme-Efrata?».
  Gesù: «Io lo dico».
  Sciammai: «Allora non vi è più. Non sai, fanciullo, che Erode fece uccidere tutti i nati di donna, da un giorno a due anni d’età, di Betlemme e dintorni? Tu, tanto sapiente nella Scrittura, devi sapere anche questo: “Un grido s’è sentito nell’alto… È Rachele che piange i suoi figli”. Le valli e le cime di Betlemme, che hanno raccolto il pianto di Rachele morente, sono rimaste piene di pianto, e le madri l’hanno ripetuto sui figli uccisi. Fra esse era certo anche la Madre del Messia».
  Gesù: «Ti sbagli, o vecchio. Il pianto di Rachele s’è volto in osanna, perché là dove essa ha dato alla luce il “figlio del suo dolore”, la nuova Rachele ha dato al mondo il Beniamino del Padre celeste, il Figlio della sua destra, Colui che è destinato a riunire il popolo di Dio sotto il suo scettro e a liberarlo dalla più tremenda schiavitù».
  Sciammai: «E come, se Egli fu ucciso?».
  Gesù: «Non hai letto di Elia? Egli fu rapito dal cocchio di fuoco. E non potrà il Signore Iddio aver salvato il suo Emmanuele perché fosse Messia del suo popolo? Egli, che ha aperto il mare davanti a Mosè perché Israele passasse a piede asciutto verso la sua terra, non avrà potuto mandare i suoi angeli a salvare il Figlio suo, il suo Cristo, dalla ferocia dell’uomo? In verità vi dico: il Cristo vive ed è fra voi, e quando sarà la sua ora si manifesterà nella sua potenza». Gesù, nel dire queste parole, che sottolineo, ha nella voce uno squillo che empie lo spazio. I suoi occhi sfavillano più ancora e, con mossa d’imperio e promessa, Egli tende il braccio e la mano destra e li abbassa come per giurare. È un fanciullo, ma è solenne come un uomo.

  6Hillel: «Fanciullo, chi ti ha insegnato queste parole?».
  Gesù: «Lo Spirito di Dio. Non ho maestro umano. Questa è la Parola del Signore che vi parla attraverso le mie labbra».
  Hillel: «Vieni fra noi, che io ti veda da presso, o fanciullo, e la mia speranza si ravvivi a contatto della tua fede e la mia anima si illumini al sole della tua».
  E Gesù viene fatto sedere su un alto sgabello fra Gamaliele e Hillel, e gli vengono porti dei rotoli perché li legga e spieghi. È un esame in piena regola. La folla si accalca e ascolta.
  La voce fanciulla di Gesù legge: «“Consolati, o mio popolo. Parlate al cuore di Gerusalemme, consolatela perché la sua schiavitù è finita… Voce di uno che grida nel deserto: preparate le vie del Signore… Allora apparirà la gloria del Signore…”».
  Sciammai: «Lo vedi, o nazareno! Qui si parla di schiavitù finita. Mai come ora siamo schiavi. Qui si parla di un precursore. Dove è egli? Tu farnetichi».
  Gesù: «Io ti dico che a te più che agli altri va fatto l’invito del Precursore. A te e ai tuoi simili. Altrimenti non vedrai la gloria del Signore né comprenderai la parola di Dio, perché le bassezze, le superbie, le doppiezze ti faranno ostacolo a vedere ed udire».
  Sciammai: «Così parli ad un maestro?».
  Gesù: «Così parlo. E così parlerò sino alla morte. Poiché sopra il mio utile sta l’interesse del Signore e l’amore alla Verità di cui sono Figlio. E ti aggiungo, o rabbi, che la schiavitù di cui parla il Profeta, e di cui Io parlo, non è quella che credi, come la regalità non sarà quella che pensi. Ma sibbene per merito del Messia verrà reso libero l’uomo dalla schiavitù del Male che lo separa da Dio, e il segno del Cristo sarà sugli spiriti, liberati da ogni giogo e fatti sudditi dell’eterno Regno. Tutte le nazioni curveranno il capo, o stirpe di Davide, davanti al Germoglio nato da te e divenuto albero che copre tutta la Terra e si alza al Cielo. E in Cielo e in Terra ogni bocca loderà il suo Nome e piegherà il ginocchio davanti all’Unto di Dio, al Principe della Pace, al Condottiero, a Colui che con Se stesso avrà inebriato ogni anima stanca e saziato ogni anima affamata, al Santo che stipulerà una alleanza fra Terra e Cielo. Non come quella stipulata coi Padri d’Israele quando Dio li trasse d’Egitto trattandoli ancora da servi, ma imprimendo la paternità celeste nello spirito degli uomini con la Grazia nuovamente infusa per i meriti del Redentore, per il quale tutti i buoni conosceranno il Signore e il Santuario di Dio non sarà più abbattuto e distrutto».
  Sciammai: «Ma non bestemmiare, fanciullo! Ricorda Daniele. Egli dice che, dopo l’uccisione del Cristo, il Tempio e la Città saranno distrutti da un popolo e da un condottiero che verrà. E Tu sostieni che il Santuario di Dio non sarà più abbattuto! Rispetta i Profeti!».
  Gesù: «In verità ti dico che vi è Qualcuno che è da più dei Profeti, e tu non lo conosci e non lo conoscerai, perché te ne manca la voglia. E ti dico che quanto ho detto è vero. Non conoscerà più morte il Santuario vero. Ma, come il suo Santificatore, risorgerà a vita eterna e alla fine dei giorni del mondo vivrà in Cielo».

  7Hillel: «Ascolta me, fanciullo. Aggeo dice: ” … Verrà il Desiderato delle genti… Grande sarà allora la gloria di questa casa, e di quest’ultima più della prima “. Vuol forse parlare del Santuario di cui Tu parli?».
   Gesù: «Si, maestro. Questo vuol dire. La tua rettezza ti porta verso la Luce ed Io te lo dico: quando il Sacrificio del Cristo sarà compiuto, a te verrà pace, poiché sei un israelita senza malizia».
   Gamaliele: «Dimmi, Gesù. La pace di cui parlano i Profeti come può sperarsi se a questo popolo verrà distruzione di guerra? Parla e da’ luce anche a me».
   Gesù: «Non ricordi, maestro, cosa dissero coloro che furono presenti la notte della nascita del Cristo? Che le schiere angeliche cantarono: “Pace agli uomini di buona volontà”. Ma questo popolo non ha buona volontà e non avrà pace. Esso misconoscerà il suo Re, il Giusto, il Salvatore, perché lo spera re di umana potenza, mentre Egli è Re dello spirito. Esso non lo amerà, dato che il Cristo predicherà ciò che a questo popolo non piace. Il Cristo non debellerà i nemici coi loro cocchi e i loro cavalli, ma i nemici dell’anima, che piegano a possesso infernale il cuore dell’uomo creato per il Signore. E questa non è la vittoria che Israele si attende da Lui. Egli verrà, Gerusalemme, il tuo Re, cavalcando ” l’asina e l’asinello “, ossia i giusti di Israele e i gentili. Ma l’asinello, Io ve lo dico, sarà a Lui più fedele e lo seguirà precedendo l’asina e crescerà nella via della Verità e della Vita. Israele per la sua mala volontà perderà la pace e soffrirà in sé, per dei secoli, ciò che farà soffrire al suo Re, che sarà da esso ridotto il Re di dolore di cui parla Isaia».

  8Sciammai: «La tua bocca sa insieme di latte e di bestemmia, nazareno. Rispondi: e dove è il Precursore? Quando lo avemmo?».
  Gesù: «Egli è. Non dice Malachia: “Ecco, io mando il mio angelo a preparare davanti a Me la strada; e subito verrà al suo Tempio il Dominatore da voi cercato e l’Angelo del Testamento, da voi bramato”? Dunque il Precursore precede immediatamente il Cristo. Egli già è, come è il Cristo. Se anni passassero fra colui che prepara le vie al Signore e il Cristo, tutte le vie tornerebbero ingombre e contorte. Dio lo sa e predispone che il Precursore anticipi di un’ora sola il Maestro. Quando vedrete questo Precursore, potrete dire: “La missione del Cristo ha inizio”. A te dico: il Cristo aprirà molti occhi e molti orecchi quando verrà a queste vie. Ma non le tue e quelle dei tuoi pari, che gli darete morte per la Vita che vi porta. Ma quando più alto di questo Tempio, più alto del Tabernacolo chiuso nel Santo dei santi, più alto della Gloria sostenuta dai Cherubini, il Redentore sarà sul suo trono e sul suo altare, maledizione ai deicidi e vita ai gentili fluiranno dalle sue mille e mille ferite, perché Egli, o maestro che non sai, non è, lo ripeto, Re di un regno umano, ma di un Regno spirituale, e suoi sudditi saranno unicamente coloro che per suo amore sapranno rigenerarsi nello spirito e, come Giona, dopo esser già nati, rinascere, su altri lidi: “quelli di Dio”, attraverso la spirituale generazione che avverrà per Cristo, il quale darà all’umanità la Vita vera».

  9Sciammai e i suoi accoliti: «Questo nazareno è Satana!».
  Hillel e i suoi: «No. Questo fanciullo è Profeta di Dio. Resta con me, Bambino. La mia vecchiezza trasfonderà quanto sa al tuo sapere, e Tu sarai Maestro del popolo di Dio».
  Gesù: «In verità ti dico che, se molti fossero come tu sei, salute verrebbe ad Israele. Ma la mia ora non è venuta. A Me parlano le voci del Cielo e nella solitudine le devo raccogliere finché non sarà la mia ora. Allora con le labbra e col sangue parlerò a Gerusalemme, e sarà mia la sorte dei Profeti lapidati e uccisi da essa. Ma sopra il mio essere è quello del Signore Iddio, al quale Io sottometto Me stesso come servo fedele per fare di Me sgabello alla sua gloria, in attesa che Egli faccia del mondo sgabello ai piedi del Cristo. Attendetemi nella mia ora. Queste pietre riudranno la mia voce e fremeranno alla mia ultima parola. Beati quelli che in quella voce avranno udito Iddio e crederanno in Lui attraverso ad essa. A questi il Cristo darà quel Regno che il vostro egoismo sogna umano, mentre è celeste, e per il quale Io dico: “Ecco il tuo servo, Signore, venuto a fare la tua volontà. Consumala, perché di compierla Io ardo”».
  E qui, con la visione di Gesù col volto infiammato di ardore spirituale alzato al cielo, le braccia aperte, ritto in piedi fra i dottori attoniti, mi finisce la visione.
 (e sono le 3,30 del 29).

   29 gennaio 1944

 10Avrei qui da dirle due cose che la interessano certo e che avevo deciso di scrivere non appena tornata dal sopore. Ma siccome c’è dell’altro più pressante, scriverò poi.
  […].
  Quello che le volevo dire all’inizio è questa cosa.
  Lei oggi mi diceva come avevo potuto sapere i nomi di Hillel e Gamaliele e quello di Sciammai.
  È la voce che io chiamo «seconda voce» quella che mi dice queste cose. Una voce ancor meno sensibile di quella del mio Gesù e degli altri che dettano. Queste sono voci, gliel’ho detto e glielo ripeto, che il mio udito spirituale percepisce uguali a voci umane. Le sento dolci o irate, forti o leggere, ridenti o meste. Come uno parlasse proprio vicino a me. Mentre questa «seconda voce» è come una luce, una intuizione che parla nel mio spirito. «Nel», non «al» mio spirito. È una indicazione.
  Così, mentre io mi avvicinavo al gruppo dei disputanti e non sapevo chi era quell’illustre personaggio che a fianco di un vecchio disputava con tanto calore, questo «che» interno mi disse: «Gamaliele – Hillel». Sì. Prima Gamaliel e poi Hillel. Non ho dubbi. Mentre pensavo chi erano costoro, questo indicatore interno mi indicò il terzo antipatico individuo proprio mentre Gamaliel lo chiamava a nome. E così ho potuto sapere chi era costui dal farisaico aspetto.

   22 febbraio 1944

 11Dice Gesù:
  «Torniamo indietro molto, molto. Torniamo al Tempio, dove Io dodicenne sto disputando. Anzi torniamo nelle vie che conducono a Gerusalemme e da Gerusalemme al Tempio.
  Vedi l’angoscia di Maria quando, riunitesi le schiere degli uomini e delle donne, Ella vede che Io non sono con Giuseppe.
  Non alza la voce in rimproveri aspri verso lo sposo. Tutte le donne l’avrebbero fatto. Lo fate per molto meno, dimenticando che l’uomo è sempre il capo di casa. Ma il dolore che traspare dal volto di Maria trafigge Giuseppe più d’ogni rimprovero. Non si abbandona Maria a scene drammatiche. Per molto meno lo fate, amando d’esser notate e compatite. Ma il suo dolore contenuto è così palese, dal tremito che la prende, dal volto che impallidisce, dagli occhi che si dilatano, che commuove più d’ogni scena di pianto e clamore.
  Non sente più fatica, non fame. E il cammino era stato lungo e da tante ore non s’era preso ristoro! Ma Ella lascia tutto. E il giaciglio che si sta preparando e il cibo che sta per essere distribuito. E torna indietro. È sera, scende la notte. Non importa. Ogni passo la riporta verso Gerusalemme. Ferma le carovane, i pellegrini. Interroga. Giuseppe la segue, la aiuta. Un giorno di cammino a ritroso e poi l’affannosa ricerca per la città.
  Dove, dove può essere il suo Gesù? E Dio permette che Ella non sappia per tante ore dove cercarmi. Cercare un bambino nel Tempio era cosa senza giudizio. Che ci doveva fare un bambino nel Tempio? Al massimo, se s’era sperduto per la città ed era tornato là dentro, portato dai suoi piccoli passi, la sua voce piangente avrebbe chiamato la mamma ed attirato l’attenzione degli adulti, dei sacerdoti, i quali avrebbero provveduto a ricercare i genitori con dei bandi messi alle porte. Ma non c’era nessun bando. Nessuno in città sapeva di questo Bambino. Bello? Biondo? Robusto? Eh! ce ne sono tanti! Troppo poco per poter dire: “L’ho visto. Era là e là”!

 12Poi, dopo tre giorni, simbolo di altri tre giorni di angoscia futura, ecco che Maria esausta penetra nel Tempio, scorre i cortili e i vestiboli. Nulla. Corre, corre, la povera Mamma, là dove sente una voce di bimbo. E fin gli agnelli col loro belare le paiono il pianto della sua Creatura che la cerca. Ma Gesù non piange. Ammaestra. Ecco che Maria sente, oltre una barriera di persone, la cara voce che dice: “Queste pietre fremeranno…”. Ella cerca di fendere la calca e vi riesce dopo molto stento. Eccolo, il Figlio, a braccia aperte, ritto fra i dottori.
  Maria è la Vergine prudente. Ma questa volta l’affanno soverchia la sua riservatezza. È una diga che abbatte ogni altra cosa. Corre al Figlio, lo abbraccia, levandolo dallo sgabello e posandolo al suolo, ed esclama: “Oh! perché ci hai fatto questo? Da tre giorni ti andiamo cercando. La tua Mamma sta per morire di dolore, Figlio. Il padre tuo è sfinito di fatica. Perché, Gesù?”.
  Non si chiedono i “perché” a Chi sa. I “perché” del suo modo di agire. Ai vocati non si chiede “perché” lasciano tutto per seguire la voce di Dio. Io ero Sapienza e sapevo. Io ero “vocato” ad una missione e la compivo. Sopra il padre e la madre della Terra vi è Dio, Padre divino. I suoi interessi superano i nostri, i suoi affetti sono superiori ad ogni altro. Io lo dico a mia Madre.
  Termino l’insegnamento ai dottori con l’insegnamento a Maria, Regina dei dottori. Ed Ella non se lo è più dimenticato. Il sole le è tornato nel cuore avendomi per mano, umile e ubbidiente, ma le mie parole le sono pure nel cuore. Molto sole e molte nubi scorreranno nel cielo durante quei ventuno anni in cui sarò ancora sulla Terra. E molta gioia e molto pianto si alternerà nel suo cuore per altri ventuno anni. Ma Ella non chiederà più: “Perché, Figlio mio, ci hai fatto questo?”.
 Imparate, o uomini protervi.

 13Ho istruito e illuminato Io la visione, perché tu non sei in grado di fare di più. ».

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Mt 21, 33-43.45: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».

Vangelo Mt 21, 33-43.45
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo:
«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo.
Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.
Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?».
Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
“La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata la pietra d’angolo;
questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi”?
Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
Udite queste parabole, i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro. Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla, perché lo considerava un profeta.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
” A voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».


Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato 
Paralleli Vetus e Novus Ordo

   Cap. DXCII. Lunedì santo. Conforto alla madre di Annalia e incontro con il milite Vitale. Il fico sterile e la parabola dei vignaioli perfidi. Le domande sull’autorità di Gesù e sul battesimo di Giovanni.

   31 marzo 1947.

 1 Gesù esce presto dalla tenda di un galileo, là sul pianoro dell’Uliveto, dove molti galilei si radunano in occasione delle solennità. Il campo dorme tutto, sotto il chiarore di una luna che tramonta lentamente fasciando di candore argenteo tende, alberi e pendici, e la città dormente là in basso…
   Gesù passa sicuro e senza rumore fra tenda e tenda e, uscito dal campo, scende velocemente per ripidi sentieri verso il Getsemani, lo traversa, ne esce, supera il ponticello sul Cedron, nastro d’argento arpeggiante alla luna, giunge alla porta sorvegliata dai legionari. Forse una misura precauzionale del Proconsole è questa scolta notturna alle porte chiuse. I militi, quattro, parlano seduti su delle grosse pietre, messe a far da sedili contro il muro potente, e si scaldano ad un fuocherello di sterpi che getta una luce rossastra sulle loriche lucenti e sugli elmi severi, da sotto i quali emergono i visi così diversi, nella loro fisionomia italica, da quelli degli ebrei.
   «Chi va là!», dice il primo, che vede apparire l’alta figura di Gesù da dietro l’angolo di una casupola vicina alla porta, e imbraccia l’asta, terminante in lancia puntuta, che teneva appoggiata al muro lì presso, mettendosi in posizione regolamentare, imitato dagli altri. E senza dar tempo a Gesù di rispondere, dice: «Non si entra. Non sai che la seconda vigilia è già al termine?».
   «Sono Gesù di Nazaret. Ho la Madre in città. Vado a Lei».
   «Oh! l’uomo che ha risuscitato il morto di Betania! Per Giove! Lo vedrò finalmente!». E gli va vicino guardandolo curioso, girandogli intorno come per sincerarsi che non è qualcosa di irreale, di strano, ma proprio un uomo come tutti. E lo dice: «Oh! Numi! È bello come Apollo, ma fatto in tutto come noi! E non ha né bastone, né berretta, né alcun segno del suo potere! ». È perplesso.
   Gesù lo guarda pazientemente, sorridendogli con dolcezza.
   Gli altri, che sono meno curiosi – forse hanno visto già Gesù altre volte – dicono: «Sarebbe stata buona cosa che fosse stato qui a metà della prima vigilia, quando fu portata al sepolcro la bella fanciulla morta al mattino. Avremmo visto risorgere. ..».
   Gesù dolcemente ripete: «Posso andar da mia Madre?».
   I quattro militi si riscuotono. Il più anziano parla: «Veramente l’ordine sarebbe di non lasciar passare. Ma Tu passeresti ugualmente. Colui che forza le porte dell’Ade può ben forzare le porte di una città chiusa. Né Tu sei uomo da suscitare sommosse. Cade dunque il divieto per Te. Fa’ di non essere scorto dalle ronde interne. Apri, Marco Grato. E Tu passa senza rumore. Siamo soldati e dobbiamo ubbidire…».
   «Non temere. La vostra bontà non vi si muterà in castigo».
   Un legionario apre cautamente lo sportello aperto nel portone colossale e dice: «Passa presto. Fra poco scade la vigilia e noi siamo cambiati dai sopravvenienti».
   «La pace a voi».
   «Siamo uomini di guerra…».
   «Anche nella guerra la pace che Io do permane, perché è pace dell’anima».
   E Gesù si ingolfa nel buio dell’arco aperto nello spessore delle mura. Passa silenzioso davanti al corpo di guardia che dall’uscio aperto lascia uscire la luce tremolante di un lume ad olio, una comune lucerna, sospeso ad un gancio del basso soffitto, che permette di vedere dei corpi di militi dormenti su stuoie gettate al suolo, tutti avvolti nei loro mantelli, le armi al fianco.

 2 Gesù è in città ormai… e lo perdo di vista, mentre osservo rientrare due dei soldati di prima, che osservano se Egli si è allontanato, prima di entrare a svegliare i dormenti per avere il cambio.
   «Non lo si vede già più… Che avrà voluto dire con quelle parole? Avrei voluto saperlo», dice il più giovane.
   «Dovevi chiederglielo. Non ci disprezza. L’unico ebreo che non ci disprezzi e che non ci strozzi in alcun modo», gli risponde l’altro, già nel pieno della virilità.
   «Non ho osato. Io, contadino beneventano, parlare a uno che dicono dio?».
   «Un dio su un asino? Ah! Ah! Fosse ebbro come Bacco, potrebbe. Ma ebbro non è. Credo non beva neppure il mulsium. Non vedi come è pallido e magro?».
   «Eppure gli ebrei…».
   «Loro sì che bevono, benché mostrino di non farlo! Ed ebbri dei forti vini di queste terre e della loro sicera, hanno visto il dio in un uomo. Credi a me. Gli dèi sono fole. L’Olimpo è vuoto e la Terra ne è priva».
   «Se ti sentissero!…».
   «Sei ancora tanto fanciullo da non esser candidato e non sapere che lo stesso Cesare non crede agli dèi, né vi credono i pontefici, gli àuguri, gli arùspici, gli arvali, le vestali né alcuno?».
   «E allora perché…».
   «Perché i riti? Perché piacciono al popolo e sono utili ai sacerdoti e servono a Cesare per farsi ubbidire come fosse un dio terreno tenuto per mano dagli dèi olimpici. Ma i primi a non credere sono quelli che noi veneriamo come ministri degli dèi. Io sono pirroniano. Ho girato l’Orbe. Ho fatto molte esperienze. I miei capelli biancheggiano alle tempie e si è maturato il mio pensiero. Ho per codice personale tre sentenze. Amare Roma, unica dèa e unica certezza, sino al sacrificio della vita. Nulla credere, poiché tutto è illusione di ciò che ci circonda, eccettuata la Patria sacra e immortale. Anche di noi stessi dobbiamo dubitare, perché incerto è anche se noi viviamo. Il senso e la ragione non bastano a dare certezza di giungere a conoscere il Vero, e il vivere e il morire hanno lo stesso valore, perché non sappiamo cosa è vivere e non sappiamo cosa è morire», dice affettando uno scetticismo filosofico di creatura superiore…
   L’altro lo guarda incerto. Poi dice: «Io invece credo. E mi piacerebbe sapere… Sapere da quell’uomo che è passato poco fa. Egli certo sa il Vero. Una cosa strana esce da Lui. È come una luce che entra dentro!».
   «Esculapio ti salvi! Tu sei malato! Da poco sei salito alla città dalla valle, e le febbri sorgono facilmente in chi compie questo viaggio né ancor è acclimatato a questa regione. Tu deliri. Vieni. Non c’è che vin caldo ed
aromi per fare uscire in sudore il veleno della febbre giordanica…», e lo spinge verso il corpo di guardia.
   Ma l’altro si libera dicendo: «Non sono malato. Non voglio vin caldo drogato. Voglio vegliare là, fuori le mura (accenna il lato interno del bastione) e attendere l’uomo che si è detto Gesù».
   «Se l’attendere non ti rincresce… Io vado a svegliare questi per il cambio. Addio…».
   Ed entra rumorosamente nel corpo di guardia, svegliando i compagni e gridando: «Già è scoccata l’ora. Su, fannulloni svogliati! Stanco sono!…». Sbadiglia rumorosamente e impreca perché hanno lasciato spegnere il fuoco e hanno bevuto tutto il vin caldo, «così necessario ad asciugare la guazza palestinese…».
   L’altro, il giovane legionario, addossato alla muraglia che la luna sfiora da ponente, attende che Gesù torni sui suoi passi. Le stelle vegliano la sua speranza…

 3 Gesù intanto è arrivato alla casa di Lazzaro, sul colle di Sion, e bussa.
   Levi gli apre. «Tu, Maestro?! Le padrone dormono. Perché non hai mandato un servo, se ti occorreva qualche cosa?».
   «Non lo avrebbero lasciato passare».
   «Ah! è vero! Ma Tu come sei passato?».
   «Sono Gesù di Nazaret. E i legionari mi hanno lasciato passare. Ma non va detto, Levi».
   «Non lo dirò… Meglio loro di molti di noi!».
   «Conducimi dove dorme mia Madre e non destare nessun altro della casa».
   «Come vuoi, Signore. L’ordine di Lazzaro a tutti i suoi ministri di casa è di ubbidirti in tutto senza discussione e indugio. Era da poco l’aurora quando lo portò un servo, molti servi, a tutte le case. Ubbidire e tacere. Lo faremo. Ci hai reso il padrone…».
   L’uomo trotterella avanti per i corridoi, vasti come gallerie, dello splendido palazzo di Lazzaro sul colle di Sion, e il lume che porta fra le mani illumina fantasticamente le suppellettili e le tappezzerie che ornano questi larghi corridoi. L’uomo si ferma davanti ad una porta chiusa: «Lì è tua Madre».
   «Va’ pure».
   «E il lume? Non lo vuoi? Io posso tornare al buio. Sono pratico della casa. Ci sono nato».
   «Lascialo. E non levare la chiave dalla porta. Esco subito».
   «Sai dove trovarmi. Chiuderò per precauzione. Ma sarò pronto ad aprirti la porta al tuo venire».

 4 Gesù resta solo. Bussa leggermente, un tocco così leggero che soltanto uno che è ben sveglio lo può sentire.
   Un rumore dentro la stanza, come di un sedile che si sposta, e un leggero fruscio di passi, e una voce sommessa: «Chi bussa?».
   «Io, Mamma. Aprimi».
   La porta si apre subito. Il lume di luna è il solo lume che illumini la stanza quieta e distende il suo raggio sul letto intatto. Un sedile è presso la finestra spalancata sul mistero della notte.
   «Non dormivi ancora? È tardi!».
   «Pregavo… Vieni, Figlio mio. Siedi qui dove io ero», e indica il sedile presso la finestra.
   «Non posso fermarmi. Ti sono venuto a prendere per andare da Elisa in Ofel. Annalia è morta. Non lo sapevate ancora?». 
   «No. Nessuno… Quando, Gesù?».
   «Dopo il mio passaggio».
   «Dopo il tuo passaggio! (È detto con riferimento a: Esodo 12, 12-13). Fosti dunque per lei l’Angelo liberatore?! Le era così prigione questa Terra! Lei felice! Vorrei essere io al posto suo! Morì… naturalmente? Voglio dire: non per sventura?».
   «Morì di gioia d’amore. Lo seppi che ero già sulla salita del Tempio. Vieni con Me, Mamma. Noi non temiamo di profanarci per consolare una madre che ebbe fra le braccia la figlia morta di soprannaturale gioia… La nostra prima vergine! Quella che venne a Nazaret, a te, per trovare Me e chiedermi questa gioia…  Giorni lontani e sereni».
   «Ieri l’altro cantava come una capinera innamorata e mi baciava dicendo: “Io sono felice!”, ed era avida di sentire tutto di Te. Come Dio ti formò. Come mi elesse. E i miei primi palpiti di vergine consacrata… Ora comprendo… 

 5 Sono pronta, Figlio».
   Maria si è, nel parlare, riappuntate le trecce, che aveva giù per le spalle e che la facevano parere così fanciulla, e si è messo il velo e il manto.
   Escono facendo il meno rumore che possono.
   Levi è già presso il portone. Spiega: «Ho preferito… Per mia moglie… Le donne sono curiose. Mi avrebbe fatto cento domande. Così non sa…». Apre, fa per chiudere.
   Gesù dice: «Entro questa stessa vigilia ricondurrò mia Madre».
   «Veglierò qui presso. Non temere».
   «La pace a te».
   Vanno per le strade silenziose, vuote, nelle quali la luna si ritira lentamente persistendo sull’alto delle case alte della collina di Sion. Più luminoso è il borgo di Ofel, dalle casette più umili e più basse.

 6 Ecco la casa di Annalia. Chiusa. Buia. Silenziosa. Dei fiori appassiti sono ancora sui due gradini della casa. Forse quelli gettati dalla vergine prima di morire, o quelli caduti dal suo letto funebre…
   Gesù bussa alla porta. Bussa di nuovo…
   Il rumore di una impannata aperta in alto. Una voce affranta: «Chi bussa?».
   «Maria e Gesù di Nazaret», risponde Maria.
   «Oh! Vengo! …».
   Breve attesa e poi il rumore dei paletti rimossi. La porta si apre mostrando il volto disfatto di Elisa, che si regge a fatica allo stipite e, quando Maria entrando le apre le braccia, si abbatte sul suo seno con i singulti fiochi di chi ha già tanto pianto da non aver più voce da dare al suo pianto. Gesù chiude l’uscio e attende paziente che sua Madre calmi quell’affanno.
   Una stanza è vicina alla porta. Entrano in quella, portando Gesù il lume posato da Elisa sul pavimento dell’entrata prima di aprire la porta. Il pianto della madre sembra non possa aver fine. Parla, fra i singhiozzi rochi, a Maria. Parla la madre alla Madre. Gesù, in piedi contro una parete, tace…

 7 Elisa non può darsi ragione di quella morte, avvenuta così… E nel suo soffrire fa ricadere la causa di essa a Samuele, il fidanzato spergiuro: «Le ha spaccato il cuore, quel maledetto! Ella non diceva. Ma certo soffriva da chissà quanto! E nella gioia, nel grido, le si è aperto il cuore. Sia maledetto in eterno».
   «No, cara. No. Non maledire. Non è così. Dio l’ha amata tanto da volerla nella pace. Ma anche fosse morta per causa di Samuele – non è, ma supponiamolo per un istante – pensa quale morte di gioia ella ebbe, e di’ che l’azione malvagia le procurò morte felice».
   «Io non l’ho più! M’è morta! M’è morta! Tu non sai cosa sia perdere una figlia! Io due volte ho gustato questo dolore. Perché già la piangevo morta quando tuo Figlio la guarì. Ma ora… Ma ora… Egli non è tornato! Non ha avuto pietà… Io l’ho perduta! Perduta! Già nella tomba è la mia creatura! Sai tu cosa sia veder agonizzare un figlio? Sapere che deve morire? Vederlo morto quando lo si credeva risanato e forte? Non sai. Non puoi parlare… Era bella come una rosa apertasi allora al primo sole mentre si ornava questa mattina. Si era voluta ornare con la veste che le avevo fatta per le nozze. Voleva anche coronarsi come sposa. Poi preferì sfare la ghirlanda già pronta e sfogliare i fiori per gettarli a tuo Figlio, e cantava! Cantava! La sua voce empiva la casa. Era vaga come la primavera. La gioia le faceva brillanti come stelle gli occhi, e porporine come polpa di melagrana le labbra aperte sul candore dei denti, e le guance le aveva rosee e fresche come rose novelle che la rugiada decora. E divenne bianca come il giglio appena dischiuso. E mi si piegò sul petto come uno stelo spezzato… Più una parola! Più un sospiro! Più colore. Più sguardo. Placida, bella, come un angelo di Dio, ma senza vita.

 8 “Tu non sai, tu che godi del trionfo di tuo Figlio e lo hai sano e forte, cosa è il mio dolore! Perché non è tornato indietro? In che lo aveva dispiaciuto, e io con lei, per non aver pietà della mia preghiera?».
   «Elisa! Elisa! Non dire… Il dolore ti fa cieca e sorda… Elisa, tu non sai il mio soffrire. E non sai il mare profondo che diverrà il mio soffrire. Tu l’hai vista placida e bella irrigidirsi in pace. Fra le tue braccia. Io… Io sono più di sei lustri che contemplo la mia Creatura e, oltre le carni lisce e monde che contemplo e carezzo, io vedo le piaghe dell’Uomo dei dolori che diverrà la mia Creatura. Sai, tu che dici che io non so cosa è vedere un figlio andare due volte alla morte, e una entrarvi e rimanervi in pace, sai cosa è vedere per tant’anni questa visione, per una madre? Mio Figlio! Eccolo. È già vestito di rosso come uscisse da un bagno di sangue. E presto, fra poco, ancor non sarà fatto oscuro il volto della tua creatura nel sepolcro, che io lo vedrò vestito della porpora del Sangue suo innocente. Di quel Sangue che gli ho dato. E se tu hai raccolto sul cuore tua figlia, sai quale sarà il mio dolore vedendo morire mio Figlio come un malfattore sul legno? Guardalo, il Salvatore di tutti! Nello spirito e nella carne. Perché la carne dei salvati da Lui sarà incorrotta e beata nel suo Regno. E guardami! Guarda questa Madre che ora per ora accompagna e conduce – oh! io non lo tratterrei di un passo! – suo Figlio al Sacrificio! Io ti posso capire, povera mamma. Ma tu capisci il mio cuore! Non odiare il Figlio mio. Annalia non avrebbe sopportato l’agonia del suo Signore. E il suo Signore la fece beata in un’ora di tripudio».

 9 Elisa ha cessato di piangere davanti alla rivelazione. Fissa Maria, dal pallido volto di martire lavato di lacrime silenziose, guarda Gesù che la guarda con pietà… e scivola ai piedi di Cristo gemendo: «Ma ella mi è morta! Mi è morta, Signore! Come un giglio, un giglio spezzato. Tu sei detto dai poeti che sei colui che si compiace fra i gigli! (Forse alludendo a: Cantico dei cantici 2, 1-2.16; 6, 2-3. Più sotto, Gesù fa un probabile riferimento a: Cantico dei cantici 6, 8-9; 8, 4). Oh! veramente Tu, nato dal giglio-Maria, scendi sovente fra le aiuole fiorite, e delle rose porpuree ne fai candidi gigli, e li cogli levandoli al mondo. Perché? Perché, Signore? Non è giusto che una madre goda della rosa nata da lei? Perché spegnerne il porporino nel freddo candore di morte del giglio?».
   «I gigli! Saranno il simbolo di quelle che mi ameranno come mia Madre amò Dio. La candida aiuola del Re divino».
   «Ma noi madri piangeremo. Noi madri abbiamo diritto alle nostre creature. Perché levarle alla vita?».
   «Non così voglio dire, donna. Resteranno le figlie, ma consacrate al Re come le vergini nei palazzi di Salomone. Ricordati il Cantico… E spose saranno, le beneamate, in Terra e in Cielo».
   «Ma la mia creatura è morta! È morta! ». Il pianto riprende straziante.
   «Io sono la Risurrezione e la Vita. Chi crede in Me, ancorché venga a morte, vive, e in verità ti dico che non muore in eterno. Tua figlia vive. Vive in eterno poiché credette nella Vita. La mia Morte le sarà completa Vita. Ha conosciuto la gioia del vivere in Me prima di conoscere il dolore di vedere Me strappato alla vita. Il tuo dolore ti fa cieca e sorda. Bene dice mia Madre. Ma presto dirai ciò che ti ho mandato a dire stamane: “Veramente la sua morte fu una grazia di Dio”. Credilo, donna. L’orrore attende questo luogo. E verrà giorno in cui le madri colpite come te diranno: “Lode a Dio che risparmiò ai nostri figli questi giorni”. E le madri non colpite grideranno al Cielo: “Perché, o Dio, non ci hai ucciso i figli prima di quest’ora?”. Credilo, donna. Credi alle mie parole. Non alzare fra te e Annalia la vera chiusura che separa, quella della diversità di fede. Vedi? Io potevo non venire. Tu sai quanto sono odiato. Non ti illuda il trionfo di un’ora!… Ogni angolo può celare un’insidia per Me. E sono venuto solo, nella notte, per consolarti e dirti queste parole. Io compatisco il dolore di una madre. Ma per la pace della tua anima ti vengo a dire queste parole. Abbi pace! Pace!».
   «Dammela Tu, Signore! Io non posso! Non posso nel mio soffrire darmi pace. Ma Tu, che rendi la vita ai morti e la salute ai morenti, dai la pace al cuore di una madre straziata».
   «Così sia, donna. A te la pace». Le impone le mani benedicendola e pregando in silenzio su lei. Maria si è inginocchiata a sua volta presso Elisa, cingendola con un braccio.

10 «Addio, Elisa. Io me ne vado…».
   «Non ci vedremo più, Signore? Io non uscirò dalla casa per molti giorni e Tu te ne andrai dopo le feste pasquali. Tu… sei ancora un poco parte di mia figlia… perché Annalia… perché Annalia viveva in Te e per Te». Piange. Più calma, ma quanto piange!
   Gesù la guarda… La carezza sul capo canuto. Le dice: «Mi vedrai ancora».
   «Quando?».
   «Fra otto notti da questa».
   «E mi conforterai ancora? Mi benedirai per darmi forza?».
   «Il mio cuore ti benedirà con tutta la pienezza del mio amore per quelli che mi amano. Vieni, Madre mia».
   «Figlio mio, se lo concedi vorrei rimanere ancora con questa madre. Il dolore è un maroso che torna, dopo che si è allontanato Colui che dà pace… Rientrerò all’ora di prima. Non ho paura ad andare sola. Lo sai. E sai che passerei per tutto un esercito nemico pur di confortare un mio fratello in Dio».
   «Sia come tu vuoi. Io vado. Dio sia con voi».
   Esce senza far rumore, chiudendosi dietro le spalle la porta della stanza e quella della casa.

11 Torna verso le mura, alla porta di Efraim o a quella Stercoraria o del Letame, perché molte volte ho sentito indicare queste due porte vicine con questi tre nomi, forse perché una si apre sulla via di Gerico che è in fondo, via che conduce a Efraim, e l’altra perché ha prossima la valle di Innon dove vengono arse le immondizie della città; e sono così uguali che confondo.
   Il cielo appena imbianca al confine d’oriente, pur essendo ancor gremito di stelle. Le vie sono avvolte in una penombra più penosa del buio notturno che la luna temperava col suo candore. Ma il milite romano ha buoni occhi e, come vede Gesù avanzarsi verso la porta, gli va incontro.
   «Salve. Ti ho atteso…». Si arresta titubante.
   «Parla senza paura. Che vuoi da Me?».
   «Sapere. Tu hai detto: “La pace che Io do permane anche nella guerra, perché è pace d’anima”. Io vorrei sapere che pace è, e cosa è l’anima. Come può l’uomo che è in guerra essere in pace? Quando si apre il tempio di Giano si chiude quello della Pace. Non possono le due cose essere insieme nel mondo». Parla addossato al muretto verdastro di un orticello, in una vietta stretta come un sentiero fra i campi, fra povere case, umido, tetro, buio. Tolto un lieve bagliore che indica l’elmo brunito, non si avverte altro dei due che parlano. L’ombra annulla i volti e i corpi in un unico nero.
   La voce di Gesù risuona piana e luminosa nella sua gioia di gettare un seme di luce nel pagano. «Nel mondo, in verità, non possono essere pace e guerra insieme. Una esclude l’altra. Ma nell’uomo di guerra può esser pace anche se combatte la guerra comandata. Può essere la mia pace. Perché la mia pace viene dal Cielo e non la lede il fragor della guerra e la ferocia delle stragi. Essa, cosa divina, invade la cosa divina che l’uomo ha in sé, e che anima è detta».
   «Divina? In me? Divo è Cesare. Io sono un figlio di contadini. Ora sono un legionario senza alcun grado. Se sarò prode, potrò forse divenire centurione. Ma divo no».
   «Vi è una parte divina in te. È l’anima. Viene da Dio. Dal vero Dio. Perciò è divina, gemma viva nell’uomo, e di divine cose si alimenta e vive: la fede, la pace, la verità. Guerra non la turba. Persecuzione non la lede. Morte non l’uccide. Solo il male, fare ciò che è brutto, la ferisce o uccide, e anche la priva della pace che Io dono. Perché il male separa l’uomo da Dio».

12 «E cosa è il male?».
   «Essere nel paganesimo e adorare gli idoli quando la bontà del vero Dio ha messo a conoscenza che c’è il vero Dio. Non amare il padre, la madre, i fratelli e il prossimo. Rubare, uccidere, esser ribelli, aver lussurie, essere falsi. Questo è il male».
   «Ah! allora io non posso avere la tua pace! Sono soldato e comandato ad uccidere. Per noi allora non c’è salvezza?!».
   «Sii giusto nella guerra come nella pace. Compi il tuo dovere senza ferocia e senza avidità. Mentre combatti e conquisti, pensa che il nemico è simile a te e che ogni città ha madri e fanciulle come la tua madre e le tue sorelle, e sii prode senza essere un bruto. Non uscirai dalla giustizia e dalla pace, e la mia pace resterà in te».
   «E poi?».
   «E poi? Cosa vuoi dire?».
   «Dopo la morte? Che avviene del bene che ho fatto e dell’anima che Tu dici che non muore se non si fa il male?».
   «Vive. Vive ornata del bene che ha fatto, in una pace gaudiosa, più grande di quella che si gode in Terra».
   «Allora in Palestina uno solo aveva fatto il bene! Ho capito».
   «Chi?».
   «Lazzaro di Betania. Non è morta la sua anima!».
   «In verità egli è un giusto. Però molti sono pari a lui e muoiono senza risuscitare, ma la loro anima vive nel Dio vero. Perché l’anima ha un’altra dimora, nel Regno di Dio. E chi crede in Me entrerà in quel Regno».
   «Anche io, romano?».
   «Anche tu, se crederai alla Verità».
   «Cosa è la Verità?».
   «Io sono la Verità, e la Via per andare alla Verità, e sono la Vita e do la Vita, perché chi accoglie la Verità accoglie la Vita».

13 I1 giovane soldato pensa,… tace… Poi alza il volto. Un volto ancor puro di giovane, e ha un sorriso limpido, sereno. Dice: «Io cercherò di ricordare questo e di sapere più ancora. Mi piace… ».
   «Come ti chiami?».
   «Vitale. Di Benevento. Delle campagne della città».
   «Ricorderò il tuo nome. Fai veramente vitale il tuo spirito nutrendolo di Verità. Addio. Si apre la porta. Esco dalla città».
   «Ave!».
   Gesù va lesto alla porta e si affretta per la via che conduce al Cedron e al Getsemani e da lì al campo dei Galilei.

14 Fra gli ulivi del monte raggiunge Giuda di Keriot, che sale anche lui svelto verso il campo che si desta. Giuda ha un atto quasi di spavento trovandosi di fronte Gesù. Gesù lo guarda fisso, senza parlare.
   «Sono stato a portare il cibo ai lebbrosi. Ma… ne ho trovati due a Innon, cinque a Siloan. Gli altri, guariti. Ancora là, ma guariti, tanto che mi hanno pregato di avvertire il sacerdote. Ero sceso alla prima luce per esser libero poi. Farà rumore la cosa. Un così gran numero di lebbrosi guariti insieme dopo che Tu li hai benedetti al cospetto di tanti!».
   Gesù non parla. Lo lascia parlare… Non dice né: «Hai fatto bene», né altra cosa attinente all’azione di Giuda e al miracolo, ma fermandosi all’improvviso e guardando fissamente l’apostolo gli chiede: «Ebbene? Che ha mutato l’averti lasciato libertà e denaro?».
   «Che vuoi dire?».
   «Questo: ti chiedo se ti sei santificato da quando ti ho reso libertà e denaro. E tu mi capisci… Ah! Giuda! Ricordalo! Ricordalo sempre: tu sei stato quello che ho amato più di ogni altro, avendone meno amore di quanto tutti gli altri mi hanno dato. Avendone anzi un odio maggiore, perché odio di uno che trattai da amico, del più feroce odio del più feroce fariseo. E ricorda ancor questo: che Io neppure ora ti odio, ma, per quanto sta al Figlio dell’uomo, ti perdono. Va’, ora. Non c’è più nulla da dirsi fra Me e te. Tutto è già fatto…».
   Giuda vorrebbe dire qualcosa, ma Gesù con un gesto imperioso gli fa cenno di andare avanti… E Giuda, chino il capo come un vinto, va avanti…

15 Al limite del campo dei Galilei gli undici apostoli e i due servi di Lazzaro sono già pronti.
   «Dove sei stato, Maestro? E tu, Giuda? Eravate insieme?».
   Gesù previene la risposta di Giuda: «Io avevo da dire qual cosa a dei cuori. Giuda andò dai lebbrosi… Ma
sono guariti tutti meno sette».
   «Oh! perché sei andato? Volevo venire io pure!», dice lo Zelote.
   «Per essere libero ora di venire con noi. Andiamo. Entreremo in città dalla porta del Gregge. Facciamo presto», dice ancora Gesù.

16 Si avvia per il primo, passando per gli uliveti che conducono dal campo, a quasi mezza via fra Betania e Gerusalemme, all’altro ponticello che accavalla il Cedron presso la porta del Gregge.
   Delle case di contadini sono sparse per i clivi, e quasi in basso, presso le acque del torrente, una scapigliata pianta di fichi si penzola sul rio. Gesù si dirige ad essa e cerca se fra il fogliame largo e grasso sia qualche fior di fico maturo. Ma il fico è tutto foglie, molte, inutili, ma non ha un sol frutto sui rami.
   «Sei come molti cuori in Israele. Non hai dolcezze per il Figlio dell’uomo, e non pietà. Possa da te non nascere mai più alcun frutto, e alcuno da te non ne mangi in futuro», dice Gesù.
   Gli apostoli si guardano. L’ira di Gesù per la pianta sterile, forse selvatica, li stupisce. Ma non dicono nulla. Solo più tardi, valicato il Cedron, Pietro gli chiede: «Dove hai mangiato?».
   «In nessun luogo».
   «Oh! Allora hai fame! Ecco là un pastore con qualche capra pascolante. Andrò e chiederò latte per Te. Faccio presto», e va a gran passi, tornando cauto con una vecchia scodella colma di latte.
   Gesù beve e rende con una carezza la tazza al pastorello che ha accompagnato Pietro…

17 Entrano in città e salgono al Tempio e, adorato il Signore, Gesù torna nel cortile dove i rabbi tengono le loro lezioni.
   La gente gli si affolla intorno e una madre, venuta da Cintium, presenta il bambino che un male ha reso cieco, credo. Ha gli occhi bianchi come chi ha una vasta cateratta sulla pupilla o un’albugine. Gesù lo guarisce sfiorando le orbite con le sue dita. E poi subito inizia a parlare:
   «Un uomo comprò un terreno e lo piantò a vigneti, vi edificò la casa per i coloni, una torre per i sorveglianti, cantine e luoghi per torchiare le uve, e lo diede a lavorare a dei coloni nei quali aveva fiducia. Poi se ne andò lontano. Quando venne il tempo che i vigneti potevano dare del frutto, essendo ormai le viti cresciute sino ad esser fruttifere, il padrone della vigna mandò i suoi servi dai coloni per ritirare gli utili del raccolto fatto. Ma i coloni circondarono quei servi e parte li presero a bastonate, parte li lapidarono con pietre pesanti ferendoli molto, parte li uccisero del tutto. Coloro che poterono tornare vivi dal padrone raccontarono ciò che era loro accaduto. Il padrone li curò e consolò e mandò altri servi ancor più numerosi. E i coloni trattarono questi come avevano trattato i primi. Allora il padrone della vigna disse: “Manderò loro il mio figliuolo. Certo essi avranno riguardo al mio erede”. Ma i coloni, vistolo venire e saputo che era l’erede, si chiamarono l’un l’altro dicendo: “Venite. Riuniamoci per essere in molti. Trasciniamolo fuori, in un luogo remoto, e uccidiamolo. La sua eredità resterà a noi”. E, accogliendolo con ipocriti onori, lo circondarono come per fargli festa, poi lo legarono dopo averlo baciato e lo picchiarono forte e lo portarono con mille motteggi al luogo del supplizio e l’uccisero. Ora ditemi voi. Quel padre e padrone che un giorno si accorgerà che il figlio ed erede del suo avere non torna, e scopre che i suoi servi-coloni, coloro ai quali aveva dato la terra ferace perché la coltivassero in suo nome, godendone per quanto era giusto e dandone quanto era giusto al loro signore, sono stati gli uccisori del figlio suo, che farà?».
   E Gesù dardeggia le iridi zaffiree, accese come da un sole, sui convenuti e specie sui gruppi dei più influenti giudei, farisei e scribi, sparsi fra la folla. Nessuno parla.
   «Dite, dunque? Voi almeno, rabbi di Israele. Dite parola di giustizia che persuada il popolo a giustizia. Io potrei dire parola non buona, secondo il vostro pensiero. Dite dunque voi, acciò il popolo non sia tratto in errore».
   Gli scribi rispondono, costretti, così: «Punirà gli scellerati facendoli perire in modo atroce e darà la vigna ad altri coloni, che onestamente gliela coltivino, dandogli il frutto della terra avuta in consegna».
   «Avete detto bene. Così è scritto nella Scrittura: (Salmo 118, 22-23) “La pietra che i costruttori hanno scartata è divenuta pietra angolare. Questa è opera fatta dal Signore ed è cosa meravigliosa agli occhi nostri”. Poiché dunque così è scritto, e voi lo sapete, e giudicate giusto che siano puniti atrocemente quei coloni uccisori del figlio erede del padrone della vigna ed essa sia data ad altri coloni che onestamente la coltivino, ecco, per questo vi dico: “Vi sarà tolto il Regno di Dio e sarà dato a gente che ne produca i frutti. E chi cadrà contro questa pietra si sfracellerà, e colui sopra il quale la pietra cadrà sarà stritolato”». 

18 I capi dei sacerdoti, i farisei e scribi, con atto veramente… eroico non reagiscono. Tanto può la volontà di raggiungere uno scopo! Per molto meno altre volte lo hanno avversato, e oggi che apertamente il Signore Gesù dice loro che verrà tolto ad essi il potere non scattano in improperi, non fanno atti violenti, non minacciano, falsi agnelli pazienti che sotto un’ipocrita veste di mitezza nascondono l’immutabile cuore di lupo.
   Si limitano ad accostarsi a Lui, che ha ripreso a camminare avanti e indietro ascoltando questo e quello dei
molti pellegrini che sono raccolti nell’ampio cortile, e dei quali molti gli chiedono consiglio per casi d’anima o per circostanze famigliari o sociali, in attesa di potergli dire qualcosa dopo averlo ascoltato dare un giudizio ad un uomo su un’intricata questione di eredità, che ha prodotto divisione e rancore fra i diversi eredi a causa di un figlio del padre, avuto con una serva della casa ma adottato, che i figli legittimi non vogliono con loro né coerede nella spartizione delle case e dei terreni, volendo non avere più nulla in comune col bastardo, e non sanno come risolvere, perché il padre ha fatto giurare avanti la sua morte che, come sempre egli aveva fatto spartendo il pane all’illegittimo come ai legittimi in uguale misura, così essi dovevano ugualmente spartire l’eredità con lui in egual misura.
   Gesù dice a colui che lo interroga a nome degli altri tre fratelli: «Sacrificate tutti un pezzo di terra, vendendolo, di modo da radunare il valore di denaro equivalente al quinto della sostanza totale, e datelo all’illegittimo dicendo: “Ecco la tua parte. Non sei defraudato del tuo, né si è fatto torto al volere di nostro padre. Va’ e Dio sia con te”. E siate abbondanti nel dare, anche più dello stretto valore della sua parte. Fatelo con testimoni che giusti siano, e nessuno potrà in Terra, e oltre la Terra, alzare voci di rimprovero e scandalo. E avrete pace fra voi e in voi, non avendo il rimorso di aver disubbidito al padre vostro, e non avendo fra voi colui che, veramente innocente, vi è causa di turbamento più che se fosse un ladrone messo fra voi».
   L’uomo dice: «Il bastardo ha rubato in verità pace alla nostra famiglia, salute alla madre nostra che morì di dolore, e un posto non suo».
   «Non è lui il colpevole, uomo. Ma colui che lo ha generato. Egli non chiese di nascere per portare il marchio del bastardo. Fu la brama di vostro padre che lo generò per darlo al dolore e per darvi dolore. Siate dunque giusti verso l’innocente che sconta già duramente la colpa non sua. Né abbiate anatema per lo spirito del padre vostro. Dio lo ha giudicato. Non occorrono i fulmini delle vostre maledizioni. Onorate il padre, sempre, anche se colpevole, non per se stesso, ma perché rappresentò in Terra il Dio vostro, avendovi creato per decreto di Dio ed essendo il signore della vostra casa. I genitori sono immediatamente dopo Dio. Ricorda il Decalogo. E non peccare. Va’ in pace».

19 I sacerdoti e scribi gli si accostano allora per interrogarlo: «Ti abbiamo sentito. Hai detto giusto. Un consiglio che più saggio non lo poteva dare Salomone. Ma ora di’ a noi, Tu che operi prodigi e dai sentenze quali solo il sapiente re poteva dare, con quale autorità fai queste cose? Donde ti viene tale potere?».
   Gesù li guarda fisso. Non è né aggressivo né sprezzante, ma molto imponente. Dice: «Anche Io ho da farvi una domanda, e se mi risponderete Io vi dirò con quale autorità Io, uomo senza autorità di cariche e povero – perché ciò è questo che volete dire – faccio queste cose. Dite: il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal Cielo o dall’uomo che lo impartiva? Rispondetemi. Con quale autorità Giovanni lo dava come rito purificatore per prepararvi alla venuta del Messia, se Giovanni era ancor più povero, indotto di Me e senza cariche di sorta, essendo vivente nel deserto dalla sua fanciullezza?».
   Gli scribi e i sacerdoti si consultano fra loro. La gente, con occhi spalancati e orecchie ben aperte, pronta alla protesta e all’acclamazione, se gli scribi squalificano il Battista e offendono il Maestro o se appaiono sconfitti dalla domanda del Rabbi di Nazaret, divinamente sapiente, si stringe intorno. Colpisce il silenzio assoluto di questa folla in attesa della risposta. È così profondo che si sentono le aspirazioni e i bisbigli dei sacerdoti o scribi, che parlano fra loro senza quasi usar la voce e occhieggiano intanto il popolo, del quale intuiscono i sentimenti pronti ad esplodere.
   Infine si decidono a rispondere. Si volgono al Cristo che, appoggiato ad una colonna, le braccia conserte sul petto, li scruta senza mai perderli d’occhio, e dicono: «Maestro, noi non sappiamo per quale autorità Giovanni faceva questo né donde veniva il suo battesimo. Nessuno ha pensato a chiederlo al Battista mentre era vivo ed egli, spontaneamente, mai lo ha detto».
   «E nemmeno Io vi dirò con quale autorità faccio tali cose». E volge loro le spalle chiamando a Sé i dodici e, fendendo la folla che acclama, esce dal Tempio.

20 Quando già sono fuori, oltre la Probatica, essendo usciti da quella parte, Bartolomeo gli dice: «Sono divenuti molto prudenti i tuoi avversari. Forse stanno convertendosi al Signore che ti ha mandato e a riconoscerti per Messia santo».
   «È vero. Non hanno discusso la tua domanda né la tua risposta…», dice Matteo.
   «Così sia. È bello che Gerusalemme si converta al Signore Dio suo», dice ancora Bartolomeo.
   «Non vi illudete! Quella porzione di Gerusalemme non si convertirà mai. Non hanno risposto in altro modo perché hanno temuto la folla. Io leggevo i loro pensieri anche se non sentivo le loro parole sommesse».
   «E che dicevano?», domanda Pietro.
   «Questo dicevano. Ho desiderio che voi lo sappiate per conoscerli a fondo e possiate dare ai futuri un’esatta descrizione dei cuori degli uomini al mio tempo. Essi non mi hanno risposto non per conversione al Signore. Ma perché fra loro hanno detto: “Se noi rispondiamo: ‘Il battesimo di Giovanni veniva dal Cielo’, il Rabbi ci risponderà: ‘E allora perché non avete creduto a ciò che veniva dal Cielo e indicava preparazione al tempo messianico?’; e se diremo: ‘Dall’uomo’, allora sarà la folla che si ribellerà dicendo: ‘E allora perché non credete a ciò che Giovanni, nostro profeta, disse di Gesù di Nazaret?’. È dunque meglio dire: ‘Non sappiamo’”. Ecco cosa dicevano. Non per conversione a Dio, ma per calcolo vile e per non avere a confessare con le loro bocche che Io sono il Cristo e faccio queste cose che faccio perché sono l’Agnello di Dio del quale parlò il Precursore. E neppure Io ho voluto dire con quale autorità faccio queste cose che faccio. Già molte volte l’ho detto fra quelle mura e in tutta la Palestina, e i miei prodigi parlano ancor più delle mie parole. Ora non lo dirò più con le mie parole. Lascerò che parlino i profeti e il Padre mio, e i segni del Cielo. Perché il tempo è venuto in cui tutti i segni verranno dati. Quelli detti dai profeti e segnati dai simboli della nostra storia, e quelli che Io ho detto: il segno di Giona; vi ricordate di quel giorno a Cedes? E il segno che attende Gamaliele. Tu Stefano, tu Erma e tu Barnaba che hai lasciato i compagni, oggi, per seguirmi, certo molte volte avete sentito il rabbi parlare di quel segno. Ebbene, presto il segno sarà dato».
   Si allontana su per gli uliveti del monte, seguito dai suoi e da molti discepoli (dei settantadue) oltre altri, come Giuseppe Barnaba, che lo segue per sentirlo parlare ancora.

 21Dice Gesù:
   «Qui metterai la seconda parte del lunedì, ossia i discorsi fatti nella notte ai miei apostoli (visione del 6-3-45)».

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Lc 16, 19-31: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.

Vangelo Lc 16, 19-31
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
“Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti” .

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Vetus e Novus Ordo

   Cap. CXCI. Il sabato a Esdrelon. Il piccolo Jabé e la parabola del ricco Epulone.

  16 giugno 1945.

 1 «Consegna a Michea tanto denaro che domani egli possa ricompensare quanto oggi si è fatto prestare dai contadini di questa zona » dice Gesù a Giuda Iscariota, che generalmente amministra le… sostanze comuni. E poi Gesù chiama Andrea e Giovanni e li manda in due punti in cui si può vedere la strada o le strade che vengono da Jezrael. Chiama poi Pietro e Simone e li manda incontro ai contadini di Doras con l’ordine di fermarli presso il confine fra le due proprietà. Infine dice a Giacomo e Giuda: «Prendete le cibarie e venite».
   Li seguono i contadini di Giocana, donne, uomini e bambini, e gli uomini portano due piccole anfore, piccole per modo di dire, che devono essere colme di vino. Più che anfore sono giarre e conterranno su per giù quei dieci litri ognuna. (Prego sempre non prendere le mie misure per articolo di fede). Vanno là dove un folto vigneto, già tutto coperto di foglie novelle, indica la fine dei possessi di Giocana. Oltre vi è un largo fossato, mantenuto pieno d’acqua con chissà che fatica.
   «Vedi? Giocana si è litigato con Doras per questo. Giocana diceva: ‘Colpa di tuo padre se tutto è  rovina. Se non lo voleva adorare, almeno lo doveva temere e non provocare’. E Doras urlava, pareva un demonio: ‘Tu ti sei salvato le terre per questo fosso. Le bestie non l’hanno varcato…’. E Giocana diceva: ‘E allora come a te tanta rovina mentre prima i tuoi campi erano i più belli di Esdrelon? E’ il castigo di Dio, credilo. Avete passata la misura. Quest’acqua?… C’è sempre stata e non è essa che mi ha salvato’. E Doras urlava: ‘Questo prova che Gesù è un demonio’. ‘E’ un giusto’ urlava Giocana. E sono andati avanti per un pezzo, finché ebbero fiato, e dopo Giocana fece con grande spesa derivare acque dal torrente e scavare per cercare altre acque nel suolo e fare tutto un ordine di fossi a confine fra lui e il parente e li fece fare più fondi, e a noi disse quello che ti abbiamo detto ieri… In fondo lui è felice di quanto è accaduto. Era tanto invidioso di Doras… Ora spera di poter comperare tutto, perché Doras finirà col vendere tutto per due spiccioli.»

 2 Gesù ascolta con benignità tutte queste confidenze e intanto attende  i poveri contadini di Doras, che non tardano a venire e che si prostrano al suolo non appena vedono Gesù al riparo di un albero. «Pace a voi, amici. Venite. Oggi la sinagoga è qui ed Io sono il vostro sinagogo. Ma prima voglio essere il vostro padre di famiglia. Sedete in cerchio, che vi dia un cibo. Oggi avete lo Sposo, e facciamo un convito di nozze.»
   E Gesù scopre una cesta e ne trae pani che dà agli stupiti contadini di Doras, e dall’altra leva quelle cibarie che ha potuto trovare: formaggi, verdure che ha fatto cucinare e un piccolo caprettino o agnellino, cotto intero, che spartisce ai poveri disgraziati, poi versa il vino e fa circolare il rozzo calice perché tutti bevano.
   «Ma perché? Ma perché? E loro?» dicono quelli di Doras accennando a quelli di Giocana.
   «Loro hanno già avuto».
   «Ma che spesa! Come hai potuto?»
   «Ci sono ancora dei buoni in Israele» dice Gesù sorridendo.
   «Ma oggi è sabato…»
   «Ringraziate quest’uomo» dice Gesù accennando all’uomo di Endor. «E’ lui che ha procurato l’agnello. Il resto fu facile averlo».
   Quei poveretti divorano – è la parola – il cibo da tanto sconosciuto.

 3 Vi è uno, piuttosto vecchio, che si stringe al fianco un fanciullo di un dieci anni circa; mangia e piange.»
   «Perché, padre, fai così?… » chiede Gesù.
   «Perché la tua bontà è troppa…»
   L’uomo di Endor dice con la sua voce gutturale: “E’ vero… e fa piangere. Ma il pianto è senza amaro…»
   «E’ senza amaro. E’ vero. E poi… io vorrei una cosa. E’ anche desiderio questo pianto».
   «Che vuoi, padre?».
   «Questo fanciullo, lo vedi? E’ mio nipote. Mi è rimasto dopo la frana di questo inverno. Doras neppure sa che mi ha raggiunto, perché lo faccio vivere come una bestia selvatica nel bosco e solo al sabato lo vedo. Se me lo scopre, o lo caccia o lo mette al lavoro… e sarà peggio di un animale da soma questo tenero mio sangue… A Pasqua lo manderò con Michea a Gerusalemme per divenire figlio della Legge… e poi… E’ il figlio di mia figlia…»
   «Lo daresti a Me, invece? Non piangere. Ho tanti amici che sono onesti, santi e senza figli. Lo alleveranno santamente, nella mia via…».
   «Oh! Signore! Da quando ho saputo di Te l’ho desiderato. E pregavo il santo Giona, lui che sa cosa è essere di questo padrone, di salvare il mio nipote da questa morte…»
   «Fanciullo, verresti con Me?».
   «Sì, mio Signore. E non ti darò dolore».
   «E’ detto».

 4 «Ma… a chi lo vuoi dare?» chiede Pietro tirando Gesù per una manica.
   «A Lazzaro anche questo?».
   «No, Simone. Ma ce ne sono tanti senza figli…»
   «Ci sono anche io… ». Il viso di Pietro pare fino affilarsi nel desiderio.
   «Simone, te l’ho detto. Tu devi essere il ‘padre’ di tutti i figli che Io ti lascerò in eredità. Ma non devi avere la catena di nessun figlio tuo proprio. Non ti mortificare. Tu sei troppo necessario al Maestro perché il Maestro possa staccarti da Sé per un affetto. Sono esigente, Simone. Sono esigente più di uno sposo gelosissimo. Ti amo con ogni predilezione e ti voglio tutto per Me e di Me».
   «Va bene, Signore… Va bene… Sia fatto come Tu vuoi». Il povero Pietro è eroico nel suo aderire a questa volontà di Gesù.
   «Sarà il figlio della mia nascente Chiesa. Va bene ? Di tutti e di nessuno. Sarà il ‘nostro’ bambino. Ci seguirà quando lo permetteranno le distanze, o ci raggiungerà, e i suoi tutori saranno i pastori, loro che amano nei bambini tutti il ‘loro’ bambino Gesù. Vieni qui, fanciullo. Come ti chiami?».
   «Jabé di Giovanni, e son di Giuda» dice sicuro il ragazzo.
   «Sì. Siamo Giudei noi” conferma il vecchio.
   «Io lavoravo nelle terre di Doras in Giudea, e mia figlia si è sposata con uno di quelle parti. Lavorava ai boschi presso Arimatea e quest’inverno…»
   «Ho visto la sventura».
   «Il fanciullo si è salvato perché quella notte era da un parente lontano… Veramente si è portato il nome, Signore! L’ho detto subito a mia figlia: ‘Perché? Non ricordi l’antico?” Ma il marito volle chiamarlo così, e Jabé fu».
   «’Il fanciullo invocherà il Signore e il Signore lo benedirà e dilaterà i suoi confini, e la mano del Signore è sulla sua mano, ed egli non sarà più oppresso dal male’. Questo gli concederà il Signore per consolare te, padre, gli spiriti dei morti, e confortare l’orfano.

 5 Ed ora che abbiamo separato il bisogno del corpo da quello dell’anima con un atto di amore al fanciullo, ascoltate la parabola che ho pensato per voi.
   Vi era un tempo un uomo molto ricco. Le vesti più belle erano le sue, e nei suoi abiti di porpora e bisso si pavoneggiava nelle piazze e nella sua casa, riverito dai cittadini come il più potente del paese, e dagli amici che lo secondavano nella sua superbia per averne utile. Le sue sale erano aperte ogni giorno in splendidi banchetti in cui la folla degli invitati, tutti ricchi, e perciò non bisognosi, si pigiavano adulando il ricco Epulone. I suoi banchetti erano celebri per abbondanza di cibi e di vini prelibati.
   Ma nella stessa  città vi era un mendico, un grande mendico. Grande nella sua miseria come l’altro era grande nella sua ricchezza. Ma sotto la crosta della miseria umana del mendico Lazzaro vi era celato un tesoro ancora più grande della miseria di Lazzaro e della ricchezza dell’ Epulone. Ed era la santità vera di Lazzaro. Egli non aveva mai trasgredito alla Legge, neppure sotto la spinta del bisogno, e soprattutto aveva ubbidito al precetto dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Egli, come sempre fanno i poveri, si accostava alle porte dei ricchi per chiedere l’obolo e non morire di fame. E andava ogni sera alla porta dell’Epulone sperando averne almeno le briciole dei pomposi banchetti che avvenivano nelle ricchissime sale.
   Si sdraiava sulla via, presso la porta, e paziente attendeva. Ma se l’Epulone si accorgeva di lui lo faceva scacciare, perché quel corpo coperto di piaghe, denutrito, in vesti lacere, era una vista troppo triste per i suoi convitati. L’Epulone diceva così. In realtà era perché quella vista di miseria  e di bontà era un rimprovero continuo per lui. 
Più pietosi di lui erano i suoi cani, ben pasciuti, dai graziosi collari, che si accostavano al povero Lazzaro e gli leccavano le piaghe, mugolando di gioia per le sue carezze, e giungevano a portargli gli avanzi delle ricche mense, per cui Lazzaro sopravviveva alla denutrizione per merito degli animali, perché per mezzo dell’uomo sarebbe morto, non concedendogli l’uomo neppure di penetrare nella sala dopo il convito per raccogliere le briciole cadute dalle mense. 

 6 Un giorno Lazzaro morì. Nessuno se ne accorse sulla terra, nessuno lo pianse. Anzi ne giubilò l’Epulone di non vedere quel giorno né poi quella miseria che egli chiamava ‘obbrobrio’ sulla sua soglia. Ma in Cielo se ne accorsero gli angeli. E al suo ultimo anelito, nella sua tana fredda e spoglia, erano presenti le coorti celesti, che in un folgoreggiare di luci ne raccolsero l’anima portandola con canti di osanna nel seno di Abramo.
   Passò qualche tempo e morì l’Epulone. Oh! che funerali fastosi! Tutta la città, che già sapeva della sua agonia e che si pigiava sulla piazza dove sorgeva la sua dimora per essere notata come amica del grande, per curiosità, per interesse presso gli eredi, si unì al cordoglio, e gli ululi salirono al cielo e con gli ululi del lutto le lodi bugiarde al ‘grande’, al ‘benefattore’, al ‘giusto’ che era morto.
   Può parola d’uomo mutare il giudizio di Dio? Può apologia umana cancellare quanto è scritto sul libro della Vita? No, non può. Ciò che è giudicato è giudicato, e ciò che è scritto è scritto. E nonostante i funebri solenni, l’Epulone ebbe lo spirito sepolto nell’inferno. Allora, in quel carcere orrendo, bevendo e mangiando fuoco e tenebre, trovando odio e torture in ogni dove e in ogni attimo di quella eternità, alzo lo sguardo al Cielo. Al Cielo che aveva visto in un bagliore di folgore, in un atomo di minuto, e la cui non dicibile bellezza gli rimaneva presente ad essere tormento fra i tormenti atroci. E vide lassù Abramo. Lontano ma fulgido, beato… e nel suo seno, fulgido e beato pure egli, era Lazzaro, il povero Lazzaro un tempo spregiato, repellente, misero, ed ora?… Ed ora era bello della luce di Dio e della sua santità, ricco dell’amore di Dio, ammirato non dagli uomini ma dagli angeli di Dio.
   Epulone gridò piangendo: “Padre Abramo, abbi pietà di me! Manda Lazzaro, poiché io non posso sperare che tu stesso lo faccia, manda Lazzaro ad intingere la punta del suo dito nell’acqua e a posarla sulla mia lingua, per rinfrescarla, perché io spasimo per questa fiamma che mi penetra di continuo e mi arde!
   Abramo rispose. “Ricordati, figlio, che tu avesti tutti i beni in vita, mentre Lazzaro ebbe tutti i mali. E lui seppe del male fare un bene mentre tu non sapesti dai tuoi beni fare nulla che male non fosse. Perciò è giusto che ora lui sia qui consolato e che tu soffra.
   Inoltre non è più possibile farlo. I santi sono sparsi sulla terra perché gli uomini di loro se ne avvantaggino. Ma quando, nonostante ogni vicinanza, l’uomo resta quello che è – nel tuo caso, un demonio – è inutile poi ricorrere ai santi. Ora noi siamo separati. Le erbe sul campo sono mescolate. Ma una volta che sono falciate vengono separate dalle buone le malvagie. Così è di voi e di noi. Fummo insieme sulla terra e ci cacciaste, ci tormentaste in tutti i modi, ci dimenticaste, contro l’amore. Ora siamo divisi. Fra voi e noi c’è un tale abisso che quelli che vogliono passare da qui a voi non  possono, né voi, che lì siete, potete valicare l’abisso tremendo per venire a noi.

 7 Epulone piangendo più forte gridò: “Almeno, o padre santo, manda, io te ne prego, manda Lazzaro a casa di mio padre. Ho cinque fratelli. Non ho mai capito neppure l’amore fra parenti. Ma ora, ora comprendo cosa è di terribile essere non amati. E, poi che qui dove io sono è l’odio, ora ho capito, per quell’atomo di tempo che vide la mia anima Iddio, cosa è l’Amore. Non voglio che i miei fratelli soffrano le mie pene. Ho terrore per loro che fanno la mia stessa vita. Oh! manda Lazzaro ad avvertirli di dove io sono, e perché ci sono, e a dire loro che l’inferno è, ed è atroce, e che chi non ama Dio e il prossimo all’inferno viene. Mandalo! Che in tempo provvedano, e non abbiano a venire qui, in questo luogo di eterno tormento”.
   Ma Abramo rispose: “I tuoi  fratelli hanno Mosè ed i Profeti. Ascoltino quelli.” 
E con gemito di anima torturata rispose l’Epulone: “Oh! padre Abramo! Farà loro più impressione un morto… Ascoltami! Abbi pietà!”
   Ma Abramo disse: “Se non hanno ascoltato Mosè e i Profeti, non crederanno nemmeno ad uno che risusciti per un’ora dai morti per dire loro parole di Verità. E d’altronde non è giusto che un beato lasci il mio seno per andare a ricevere offese dai figli del Nemico. Il tempo delle ingiurie per esso è passato. Ora è nella pace e vi sta, per ordine di Dio che vede l’inutilità di un tentativo di conversione presso coloro che non credono neppure alla parola di Dio e non la mettono in pratica”.
   Questa la parabola, il cui significato è così chiaro da non meritare neppure una spiegazione.

 8 Qui veramente è vissuto conquistando la santità il Lazzaro novello, il mio Giona, la cui gloria presso Dio è palese nella protezione che dà a chi spera in Lui. A voi sì che Giona può venire, protettore e amico, e ci verrà se sarete sempre buoni. Io vorrei, e dico a voi ciò che dissi a lui la scorsa primavera, Io vorrei potervi tutti aiutare, anche materialmente, ma non posso, ed è il mio dolore. Non posso che additarvi il Cielo. Non posso che insegnarvi la grande sapienza della rassegnazione promettendovi il Regno futuro. Non odiate mai, per nessuna ragione. L’Odio è forte nel mondo. Ma ha sempre un limite l’Odio. L’Amore non ha limite di potenza né di tempo. Amate perciò, per possederlo a difesa e conforto sulla terra e a premio in Cielo. Meglio essere Lazzari che Epuloni, credetelo. Giungete a crederlo e sarete beati.
   Non sentite nel castigo di questi campi una parola d’odio, anche se i fatti lo potevano giustificare. Non leggete male nel miracolo. Io sono l’Amore e non avrei colpito. Ma visto che l’Amore non poteva piegare l’Epulone crudele, l’ho abbandonato alla Giustizia, ed essa ha fatto le vendette del martire Giona e dei suoi fratelli. Voi imparate questo dal miracolo. Che la Giustizia è sempre vigile anche se pare assente e che, essendo Dio Padrone di tutto il creato, si può servire, per l’applicazione di essa, dei minimi quali i bruchi e le formiche per mordere il cuore del crudele e dell’avido e farlo morire in un rigurgito di veleno che lo strozza.

 9 Io vi benedico, ora. Ma per voi pregherò ogni nuova aurora. E tu, padre, non avere più affanno per l’agnello che mi affidi. Te lo riporterò ogni tanto perché tu possa giubilare vedendolo crescere in sapienza e bontà sulla via di Dio. Sarà il tuo agnello di questa tua povera Pasqua, il più gradito degli agnelli presentati all’altare di Geové. Jabé, saluta il vecchio padre e poi vieni al tuo Salvatore, al tuo Pastore buono. La pace sia con voi!».
   «Oh! Maestro! Maestro buono! Lasciarti!…».
   «Sì. E’ penoso. Ma non è bene che il sorvegliante qui vi trovi. Sono venuto apposta qui per evitarvi punizioni. Ubbidite per amore all’Amore che vi consiglia».
   I disgraziati si alzano con le lacrime agli occhi e vanno alla loro croce. Gesù li benedice ancora e poi, con la mano del fanciullo nella sua, e con l’uomo di Endor dall’altro lato, torna per la via già fatta alla casa di Michea, raggiunto da Andrea e da Giovanni che, finito il loro turno di guardia, si ricongiungono ai confratelli.

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Vangelo Mt 20, 17-28: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dòminano su di esse e i capi le opprimono».

Vangelo Mt 20, 17-28
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici discepoli e lungo il cammino disse loro: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà».
Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli disse loro: «Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, si sdegnarono con i due fratelli. Ma Gesù li chiamò a sé e disse: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dòminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
“Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Vetus e Novus Ordo 

   Cap. DLXXVII. Terzo annuncio della Passione. Maria d’Alfeo rievoca la figura di Giuseppe. L’insensata richiesta dei figli di Zebedeo.

   8 marzo 1947

 1 L’alba appena schiarisce il cielo e rende ancora difficile il cammino quando Gesù lascia Doco ancora dormente. Lo scalpiccio dei passi non è certo udito da alcuno, perché è cauto e perché la gente dorme ancora nelle case chiuse. Nessuno parla sinché sono fuori della città, nella campagna che si ridesta lentamente nella parca luce tutta fresca dopo il lavacro delle rugiade. 
   Allora l’Iscariota dice: «Strada inutile, riposo negato. Era meglio non venire sin qui». 
   «Non ci hanno trattato male quei pochi che abbiamo trovato! Hanno perso la notte per ascoltarci e per andare a prendere i malati delle campagne. È stato proprio bene, anzi, di essere venuti. Perché coloro che, per malattia o altra causa, non potevano sperare di vedere il Signore a Gerusalemme, lo hanno visto qui e sono stati consolati con la salute o con altre grazie. Gli altri, si sa, sono andati già alla città… È uso di noi tutti andarvi, sol che si possa, qualche giorno prima della festa», dice Giacomo di Alfeo dolcemente, perché egli è sempre mite, tutto all’opposto di Giuda di Keriot, che anche nelle ore buone è sempre violento e imperioso. 
   «Appunto perché si va anche noi a Gerusalemme, era inutile venire qui. Ci avrebbero sentiti e visti là…». 
   «Ma non le donne e i malati», ribatte interrompendolo Bartolomeo, in aiuto di Giacomo d’Alfeo. 
   Giuda finge di non sentire e dice, come continuando il discorso: «Almeno credo che noi si vada a Gerusalemme, benché ora non ne sono più sicuro dopo il discorso fatto a quel pastore…». 
   «E dove vuoi che si vada se non là?», chiede Pietro. 
   «Mah! Non so. È tutto così irreale ciò che facciamo da qualche mese, tutto così contrario al prevedibile, al buon senso, alla giustizia anche, che…». 
   «Ohè! Ma io ti ho visto bere del latte a Doco, eppure tu parli da ebbro! Dove le vedi le cose contrarie alla giustizia?», chiede Giacomo di Zebedeo con occhi che promettono poco bene. E rincara: «Basta di rimproveri al Giusto! Hai capito che basta? Non hai il diritto, tu, di rimproverarlo. Nessuno ha questo diritto, perché Egli è perfetto, e noi… Nessuno di noi lo è, e tu meno di tutti». 
   «Ma sì! Se sei malato curati, ma non affliggerci con le tue querele. Se sei lunatico, là è il Maestro. Fatti guarire e smettila!», dice Tommaso che perde la pazienza. 

 2 Infatti Gesù è dietro, insieme a Giuda d’Alfeo e Giovanni, e aiutano le donne che, meno use al camminare in penombra, fanno fatica a procedere per il sentiero non buono e anche più oscuro dei campi, perché tagliato in un folto uliveto. E Gesù parla fitto con le donne, estraniandosi da ciò che succede più avanti e che pure è sentito da chi è con Lui, perché, se le parole giungono male, il tono di esse denota che non sono parole piane, ma che già hanno sapore di disputa. 
   I due apostoli, il Taddeo e Giovanni, si guardano… ma non parlano. Guardano Gesù e Maria. Ma Maria è tanto velata dal suo manto che quasi non se ne vede il volto, e Gesù sembra non aver sentito. Però, finito il suo discorso – parlavano di Beniamino e del suo futuro, e parlano della vedova Sara di Afec, che si è stabilita a Cafarnao ed è madre amorosa non soltanto dell’infante di Giscala ma anche dei piccoli figli della donna di Cafarnao (Meroba, vedi Vol 7 Cap 449) che, passata a seconde nozze, non amava più i figli del primo letto e che è morta poi «così male che veramente si è vista la mano di Dio nella sua morte», dice Salome – Gesù va avanti insieme con Giuda Taddeo e si unisce agli apostoli dicendo nell’andarsene: «Resta pure, Giovanni, se vuoi farlo. Io vado a rispondere all’inquieto e a metter pace». 
   Ma Giovanni, fatti ancor pochi passi con le donne, visto che ormai il sentiero si fa più aperto e luminoso, raggiunge di corsa Gesù proprio mentre dice: «Rassicurati, dunque, Giuda. Nulla faremo, come nulla abbiamo mai fatto, di irreale. Anche ora non facciamo cosa contro il prevedibile. Questo è il tempo in cui è prevedibile che ogni vero israelita, non impedito da malattie o cause gravissime, salga al Tempio. E noi al Tempio saliamo». 
   «Non tutti però. Marziam ho sentito che non ci sarà. È forse malato? Per qual motivo non viene? Ti pare di poterlo sostituire col samaritano?». Il tono di Giuda è insopportabile… 
   Pietro mormora: «O prudenza, incatena la lingua a me che sono uomo!», e stringe fortemente le labbra per non dire di più. I suoi occhi, un poco bovini, hanno uno sguardo che commuove, tanto sono visibili in essi lo sforzo che fa l’uomo per frenare il suo sdegno e l’afflizione di sentire Giuda parlare a quel modo. 

 3 La presenza di Gesù tiene ferma ogni lingua. È solo Lui che parla, dicendo con una calma veramente divina: 
   «Venite avanti un poco. Che le donne non sentano. Ho da dirvi una cosa da qualche giorno. Ve l’ho promessa nelle campagne di Tersa. (Vedi capitolo 575. Si tratta dell’annuncio [il terzo dopo quelli dei capitoli 346 e 355 del Vol 5] della Passione, ormai imminente). Ma volevo ci foste tutti a sentirla. Tutti voi. Non le donne. Lasciamole nella loro umile pace… In quello che vi dirò sarà anche la ragione per la quale Marziam non sarà con noi, e non tua madre, Giuda di Keriot, e non le tue figlie, Filippo, e non le discepole di Betlemme di Galilea con la fanciulla. Vi sono cose che non tutti possono sopportare. Io, Maestro, so cosa è bene per i miei discepoli e quanto essi possono o non possono sopportare. Neppur voi siete forti per sopportare la prova. E grazia sarebbe per voi esserne esclusi.    Ma voi dovrete continuarmi e dovete sapere quanto siete deboli per essere in seguito misericordiosi con i deboli.    Perciò voi non potete essere esclusi da questa tremenda prova, che vi darà la misura di ciò che siete, di ciò che siete restati dopo tre anni che siete con Me e di ciò che siete  divenuti  dopo tre anni che siete con Me. Siete dodici. Siete venuti a Me quasi contemporaneamente. Non sono i pochi giorni che vanno dal mio incontro con Giacomo, Giovanni e Andrea, al giorno nel quale anche tu sei stato accolto fra noi, Giuda di Keriot, né a quello che tu, Giacomo fratello mio, e tu, Matteo, siete venuti con Me, quelli che possano giustificare tanta differenza di formazione fra voi. Eravate tutti, anche tu, dotto Bartolmai, anche voi, fratelli miei, molto informi, assolutamente informi rispetto a quanto è formazione nella mia dottrina. Anzi, la vostra formazione, migliore a quella di altri fra voi nella dottrina del vecchio Israele, vi era di ostacolo al formarvi in Me. Eppure, nessuno di voi ha percorso tanta strada quale sarebbe stata sufficiente a portarvi tutti ad un unico punto. Uno lo ha raggiunto, altri vi sono vicini, altri più lontani, altri molto indietro, altri… sì, devo dire anche questo, in luogo di venire avanti sono arretrati. Non vi guardate! Non cercate fra voi chi è il primo e chi è l’ultimo. Colui che, forse, si crede il primo ed è creduto primo, ha ancora da saggiare se stesso. Colui che si crede ultimo sta per risplendere nella sua formazione come una stella del cielo. Perciò, una volta di più, vi dico: non giudicate. I fatti giudicheranno con la loro evidenza. Per ora non potete capire. Ma presto, molto presto ricorderete queste mie parole e le capirete». 
   «Quando? Ci hai promesso di dirci, di spiegarci anche perché la purificazione pasquale sarà diversa quest’anno, e non ce lo dici mai», si lamenta Andrea. 
   «È di questo che vi ho voluto parlare. Perché tanto quelle parole che questa sono un’unica cosa, avendo radice in un’unica cosa. 

 4 Noi, ecco, stiamo ascendendo a Gerusalemme per la Pasqua. E là si compiranno tutte le cose dette dai profeti riguardo al Figlio dell’uomo, come fu ordinato a Mosè nel deserto, l’Agnello di Dio sta per essere immolato e il suo Sangue sta per bagnare gli stipiti dei cuori, e l’angelo di Dio passerà senza percuotere coloro che avranno su di loro, e con amore, il Sangue dell’Agnello immolato, che sta per essere innalzato come il serpente di prezioso metallo sulla barra trasversa, ad essere segno ai feriti dal serpente infernale, per essere salute a coloro che lo guarderanno con amore. Il Figlio dell’uomo, il vostro Maestro Gesù, sta per essere dato nelle mani dei principi dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani, che lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai gentili perché venga schernito. E sarà schiaffeggiato, percosso, sputacchiato, trascinato per le vie come un cencio immondo, e  poi  i  gentili,  dopo averlo flagellato e coronato di spine, lo condanneranno alla morte di croce propria dei malfattori, volendo il popolo ebreo, radunato in Gerusalemme, la sua morte al posto di quella di un ladrone, ed Egli sarà così ucciso. Ma, così come è detto nei segni delle profezie, dopo tre giorni risorgerà. Questa la prova che vi attende.    Quella che mostrerà la vostra formazione. In verità vi dico, a voi tutti che vi credete tanto perfetti da sprezzare quelli che non sono d’Israele, e anche da sprezzare molti dello stesso popolo nostro, in verità vi dico che voi, mia parte eletta del gregge, preso il Pastore, sarete percossi da paura e vi sbanderete fuggendo, quasi che i lupi, che mi azzanneranno da ogni parte, fossero contro di voi rivolti. Ma, ve lo dico: non temete. Non vi sarà torto un capello. Basterò Io a saziare i lupi feroci…». 

 5 Gli apostoli, man mano che Gesù parla, sembrano creature sotto un grandinare di pietre. Si curvano persino, sempre più mano a mano che Gesù parla. E quando Egli termina: «E quanto vi dico è ormai imminente. Non è come le altre volte, che del tempo era davanti all’ora. Adesso l’ora è venuta. Io vado per essere dato ai miei nemici e immolato per la salute di tutti. E questo bocciolo di fiore non avrà ancora perduto i suoi petali, dopo esser fiorito, che Io sarò già morto», chi si ripara il volto con le mani e chi geme come se venisse ferito. L’Iscariota è livido, letteralmente livido… 
   Il primo a riprendersi è Tommaso, che proclama: «Questo non ti accadrà, perché noi ti difenderemo o moriremo insieme a Te, e così dimostreremo che ti avevamo raggiunto nella tua perfezione e che eravamo perfetti nell’amore di Te». 
   Gesù lo guarda senza parlare. 
   Bartolomeo, dopo un lungo silenzio meditabondo, dice: «Hai detto che sarai dato… Ma chi, chi può darti in mano ai tuoi nemici? Ciò non è detto nelle profezie. No. Non è detto. Sarebbe troppo orribile se un tuo amico, un tuo discepolo, un tuo seguace, anche l’ultimo di tutti, ti desse a quelli che ti odiano. No! Chi ti ha udito con amore, anche una volta sola, non può commettere questo delitto. Sono uomini, non belve, non satana… No, mio Signore.    E neppure quelli che ti odiano potranno… Hanno paura del popolo, e il popolo sarà tutto intorno a Te!». 
   Gesù guarda anche Natanaele e non parla. 
   Pietro e lo Zelote parlano fitto fitto fra loro. Giacomo di Zebedeo malmena, a parole, il fratello perché lo vede calmo, e Giovanni risponde: «È perche da tre mesi io so questo» (confidatogli dal Maestro al Vol 8 Cap 540), e due lacrime gli scendono sul volto. I figli di Alfeo parlano con Matteo, che scrolla il capo sconfortato.
   Andrea si volge all’Iscariota: «Tu che hai tanti amici nel Tempio…». 
   «Giovanni conosce lo stesso Anna», ribatte Giuda e termina: «Ma che ci vuoi fare? Che vuoi che possa parola d’uomo se così è segnato?». 
   «Tu credi proprio?», domandano insieme Tommaso e Andrea. 
   «No. Io non credo niente. Sono allarmi inutili. Dice bene Bartolomeo. Tutto il popolo sarà intorno a Gesù. Già lo si vede da questi che si incontrano. E sarà un trionfo. Vedrete che sarà così», dice Giuda di Keriot. 
   «Ma allora perché Egli…», dice Andrea accennando a Gesù che si è fermato per attendere le donne. 
   «Perché lo dice? Perché è impressionato… e perché ci vuole provare. Ma non accadrà nulla. Del resto io andrò…». 
   «Oh! sì. Va’ a sentire!», supplica Andrea. 

 6 Tacciono perché Gesù li segue di nuovo, stando fra la Madre e Maria d’Alfeo. 
   Maria ha un pallido sorriso perché la cognata le mostra dei semi, presi non so dove, e le dice che vuol seminarli a Nazaret dopo la Pasqua, proprio presso la grotticella a Maria tanto cara: «Quando eri bambina io ti ricordo sempre con questi fiori nelle manine. Li chiamavi i fiori della tua venuta. Infatti, quando nascesti, il tuo orto ne era pieno, e quella sera, quando tutta Nazaret corse a vedere la figlia di Gioacchino, i ciuffi di queste stelline erano tutti un diamante per l’acqua che era scesa dal cielo e per l’ultimo raggio di sole che da ponente li colpiva, e posto che ti chiamavi “Stella”, tutti dicevano, guardando quelle tante piccole stelle brillanti: “I fiori si sono ornati a far festa al fior di Gioacchino e le stelle hanno lasciato il cielo per venir dalla Stella”, e sorridevano tutti, felici del presagio e della gioia di padre.

 7 E Giuseppe, il fratello del mio sposo, disse: “Stelle e stille. È veramente Maria!”. Chi glielo avrebbe detto allora che la sua stella avresti dovuto divenire? Quando tornò da Gerusalemme eletto a tuo sposo! Tutta Nazaret gli voleva far festa, perché era grande il suo onore venuto dal Cielo e venuto dagli sponsali con te, figlia di Gioacchino e Anna, e tutti lo volevano a festino. Ma egli con il suo dolce ma fermo volere respinse ogni festa, stupendo tutti, perché quale è quell’uomo, destinato a onorevoli nozze e con tal decreto dell’Altissimo, che non festeggi la sua felicità d’anima e di carne e sangue? Ma egli diceva: “A grande elezione grande preparazione”. E con continenza anche di parole e di cibo, ché ogni altra continenza era sempre stata in lui, passò quel tempo lavorando e pregando, perché credo che ogni colpo di martello, ogni segno di scalpello divenisse orazione, se orare si può col lavoro. Il suo viso era come estatico. Io andavo a riordinare la casa, imbiancare lenzuoli e ogni altro lasciati da tua madre e divenuti gialli nel tempo, e lo guardavo mentre lavorava nell’orto e nella casa a rifarli belli come mai fossero rimasti in abbandono, e gli parlavo anche… ma era come assorto. Sorrideva. Ma non a me o ad altri, ad un suo pensiero che non era, no,  il  pensiero  di  ogni  uomo prossimo a nozze. Quello è sorriso di letizia maliziosa e carnale… Lui… pareva sorridesse agli invisibili angeli di Dio, e con essi parlasse e si consigliasse… Oh! che io ne sono certa che essi lo istruissero sul come trattare te! Perché dopo, altro stupore di tutta Nazaret, e quasi sdegno del mio Alfeo, procrastinò le nozze a quanto più poté, e non si capì mai come d’improvviso si decidesse prima del tempo fissato. E anche quando ti si seppe madre, come stupì Nazaret della sua gioia assorta!… Ma anche il mio Giacomo è un poco così. E sempre più lo diventa. Ora che lo osservo bene – non so perché, ma da quando venimmo ad Efraim mi pare tutto nuovo – lo vedo così… proprio come Giuseppe. Guardalo anche ora, Maria, or che si volge di nuovo a guardarci. Non ha l’aspetto assorto, tanto abituale in Giuseppe, tuo sposo? Sorride di quel sorriso che non so dire se mesto o lontano. Guarda e ha lo sguardo lungo, oltre noi, che aveva Giuseppe tante volte. Ti ricordi come lo stuzzicava Alfeo? Diceva: “Fratello, vedi ancor le piramidi?”. Ed egli scoteva il capo senza parlare, paziente e segreto sui suoi pensieri. Poco ciarliero sempre. Ma da quando tornasti da Ebron! Neppur più veniva solo alla fontana, come prima faceva e come tutti fanno. O con te o al suo lavoro. E men che il sabato alla sinagoga o quando si recava per affari altrove, nessuno può dire di aver visto Giuseppe a zonzo in quei mesi. Poi partiste… Che affanno non saper più nulla di voi dopo la strage! Alfeo si spinse sino a Betlemme… “Partiti”, dissero. Ma come credere se vi odiavano a morte nella città dove ancora rosseggiava il sangue innocente e fumavano le rovine e vi si faceva accusa che per voi quel sangue era scorso?    Andò a Ebron e poi al Tempio, perché Zaccaria aveva il suo turno. Elisabetta non gli dette che lacrime, Zaccaria parole di conforto. L’una e l’altro, in affanno per Giovanni, temendo nuove ferocie, l’avevano nascosto e trepidavano per lui. Di voi nulla sapevano, e Zaccaria disse ad Alfeo: “Se sono morti, il loro sangue è su me, perché io li persuasi a rimanere a Betlemme”. 

 8 La mia Maria! Il mio Gesù visto così bello alla Pasqua che seguì la sua nascita! E non saperne nulla. Per tanto! Ma perché mai una notizia?». 
   «Perché bene era tacere. Là dove eravamo, molte erano le Marie e i Giuseppe, e bene era passar per una coppia qualunque di sposi», risponde quieta Maria e sospira: «Ed erano, nella loro tristezza, giorni ancor felici. Il male era così lontano ancora! Se tanto mancava alle nostre persone umane, lo spirito si saziava della gioia di averti, Figlio mio!». 
   «Anche ora ce l’hai, Maria, il Figlio tuo. Manca Giuseppe, è vero! Ma Gesù è qui e col suo completo amore di adulto», osserva Maria d’Alfeo. 
   Maria alza il capo a guardare il suo Gesù. E lo strazio è nel suo sguardo anche se la bocca sorride lievemente. Ma non aggiunge parola. 

 9 Gli apostoli si sono fermati ad attenderli e si riuniscono tutti, anche Giacomo e Giovanni che erano indietro a tutti con la madre loro. E mentre riposano dal cammino fatto e alcuni mangiano un poco di pane, la madre di Giacomo e Giovanni si avvicina a Gesù e si prostra davanti a Lui che non si è neppur seduto, frettoloso di riprendere il cammino. 
   Gesù la interroga, perché è palese in lei il desiderio di chiedere qualcosa: «Che vuoi, donna? Parla». 
   «Concedimi una grazia, prima che Tu te ne vada così come dici». 
   «E quale?». 
   «Quella di ordinare che questi miei due figlioli, che per Te tutto hanno lasciato, seggano uno alla tua destra e
l’altro alla tua sinistra quando Tu sarai seduto, nella tua gloria, nel tuo Regno». 
Gesù guarda la donna e poi guarda i due apostoli e dice: «Voi avete suggerito questo pensiero a vostra madre, interpretando molto male le mie promesse di ieri. (Pur avendo trovato la condiscendenza della madre, che tuttavia non riduce la responsabilità dei due figli [come si legge al Vol 2 Cap 106] per la richiesta insensata).  Il centuplo per ciò che avete lasciato non lo avrete in un regno della Terra. Anche voi dunque divenite avidi e stolti? Ma non voi. È già il crepuscolo mefitico delle tenebre che avanza e l’aria inquinata di Gerusalemme che si avvicina e vi corrompe e accieca… Io vi dico che voi non sapete ciò che chiedete! Potete voi forse bere il calice che berrò Io?». 
   «Noi lo possiamo, Signore». 
   «Come potete dirlo se ancor non avete compreso di quale amaritudine sarà il mio calice? Non sarà solamente l’amarezza che vi descrissi ieri, la mia di Uomo di tutti i dolori. Vi saranno torture che, anche se Io ve le descrivessi, voi non sareste in condizioni di capire… Eppure, sì, poiché – per quanto ancor come due bambini che non conoscono il valore di ciò che chiedono – poiché voi siete due spiriti giusti e amanti di Me, voi certo berrete al mio calice. Però sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a Me di concedervelo. Essa è cosa concessa a quelli ai quali è stato preparato dal Padre mio». 

10 Gli altri apostoli, mentre ancora Gesù parla, sono acerbi nel criticare la richiesta dei figli di Zebedeo e della loro madre. 
   Pietro dice a Giovanni: «Tu poi! Non ti riconosco più per quel che eri!». 
   E l’Iscariota, con il suo sorriso da demonio: «Veramente i primi sono gli ultimi! Tempo di sorprese e di cognizioni…», e ride verde. 
   «Abbiamo forse seguito per gli onori il Maestro nostro?», rimprovera Filippo. 
   Tommaso, invece che ai due, si volge a Salome dicendo: «Perché far mortificare i tuoi figli? Se non loro, tu dovevi riflettere e impedire questo». 
   «È vero. Nostra madre non lo avrebbe fatto», dice il Taddeo. 
   Bartolomeo non parla, ma il suo volto è tutto una disapprovazione. 
   Simone Zelote dice, a calmare lo sdegno: «Tutti possiamo errare…».    
   Matteo, Andrea e Giacomo di Alfeo non parlano, anzi visibilmente soffrono dell’incidente che incrina la bella perfezione di Giovanni. 
   Gesù fa un gesto per imporre silenzio e dice: «E che? Da un errore ne verranno molti? Voi, che rimproverate indignati, non vi accorgete di peccare voi pure? Lasciate stare questi vostri fratelli. Il mio rimprovero è sufficiente.    Il loro avvilimento è palese, il loro pentimento umile e sincero. Dovete amarvi fra voi, sorreggervi a vicenda.    Perché, in verità, nessuno di voi è perfetto ancora. Voi non dovete imitare il mondo e gli uomini di esso. Nel mondo, voi lo sapete, i principi delle nazioni le signoreggiano e i loro grandi esercitano su di esse il potere in nome dei principi. Ma tra voi così non deve essere. Non deve essere in voi smania di signoreggiare sugli uomini, né sui compagni. Anzi, chi tra voi vorrà diventare maggiore si faccia vostro ministro e chi vuol essere primo si faccia servo di tutti. Così come ha fatto il Maestro vostro. Son forse venuto per opprimere e signoreggiare? Per essere servito?    No, in verità, no. Io sono venuto per servire. E così, come il Figlio dell’uomo non è venuto ad essere servito, ma per servire e per dare la vita sua in redenzione di molti, così voi dovrete saper fare, se vorrete essere come Io sono e dove Io sono. Ora andate. E siate in pace fra voi come Io lo sono con voi». 

11 Mi dice Gesù: 
   «Segna molto il punto: «“…voi certo berrete al* mio calice”. Nelle traduzioni si legge: “il mio calice”. Ho detto “al mio”, non “il mio”. Nessun uomo avrebbe potuto bere il mio calice. Io solo, Redentore, l’ho dovuto bere tutto il mio calice. Ai miei discepoli, ai miei imitatori e amanti, certo è concesso bere a quel calice dove Io bevvi, per quella stilla, quel sorso, o quei sorsi, che la predilezione di Dio concede loro di bere. Ma mai nessuno lo berrà tutto il calice come Io lo bevvi. Dunque è giusto dire “al mio calice” e non “il mio calice”». 
   (L’espressione “bere il calice” sembra tradotta correttamente dal testo greco degli evangelisti Matteo e Marco; ma potrebbe essere interpretata anche come “bere al calice” se detta in aramaico, la lingua parlata da Gesù, nella quale non vi sarebbe distinzione di forma tra “bere il calice” e “bere al calice”).

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!