San Goffredo di Amiens prega per noi – 8 novembre

San Goffredo, Vescovo di Amiens, fu quasi contemporaneo di Goffredo di Buglione, « Avvocato del Santo Sepolcro ». Al tempo della Crociata, egli era giovinetto. Nato da genitori benestanti e devoti, era entrato nell’Abbazia di Monte San Quintino. Vi acquistò una profonda preparazione spirituale, e presto il giovanissimo monaco si distinse come esempio di una austerità piuttosto rara per quei tempi.

Era un devoto dei due Santi calzolai Crispino e Crispiniano. Quando poteva, il 25 ottobre, giorno della loro festa, si recava a Soissons, nel monastero a loro intitolato. Quei monaci celebravano la ricorrenza mangiando e bevendo più del conveniente. Si ricorda perciò un giorno in cui San Goffredo, ancora novizio, uscì in un severo rimprovero e rifiutò di sedersi alla loro mensa.

Fu ordinato sacerdote. Divenne Abate di un altro monastero, a Nogent. Abate zelante, amministratore ottimo. E di cristallina integrità, in tempi di simonia e di compromessi morali. Per i meriti spirituali, e non per tornaconto politico, i feudatari ed il Re lo elessero allora Vescovo di Amiens.

Entrò in città a piedi nudi, in abito da pellegrino, evitando ogni pompa. In tempi nei quali i Vescovi erano considerati soprattutto come potenti signori di città, il suo esempio suscitò un’impressione profonda e consolante.

Goffredo, anzi, come si diceva anticamente, Gottifredo, è nome germanico che significa « pace di Dio ». Un nome devoto e spirituale, insolito tra i nomi germanici, quasi tutti di origine guerresca e paganeggiante. San Goffredo, da Vescovo, cercò senza riposo di ristabilire nella diocesi quella pace di Dio a cui il suo nome accennava. Pace di Dio, che significava spesso guerra da parte di chi non vuole accettare i precetti divini insegnati dalla Chiesa.

E nemici della pace di Dio ce n’erano dappertutto. Ce n’erano tra popolo e tra i feudatari; ce n’erano anche tra i religiosi e i sacerdoti. Perciò la vita del Vescovo San Goffredo fu difficile, la sua attività di riformatore e pacificatore, continuamente ostacolata. Si tentò perfino di avvelenarlo, ma il veleno fece morire un cane, e la povera bestia salvò così la vita del Vescovo.

Un giorno di Natale, i signori del luogo portarono al Vescovo, come di consueto, le loro ricche offerte. Egli le rifiutò, perché l’aspetto di quei gentiluomini era troppo mondano, come troppo frivola era la loro condotta.

Intanto la città di Amiens cercava di organizzarsi in libero Comune, scrollando il giogo dei feudatari. In molte città, i Vescovi, eletti dai feudatari, e gelosi dei propri privilegi temporali, appoggiavano la causa di chi aveva in mano la potenza delle armi e quella del denaro. San Goffredo, invece, fu con il suo popolo, appoggiando l’iniziativa comunale. Il tentativo fallì. I feudatari tornarono in possesso della città, e la vita del Vescovo che amava la giustizia più del proprio tornaconto divenne ancora più difficile.

Il 25 ottobre del 1115, egli era, come al solito, a Soissons, presso la Chiesa dei Santi Crispino e Crispiniano. Partendo, s’ammalò, e dovette essere riportato indietro. L’8 novembre morì, nell’Abbazia dedicata ai due Santi calzolai. Fu sepolto in quella chiesa, ma dovettero passare quattro secoli, prima che le reliquie di San Goffredo, Vescovo di contrastata e difficile vita, ricevessero anch’esse il culto riservato ai Santi.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Soissons in Francia, deposizione di san Goffredo, vescovo di Amiens, che, formatosi per un quinquennio alla vita monastica, patì molto nel ricomporre i dissidi tra i signori e gli abitanti della città e riformare i costumi del clero e del popolo.

Nome: San Goffredo di Amiens
Titolo: Vescovo
Nascita: 1066, Moulincourt, Francia
Morte: 8 novembre 1115, Soissons, Francia
Ricorrenza: 8 novembre
Tipologia: Commemorazione

Vangelo Lc 17, 1-6:«E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai».

Vangelo Novus Ordo Lc 17, 1-6
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«È inevitabile che vengano scandali, ma guai a colui a causa del quale vengono. È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi!
Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai».
Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe».


Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’

Paralleli Novus ordo

   Cap. CCCLII. Un peccatore convertito dalla Maddalena. Parabola per il piccolo Beniamino e lezione su chi è il più grande, sullo scandalo ai bambini e sull’uso del nome di Gesù.

   6 Dicembre 1945

 1 E proprio mentre si incendiano cielo e lago per i fuochi del tramonto, essi tornano verso Cafarnao. Sono contenti. Parlano fra di loro. Gesù parla poco, ma sorride. Notano che, se il messaggero fosse stato più preciso, avrebbero potuto risparmiare sulla strada. Ma però, anche, dicono che la fatica è valsa, perché un gruppo di piccoli figli ha avuto un padre guarito quando già raffreddava per la morte vicina, e anche perché non sono più senza un minimo di denaro.
   «Ve lo avevo detto che il Padre avrebbe provveduto a tutto », dice Gesù.
   «Ed è un antico amante di Maria di Magdala?», chiede Filippo.
   «Pare… A quello che ci hanno detto… », risponde Tommaso.
   «A Te, Signore, che disse l’uomo?», chiede Giuda d’Alfeo.
   Gesù sorride evasivamente.
   «Io l’ho visto più di una volta con lei quando andavo a Tiberiade con amici. Questo è certo», asserisce Matteo.
   «Su, fratello, accontentaci… L’uomo ti chiese solo di guarire o di essere perdonato anche?», chiede Giacomo d’Alfeo.
   «Che domanda senza ragione! Quando mai il Signore non esige pentimento per concedere grazia?», dice l’Iscariota con alquanto sdegno per Giacomo d’Alfeo. 
   «Mio fratello non ha detto una stoltezza. Gesù guarisce o libera e poi dice: “Và e non peccare”», gli risponde il Taddeo.
   «Ma perché vede già il pentimento nei cuori», ribatte l’Iscariota.
   «Negli indemoniati non c’è pentimento né volontà di essere liberati. Non uno lo ha dimostrato tutto ciò. Ricordati ogni caso e vedrai che o fuggivano o si avventavano nemici, o quanto meno, tentavano l’una o l’altra cosa, e non vi riuscivano solo perché impediti a completarla dai parenti», replica il Taddeo.
   «E dal potere di Gesù», aumenta lo Zelote.
   «Ma allora Gesù tiene conto del volere dei parenti che rappresentano il volere dell’indemoniato, il quale, se non fosse impedito dal demonio, vorrebbe liberazione».
   «Oh! quante sottigliezze! E per i peccatori allora? Mi pare che usi la stessa formula, anche se non sono indemoniati», dice Giacomo di Zebedeo.
   «A me ha detto: “Seguimi”, e non gli avevo ancora detto una parola io, in merito al mio stato», osserva Matteo.
   «Ma te la vedeva in cuore», dice l’Iscariota che vuole avere sempre ragione ad ogni costo.

 2 «E va bene! Ma quell’uomo, a voce di popolo grande libidinoso e grande peccatore, e non indemoniato, o meglio non posseduto – perché un demonio, coi suoi peccati, lo doveva avere a maestro se non a possessore – moribondo, e così via, cosa ha chiesto insomma? Stiamo andando a passeggio fra le nubi, mi pare… Stiamo alla prima domanda », dice Pietro.
   Gesù lo accontenta: «Quell’uomo ha voluto essere solo con Me per poter parlare con libertà. Non ha esposto subito il suo stato di salute… ma quello dello spirito suo. Ha detto: “Sono morente, ma non ancora come ho fatto credere per poterti avere con sollecitudine. Ho bisogno del tuo perdono per guarire. Mi basta questo. Se guarire non mi farai, mi rassegnerò. L’ho meritato. Ma fà salva l’anima mia”, e mi ha confessato le sue colpe… ». Gesù dice così, ma il suo viso splende di gioia.
   «E tu ne sorridi, Maestro? Mi fa specie! », osserva Bartolomeo.
   «Si, Bartolomai. Ne sorrido perché esse non sono più e perché con le colpe ho saputo il nome della redentrice. L’apostolo fu una donna in questo caso».
   «Tua Madre!», dicono in molti.
   E altri: «Giovanna di Cusa! Se lui andava a Tiberiade sovente, forse la conosce».
   Gesù scrolla il capo.
   Gli chiedono: «Chi allora?».
   «Maria di Lazzaro», risponde Gesù.
   «È venuta qui? Perché non si è fatta vedere da nessuno di noi?».
   «Non è venuta. Ha scritto al suo antico compagno di colpa. Ho letto le lettere. Supplicano tutte la stessa cosa: di ascoltarla, di redimersi come lei si è redenta, di seguirla nel bene come l’aveva seguita nella colpa, e con parole di lacrime lo pregano di alleggerire l’anima di Maria dal rimorso di avere sedotto la sua anima. E lo ha convertito. Tanto che si era isolato nella sua campagna per vincere le tentazioni delle città. La malattia, più di rimorso d’anima che di fisico, ha finito di prepararlo alla Grazia. Ecco. Siete contenti adesso? Comprendete ora perché sorrido?».
   «Si, Maestro», dicono tutti. E poi, vedendo che Gesù allunga il passo come per isolarsi, si mettono a bisbigliare fra di loro…

 3 Sono già alle viste di Cafarnao quando, allo sbocco della via fatta da loro con quella che costeggia il lago venendo da Magdala, incrociano i discepoli venuti a piedi evangelizzando da Tiberiade. Tutti meno Marziam, i pastori e Mannaen, che sono andati da Nazaret verso Gerusalemme con le donne. E anzi i discepoli sono aumentati per qualche altro elemento che si è unito a loro di ritorno dalla missione e che porta seco nuovi proseliti della dottrina cristiana.
   Gesù li saluta dolcemente, ma subito si torna ad isolare in una meditazione ed orazione profonda, avanti di qualche passo da loro.
   Gli apostoli invece si imbrancano con i discepoli, specie coi più influenti, ossia Stefano, Erma, il sacerdote Giovanni, Giovanni lo scriba, Timoneo, Giuseppe di Emmaus, Ermasteo (che da quel che capisco vola sulla via della perfezione), Abele di Betlemme di Galilea, la cui madre è in fondo alla turba con altre donne. E discepoli e apostoli si scambiano domande e risposte su quanto è avvenuto da quando si sono lasciati. Così viene raccontato della guarigione e della conversione di oggi, e del miracolo dello statere nella bocca del pesce… Questo, per le cause che lo hanno originato, suscita un grande parlare che si propaga da fila a fila come un fuoco appiccato a paglie asciutte…


 4 Dice Gesù: 
«Qui metterete la visione del 7 marzo 1944: “Il piccolo Beniamino di Cafarnao”, senza il commento. E proseguirete con il resto della lezione e della visione. Và avanti».
   Premetto di omettere l’ultima frase: «La visione mi cessa qui ecc.». Sarebbe fuori luogo ora che la visione prosegue.


   7 Marzo 1944

 5 Vedo Gesù che cammina per una strada di campagna, seguito e contornato dai suoi apostoli e discepoli.
   Il lago di Galilea traluce poco lontano tutto quieto e azzurro sotto un bel sole o di primavera o di autunno, perché non è un sole violento come quello estivo. Ma direi che è primavera, perché la natura è molto fresca, senza quei toni dorati e stanchi che si vedono in autunno.
   Sembra che, data la sera che si avvicina, Gesù si ritiri nella casa ospitale e si diriga perciò al paese che si vede già apparire. Gesù, come fa sovente, è qualche passo più avanti dei discepoli. Due o tre, non di più, ma tanto da poter isolarsi nei suoi pensieri, bisognoso di silenzio, dopo una giornata di evangelizzazione. Cammina assorto, tenendo nella mano destra un rametto verde, certo colto a qualche cespuglio, col quale frusta leggermente, soprappensiero, le erbe della proda.
   Dietro di Lui i discepoli parlano invece animatamente. Rievocano gli episodi della giornata e non hanno la mano troppo leggera per pesare i difetti altrui e le altrui cattiverie. Tutti più o meno criticano il fatto che quelli della riscossione del tributo al Tempio abbiano voluto essere pagati da Gesù.
   Pietro, sempre veemente, definisce ciò un sacrilegio, perché il Messia non è tenuto a pagare il tributo: «Questo è come volere che Dio paghi a Se stesso», dice. «E ciò non è giusto. Se poi credo che Egli non sia il Messia diventa un sacrilegio».
   Gesù si volta un momento di dice: «Simone, Simone, ce ne saranno tanti che dubiteranno di Me! Anche fra chi crede di esser sicuro e incrollabile nella fede in Me. Non giudicare i fratelli, Simone. Giudica sempre per primo te stesso».
   Giuda, con un sorrisetto ironico, dice all’umiliato Pietro che ha curvato il capo: «Questa è per te. Perché sei il più anziano vuoi sempre fare il dottore. Non è detto che si vada giudicati nel merito per età. Fra noi vi è chi ti supera per sapere e per potere sociale».
   Si accende una discussione sui rispettivi meriti. E chi vanta d’esser fra i primi discepoli, e chi appoggia la sua tesi di preferenza al posto influente lasciato per seguire Gesù, e chi dice che nessuno come lui ha dei diritti perché nessuno come lui ha convertito tanto se stesso passando da pubblicano a discepolo. La discussione va per le lunghe e, se non temessi di offendere gli apostoli, direi che assume il tono di una vera lite.
   Gesù se ne astrae. Pare non udire più nulla. Intanto si è giunti alle prime case del paese, che so essere Cafarnao. Gesù prosegue, e gli altri dietro, sempre discutendo.

 6 Un bimbetto di un sette, otto anni, corre saltellando dietro a Gesù. Lo raggiunge sorpassando il gruppo vociferante degli apostoli. È un bel bambino dai capelli castano scuro tutti ricciuti, corti. Ha due occhietti neri, intelligenti nel visetto bruno. Chiama confidenzialmente il Maestro come lo conoscesse bene. «Gesù», dice, «mi lasci venire con Te fino a casa tua?».
   «La mamma lo sa?», chiede Gesù guardandolo con un sorriso buono.
   «Lo sa».
   «In verità?». Gesù, pur sorridendo, guarda con sguardo penetrante.
   «Si, Gesù, in verità».
   «Allora vieni».
   Il bambino fa un salto di gioia e afferra la mano sinistra di Gesù che gliela porge. Con che amorosa fiducia il bambino mette la sua manina bruna nella lunga mano del mio Gesù! Vorrei fare altrettanto anche io!
   «Raccontami una bella parabola, Gesù », dice il bambino saltellando al fianco del Maestro e guardandolo da sotto in su con un visetto splendente di gioia.
   Anche Gesù lo guarda con un allegro sorriso che gli schiude la bocca ombreggiata di baffi e dalla barba biondo-rossa, che il sole accende come fosse d’oro. Gli occhi di zaffiro scuro gli ridono di gioia mentre guarda il bambino.
   «Cosa te ne fai della parabola? Non è un gioco».
   «E’ più bella di un gioco. Quando vado a dormire me la penso e poi me la sogno e domani me la ricordo e me la ridico per essere buono. Mi fa essere buono».
   «Te la ricordi?».
   «Si. Vuoi che ti dica tutte quelle che mi hai dette?».
   «Sei bravo, Beniamino, più degli uomini, che dimenticano. In premio ti dirò la parabola».
   Il bambino non salta più. Cammina serio e composto come un adulto e non perde una parola, non un’infles-sione di Gesù, che guarda attentamente, senza più occuparsi neppure di dove mette i piedi.

 7 «Un pastore molto buono, venuto a conoscenza che in un luogo del creato erano molte pecore abbandonate da pastori poco buoni, le quali pericolavano su vie perverse e in pascoli nocivi e andavano sempre più verso burroni privi di luce, venne in quel posto e, sacrificando tutto il suo avere, acquistò quelle pecore e quegli agnelli. Voleva portarli nel suo regno, perché quel pastore era anche re come lo sono stati tanti re in Israele. Nel suo regno quelle pecore e quegli agnelli avrebbero trovato pascoli sani, fresche e pure acque, vie sicure e ripari in abbattibili contro i ladroni e i lupi feroci. Perciò quel pastore radunò le sue pecore e i suoi agnelli e disse loro: “Sono venuto a salvarvi, a portarvi dove non soffrirete più, dove non conoscerete più insidie e dolore. Amatemi, seguitemi perché io vi amo tanto e per avervi mi sono sacrificato in tutti i modi. Ma se mi amerete, il mio sacrificio non mi peserà. Venitemi dietro e andiamo”. E il pastore davanti, dietro le pecore, presero il cammino verso il regno della gioia.
   Il pastore ogni momento si volgeva per vedere se lo seguivano, per esortare le stanche, per rincuorare le sfiduciate, per soccorrere le malate, per carezzare gli agnelli. Come le amava! Dava loro il suo pane e il suo sale e per primo assaggiava l’acqua delle fonti e la benediva per sentire se era sana e per renderla santa. Ma le pecore – lo credi Beniamino? – le pecore dopo qualche tempo si stancarono. Prima una, poi due, poi dieci, poi cento, rimasero indietro a brucare l’erba fino ad empirsi senza poter più muoversi, e si sdraiarono stanche e sazie nella polvere e nel fango. Altre si spenzolarono sui precipizi nonostante il pastore dicesse: “Non lo fate”; talune, poiché egli si metteva dove era maggior pericolo per impedire a loro di andarvi, lo urtarono col capo protervo e tentarono di precipitarlo più di una volta. Così molte finirono nei burroni e morirono miseramente. Altre si azzuffarono fra di loro e, incorna e intesta, si uccisero fra loro. Solo un agnellino non si distrasse mai. Esso correva, belando, e diceva col suo belato al pastore: “Ti amo”; correva dietro al pastore buono e, quando giunsero alle porte del suo regno, non erano che loro due: il pastore e l’agnellino fedele. Allora il pastore non disse: “entra”, ma disse “vieni”, e lo prese sul petto, fra le braccia, e lo portò dentro chiamando tutti i suoi sudditi e dicendo loro: “Ecco, costui mi ama. Voglio che sia meco in eterno. E voi amatelo perché esso è il prediletto del mio cuore”.

 8 La parabola è finita, Beniamino. Ora mi sai dire: chi è quel pastore buono?».
   «Tu sei, Gesù».
   «E quell’agnellino chi è?».
   «Io sono, Gesù».
   «Ma ora Io andrò via. Tu ti dimenticherai di Me».
   «No, Gesù. Non mi dimenticherò perché ti amo».
   «L’amore ti cesserà quando non mi vedrai più».
   «Dirò dentro di me le parole che Tu mi hai dette e sarà come Tu fossi presente. Ti amerò e ubbidirò così. E, dimmi, Gesù: Tu ti ricorderai di Beniamino?».
   «Sempre».
   «Come farai a ricordarti? ».
   «Mi dirò che tu mi hai promesso d’amarmi e di ubbidirmi e mi ricorderò così di te ».
   «E mi darai il tuo Regno?».
   «Se sarai buono, si».
   «Sarò buono».
   «Come farai? La vita è lunga».
   «Ma anche le tue parole sono tanto buone. Se io me le dirò e farò quello che esse dicono di fare, mi conserverò buono per tutta la vita. E lo farò perché ti amo. Quando si vuol bene non è fatica essere buoni. A me non è fatica ubbidire alla mamma perché le voglio bene. Non mi sarà fatica essere ubbidiente a Te perché ti voglio bene».
   Gesù si è fermato e guarda il visetto acceso dall’amore più che dal sole. La gioia di Gesù è così viva che pare un altro sole si sia acceso nella sua anima e irraggi dalle pupille. Si china e bacia sulla fronte il bambino.

 9 Si è fermato davanti ad una casetta modesta con un pozzo sul davanti. Gesù va poi a sedersi presso il pozzo e là lo raggiungono i discepoli, che ancora stanno misurando le rispettive prerogative.
   Gesù li guarda. Poi li chiama: «Venite qui intorno e udite l’ultimo insegnamento della giornata, voi che vi fate rochi nella celebrazione dei vostri meriti e pensate di aggiudicarvi un posto in base a quelli. Vedete questo fanciullo? Egli è nella verità più di voi. La sua innocenza gli dà la chiave per aprire le porte del mio Regno. Egli ha compreso, nella sua semplicità di pargolo, che nell’amore è la forza per divenire grandi e nell’ubbidienza fatta per amore quella per entrare nel mio Regno. Siate semplici, umili, amorosi di un amore che non è solo dato a Me ma è scambievole tra voi, ubbidienti alle mie parole, a tutte, anche a queste, se volete aggiungere dove entreranno questi innocenti. Imparate dai piccoli. Il Padre rivela loro la verità come non la rivela ai sapienti».
   Gesù parla tenendo ritto contro le sue ginocchia Beniamino, al quale tiene le mani sulle spalle. Ora il volto di Gesù è pieno di Maestà. È serio, non corrucciato, ma è serio. Proprio da Maestro. L’ultimo raggio di sole gli fa un nimbo di raggi sul capo biondo.
   La visione mi cessa qui, lasciandomi piena di dolcezza nei miei dolori.


   [6 Dicembre 1945]

10 Dunque: i discepoli non sono potuti entrare nella casa, è naturale. Per numero e per rispetto. Non lo fanno mai se non sono invitati a farlo, in massa o in particolare, dal Maestro. Noto sempre un grande rispetto, un grande ritegno, nonostante l’affabilità del Maestro e la sua lunga dimestichezza. Anche Isacco, che potrei dire il discepolo primo, nel numero dei discepoli, non si concede mai libertà di andare a Gesù senza che un sorriso, almeno un sorriso del Maestro, non lo chiami vicino.

   Un po’ diverso, no?, dal modo spicciativo e quasi burlesco con cui molti trattano ciò che è soprannaturale… Questo è un mio commento, e che sento giusto, perché non mi va giù che la gente abbia con ciò che è al di sopra di noi i modi che non abbiamo per gli uomini pari a noi, solo che siano un cincino da più di noi… Mah!… E andiamo avanti…

   I discepoli, dunque, si sono sparsi sulla riva del lago a comperare pesce per la cena, pane e quanto occorre. Torna anche Giacomo di Zebedeo e chiama il Maestro, che è seduto sulla terrazza con Giovanni accoccolato ai suoi piedi in un dolce e abbandonato colloquio… Gesù si alza e si sporge dal parapetto.
   Giacomo dice: «Quanto pesce, Maestro! Mio padre dice che Tu hai benedetto le reti con la tua venuta. Guarda: questo è per noi», e mostra una cesta di pesce che sembra d’argento.
   «Dio gli dia grazie per la sua generosità. Preparatelo, che dopo cena andremo sulla riva coi discepoli».
   E così fanno. Il lago è nero nella notte, in attesa della luna che si alza tardi. E più di vederlo lo si sente borbottare, sciacquettare fra i sassi del greto. Solo le inverosimili stelle dei paesi d’oriente si specchiano nelle acque tranquille. Si siedono in cerchio intorno ad una barchetta capovolta, sulla quale si è seduto Gesù. E i piccoli fanali delle barche, portati qui, al centro del circolo, illuminano appena i volti più vicini. Quello di Gesù è tutto illuminato da sotto in su per un fanaletto messo ai suoi piedi, e tutti perciò lo possono vedere bene mentre parla a questo e a quello.

11 E sul principio è una conversazione alla buona, familiare. Ma poi assume il tono di una lezione. Anzi Gesù lo dice apertamente:
   «Venite e ascoltate. Fra poco ci separeremo e voglio ammaestrarvi ancora per formarvi meglio.
   Oggi Io vi ho sentito discutere e non sempre con carità. Ai maggiori fra voi ho già dato la lezione. Ma voglio darla a voi pure, né farà male a questi, di voi maggiori, se se la sentono ripetere. Ora il piccolo Beniamino non è qui contro i miei ginocchi. Dorme nel suo letto e sogna i suoi sogni innocenti. E forse la sua anima candida è qui fra mezzo a noi lo stesso. Ma fate conto che egli, o qualche altro fanciullo, sia qui, a vostro esempio. Voi, in cuor vostro, avete tutti un chiodo fisso, una curiosità, un pericolo. Questo: essere il primo del Regno dei Cieli. Questa: sapere chi sarà questo primo. E infine il pericolo: il desiderio ancora umano di sentirsi rispondere “tu sei il primo nel Regno dei Cieli” dai compagni compiacenti o dal Maestro, soprattutto dal Maestro del quale sapete la verità e la conoscenza del futuro. Non è forse così? Le domande tremano sulle vostre labbra e vivono in fondo al cuore.
   Il Maestro, per vostro bene, aderisce a questa curiosità per quanto Egli aborra di cedere alle curiosità umane. Il vostro Maestro non è un ciarlatano che si interroga per due spiccioli fra i frastuoni di un mercato. E non è uno preso dallo spirito pitonico il quale gli procura denaro col fargli fare l’indovino, per aderire alle ristrette menti dell’uomo che vogliono sapere il futuro per “regolarsi”. L’uomo non si può regolare da sé. Dio lo regola se l’uomo ha fede in Lui! E non serve sapere, o credere di sapere il futuro, se poi non si ha il mezzo per stornare il futuro profetizzato. Il mezzo è uno solo: la preghiera al Padre e Signore perché per sua misericordia ci aiuti. In verità vi dico che la preghiera fidente può mutare un castigo in benedizione. Ma chi ricorre agli uomini per potere, da uomo e con mezzi da uomo, deviare il futuro, non sa pregare affatto o sa pregare molto male. Io, questa volta, perché questa curiosità può darvi buon insegnamento, rispondo ad essa, Io che aborro le domande curiose e irrispettose.

12 Voi vi chiedete: “Chi fra noi è il più grande nel Regno dei Cieli?”.
   Io annullo la limitazione del “fra noi” e allargo i confini a tutto il mondo presente e futuro, e rispondo: “Il più grande nel Regno dei Cieli è il minimo fra gli uomini”. Ossia quello che è considerato “minimo” dagli uomini. Il semplice, l’umile, il fiducioso, l’ignaro. Perciò il fanciullo, o chi sa rifarsi anima di fanciullo. Non è la scienza, non il potere, non la ricchezza, non l’attività, anche se buona, quelle che vi faranno “il più grande” nel beato Regno. Ma è l’essere come i pargoli per amorevolezza, umiltà, semplicità, fede.
   Osservate come mi amano i fanciulli, e imitateli. Come credono in Me, e imitateli. Come ricordano ciò che dico, e imitateli. Come fanno ciò che insegno, e imitateli. Come non insuperbiscono di ciò che fanno, e imitateli. Come non si ingelosiscono di Me e dei compagni, e imitateli. In verità vi dico che se non mutate il vostro modo di pensare, di agire e di amare, e non ve lo rifate sul modello dei pargoli, non entrerete nel Regno dei Cieli. Essi sanno ciò che voi sapete, di essenziale, nella mia dottrina. Ma con quale differenza praticano ciò che insegno! Voi dite che per ogni atto buono che compite: “Io ho fatto”. Il fanciullo mi dice: “Gesù, mi sono ricordato di Te oggi, e per Te ho ubbidito, ho amato, ho trattenuto una voglia di rissa… e sono contento perchè Tu, io lo so, sai quando sono buono e ne si contento”. E ancora osservate i fanciulli quando mancano. Con che umiltà mi confessano: “Oggi sono stato cattivo. E mi spiace perchè ti ho dato dolore”. Non cercano scuse. Sanno che Io so. Credono. Si dolgono per il mio dolore.
   Oh! cari al cuor mio, fanciulli in cui non è superbia, doppiezza, lussuria! Io ve lo dico: divenite simili ai fanciulli se volete entrare nel mio Regno. Amate i fanciulli come l’esempio angelico che ancora potete avere. Che come angeli dovreste essere. A vostra scusa potreste dire: “Noi non vediamo gli angeli”. Ma Dio vi dà i fanciulli per modelli, e quelli li avete fra voi. E se vedete un fanciullo abbandonato materialmente, o abbandonato moralmente e che può perire, accoglietelo in mio nome, perchè essi sono i molto amati da Dio. E chiunque accoglie un fanciullo in mio Nome accoglie Me stesso, perchè Io sono nell’anima dei fanciulli, che è innocente.
   E chi accoglie me, accoglie Colui che mi ha mandato, il Signore altissimo.

13 E guardatevi dallo scandalizzare uno di questi piccoli il cui occhio vede Iddio. Non si deve mai dare scandalo a nessuno. Ma guai, tre volte guai, chi sfiora il candore ignaro dei fanciulli! Lasciateli angeli più che potete. Troppo ripugnante è il mondo e la carne per l’anima che viene dai Cieli! E il fanciullo, per la sua innocenza, è ancora tutt’anima. Abbiate rispetto all’anima del fanciullo e al suo stesso corpo, come avete rispetto al luogo sacro. Sacro è anche il fanciullo perchè ha Dio in sè. In ogni corpo è il tempio dello Spirito. Ma il tempio del fanciullo è il più sacro e profondo, è oltre il doppio Velo. Non scuotete neppure le tende della sublime ignoranza della concupiscenza col vento delle vostre passioni.
   Io vorrei un fanciullo in ogni famiglia, in mezzo ad ogni accolta di persone, perchè fosse di freno alle passioni degli uomini. Il fanciullo santifica, da ristoro e freschezza solo col raggio dei suoi occhi senza malizia. Ma guai coloro che levano santità al fanciullo col loro modo di agire scandaloso! Guai a coloro che con le loro licenza dànno malizie ai fanciulli! Guai a coloro che con le loro parole e ironie ledono la fede in Me dei fanciulli! Sarebbe meglio che a tutti questi si legasse al collo una pietra da macina e si gettassero in mare perchè affogassero col loro scandalo. Guai al mondo per gli scandali che dà agli innocenti! Perchè se è inevitabile che avvengano scandali, guai all’uomo che per sua causa li provoca.
   Nessuno ha il diritto di fare violenza al suo corpo e alla sua vita. Perchè vita e corpo ci vengono da Dio, e solo Lui ha il diritto di prenderne delle parti o il tutto. Ma però Io vi dico che se la vostra mano vi scandalizza è meglio che la mozziate, che se il vostro piede vi porta a dare scandalo è bene che voi lo mozziate. Meglio per voi entrare monchi o zoppi nella Vita che essere gettati nel fuoco eterno con le due mani e i due piedi. E se non basta avere mozzo un piede o una mano, fate che vi siano mozzati anche l’altra mano o l’altro piede, per non fare più scandalo e per avere tempo di pentirvi prima di essere lanciati dove il fuoco non si estingue, e rode come un verme in eterno. E se è il vostro occhio che vi è cagione di scandalo, cavatelo. E’ meglio essere orbi di un occhio che essere nell’inferno con tutti e due. Con un occhio solo, o anche senz’occhi, giunti al Cielo vedreste la Luce, mentre coi due occhi scandalosi, tenebre e orrore vedreste nell’inferno. E questo solo.

14 Ricordatevi tutto questo. Non disprezzate i piccoli, non scandalizzateli, non derideteli. Sono da più di voi, perchè i loro angeli vedono sempre Iddio che dice loro le verità da rivelare ai fanciulli e a quelli dal cuore di fanciullo.
   E voi come fanciulli amatevi fra di voi. Senza dispute, senza orgogli, State in pace fra voi. Abbiate spirito di pace con tutti. Fratelli siete, nel nome del Signore, e non nemici. Non ci sono, non ci devono essere nemici per i discepoli di Gesù.L’unico nemico è satana. Di quello siate nemici acerrimi, scendendo in battaglia contro di lui e contro i peccati che portano satana nei cuori.
   Siate instancabili nel combattere il male quale che sia la forma che assume. E pazienti. Non c’è limitazione all’operare dell’apostolo, perchè non c’è limitazione all’operare del male. Il demonio non dice mai: “Basta. Ora sono stanco e mi riposo”. Egli è instancabile. Passa agile come il pensiero, e più ancora, da questo a quell’uomo, e tenta e prende, e seduce, e tormenta, e non dà pace. Assale proditoriamente e abbatte se non si è più che vigilanti. Delle volte si insedia da conquistatore per debolezza dell’assalito, altre vi entra da amico, perchè il modo di vivere della preda cercata è già tale da essere alleanza col nemico. Tal’altra, scacciato da uno, gira e piomba sul migliore, per farsi vendetta dello smacco avuto da Dio o da un servo di Dio. Ma voi dovete dire ciò che dice lui: “Io non riposo”. Lui non riposa per popolare l’inferno. Voi non dovete riposare per popolare il Paradiso. Non dategli quartiere. Io vi predìco che più lo combatterete più vi farà soffrire. Ma non dovete tenere conto di ciò. Egli può scorrere le Terra. Ma nel Cielo non penetra. Perciò là non vi darà più noia. E là saranno tutti quelli che lo hanno combattuto… ».

15 Gesù si interrompe bruscamente e chiede: «Ma insomma, perchè date sempre noia a Giovanni? Che vogliono da te?».
   Giovanni si fa rosso come una fiamma e Bartolomeo, Tommaso, l’Iscariota chinano la testa vedendosi scoperti.
   «Ebbene?», chiede con imperio Gesù.
   «Maestro, i miei compagni vogliono che io ti dica una cosa. ».
   «Dilla, dunque».
   «Oggi, mentre Tu eri da quel malato, e noi giravamo per il paese come Tu avevi detto, abbiamo visto un uomo, che non è tuo discepolo e che neppure mai abbiamo notato fra quelli che ascoltano la tua dottrina, il quale cacciava dei demoni in tuo nome da un gruppo di pellegrini che andavano a Gerusalemme. E ci riusciva. Ha guarito uno che aveva un tremito che gli impediva ogni lavoro, e ha reso la favella a una fanciulla che era stata assalita nel bosco da un demonio in forma di cane che le aveva legato la lingua. Egli diceva: “Vattene, demonio, in nome del Signore Gesù il Cristo, Re della stirpe di Davide, Re d’Israele. Egli è il Salvatore e Vincitore. Fuggi davanti al suo Nome!”, e il demonio fuggiva realmente. Noi ci siamo risentiti. E glielo abbiamo proibito. Ci ha detto: “Che faccio di male? Onoro il Cristo liberandogli la via dai demoni che non sono degni di vederlo”. Gli abbiamo risposto: “Non sei esorcista secondo Israele e non sei discepolo secondo Cristo. Non ti è lecito farlo”. Ha detto: “Fare il bene è sempre lecito”, e si è ribellato alla nostra ingiunzione dicendo: “E continuerò a fare ciò che faccio”. Ecco, volevano ti dicessi questo, specie ora che Tu hai detto che in Cielo saranno tutti quelli che hanno combattuto satana».

16 «Va bene. Quell’uomo sarà di questi. Lo è. Egli aveva ragione e voi torto. Infinite sono le vie del Signore e non è detto che solo quelli che prendono la via diretta giungano al Cielo. In ogni luogo e in ogni tempo, e con mille modi diversi, ci saranno creature che verranno a Me, magari da una strada inizialmente cattiva. Ma Dio vedrà la loro retta intenzione e li attirerà alla via buona. Ugualmente vi saranno alcuni che per ebbrezza concupiscente e triplice usciranno dalla via buona e prenderanno una via che li allontana o addirittura li dirotta. Non dovete perciò mai giudicare i vostri simili. Solo Dio vede. Fate di non uscire voi dalla via buona, dove, più che la vostra volontà, quella di Dio vi ci ha messi. E quando vedete uno che crede nel mio Nome e per esso opera, non lo chiamate straniero, nemico, sacrilego. E’ sempre un mio suddito, amico e fedele, perchè crede nel Nome mio, spontaneamente e meglio di molti fra voi. Per questo il mio Nome sulla sua bocca opera prodigi pari ai vostri e forse più. Dio lo ama perchè mi ama, e finirà di portarlo al Cielo. Nessuno che faccia prodigi inmio Nome mi può essere nemico e dire male di Me. Ma col suo operare dà al Cristo onore e testimonianza di fede. In verità vi dico che credere al mio Nome è già sufficiente a salvare la propria anima. Perchè il mio Nome è Salvezza. Perciò vi dico: se lo incontrerete ancora, non glielo proibite più. Ma anzi chiamatelo “fratello” perchè tale è, anche se è ancora fuori dal recinto del mio Ovile. Chi non è contro di Me è con Me. Chi non è contro di voi è con voi».
   «Abbiamo peccato, Signore?», chiede attrito Giovanni.
   «No. Avete agito per ignoranza, ma senza malizia. Perciò non c’è colpa. Però in avvenire sarebbe colpa, perchè ora sapete. Ed ora andiamo alle nostre case. La pace sia con voi».


17
 
Se crede, può mettere, dopo la fine della visione di oggi, il dettato che segue quella del piccolo Beniamino. A sua facoltà.


[7 Marzo 1944]

Dice poi Gesù:

«Quello che ho detto al mio piccolo discepolo lo dico anche a voi. Il Regno è degli agnelli fedeli che mi amano e mi seguono senza perdersi in lusinghe, mi amano sino alla fine. E dico a voi ciò che ho detto ai miei discepoli adulti: “Imparate dai piccoli”.
   Non è l’esser dotti, ricchi, audaci quello che vi fa conquistare il Regno dei Cieli. Non è l’esserlo umanamente. Ma è l’esserlo della scienza dell’amore, che fa dotti, ricchi, audaci soprannaturalmente. Come illumina l’amore a comprendere la Verità! Come fa ricchi per acquistarla! Come fa audaci per conquistarla! Che fiducia che ispira! Che sicurezza!
   Fate come il piccolo Beniamino, il mio piccolo fiore che m’ha profumato il cuore quella sera ed ha cantato ad esso una musica angelica, che ha ricoperto l’odore dell’umanità ribollente nei discepoli e il rumore delle beghe umane.
   E tu vuoi sapere che avvenne poi di Beniamino? Rimase il piccolo agnello di Cristo e, perduto il suo grande Pastore poiché era tornato al Cielo, si fece discepolo di quello che più mi somigliava, prendendo per sua mano il battesimo e il nome di Stefano primo mio martire. Fu fedele sino alla morte e con lui i suoi parenti, trascinati alla Fede dall’esempio del loro piccolo apostolo familiare.
   Non è conosciuto? Molti sono gli sconosciuti dagli uomini conosciuti da Me nel mio Regno. E di questo sono felici. La fama del mondo non aggiunge una scintilla all’aureola dei beati.
   Piccolo Giovanni, cammina sempre con la tua mano nella mia. Andrai sicura e, giunta al Regno, non ti dirò “entra” ma “vieni”, e ti prenderò fra le braccia per posarti là dove il mio Amore t’ha preparato un posto e il tuo amore lo ha meritato.
   Và in pace. Ti benedico».

   Cap. CDVIII. Nelle campagne di Giuseppe d’Arimatea. Moltiplicazione del grano e potenza della fede.

   31 marzo 1946.
 
 1 Anche qui ferve l’opera dei mietitori. Anzi, è meglio detto, è stata fervida l’opera dei mietitori. Ormai le falci sono inutili perché non c’è più ritta una spiga, in questi campi ancor più prossimi alla sponda mediterranea di quelli di Nicodemo. Perché Gesù non è andato ad Arimatea, ma nei poderi che Giuseppe ha nel piano, verso il mare e che, avanti la mietitura, dovevano essere un altro piccolo mare di spighe, tanto sono estesi.
   Una casa bassa, larga, bianca, è là, al centro dei campi spogli. Una casa di campagna, ma ben tenuta. Le sue quattro aie stanno riempiendosi di covoni e covoni, messi a fasci come fanno i soldati con le salmerie durante le soste al campo. Carri e carri portano quel tesoro dai campi alle aie, e uomini e uomini scaricano e ammucchiano, e Giuseppe gira da un’aia all’altra e sorveglia che tutto sia fatto, e fatto bene.
   Un contadino, dall’alto del mucchio affastellato su un carro, annuncia: «Abbiamo finito, padrone. Tutto il grano è sulle tue aie. Questo è l’ultimo carro dell’ultimo podere».
   «Sta bene. Scarica e poi stacca i bovi e conducili alle vasche e alle stalle. Hanno ben lavorato e meritano riposo. E anche voi tutti avete ben lavorato e meritate riposo. Ma l’ultima fatica sarà lieve, perché ai cuori buoni è sollievo la gioia altrui. 

 2 Ora faremo venire i figli di Dio e daremo loro il dono del Padre. Abramo, va’ a chiamarli», dice poi volgendosi ad un patriarcale contadino, che forse è il primo dei servi contadini di questa tenuta di Giuseppe. Lo penso perché vedo che il rispetto degli altri servi è molto palese per questo vegliardo, che non lavora ma sorveglia e consiglia aiutando il padrone.
   E il vecchio va… Lo vedo dirigersi ad una vasta e molto bassa costruzione, più simile ad una tettoia che ad una casa, munita di due portoni giganteschi che toccano la grondaia. Penso sia una specie di magazzeno dove stiano ricoverati i carri e gli altri attrezzi agricoli. Entra là dentro e ne esce seguito da una eterogenea e misera folla di tutte le età… e di tutte le miserie… Vi sono esseri macilenti ma senza sventure fisiche e vi sono storpi, ciechi, monchi, malati d’occhi… Molte vedove coi molti orfanelli intorno, o anche delle mogli di qualche malato, tristi, dimesse, scarnite dalle veglie e dai sacrifici per curare il malato.
   Vengono avanti con quell’aspetto particolare dei poveri quan­do vanno ad un luogo in cui saranno beneficati: timidezza di sguardi, ritrosia del povero onesto, eppure un sorriso che affiora sopra la tristezza che giorni di dolore hanno impresso sui volti smunti, eppure una scintilla minima di trionfo, quasi una risposta all’accanirsi del destino in giorni tristi, continui, un dirgli: «Oggi, un giorno c’è anche per noi di festa, oggi è festa, è allegria, è sollievo per noi!».
   I piccoli sgranano gli occhi davanti ai mucchi dei covoni, più alti della casa, e dicono accennandoli alle mamme: «Per noi? Oh! belli!». I vecchi mormorano: «Il Benedetto benedica il pietoso!». I mendichi, storpi, o ciechi, o monchi, o malati d’occhi: «Avremo pane, infine, anche noi, senza sempre dovere stendere la mano!». E i malati ai parenti: «Almeno potremo curarci sapendo che voi non soffrite per noi. Le medicine ci faranno bene, ora». E i parenti ai malati: «Vedete? Ora non direte più che noi digiuniamo per lasciare a voi il boccone. Ora state dunque lieti!…». E le vedove agli orfanelli: «Creature mie, occorrerà benedire molto il Padre dei Cieli che vi fa da padre, e il buon Giuseppe che è il suo amministratore. Ora non vi sentiremo più piangere per fame, o figli che non avete che le vostre mamme a darvi aiuto… le povere mamme che di ricco non hanno che il cuore…». Un coro e uno spettacolo che allietano ma portano anche lacrime agli occhi…

 3 E Giuseppe, avuti davanti questi infelici, si dà a scorrere le file, a chiamare uno per uno, domandando quanti sono in famiglia, da quanto tempo vedove, o da quanto malati, e così via… e prende appunto. E per ogni caso ordina ai servi contadini: «Dài dieci. Dài trenta».
   «Dài sessanta», dice dopo avere ascoltato un vegliardo semicieco che gli viene davanti con diciassette nipoti, tutti sotto i dodici anni, figli di due suoi figli, morti uno nella mietitura dell’anno prima, l’altra di parto… e dice il vecchio: «lo sposo s’è consolato e ad altre nozze è andato dopo un anno, rimandandomi i cinque figli, dicendo che ci avrebbe pensato. Mai un denaro, invece!… Ora mi è morta anche la donna e sono solo… con questi…».
   «Dài sessanta al vecchio padre. E tu, padre, resta, ché dopo ti darò vesti per i piccoli».
   Il servo fa notare che, se si va a sessanta covoni per volta, non basterà il grano per tutti…
   «E dove è la tua fede? Per me accumulo forse i covoni e li spartisco? No. Per i figli più cari al Signore. Il Signore stesso provvederà a che basti per tutti», risponde Giuseppe al servo.
   «Sì, padrone. Ma il numero è numero…».
   «Ma la fede è fede. Ed io, per mostrarti che la fede può tutto, ordino che sia raddoppiata la misura già data ai primi. Chi ebbe dieci abbia altri dieci, e chi venti altri venti, e centoventi siano dati al vecchio. Fa’! Fate!».
   I servi si stringono nelle spalle ed eseguiscono. E la distribuzione continua fra lo stupore gioioso dei beneficati, che si vedono dare una misura al disopra di tutte le loro più folli speranze. E Giuseppe ne sorride, carezzando i piccoli che si affannano ad aiutare le mamme, o aiuta gli storpi che fanno il loro piccolo mucchio, aiuta i vecchi troppo cadenti per farlo, o le donne troppo macilente, e fa mettere da un lato due malati per beneficarli con altri aiuti, come ha fatto col vecchio dai diciassette nipoti. I cumuli, alti più della casa, sono ora molto bassi, quasi a terra. Ma tutti hanno avuto il loro e in misura abbondante.
   Giuseppe domanda: «Quanti covoni restano ancora?».
   «Centododici, padrone», dicono i servi dopo avere contato i residui.
   «Bene. Ne prenderete…». Giuseppe scorre la lista dei nomi che ha segnato e poi dice: «Ne prenderete cinquanta. Li riporrete per semente, perché è seme santo. E il resto sia dato, uno per uno, ad ogni capo di famiglia qui presente. Sono esattamente sessantadue capi».
   I servi ubbidiscono. Portano sotto un portico i cinquanta covoni e dànno il resto. Ora le aie non hanno più i grossi mucchi d’oro. Ma per terra sono sessantadue mucchietti di diversa misura, e i loro proprietari si affannano a legarli e a caricarli su primordiali carriole, oppure su stenti asinelli che sono andati a slegare da una staccionata sul dietro della casa.

 ­Il vecchio Abramo, che ha confabulato coi principali fra i servi contadini, si avvicina con questi al padrone che li interroga: «Ebbene? Avete visto? Ce ne è stato per tutti! E con avanzo!».
   «Ma padrone! Qui c’è un mistero! I nostri campi non possono aver dato il numero dei covoni che tu hai distribuito. Io sono nato qui e ho settantotto anni. Sego da sessantasei anni. E so. Mio figlio aveva ragione. Senza un mistero non avremmo potuto dare tanto!…».
   «Ma è realtà che abbiamo dato, Abramo. Tu eri al mio fianco. I covoni sono stati dati dai servi. Non c’è sortilegio. Non è irrealtà. I covoni si possono ancora contare. Sono ancora là, sebbene divisi in tante parti».
   «Sì, padrone. Ma… Non è possibile che i campi ne abbiano dati tanti!».
   «E la fede, figli miei? E la fede? Dove mettete la fede? Poteva smentire il Signore il suo servo che prometteva in suo Nome e per santo fine?».
   «Allora tu hai fatto miracolo?!», dicono i servi, pronti già all’osanna.
   «Non sono uomo da miracoli io. Sono un povero uomo. Il Signore lo ha fatto. Mi ha letto nel cuore e vi ha visto due desideri: il primo era quello di portarvi alla mia stessa fede. Il secondo era quello di dare tanto, tanto, tanto a questi miei fratelli infelici. Dio ha annuito ai miei desideri… ed ha fatto. Che Egli ne sia benedetto!», dice Giuseppe con un inchino riverente come fosse davanti ad un altare.
   «E il suo servo con Lui», dice Gesù che è rimasto fino ad allora celato dietro lo spigolo di una casetta cinta da una siepe, non so se forno o frantoio, e che adesso appare apertamente sull’aia dove è Giuseppe.
   «Maestro mio e mio Signore!!», esclama Giuseppe cadendo in ginocchio per venerare Gesù.
   «La pace a te. Sono venuto a benedirti in nome del Padre.
   Per premiare la tua carità e la tua fede. 

 5 Sono tuo ospite per questa sera. Mi vuoi?».
   «Oh! Maestro! Lo chiedi? Soltanto… Soltanto qui non potrò farti onore… Sono fra servi contadini… nella mia casa di campagna… Non ho stoviglie fini, non ho maestri di mensa né servi capaci… Non ho cibi raffinati… Non ho vini scelti… Non ho amici… Sarà una ben povera ospitalità… Ma Tu compatirai… Perché, Signore, non mi hai fatto avvisato? Avrei provveduto… Ma ier l’altro Erma, coi suoi, fu qui… Anzi me ne sono servito per fare avvisati questi ai quali volevo dare, rendere, ciò che è di Dio… Ma non mi ha detto nulla, Erma! Avessi saputo!… Permetti, Maestro, che dia ordini, che cerchi di rimediare… Perché sorridi così?», chiede infine Giuseppe che è tutto sossopra per la gioia improvvisa e per la situazione che egli giudica… disastrosa.
   «Sorrido per le tue inutili pene. Ma, o Giuseppe, che cerchi? Ciò che hai?».
   «Che ho? Non ho nulla».
   «Oh! come sei uomo ora! Perché non sei più lo spirituale Giuseppe di poco fa, quando parlavi da sapiente? Quando promettevi, sicuro, per la fede e per dare la fede?».
   «Oh! hai sentito?».
   «Sentito e visto, Giuseppe. Quella siepe di lauri è molto utile a vedere che ciò che ho seminato non è morto in te. E per questo ti dico che ti dài delle inutili pene. Non hai maestri di tavola né servi capaci? Ma dove si esercita carità là è Dio, e dove è Dio là sono i suoi angeli. E che maestri di casa vuoi avere più capaci di quelli? Non hai cibi né vini prelibati? E quale cibo vuoi darmi e quale bevanda più prelibata dell’amore che hai avuto per costoro e che hai per Me? Non hai amici per farmi onore? E questi? Quali amici più diletti dei poveri e degli infelici per il Maestro che ha nome Gesù? Suvvia, Giuseppe! Neppure se Erode si convertisse e mi aprisse le sue sale per ospitarmi e darmi onore, in una reggia purificata, e con lui fossero i capi di tutte le caste ad onorarmi, Io avrei una corte più scelta di questa alla quale voglio Io pure dire una parola e dare un dono. Permetti?».
   «Oh! Maestro! Ma tutto ciò che Tu vuoi io voglio! Ordina».
   «Di’ loro che si radunino, e così si radunino i servi. Per noi ci sarà sempre un pane… Meglio è che ora ascoltino la mia parola anziché correre qua e là, indaffarati in povere cure».
   La gente si accalca sollecita, stupita…

 6 Gesù parla: «Qui avete già conosciuto che la fede può moltiplicare il grano quando questo desiderio viene da desiderio d’amore. Ma non limitate la vostra fede alle necessità materiali. Dio creò il primo chicco di frumento e d’allora spighisce il frumento per il pane degli uomini. Ma Dio creò anche il Paradiso ed esso attende i suoi cittadini. È stato creato per coloro che vivono nella Legge e restano fedeli nonostante le prove dolorose della vita. Abbiate fede e riuscirete a conservarvi santi con l’aiuto del Signore, così come Giuseppe riuscì ad assegnare il grano in misura doppia per farvi felici due volte e confermare nella fede i suoi servi. In verità, in verità vi dico che se l’uomo avesse fede nel Signore, e per un giusto motivo, neppur le montagne, confitte con le loro viscere di roccia nel suolo, potrebbero resistere, e al comando di chi ha fede nel Signore si sposterebbero. Avete voi fede in Dio?», chiede rivolgendosi a tutti.
   «Sì, o Signore!».
   «Chi è Dio per voi?».
   «Il Padre Ss., come i discepoli del Cristo insegnano».
   «E il Cristo chi è per voi?».
   «Il Salvatore. Il Maestro. Il Santo!».
   «Questo solo?».
   «Il Figlio di Dio. Ma non bisogna dirlo, perché i farisei ci perseguitano se lo diciamo».
   «Ma voi credete che Egli lo sia?».
   «Sì, o Signore».
   «Orbene, crescete nella vostra fede. Anche se voi tacerete, le pietre, le piante, le stelle, il suolo, tutte le cose proclameranno che il Cristo è il vero Redentore e Re. Lo proclameranno nell’o­ra della sua assunzione, quando Egli sarà nella porpora santissima e col serto di Redenzione. Beati quelli che sapranno credere questo fin da ora, e più ancora lo crederanno allora, e avranno fede nel Cristo e vita eterna perciò. L’avete voi questa fede incrollabile in Cristo?».
   «Sì, o Signore. Insegnaci dove Egli è, e noi lo pregheremo di aumentare la nostra fede per essere beati così». E l’ultima parte di preghiera la fanno non solo i poveri, ma anche i servi, gli apostoli e Giuseppe.
   «Se avrete tanta fede quanto un granello di senapa e questa fede, perla preziosa, terrete nel cuore senza farvela rapire da nessuna cosa umana, o soprumana e malvagia, potrete tutti anche dire a quel gelso potente che ombreggia il pozzo di Giuseppe: “Sbarbati di lì e trapiantati fra le onde del mare”».

 7 «Ma Cristo dove è? Noi lo attendiamo per essere guariti. I discepoli non ci hanno guariti, ma ci hanno detto: “Egli lo può”. Vorremmo guarire per lavorare, noi», dicono degli uomini malati o inabili.
   «E credete che Cristo lo possa?», dice Gesù facendo cenno a Giuseppe di non dire che il Cristo è Lui.
   «Lo crediamo. Egli è il Figlio di Dio. Tutto può».
   «Sì. Tutto può… e tutto vuole!», grida Gesù stendendo con impero il braccio destro e abbassandolo come per giurare. E termina con un grido potente: «E così sia fatto, a gloria di Dio!».
   E fa per volgersi verso la casa. Ma i guariti, una ventina, urlano, accorrono e lo serrano in un groviglio di mani stese a toccare, a benedire, a cercare le sue mani, le sue vesti, per baciare, per carezzare. Lo isolano da Giuseppe, da tutti…
   E Gesù sorride, carezza, benedice… Si libera lentamente e, ancora inseguito, scompare nella casa, mentre gli osanna salgono nel cielo che si fa violaceo nel primo crepuscolo.

   Cap. CDXXIII. Partenza dell’Iscariota, che provoca la lezione sull’amore e sul perdono senza limiti.­

   25 aprile 1946.
 
 1 Sono ormai sull’altra sponda, avendo alla destra il monte Tabor e il piccolo Hermon, alla sinistra i monti della Samaria, alle spalle il Giordano, di fronte, oltre la pianura nella quale si trovano, i colli davanti ai quali è Mageddo (se ricordo bene questo nome, udito in una visione ormai lontana, quella in cui Gesù si riunisce a Giuda di Keriot e Tommaso, dopo la separazione causata dalla necessità di tenere occulta la partenza di Sintica e Giovanni di Endor).
   Devono avere riposato tutto il giorno in qualche casa ospitale, perché è di nuovo sera ed è palese che sono riposati. Fa ancora caldo, ma la guazza già comincia a scendere molcendo l’ardore. E scendono le ombre violacee del crepuscolo, succedendo agli ultimi rossori di un tramonto di fuoco.
   «Qui si cammina bene», osserva contento Matteo.
   «Sì. Andando così bene saremo prima del gallicinio a Mageddo», gli risponde lo Zelote.
   «E all’alba oltre i colli, in vista della piana di Saron», termina Giovanni.
   «E del tuo mare, eh?», lo stuzzica il fratello.
   «Sì. Del mio mare…», risponde sorridendo Giovanni.

 «E tu partirai con lo spirito per una delle tue peregrinazioni spirituali», gli dice Pietro stringendogli un braccio con affetto rude e bonario. E termina: «Insegna anche a me come si fa a tirar fuori certi pensieri così… da angelo, dalla vista delle cose. Io l’acqua l’ho guardata tante volte… l’ho amata… ma… non mi ha mai servito altro che a navigare e a pescare. Cosa ci vedi tu?…».
   «Acqua vedo, Simone. Come te e come tutti. Così come adesso vedo campi e frutteti… Ma poi, oltre gli occhi del capo, ho come altri occhi qui dentro e vedo non più l’erba e l’acqua, ma parole di sapienza uscire da quelle cose materiali. Non sono io che penso. Non ne sarei capace. È un altro che pensa in me».
   «Sei tu forse profeta?», interroga l’Iscariota un poco ironico.
   «Oh! no! Non sono profeta…».
   «E allora? Credi di possedere Dio?».
   «Meno ancora…».
   «Allora farnetichi».
   «Potrebbe anche essere, tanto io sono piccolo e debole. Ma se così è, è ben dolce farneticare e mi porta a Dio. La mia malattia diviene allora un dono e ne benedico il Signore».
   «Ah! Ah! Ah!», ride fragorosamente e falsamente Giuda.
   Gesù, che ha ascoltato, dice: «Non è malato, non è profeta. Ma l’anima pura possiede la sapienza. Essa è che parla nel cuore dell’uomo giusto».
   «Allora io non ci arriverò mai, perché non sono sempre stato buono…», dice sconfortato Pietro.
   «E io, allora?», gli risponde Matteo.
   «Amici, pochi, troppo pochi sarebbero quelli che potrebbero possedere la sapienza perché sono puri da sempre. Ma il pentimento e la buona volontà fanno l’uomo, prima colpevole e imperfetto, giusto, e allora la coscienza si rinverginizza nel lavacro dell’umiltà, della contrizione e dell’amore e, rinverginizzata così, può emulare coloro che sono mondi».
   «Grazie, Signore», dice Matteo curvandosi a baciare la mano del Maestro.

 3 ­Un silenzio. Poi Giuda Iscariota esclama: «Sono stanco! Non so se ce la farò a camminare tutta la notte».
   «Sfido io! Oggi hai voluto andare in giro come un moscone mentre noi si dormiva!», gli risponde Giacomo di Zebedeo.
   «Volevo vedere se incontravo dei discepoli…».
   «E che ti premeva? Il Maestro non lo ha detto. Dunque…».
   «Ebbene, io l’ho fatto. E, se il Maestro me lo permette, sosto a Mageddo. Credo vi sia un amico nostro che va in giù ogni anno di questi tempi, dopo il raccolto delle biade. Vorrei parlargli di mia madre e…».
   «Fa’ pure ciò che credi. Finita la tua incombenza, ti dirigerai a Nazaret. Là ti raggiungeremo. Avviserai così mia Madre e Maria d’Alfeo che presto saremo a casa».
   «Io pure ti dico come Matteo: “Grazie, Signore”».
   Gesù non risponde nulla e accoglie il bacio sulla mano come accolse quello di Matteo. Non è possibile vedere le espressioni, perché è quel momento della sera nel quale la luce diurna è totalmente scomparsa, né vi è ancora la luce delle stelle. Tanto è buio che a fatica procedono nella via e, per eliminare ogni inconveniente, Pietro e Tommaso si decidono ad accendere dei rami colti alle siepi, che bruciano crepitando… Ma la luce, prima assente, poi mobile e fumosa, non permette di vedere bene le espressioni dei visi.
   I colli si approssimano, intanto. I loro dossi scuri si delineano con un nero più nero di quello dei campi segati e biancastri di spie nel nero della notte, e sempre più si delineano per la vicinanza e per il chiarore delle prime stelle…
   «Io ti lascerei qui, perché il mio amico sta un po’ fuori di Mageddo. Sono tanto stanco…».
   «Va’ pure. Il Signore vegli sui tuoi passi».
   «Grazie, Maestro. Addio, amici».
   «Addio, addio», dicono gli altri senza dare molta importanza al saluto.
   Gesù ripete: «Il Signore vegli sulle tue azioni».
   Giuda se ne va lesto.

 4 ­«Umh! Non pare più tanto stanco», osserva Pietro.
   «Già! Qui trascinava i sandali. Là corre come una gazzella…», dice Natanaele.
   «Il tuo commiato è stato santo, Fratello. Ma, a meno che il Signore non l’opprima con la sua volontà, non gioverà l’assistenza di Dio a fargli fare buoni passi e azioni giuste».
   «Giuda, non perché mi sei fratello sei esente da rimproveri! Ti rimprovero perciò di essere acre e inesorabile al tuo compagno. Egli ha le sue colpe. Ma tu pure hai le tue. E la prima è di non sapermi aiutare nel formare quell’anima. Tu lo esasperi con le tue parole. Non è con la violenza che si piegano i cuori. Credi di averne diritto di censurare ogni sua azione? Ti senti tanto perfetto da poterlo fare? Ti ricordo che Io, tuo Maestro, non lo faccio, perché amo quell’anima informe. È quella che mi fa pietà più di ogni altra… perché appunto è informe. Credi che egli goda del suo stato? E come potrai domani essere maestro di spiriti se non ti eserciti su un compagno ad usare l’infinita carità che redime i peccatori?».
   Giuda d’Alfeo china il capo sino dalle prime parole. Ma alla fine si inginocchia fino al suolo dicendo: «Perdonami. Sono un peccatore. E rimproverami quando sono in colpa, perché la correzione è amore, e unicamente lo stolto non comprende la grazia di essere corretto dal saggio».
   «Tu vedi che lo faccio, per il tuo bene. Ma al rimprovero è congiunto perdono, perché so capire la ragione del tuo rigore e perché l’umiltà del corretto disarma colui che corregge. Alzati, Giuda, e non peccare più», e se lo tiene al fianco con Giovanni.

 5 Gli altri apostoli commentano fra di loro, prima bisbigliando, poi più forte, per l’abitudine che hanno di parlare a voce alta. E così sento che fanno il parallelo fra i due Giuda.
   «Se era Giuda di Keriot a sentire quel rimprovero! Chissà che rivolte! Tuo fratello è buono», dice Tommaso a Giacomo.
   «Però… ecco… Non si può dire che parlasse male. Ha detto una verità su Giuda di Keriot. Ci credi tu all’amico che va in Giudea? Io no», dice schietto Matteo.
   «Saranno… affari di vigne come al mercato di Gerico», dice Pietro ricordando la scena[135] che non può dimenticare. Ridono tutti.
   «Certo è che ci vuole il Maestro per compatirlo tanto…», osserva Filippo.
   «Tanto? Sempre, devi dire», gli ribatte Giacomo di Zebedeo.
   «Se fossi io, non sarei così paziente», dice Natanaele.
   «E neppure io. La scena di ieri è stata disgustosa», conferma Matteo.
   «L’uomo non deve essere in tutto a posto di mente», concilia lo Zelote.
   «Però i suoi affari li sa sempre fare bene. Fin troppo bene. Ci scommetterei la mia barca, le mie reti, anche la casa, sicuro di non perderci nulla, che lui sta andando da qualche fariseo in accatto di protezioni…», dice Pietro.
   «È vero! Ismael! C’è Ismael a Mageddo! Come non ci abbiamo pensato?! Ma bisogna dirlo al Maestro!», esclama Tommaso dandosi una gran manata sulla fronte.
   «Non serve. Il Maestro lo scuserebbe ancora e ci rimprovererebbe», dice lo Zelote.
   «Ebbene… proviamo. Va’ tu, Giacomo. Ti ama, sei suo parente…».
   «Per Lui siamo tutti uguali. Qui, in noi, Egli non vede i parenti o gli amici, vede soltanto gli apostoli ed è imparziale. Ma per farvi contenti andrò», dice Giacomo d’Alfeo. E affretta il passo per staccarsi dai compagni e raggiungere Gesù.

 6 «Voi pensate che sia andato da un fariseo. Questo o quello, poco importa… Ma io penso che lo abbia fatto per non venire a Cesarea. Non ci viene volentieri…», dice Andrea.
   «Pare abbia ribrezzo delle romane da qualche tempo», nota Tommaso.
   «Eppure… mentre voi andavate a Engaddi ed io con lui da Lazzaro, fu tutto felice di parlare con Claudia…», osserva lo Zelote.
   «Sì… ma… Credo che proprio allora abbia fatto qualcosa di male. E penso che Giovanna lo sappia e per questo abbia chiamato Gesù e… e… tante cose macino qui dentro da quando Giuda si infuriò così a Betsur…», mastica Pietro fra i denti.
   «Dici che?…», chiede curioso Matteo.
   «Ma… Non so… Idee… Vedremo…».
   «Oh! non pensiamo del male! Il Maestro non vuole. E noi non abbiamo nulla prova che egli abbia fatto del male», prega Andrea.
   «Non mi vorrai dire che fa bene ad addolorare il Maestro, a mancargli di rispetto, a mettere dei malumori, a…».
   «Buono, Simone! Ti assicuro che egli è un poco matto…», dice lo Zelote.
   «Bene. Sarà. Ma è un peccatore contro la bontà del Signore nostro. Io, anche se mi sputasse in volto, se mi schiaffeggiasse, lo sopporterei per offrire ciò a Dio per la sua redenzione. Mi sono messo nel capo di fare ogni sacrificio per questo e mi mordo la lingua, mi conficco le unghie nei palmi quando fa il matto, per dominarmi. Ma quello che non posso perdonare è che sia cattivo col nostro Maestro. Il peccato che fa contro di Lui è come lo facesse a me, e non lo perdono. Poi… fosse raro! Ma è sempre dietro! Non riesco a farmi passare il rovello che mi bolle dentro per qualche sua scena, che ecco che lui ne fa un’altra! Una, due, tre… C’è un limite!». Pietro parla quasi urlando e gestendo con tutta irruenza.

 7 Gesù, che è avanti di una decina di metri, si volge, ombra bianca nella notte, e dice:
 «Non c’è limite per l’amore e il perdono. Non c’è. Né in Dio né nei veri figli di Dio. Finché c’è vita, non c’è limite. L’unica barriera alla discesa del perdono e dell’amore è la resistenza impenitente del peccatore. Ma, se egli si pente, va sempre perdonato. Peccasse anche non una, due, tre volte al dì, ma molte di più.
   Voi pure peccate e volete perdono da Dio e a Lui andate dicendo: “Ho peccato! Perdonami”. E vi è dolce il perdono, così come a Dio è dolce il perdonare. E voi non siete degli dèi. Perciò meno grave è l’offesa che un vostro simile vi fa, di quella che fa a Colui che non è simile a nessun altro. Non vi pare? Eppure Dio perdona. Fate anche voi il simigliante. Badate a voi! Badate che la vostra intransigenza non vi si muti a danno, provocando intransigenza di Dio verso voi. Già l’ho detto, ma lo ripeto ancora. Siate misericordiosi per ottenere misericordia. Nessuno è tanto senza peccato da poter essere inesorabile verso il peccatore. Guardate i vostri pesi prima di quelli che gravano sul cuore altrui. Levate prima i vostri dal vostro spirito e poi rivolgetevi a quelli degli altri, per mostrare agli altri non rigore che condanna ma amore che ammaestra e aiuta ad essere liberati dal male.
   Per poter dire, e non essere messo a silenzio dal peccatore, per poter dire: “Tu hai peccato verso Dio e verso il prossimo”, occorre non aver peccato, o almeno aver riparato al peccato. Per poter dire a colui che è avvilito dall’aver peccato: “Abbi fede che Dio perdona a chi si pente”, come servi di questo Dio che perdona a chi si pente, dovete mostrare tanta misericordia nel perdonare. Allora potrete dire: “Vedi, o peccatore pentito? Io perdono le tue colpe sette e sette volte, perché sono servo di Colui che perdona volte senza numero a chi altrettante volte si pente dei suoi peccati. Pensa allora come ti perdona il Perfetto se io, solo perché lo servo, so perdonare. Abbi fede!”. Così dovete poter dire. E dire con l’azione, non con le parole. Dire perdonando.

 Perciò, se il vostro fratello pecca, riprendetelo con amore, e se si pente perdonategli. E se in capo al giorno avrà peccato sette volte e sette volte vi dice: “Me ne pento”, altrettante volte perdonategli. Avete inteso? Mi promettete di farlo? Mentre egli è lontano, mi promettete di compatirlo? Di aiutarmi a guarirlo col sacrificio del vostro contenervi quando egli sbaglia? Non volete aiutarmi a salvarlo? È un vostro fratello di spirito venendo da un unico Padre, di razza venendo da un unico popolo, di missione essendo apostolo come voi. Tre volte lo dovete amare, perciò. Se nella vostra famiglia aveste un fratello che dà dolore al padre e fa dire di sé, non cerchereste di correggerlo perché il padre non soffra più e il popolo non sparli della vostra famiglia? E allora? Non è la vostra una più grande e santa famiglia il cui Padre è Dio, il cui Primogenito Io sono? Perché allora non volete consolare il Padre e Me, e aiutarci a fare buono il povero fratello che, credetelo, non è felice per essere così?…».
   Gesù è affannosamente implorante per l’apostolo così pieno di mancamenti… E termina: «Io sono il grande Mendico. E vi chiedo l’obolo più prezioso: anime vi chiedo. Io le vado cercando. Ma voi mi dovete aiutare… Saziate la fame del mio Cuore, che cerca amore e non lo trova che in troppo pochi. Perché quelli che non tendono alla perfezione mi sono come tanti pani levati alla mia fame spirituale. Date anime al vostro Maestro, afflitto di essere disamato e incompreso…».

 9 ­Gli apostoli sono commossi… Tanto vorrebbero dire. E ogni parola pare loro troppo meschina… Si stringono al Maestro, tutti lo vogliono accarezzare per fargli sentire che lo amano.
   Infine è il mite Andrea che dice: «Sì, Signore. Con pazienza e silenzio e sacrificio, le armi che convertono, noi ti daremo anime. Anche quella… se Dio ci aiuterà…».
   «Sì, Signore. E Tu aiutaci col tuo orare».
   «Sì, amici. E intanto preghiamo insieme per il compagno che se ne è andato. “Padre nostro che sei nei Cieli…”».
   La voce perfetta di Gesù dice le parole del Pater scandendole lentamente. Gli altri gli fanno coro sommesso. E pregando si dilungano nella notte.

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!