Beato Federico Ozaman prega per noi – 8 settembre

All’inizio del XIX secolo, la famiglia Ozanam era già da tempo cristiana, e, a ogni modo, era fiera di far risalire le sue origini a un ebreo, Samuele Hosannam, convertito al cristianesimo da S. Didier (Deodato di Nevers, 19 giu.) durante il viri secolo. Antonio Federico (Antoine Frédéric) nacque a Milano il 23 aprile 1813, uno dei quattro figli che sopravvissero dei quattordici di Giovanni Antonio e Maria Nantas. Giovanni Antonio, che per un certo periodo fu ufficiale nell’esercito di Napoleone, si era trasferito a Milano dopo aver lasciato l’esercito, svolgendo il tirocinio come medico.

Nel 1816, dopo la caduta dell’impero, la famiglia si spostò a Lione, dove Federico, precoce dal punto di vista spirituale e intellettivo, ma anche, secondo la sua valutazione personale, pensieroso e testardo, fu istruito al collegio Reale.

All’età di soli quindici anni, gli studi filosofici provocarono una grave crisi religiosa. Il modo sensibile e intelligente con cui fu guidato dal suo professore e mentore, l’abate Noirot, rafforzò la sua fede e lo convinse fermamente che il fine della sua vita avrebbe dovuto essere quello di dedicarsi al «servizio della verità».

Allo scoppio della rivoluzione nel 1830, Federico studiava diritto, con soddisfazione del padre, che sperava che un giorno sarebbe diventato giudice. L’anno seguente si recò a Parigi, dove avvennero due episodi cruciali.

In primo luogo, si accorse che il suo vero interesse non era la legge, ma la letteratura e, più in particolare, la storia della letteratura; secondariamente, instaurò un certo numero di relazioni significative che avrebbero poi influenzato il corso della sua vita.

Partecipava attivamente ai dibattiti generati dalla rivoluzione, e all’età di soli diciotto anni, pubblicò un lungo articolo, Réflexions sur la doctrine de Saint-Simon, in cui denunciò la forma di liberalismo allora in voga, la sua fede nel progresso umano illimitato e la tendenza al panteismo.

Quest’articolo attirò l’attenzione di un certo numero di pensatori cattolici liberali, inclusi Félicité de Lamennais, capo del gruppo, il domenicano Enrico Domenico Lacordaire e lo storico Charles de Montalembert. Altri amici significativi di quel periodo furono lo storico Frarnois René de Chateaubriand, il poeta Alfonso de Lamartine, e forse il più importante di tutti, Emanuele Bailly.

Il contatto con il gruppo che si raccolse attorno a Lamennais mise in grado Federico di affinare le sue idee sulla natura della libertà (l’unica vera libertà, arrivò a pensare, è quella di «una coscienza cristiana illuminata da una valida filosofia e dalla rivelazione») e sull’importanza di una prospettiva storica.

In quest’ultimo aspetto, in seguito criticò Lamennais, poiché pensava che quest’ultimo, in contrasto con i pensatori conservatori che non riuscivano a riconoscere l’importanza del futuro, avesse abbandonato la ~peni.* natica e con essa la fede del passato. Ammirava Chateaubriand peniamone per la saggezza con cui pensava di mantenere un equilibrio tra passato, presente e futuro. Federico mantenne i contatti con tutti i membri di questo circolo, e riuscì a portare Lacordaire sul pulpito di Notre-Dame, affinché le sue omelie quaresimali potessero giungere a un uditorio più ampio.

Il contatto con Emanuel Bailly portò concretezza al pensiero di Federico, e un interesse pratico.

Si unì al piccolo gruppo di giovani che Bailly stava guidando dal 1819 nella speranza di un rinascimento religioso in Francia, e subito difese accesamente la religione cristiana nel contesto storico, letterario e sociale.

In seguito a queste discussioni, giunse a capire che l’impegno cristiano consiste sia/e (piuttosto che sia/o) nel fatto che l’attività apostolica deve essere nutrita da una fede profonda, e che quest’ultima deve condurre all’azione.

È spesso ritenuto il fondatore di quella che divenne nota come la società di S. Vincenzo de’ Paoli, ma è più giusto considerarlo solo un collaboratore. Fu il braccio destro di Bailly e lo spirito che animò il nuovo progetto, che coinvolse anche altri quattro giovani. Sebbene la società non fosse istituita ufficialmente prima del 1835, seguiva le norme delineate da FranQois Lallier, e la prima conférence de charité (così chiamata in contrasto con le conférences sulla politica economica e la filosofia storica che Federico aveva contribuito a organizzare sin dal 1832) ebbe luogo il 23 aprile 1833.

Bailly stesso fu presidente in carica per i successivi undici anni, e Federico vicepresidente. La società seguiva il metodo delle visite domestiche di cui S. Vincenzo de’ Paoli (27 set.) era stato pioniere, e nelle prime fasi i membri furono istruiti e appoggiati da una figlia della Carità, Rosalia Rendu, nota a Parigi come “la madre dei poveri”, che aveva lavorato tra i poveri della città per trent’anni quando Federico la incontrò, e che probabilmente conosceva maggiormente la loro realtà rispetto a lui e ai suoi compagni.

Il ruolo di Rosalia Rendu nella fondazione della Società di S. Vincenzo de’ Paoli merita di essere più riconosciuto. Nel 1836, quando Federico aveva appena ottenuto il dottorato in legge, il padre morì, e il ragazzo passò un periodo di crisi. Giovanni Antonio aveva desiderato per il figlio una carriera legale: si combattevano battaglie intellettuali all’epoca, nel campo della letteratura, e, in senso più ampio, della storia e della filosofia. Non occorse molto tempo a Federico per decidere: si considerò come «un missionario della fede per la scienza e la società», e seguì la sua inclinazione. Cominciò a studiare per il dottorato in letteratura e nel 1839 discusse la sua tesi, Essai sur la philosophie de Dante.

In seguito tornò a Lione, dove per un anno fu professore di diritto commerciale all’università. Come esposizione dell’insegnamento sociale cattolico, le ventiquattro conferenze del suo corso facevano riferimento all’enciclica Rerum Novarum (1891) e persino al Manifesto del partito comunista (1848).

Per tutto questo periodo aveva pensato di diventare sacerdote, ma nel 1840 gli fu offerto il posto d’assistente di letteratura straniera (in altre parole europea non francese) alla Sorbona.

Considerandolo un mandato di Dio, si trasferì definitivamente a Parigi; nel giugno del 1841 sposò Amalia Soulacroix, figlia del rettore dell’università di Lione, da cui ebbe una figlia, Maria, nata nel 1845. Fu un matrimonio straordinariamente felice e sebbene stranamente emergano pochi dettagli su di lei dalle fonti usuali della vita di Federico, l’amore e la fedeltà della moglie indubbiamente contribuirono a rendere possibile il suo lavoro.

Oltre agli incarichi presso l’università (nel 1844 gli fu affidata la cattedra di letteratura straniera), alle conferenze che teneva presso il Circolo cattolico, e alle sue visite regolari ai poveri, Federico continuò ad accogliere a casa gli studenti, cosa che sarebbe stata difficile senza il grandissimo sostegno della moglie.

Era molto amato dagli allievi, ispirati dal suo entusiasmo e dall’integrità intellettuale e morale. Uomo saggio e moderato, era ben conscio delle difficoltà di condurre una vita cristiana, e ammise che egli stesso doveva lottare contro l’arroganza, l’impazienza e la tendenza al perfezionismo che lo ostacolavano.

Oltre a questa attività, si dedicò anche alla stesura di opere. Federico conosceva bene le lingue classiche, oltre all’ebraico e al sanscrito, e sapeva il tedesco, l’inglese, lo spagnolo, e l’italiano in particolare. Queste capacità gli permisero di addentrarsi nel vasto mondo della letteratura, che egli metteva in relazione, come sempre, con la storia del cristianesimo.

Nel 1846, disse a un amico che progettava di scrivere «una storia letteraria del Medioevo dal v secolo a Dante», tuttavia, aggiunse: «studiando lenerson ~amò soprattutto tutte le opere del cristianesimo». La morte precoce impedì il completamento di questo progetto, ma le opere finite sono abbastanza numerose.

Esistono due volumi sulla civiltà del v secolo e due volumi rispettivamente per il cristianesimo in Germania, e per la civiltà cristiana dei franchi. A parte due miscellanee, il resto è dedicato alla poesia e alla filosofia: un’opera sui poeti francescani dell’Italia del xin secolo (Amalie tradusse i Fioretti per questo volume), una su Dante e la filosofia cattolica, e infine una sul Purgatorio di Dante, in cui Federico si occupò della traduzione e della redazione.

Tra le opere minori si trovano Les Deux Chanceliers d’Angleterre (1835), un doppio studio su S. Tommaso Becket (29 dic.) e Francesco Bacone.

Nel 1848, credendo che i cattolici partecipassero attivamente alla creazione di uno stato democratico, sostenne il partito popolare contro Luigi Filippo. Pur non vincendo, Lacordaire lottò con successo per uno dei seggi di Marsiglia. Insieme fondarono nel 1851 L’Ère Nouvelle per esprimere le loro idee socialiste cristiane (ma furono delusi quando Napcileone III assunse il potere).

Come la maggior parte delle persone che non hanno una salute robusta e la cui energia intellettuale è particolarmente notevole, Federico si spinse al limite delle sue forze.

Nel 1850, sapeva già che la sua malattia era incurabile, e fu anche a causa dei problemi di salute che si recò in Italia nel 1853, oltre che per accettare la funzione di membro della prestigiosa Accademia della Crusca, che desiderava dargli un riconoscimento per il suo contributo agli studi sui francescani e su Dante. Durante questo soggiorno, divenne membro del Terz’ordine di S. Francesco, ma sulla via del ritorno a Parigi ebbe un collasso a Marsiglia, dove morì l’8 settembre 1853, circondato dalla sua famiglia e dai membri del ramo marsigliese della società di S. Vincenzo de’ Paoli.

Il corpo fu portato a Parigi, e sepolto nella cripta della chiesa carmelitana vicino all’Istituto Cattolico. Antonio

Federico Ozanam è stato beatificato nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi il 22 agosto 1997 da papa Giovanni Paolo II, che l’ha presentato come un modello per i laici nella Chiesa. «Siamo pieni d’ammirazione», ha detto, «per tutto ciò che questo studente, professore e uomo di famiglia, ardente di fede e di inventiva nella carità, è stato capace di ottenere per la Chiesa, la società, e per i poveri, nel corso di una vita che è finita troppo presto.»

La vita di Federico fu, in verità, tragicamente corta, e tuttavia al tempo della morte, la Società di S. Vincenzo de’ Paoli si era estesa per tutta la Francia e stava iniziando a espandersi all’estero, e l’Trlanda fu uno dei primi paesi (nel 1844) a tenere un convegno. Oggi la società ha circa un milione di membri in centotrentadue paesi, e le donne sono accolte in alcuni congressi.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Marsiglia in Francia, transito del beato Federico Ozanam, che, uomo di insigne cultura e pietà, difese e propagò con la sua alta dottrina le verità della fede, mise la sua assidua carità a servizio dei poveri nella Società di San Vincenzo de’ Paoli e, padre esemplare, fece della sua famiglia una vera chiesa domestica.

Nome: Beato Federico Ozanam
Titolo: Fondatore
Nome di battesimo: Antoine-Frédéric Ozanam
Nascita: 23 aprile 1813, Milano
Morte: 8 settembre 1853, Marsiglia, Francia
Ricorrenza: 8 settembre
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione

 «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”.

Vangelo Mt 1,1-16.18-23

Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo.
Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esrom, Esrom generò Aram, Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmon, Salmon generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide.
Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa, Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asaf, Asaf generò Giosafat, Giosafat generò Ioram, Ioram generò Ozìa, Ozìa generò Ioatàm, Ioatàm generò Acaz, Acaz generò Ezechìa, Ezechìa generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosìa, Giosìa generò Ieconìa e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia.
Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconìa generò Salatièl, Salatièl generò Zorobabele, Zorobabele generò Abiùd, Abiùd generò Eliachìm, Eliachìm generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa Dio con noi.

Impegno del giorno: affidarsi alla Volontà di Dio.


Natività della Beata Vergine Maria – 8 settembre

I fortunati genitori di Maria furono S. Gioachino e S. Anna.

La nascita della SS. Vergine fu preannunziata fin dall’inizio quando il Signore promise all’umanità decaduta un’altra donna che avrebbe schiacciato il capo a’ serpente. E giunta la pienezza dei tempi, Maria apparve come stella mattutina nel mare tempestoso del mondo, pura, santa, piena di grazia.

Maria nacque santa, poiché fu concepita senza macchia originale e piena di ogni grazia. La grazia che ebbe la SS. Vergine sorpassò la grazia non solo di ciascun santo, ma di tutti gli Angeli ed i Beati del cielo, e questo a ben ragione perché Maria era destinata a divenire Madre di Dio. Ora se Maria fu eletta ad essere Madre di Dio, era necessario che Dio l’adornasse d’una grazie corrispondente alla dignità eccelsa cui l’aveva destinata. Inoltre Maria era destinata ad essere mediatrice d tutte le grazie e perciò ebbe una grazia superiore quella di tutte le altre creature.

La SS. Trinità concorse a gara per preparare la Madre di Dio. Concorse il Padre rendendo Maria immune dalla macchia originale, perché era la sua figlia e figlia primogenita: « Io uscii dalla bocca dell’Altissimo primogenita prima di tutte le creature »; perché la destinò a riparatrice del mondo e mediatrice di pace tra gli uomini e Dio, e infine perché la prescelse come Madre del suo Unigenito. Concorse il Figliuolo che aveva eletto Maria per sua Madre: Maria fu degna del divin Salvatore. Concorse lo Spirito Santo conservandola intatta perché doveva essere la sua sposa. E sappiamo che questo Sposo Divino amò Maria più che tutti gli altri Santi ed Angeli assieme.

E Maria corrispose a tutti i favori celesti: fin dal primo istante usò fedelmente delle grazie che le erano state concesse.

Ai piedi della culla di Maria diciamole con San Bernardo: Ricordati, o Maria, che non per te fosti fatta così grande, ma per noi poveri peccatori.

PRATICA. Facciamo un atto di fede nella grandezza di Maria e preghiamola affinché ci ottenga un grande odio al peccato.

PREGHIERA. Deh! Signore elargisci ai tuoi servi il dono della grazia celeste, affinché come la maternità della Vergine fu per essi il principio della salvezza, così la devota solennità della sua nascita aumenti la loro pace.

MARTIROLOGIO ROMANO. Natività della beatissima sempre Vergine Maria, Madre di Dio.

Nome: Natività della Beata Vergine Maria
Titolo: Nascita della SS. Vergine
Ricorrenza: 8 settembre
Tipologia: Festa
Patrona di: Vicenza, Bra, Terlizzi, Niscemi, Montecchio Maggiore, Meda, Mondovì, Pergine Valsugana, Monserrato, Cordenons >>> altri comuni

PREGHIERA A MARIA BAMBINA

Dolce Bambina Maria,
che destinata ad essere madre di Dio
sei pur divenuta augusta sovrana
e amatissima madre nostra,
per i prodigi di grazie che compisti fra noi,
ascolta pietosa le mie umili supplice.
Nei bisogni che mi premono da ogni parte,
e specialmente nell’affanno che ora mi tribola,
tutta la mia speranza è in te riposta.
O santa Bambina,,
in virtù dei privilegi che a te sola furono concessi
e dei meriti che hai acquistati,
mostrati ancora oggi verso di me pietosa.
Mostra che la sorgente dei tesori spirituali
e dei beni continui che dispensi è inesauribile,
perché illimitata è la tua potenza sul cuore paterno di Dio.
Per quell’immensa profusione di grazie
di cui l’Altissimo ti arricchì
fin dai primi istanti del tuo immacolato concepimento,
esaudisci, o celeste Bambina, la mia supplica,
e loderò in eterno la bontà del tuo cuore. Amen

Vangelo Mt 1, 1-16:”Giacobbe generò Giuseppe, sposo di Maria, da cui nacque Gesù chiamato il Cristo”.

Matteo 1:1-16
Libro della generazione di Gesú Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli. Giuda generò Fares e Zara da Tamar. Fares generò Esron, Esron generò Aram, Aram generò Amínadab, Amínadab generò Naasson, Naasson generò Salmon, Salmon generò Booz da Raab. Booz generò Obed da Ruth, Obed generò Iesse. Iesse generò il re Davide, Davide generò Salomone da colei che era stata di Uria. Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abia, Abia generò Asa, Asa generò Giosafat, Giosafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Achaz, Achaz generò Ezechia, Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amon, Amon generò Giosia, Giosia generò Geconia e i suoi fratelli al tempo della deportazione in Babilonia. Dopo la deportazione in Babilonia Geconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabele, Zorobabele generò Abiud, Abiud generò Eliacim, Eliacim generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliud, Eliud generò Eleazar, Eleazar generò Matan, Matan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, sposo di Maria, da cui nacque Gesù chiamato il Cristo.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
“Giacobbe generò Giuseppe, sposo di Maria, da cui nacque Gesù chiamato il Cristo”.

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Vetus Ordo

   Cap. XXV. Presentazione di Giovanni Battista al Tempio e partenza di Maria. La Passione di Giuseppe

   5-6 aprile 1944.

   25.1 Nella notte fra il mercoledì e il giovedì della settimana santa vedo così.
   Da un comodo carro, al quale è legato anche il somarello di Maria, vedo scendere Zaccaria, Elisabetta e Maria con in braccio il piccolo Giovanni, e Samuele con un agnello e una cesta col colombo. Scendono davanti al solito stallaggio, che deve esser la tappa di tutti i pellegrini al Tempio, per depositare le loro cavalcature.
   Maria chiama l’ometto che ne è padrone e chiede se nessun nazareno è giunto nella giornata di ieri o nelle prime ore del mattino. «Nessuno, donna», risponde il vecchietto. Maria resta stupita, ma non aggiunge altro.
   Fa sistemare da Samuele il ciuchino e poi raggiunge i due maturi genitori e spiega il ritardo di Giuseppe: «Sarà stato trattenuto da qualche cosa. Ma oggi verrà certo». Riprende il bambino, che aveva consegnato a Elisabetta, e si avviano al Tempio.

   25.2 Zaccaria è ricevuto con onore dalle guardie e salutato e complimentato da altri sacerdoti. È tutto bello, oggi, Zaccaria nelle sue vesti sacerdotali e nella sua gioia di padre felice. Pare un patriarca. Penso che Abramo gli doveva somigliare quando gioiva di offrire Isacco al Signore.
Vedo la cerimonia della presentazione del nuovo israelita e la purificazione della madre. Ed è ancor più pomposa di quella di Maria, perché per il figlio di un sacerdote i sacerdoti fanno gran festa. Accorrono in massa e si dànno un gran da fare intorno al gruppetto delle donne e del neonato.
   Anche della gente si è accostata curiosa e odo i commenti. Dato che Maria ha sulle braccia l’infante mentre si avviano al luogo stabilito, la gente la crede la madre.
   Ma una donna dice: «Non può essere. Non vedete che Ella è incinta? Il bambino non ha più di pochi giorni ed Ella è già grossa».
   «Eppure», dice un altro, «non può esser che Ella la madre. L’altra è vecchia. Sarà una parente. Ma madre a quell’età non può essere».
   «Andiamo loro dietro e vedremo chi ha ragione».
E lo stupore diviene ben grande quando si vede che colei che compie il rito della purificazione è Elisabetta, la quale offre il suo agnellino belante per l’olocausto e il suo colombo per il peccato.
   «La madre è quella. Hai visto?».
   «No!».
   «Sì».
   La gente bisbiglia incredula ancora. Bisbiglia tanto che un «Ssst!» imperioso parte dal gruppo sacerdotale presente al rito. La gente tace un momento, ma bisbiglia più forte quando Elisabetta, raggiante di santo orgoglio, prende il bambino e si inoltra nel Tempio per farne la presentazione al Signore.
   «È proprio quella».
   «È sempre la madre che lo offre».
   «Che miracolo è mai questo?».
   «Che sarà quel bambino concesso in così tarda età a quella donna?».
   «Qual segno è mai questo?».
   «Non sapete?», dice uno che giunge trafelato. «È figlio del sacerdote Zaccaria della stirpe di Aronne, quello che divenne muto mentre offriva l’incenso nel Santuario».
   «Mistero! Mistero! E ora parla di nuovo! La nascita del figlio gli ha slegata la lingua».
   «Quale spirito gli avrà mai parlato e resa morta la sua lingua per abituarlo al silenzio sui segreti di Dio?».
   «Mistero! Quale verità conoscerà Zaccaria?».
   «Sia il figlio suo il Messia atteso da Israele?».
   «In Giudea è nato. Ma non a Betlem e non da una vergine. Messia esser non può».
   «Chi dunque mai?».
   Ma la risposta resta nei silenzi di Dio, e la gente rimane con la sua curiosità.
   Il cerimoniale è compiuto. I sacerdoti festeggiano, ora, anche la madre e il piccino. L’unica poco osservata, anzi schivata quasi con ribrezzo[62] quando si accorgono del suo stato, è Maria.

   25.3 Finite tutte le felicitazioni, i più tornano sulla via, e Maria vuole tornare allo stallaggio per vedere se è giunto Giuseppe. Non è giunto. Maria resta delusa e pensierosa.
   Elisabetta si preoccupa per Lei. «Fino all’ora sesta possiamo restare, ma poi dobbiamo partire per essere a casa avanti la prima vigilia. È ancor troppo piccino per stare oltre nella notte».
E Maria, calma e mesta: «Resterò in un cortile del Tempio. Andrò dalle mie maestre… Non so. Qualcosa farò».
   Zaccaria interviene con un progetto subito accettato come buona risoluzione. «Andiamo dai parenti di Zebedeo. Giuseppe certo là ti cerca e, se non avesse a venire là, ti sarà facile trovare chi ti accompagna verso la Galilea, ché in quella casa è un continuo andare e venire di pescatori di Genezareth».
   Prendono il ciuchino e vanno da questi parenti di Zebedeo, i quali altro non sono che quelli dai quali hanno sostato Giuseppe e Maria or sono quattro mesi.
   Le ore passano veloci e Giuseppe non compare. Maria domina il suo cruccio ninnando il piccolo, ma si vede che è pensierosa. Come per nascondere il suo stato, non si è mai levato il manto, nonostante il caldo intenso che fa sudare tutti.

   25.4 Finalmente un gran picchio alla porta annuncia Giuseppe. Il volto di Maria splende rasserenato.
   Giuseppe la saluta, poiché Ella si presenta per prima e lo saluta con riverenza. «La benedizione di Dio su te, Maria!».
   «E su di te, Giuseppe. E lode al Signore che sei venuto! Ecco, Zaccaria ed Elisabetta stavano per partire, per esser a casa avanti notte».
   «Il tuo messo giunse a Nazareth mentre io ero a Cana per dei lavori. Ieri l’altro a sera lo seppi. E subito partii. Ma, per quanto abbia camminato senza sostare, ho fatto tardi, perché s’era perso un ferro all’asinello. Perdona!».
   «Tu perdona per esser stata tanto tempo lontana da Nazareth! Ma, vedi, tanto felici erano    d’avermi seco, che ho voluto accontentarli sino ad ora».
   «Bene hai fatto, Donna. Il bambino dove è?».
   Entrano nella stanza dove è Elisabetta che dà il latte a Giovanni avanti di partire. Giuseppe complimenta i genitori per la robustezza del bambino che, staccato dalla mammella per mostrarlo a Giuseppe, strilla e scalcia come lo scorticassero. Ridono tutti davanti alle sue proteste. Anche i parenti di Zebedeo, che sono accorsi portando frutta fresca e latte e pane per tutti e un gran vassoio di pesce, ridono e si uniscono alla conversazione degli altri.

   25.5 Maria parla molto poco. Sta quieta e silenziosa, seduta nel suo angolino con le mani in grembo sotto il suo manto. E, anche quando beve una tazza di latte e mangia un grappolo d’uva dorata con un poco di pane, poco parla e poco si muove. Guarda Giuseppe con un misto di pena e di indagine.
   Anche egli la guarda. E dopo qualche tempo, curvandosi sulla sua spalla, le chiede: «Sei stanca o soffri? Sei pallida e triste».
   «Ho dolore a separarmi da Giovannino. Gli voglio bene. L’ho avuto sul cuore da pochi momenti nato…».
   Giuseppe non chiede altro.
   L’ora della partenza di Zaccaria è venuta. Il carro si ferma alla porta e tutti si avviano ad esso. Le due cugine si abbracciano con amore. Maria bacia e ribacia il piccino prima di deporlo sul grembo della madre, già seduta nel suo carro. Poi saluta Zaccaria e gli chiede la benedizione. Nell’inginocchiarsi davanti al sacerdote, il manto le scivola dalle spalle e le forme le appaiono nella luce intensa del pomeriggio estivo. Non so se Giuseppe le noti in questo momento, intento come è a salutare Elisabetta. Il carro parte.

   25.6 Giuseppe rientra in casa con Maria, che riprende il suo posto nell’angolo semioscuro. «Se non ti spiace viaggiare di notte, io proporrei di partire al tramonto. Il caldo è forte nel giorno. La notte invece è fresca e quieta. Dico per te, per non farti prendere troppo sole. Per me è cosa da nulla stare sotto al solleone. Ma tu…».
   «Come vuoi, Giuseppe. Credo io pure che sia bene andare di notte».
   «La casa è tutta in ordine. E l’orticello. Vedrai che bei fiori! Giungi in tempo per vederli tutti fiorire. Il melo, il fico e la vite sono carichi di frutti come non mai, e il melograno ho dovuto sorreggerlo, tanto ha i rami carichi di frutti così già formati che mai si vide esser tali di questo tempo. L’ulivo, poi… Avrai olio in abbondanza. Ha fatto una fiorita miracolosa e non si è perso un fiore. Tutti sono già piccole ulive. Quando saranno mature, la pianta sembrerà piena di scure perle. Non c’è che il tuo orto così bello in tutta Nazareth. Anche i parenti ne sono stupiti. E Alfeo dice che questo è un prodigio».
   «Le tue cure lo hanno creato».
   «Oh! no! Povero uomo! Che devo aver fatto io? Un poco di cura alle piante ed un poco d’acqua ai fiori… Sai? Ti ho fatto una fonte in fondo, presso la grotta, e vi ho messo una vasca. Così non avrai ad uscire per aver l’acqua. L’ho condotta da quella sorgente che sta sopra all’uliveto di Mattia. È pura e abbondante. Un piccolo rivolo l’ho condotto a te. Ho fatto un piccolo canale ben coperto, e ora viene e canta come un’arpa. Mi doleva che tu andassi alla fonte del paese e ne tornassi carica delle anfore piene d’acqua».
   «Grazie, Giuseppe. Tu sei buono!».
   I due sposi tacciono, ora, come stanchi. E Giuseppe sonnecchia anche. Maria prega.

   25.7 Viene la sera. Gli ospiti insistono perché prima di mettersi in viaggio i due mangino ancora. Giuseppe mangia infatti pane e pesce. Maria solo frutta e latte.
Poi partono. Montano sui loro ciuchini. Giuseppe ha legato sul suo, come nel venire, il cofano di Maria, e prima che Ella monti sul somarello osserva che la sella sia ben sicura. Vedo che Giuseppe osserva Maria quando monta in sella. Ma non dice nulla.
Il viaggio ha inizio sotto le prime stelle che cominciano a palpitare in cielo. Si affrettano alle porte per giungervi avanti che siano chiuse, forse. Quando escono da Gerusalemme e prendono la via maestra che va verso la Galilea, le stelle gremiscono ormai tutto il cielo sereno. E un grande silenzio è per la campagna. Solo si sente cantare qualche usignolo e il battere degli zoccoli dei due asinelli sul terreno duro della via arsa dall’estate.

   
   25.8 Dice Maria:
   «È la vigilia del Giovedì santo. A taluni parrà fuori posto questa visione. Ma il tuo dolore di amante del mio Gesù Crocifisso è nel tuo cuore e vi resta anche se una dolce visione si presenta. Essa è come il tepore che si sviluppa da una fiamma, che è ancora fuoco ma non è già più fuoco. Il fuoco è la fiamma, non il tepore di essa, che ne è unicamente una derivazione. Nessuna visione beatifica o pacifica varrà a toglierti quel dolore dal cuore. E tienilo caro più della tua stessa vita. Perché è il dono più grande che Dio possa concedere ad un credente nel suo Figlio. Inoltre non è la mia, nella sua pace, visione disforme alle ricorrenze di questa settimana.

   25.9 Anche il mio Giuseppe ha avuto la sua Passione. Ed essa è nata in Gerusalemme quando gli apparve il mio stato. Ed essa è durata dei giorni come per Gesù e per me. Né essa fu spiritualmente poco dolorosa. E unicamente per la santità del Giusto che m’era sposo fu contenuta in una forma, che fu talmente dignitosa e segreta che è passata nei secoli poco notata.
   Oh! la nostra prima Passione! Chi può dirne la intima e silenziosa intensità? Chi il mio dolore nel constatare che il Cielo non mi aveva ancora esaudita rivelando a Giuseppe il mistero?
   Che egli lo ignorasse l’avevo compreso vedendolo meco rispettoso come di solito. Se egli avesse saputo che portavo in me il Verbo di Dio, egli avrebbe adorato quel Verbo, chiuso nel mio seno, con atti di venerazione che sono dovuti a Dio e che egli non avrebbe mancato di fare, come io non avrei ricusato di ricevere, non per me, ma per Colui che era in me e che io portavo così come l’Arca dell’alleanza portava il codice di pietra e i vasi della manna.
   Chi può dire la mia battaglia contro lo scoramento, che voleva soverchiarmi per persuadermi che avevo sperato invano nel Signore? Oh! io credo che fu rabbia di Satana! Sentii il dubbio sorgermi alle spalle e allungare le sue branche gelide per imprigionarmi l’anima e fermarla nel suo orare. Il dubbio che è così pericoloso, letale allo spirito. Letale, perché è il primo agente della malattia mortale che ha nome “disperazione” e al quale si deve reagire con ogni forza, per non perire nell’anima e perdere Dio.
   Chi può dire con esatta verità il dolore di Giuseppe, i suoi pensieri, il turbamento dei suoi affetti? Come piccola barca presa in gran bufera, egli era in un vortice di opposte idee, in una ridda di riflessioni l’una più mordente e più penosa dell’altra. Era un uomo, in apparenza, tradito dalla sua donna. Vedeva crollare insieme il suo buon nome e la stima del mondo, per lei si sentiva già segnato a dito e compassionato dal paese, vedeva il suo affetto e la sua stima in me cadere morti davanti all’evidenza di un fatto.

   25.10 La sua santità qui splende ancor più alta della mia. Ed io ne rendo questa testimonianza con affetto di sposa, perché voglio lo amiate il mio Giuseppe, questo saggio e prudente, questo paziente e buono, che non è separato dal mistero della Redenzione, ma sibbene è ad esso intimamente connesso, perché consumò il dolore per esso e se stesso per esso, salvandovi il Salvatore a costo del suo sacrificio e della sua santità.
   Fosse stato men santo, avrebbe agito umanamente, denunciandomi come adultera perché fossi lapidata e il figlio del mio peccato perisse con me. Fosse stato men santo, Dio non gli avrebbe concesso la sua luce per guida in tal cimento. Ma Giuseppe era santo. Il suo spirito puro viveva in Dio. La carità era in lui accesa e forte. E per la carità vi salvò il Salvatore, tanto quando non mi accusò agli anziani, quanto quando, lasciando tutto con pronta ubbidienza, salvò Gesù in Egitto.

   25.11 Brevi come numero, ma tremendi di intensità i tre giorni della Passione di Giuseppe. E della mia, di questa mia prima passione. Perché io comprendevo il suo soffrire, né potevo sollevarlo in alcun modo per l’ubbidienza al decreto di Dio, che mi aveva detto: “Taci!”.
   E quando, giunti a Nazareth, lo vidi andarsene dopo un laconico saluto, curvo e come invecchiato in poco tempo, né venire a me alla sera come sempre usava, vi dico, figli, che il mio cuore pianse con ben acuto duolo. Chiusa nella mia casa, sola, nella casa dove tutto mi ricordava l’Annuncio e l’Incarnazione, e dove tutto mi ricordava Giuseppe a me sposato in una illibata verginità, io ho dovuto resistere allo sconforto, alle insinuazioni di Satana e sperare, sperare, sperare. E pregare, pregare, pregare. E perdonare, perdonare, perdonare al sospetto di Giuseppe, al suo sommovimento di giusto sdegno.
   Figli, occorre sperare, pregare, perdonare per ottenere che Dio intervenga in nostro favore. Vivete anche voi la vostra passione. Meritata per le vostre colpe. Io vi insegno come superarla e mutarla in gioia. Sperate oltre misura. Pregate senza sfiducia. Perdonate per esser perdonati. Il perdono di Dio sarà la pace che desiderate, o figli.

   25.12 Null’altro per ora vi dirò. Sin dopo il trionfo pasquale sarà silenzio. È la Passione. Compassionate il Redentore vostro. Uditene i lamenti e numeratene ferite e lacrime. Ognuna di esse è scesa per voi e per voi fu patita. Ogni altra visione scompaia davanti a questa che vi ricorda la Redenzione compiuta per voi».

   [62] con ribrezzo, poiché la donna incinta era immonda secondo la legge, che prescriveva la purificazione per la puerpera e la circoncisione per il figlio maschio: Genesi 17, 9-14Levitico 12. Il primogenito maschio era consacrato al Signore e poi riscattato, come prescritto in: Esodo 13, 1-2.11-16; 34, 19-20Numeri 3, 13; 18, 15-16. Per la donna sono contemplate altre impurità in: Levitico 15, 18-30, cui si accennerà, per esempio, in 230.3 e 262.8. Oltre ai casi specifici previsti dalla legge (soprattutto in materia di matrimonio e di divorzio) la donna in genere subiva certi trattamenti discriminatori per tradizione rabbinica, come rileviamo in nota a 316.5.

    Cap. XXVI. Giuseppe chiede perdono a Maria. Fede, carità e umiltà per ricevere Dio.

   31 maggio 1944.

   26.1Dopo 53 giorni riprende la Mamma a mostrarsi con questa visione che mi dice da segnare in questo libro. La gioia si riversa in me. Perché vedere Maria è possedere la Gioia.

   26.2Vedo dunque l’orticello di Nazaret. Maria fila all’ombra di un foltissimo melo stracarico di frutta, che cominciano ad arrossare e sembrano tante guance di bambino nel loro roseo e tondo aspetto.
   Ma Maria non è per nulla rosea. Il bel colore, che le avvivava le guance a Ebron, le è scomparso. Il viso è di un pallore di avorio, in cui soltanto le labbra segnano una curva di pallido corallo. Sotto le palpebre calate stanno due ombre scure e i bordi dell’occhio sono gonfi come in chi ha pianto. Non vedo gli occhi, perché Ella sta col capo piuttosto chino, intenta al suo lavoro e più ancora ad un suo pensiero che la deve affliggere, perché l’odo sospirare come chi ha un dolore nel cuore.
   È tutta vestita di bianco, di lino bianco, perché fa molto caldo nonostante che la freschezza ancora intatta dei fiori mi dica che è mattina. È a capo scoperto e il sole, che scherza con le fronde del melo mosse da un lievissimo vento e filtra con aghi di luce fin sulla terra bruna delle aiuole, le mette dei cerchiolini di luce sul capo biondo, e là i capelli sembrano di un oro zecchino.
   Dalla casa non viene nessun rumore, né dai luoghi vicini. Si sente solo il mormorio del filo d’acqua che scende in una vasca in fondo all’orto.

   26.3Maria sobbalza per un picchio dato risolutamente all’uscio di casa. Posa conocchia e fuso e si alza per andare ad aprire. Per quanto l’abito sia sciolto e ampio, non riesce a nascondere completamente la rotondità del suo bacino.
   Si trova di fronte Giuseppe. Maria impallidisce anche nelle labbra. Ora il suo viso pare un’ostia, tanto è esangue. Maria guarda con occhio che interroga mestamente. Giuseppe guarda con occhio che pare supplichi. Tacciono, guardandosi. Poi Maria apre la bocca: «A quest’ora, Giuseppe? Hai bisogno di qualche cosa? Che vuoi dirmi? Vieni».
   Giuseppe entra e chiude la porta. Non parla ancora.
   «Parla, Giuseppe. Che vuoi da me?».
   «Il tuo perdono». Giuseppe si curva come volesse inginocchiarsi. Ma Maria, sempre così riservata nel toccarlo, lo afferra per le spalle risolutamente e glielo impedisce.
   Il colore va e viene dal volto di Maria, che ora è tutta rossa e ora di neve come prima. «Il mio perdono? Non ho nulla da perdonarti, Giuseppe. Non devo che ringraziarti ancora per tutto quanto hai fatto qui dentro in mia assenza e per l’amore che mi porti».
   Giuseppe la guarda, e vedo due grossi goccioloni formarsi nell’incavo del suo occhio profondo, stare lì come sull’orlo di un vaso e poi rotolare giù sulle guance e sulla barba. «Perdono, Maria. Ho diffidato di te. Ora so. Sono indegno di avere tanto tesoro. Ho mancato di carità, ti ho accusata nel mio cuore, ti ho accusata senza giustizia perché non ti avevo chiesto la verità. Ho mancato verso la legge di Dio non amandoti come mi sarei amato…».
   «Oh! no! Non hai mancato!».
   «Sì, Maria. Se fossi stato accusato di un tal delitto, mi sarei difeso. Tu… Non concedevo a te di difenderti, perché stavo per prendere delle decisioni senza interrogarti. Ho mancato verso te recandoti l’offesa di un sospetto. Anche solo un sospetto è offesa, Maria. Chi sospetta non conosce. Io non ti ho conosciuta come dovevo. Ma per il dolore che ho patito,… tre giorni di supplizio, perdonami, Maria».
   «Non ho nulla da perdonarti. Ma, anzi, io ti chiedo perdono per il dolore che ti ho dato».
   «Oh! sì, che fu dolore! Che dolore! Guarda, stamane mi hanno detto che sulle tempie sono canuto e sul viso ho rughe.
   Più di dieci anni di vita sono stati questi giorni!

   26.4Ma perché, Maria, sei stata tanto umile da tacere, a me, tuo sposo, la tua gloria, e permettere che io sospettassi di te?».
   Giuseppe non è in ginocchio, ma sta così curvo che è come lo fosse, e Maria gli posa la manina sul capo e sorride. Pare lo assolva. E dice: «Se non lo fossi stata in maniera perfetta, non avrei meritato di concepire l’Atteso, che viene ad annullare la colpa di superbia che ha rovinato l’uomo. E poi ho ubbidito… Dio mi ha chiesto questa ubbidienza. Mi è costata tanto… per te, per il dolore che te ne sarebbe venuto. Ma non dovevo che ubbidire. Sono l’Ancella di Dio, e i servi non discutono gli ordini che ricevono. Li eseguiscono, Giuseppe, anche se fanno piangere sangue».
   Maria piange quietamente mentre dice questo. Tanto quietamente che Giuseppe, curvo come è, non se ne avvede sinché una lacrima non cade al suolo. Allora alza il capo e — è la prima volta che gli vedo fare questo gesto — stringe le manine di Maria nelle sue brune e forti e bacia la punta di quelle rosee dita sottili, che spuntano come tanti bocci di pesco dall’anello delle mani di Giuseppe.

   26.5«Ora bisognerà provvedere perché…». Giuseppe non dice di più, ma guarda il corpo di Maria, e Lei diviene di porpora e si siede di colpo per non rimanere così esposta, nelle sue forme, allo sguardo che l’osserva. «Bisognerà fare presto. Io verrò qui… Compiremo il matrimonio… Nell’entrante settimana. Va bene?».
   «Tutto quanto tu fai va bene, Giuseppe. Tu sei il capo di casa, io la tua serva».
   «No. Io sono il tuo servo. Io sono il beato servo del mio Signore che ti cresce in seno. Tu benedetta fra tutte le donne d’Israele. Questa sera avviserò i parenti. E dopo… quando sarò qui lavoreremo per preparare tutto a ricevere… Oh! come potrò ricevere nella mia casa Dio? Nelle mie braccia Dio? Io ne morrò di gioia!… Io non potrò mai osare di toccarlo!…».
   «Tu lo potrai, come io lo potrò, per grazia di Dio».
   «Ma tu sei tu. Io sono un povero uomo, il più povero dei figli di Dio!…».
   «Gesù viene per noi, poveri, per farci ricchi in Dio, viene a noi due perché siamo i più poveri e riconosciamo di esserlo. Giubila, Giuseppe. La stirpe di Davide ha il Re atteso e la nostra casa diviene più fastosa della reggia di Salomone, perché qui sarà il Cielo e noi divideremo con Dio il segreto di pace che più tardi gli uomini sapranno. Crescerà fra noi, e le nostre braccia saranno cuna al Redentore che cresce, e le nostre fatiche gli daranno un pane… Oh! Giuseppe! Sentiremo la voce di Dio chiamarci “padre e Madre!”. Oh!…».
   Maria piange di gioia. Un pianto così felice! E Giuseppe inginocchiato, ora, ai suoi piedi, piange col capo quasi nascosto nell’ampia veste di Maria, che le fa una caduta di pieghe sui poveri mattoni della stanzetta.
   La visione cessa qui.
   

   26.6Dice Maria:
   «Nessuno interpreti in modo errato il mio pallore. Non era dato da paura umana. Umanamente mi sarei dovuta attendere la lapidazione. Ma non temevo per questo. Soffrivo per il dolore di Giuseppe. Anche il pensiero che egli mi accusasse, non mi turbava per me stessa. Soltanto mi spiaceva che egli potesse, insistendo nell’accusa, mancare alla carità. Quando lo vidi, il sangue mi andò tutto al cuore per questo. Era il momento in cui un giusto avrebbe potuto offendere la Giustizia, offendendo la Carità. E che un giusto mancasse, egli che non mancava mai, mi avrebbe dato dolore sommo.

   26.7Se io non fossi stata umile sino al limite estremo, come ho detto a Giuseppe, non avrei meritato di portare in me Colui che, per cancellare la superbia nella razza, annichiliva Sé, Dio, all’umiliazione d’esser uomo.

  26.8Ti ho mostrato questa scena, che nessun vangelo riporta, perché voglio richiamare l’attenzione troppo sviata degli uomini sulle condizioni essenziali per piacere a Dio e ricevere la sua continua venuta in cuore.
   Fede. Giuseppe ha creduto ciecamente alle parole del messo celeste[63]. Non chiedeva che di credere, perché era in lui convinzione sincera che Dio è buono e che a lui, che aveva sperato nel Signore, il Signore non avrebbe serbato il dolore d’esser un tradito, un deluso, uno schernito dal suo prossimo. Non chiedeva che di credere in me perché, onesto come era, non poteva pensare che con dolore che altri non lo fosse. Egli viveva la Legge, e la Legge dice: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Noi ci amiamo tanto che ci crediamo perfetti anche quando non lo siamo. Perché allora disamare il prossimo pensandolo imperfetto?
   Carità assoluta. Carità che sa perdonare, che vuole perdonare. Perdonare in anticipo, scusando in cuor proprio le manchevolezze del prossimo. Perdonare al momento, concedendo tutte le attenuanti al colpevole.
   Umiltà assoluta come la carità. Sapere riconoscere che si è mancato anche col semplice pensiero, e non avere l’orgoglio, più nocivo ancora della colpa antecedente, di non voler dire: “Ho errato”. Meno Dio, tutti errano. Chi è colui che può dire: “Io non sbaglio mai”? E l’ancor più difficile umiltà: quella che sa tacere le meraviglie di Dio in noi, quando non è necessario proclamarle per dargliene lode, per non avvilire il prossimo che non ha tali doni speciali da Dio. Se vuole, oh! se vuole, Dio disvela Se stesso nel suo servo! Elisabetta mi “vide” quale ero, lo sposo mio mi conobbe per quel che ero quando fu l’ora di conoscerlo per lui.

   26.9Lasciate al Signore la cura di proclamarvi suoi servi. Egli ne ha un’amorosa fretta, perché ogni creatura che assurga a particolare missione è una nuova gloria aggiunta all’infinita sua, perché è testimonianza di quanto è l’uomo così come Dio lo voleva: una minore perfezione che rispecchia il suo Autore. Rimanete nell’ombra e nel silenzio, o prediletti dalla Grazia, per poter udire le uniche parole che sono di “vita”, per poter meritare di avere su voi e in voi il Sole che eterno splende.
   Oh! Luce beatissima che sei Dio, che sei la gioia dei tuoi servi, splendi su questi servi tuoi e ne esultino nella loro umiltà, lodando Te, Te solo, che sperdi i superbi ma elevi gli umili, che ti amano, agli splendori del tuo Regno».