Traslazione di Santa Rosa da Viterbo – 4 settembre

Il 4 Settembre 1258 papa Alessandro IV accompagnato da quattro cardinali diede ordine di eseguire la traslazione della salma intatta di Santa Rosa dalla modesta sepoltura della fossa comune di Santa Maria del Poggio al Monastero della Clarisse, che poi prese il nome di colei che i Viterbesi chiamano “la Santa Bambina”, morta a soli 18 anni, nel marzo 1251. Si narra che il pontefice recatosi nel luogo della sepoltura della vergine viterbese, non riuscisse a individuare il punto preciso dove era quel corpo riposto nella terra, allora d’un tratto dal pavimento spuntò una rosa. Era lì il luogo dove iniziare lo scavo per disseppellire Rosa.

Il semplice baldacchino sul quale venne effettuata la traslazione, crebbe con gli anni in ricchezza di particolari, strutture artistiche aggiuntive e altezza. Con il tempo, una statua della Santa sulla sua sommità sostituì la processione con il corpo, che venne conservato nella Basilica a Lei dedicata, e la celebrazione venne divisa in due distinti momenti: il pomeriggio del 2 settembre, la sfilata del Corteo Storico con la reliquia del cuore della Santa portato in processione; la sera del 3 settembre, il Trasporto della Macchina di Santa Rosa.

Alle 21 del 3 settembre di ogni anno, da oltre 750 anni, Viterbo vive il suo più alto momento di celebrazione della tradizione e della fede: si tratta del Trasporto della Macchina di Santa Rosa, una “torre” illuminata alta 28 metri e pesante 50 quintali portata a spalla per le vie abbuiate della città su un percorso non privo di insidie da 100 uomini detti Facchini. E’ uno spettacolo ricco di emozioni e suggestioni, al quale ogni anno assistono decine di migliaia di persone provenienti da ogni dove, stipate lungo il percorso della Macchina, che gridano, piangono, pregano, incitano i Facchini nella loro straordinaria prova di forza e fede.

La Macchina viene cambiata ogni 5 anni, con un concorso di idee promosso dall’Amministrazione Comunale.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Vitèrbo la Traslazione della beata Rosa Vergine, del Terzo Ordine di san Francèsco, al tempo del Papa Alessàndro quarto

Nome: Traslazione di Santa Rosa da Viterbo
Titolo: Trasferimento al Monastero della Clarisse
Ricorrenza: 4 settembre
Tipologia: Commemorazione

“Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.

Vangelo Lc 14, 25-33

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

Impegno del giorno: essere cristiani decisi.

Santa Rosalia prega per noi – 4 settembre

Nacque da Sinibaldo, signore di Quisquina e discendente del re Carlo Magno. I genitori si preoccuparono di educare la fanciulla nei principi cristiani. E la piccola Rosalia corrispose alle cure dei genitori. Devotamente attendeva alle pratiche di pietà, amava teneramente la Madonna, e per la sua innocenza e bontà di cuore divenne l’idolo dei genitori.

Conoscendo il pregio della verginità, generosamente si consacrò tutta al suo sposo Gesù, mantenendosi illibata per tutta la sua vita. Crescendo negli anni e venendo a conoscere quanto perfido sia il mondo e quanto difficilmente un giglio possa conservarsi intatto tra il fango, fuggì dalla casa paterna e si ritirò in una grotta nei crepacci del monte Quisquina presso Palermo, per darsi all’unione perfetta col suo Sposo Celeste.

Solo una pastorella conosceva il luogo del rifugio di Rosalia ed ogni giorno le portava pane e latte. P difficile esporre a quali aspre penitenze e digiuni si sottopose Rosalia. Si vede ancora la grotta in cui dimorava. Vi si scende per una scala come in un sepolcro: umida, oscura. Si conserva tutt’ora la pietra su cui riposava la Santa e sul muro si vedono scolpite queste parole: a Io, Rosalia, figlia di Sinibaldo, signore di Quisquina e di Rosa, per amore del Signore mio Gesù Cristo scelsi di abitare in questa grotta ».

Non vi restò però molto tempo perché avvisata dal suo Angelo che se ivi fosse restata presto sarebbe stata trovata dai suoi genitori, si diresse verso il monte Pellegrino. Sulla sommità del monte gli Angeli le indicarono una grotta che aveva un’apertura appena sufficiente per entrarvi. La luce, penetrando in essa, ne rischiarava le nere pareti; il suolo era talmente bagnato che a stento Rosalia trovò un angolo dove riposarsi senza sprofondare nel fango.

Condusse quel genere di vita per vari anni, finché lo Sposo Divino la chiamò a sò. Una viva luce in quella notte illuminò tutto il monte Pellegrino. A tale improvviso prodigio tutta Palermo si scosse, non conoscendone la ragione. Allora quell’umile pastorella che era stata a parte dei segreti della Santa, corse in città ad annunziare la sua morte. Fu trovata morta dai pellegrini il 4 settembre del 1165. Il giorno seguente si radunò tutto il popolo ed in processione salirono a prendere il prezioso corpo di S. Rosalia, trasportandolo trionfalmente nella cattedrale.

D’allora in poi il Signore si degnò di glorificare la Santa con ripetuti miracoli e il culto di lei andò sempre più crescendo nella città di Palermo e fuori, tanto che quando la Sicilia nel 1625 fu desolata dalla peste, con voce unanime quel popolo si volse a S. Rosalia, trasse le sue reliquie dalla cattedrale, le portò processionalmente per la città ed il terribile morbo parve.

PRATICA. Facciamo oggi una mortificazione per amor di Dio.

PREGHIERA. Esaudiscici o Dio, nostro Salvatore affinché come ci rallegriamo per la festa della beata vergine Rosalia, così veniamo ammaestrati nella vera devozione.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Palèrmo il natale di santa Rosalia, Vergine Palermitana, discendente dal sangue regale di Carlo Magno, la quale, per amore di Cristo, fuggì il principato paterno e la reggia, e, solitaria nei monti e nelle spelonche, menò una vita celeste.

(LA) « Ego Rosàlia Sinibaldi Quisquinae Et Rosarum Domini Filia Amore D.ni Mei Iesu Christi In Hoc Antro Habitari Decrevi ».

(IT) « Io Rosalia di Sinibaldo, figlia del Signore della Quisquina e del Monte delle Rose, per amore del mio Signore Gesù Cristo, ho deciso di abitare in questa grotta ».

Nome: Santa Rosalia
Titolo: Vergine, eremita di Palermo
Nascita: 1130, Palermo
Morte: 1166, Monte Pellegrino
Ricorrenza: 4 settembre
Tipologia: Commemorazione
Patrona di: Sicilia, Palermo, Campofelice di Roccella, Santa Margherita di Belice, Centuripe, Santo Stefano Quisquina, Bisacquino, Delia, Bivona, Vicari
Sito ufficiale:www.santuariosantarosalia.it

Vangelo Lc 6, 1-5: «Il Figlio dell’uomo è signore del sabato».

Vangelo Novus Ordo Lc 6, 1-5
Dal Vangelo secondo Luca

Un sabato Gesù passava fra campi di grano e i suoi discepoli coglievano e mangiavano le spighe, sfregandole con le mani.
Alcuni farisei dissero: «Perché fate in giorno di sabato quello che non è lecito?».
Gesù rispose loro: «Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? Come entrò nella casa di Dio, prese i pani dell’offerta, ne mangiò e ne diede ai suoi compagni, sebbene non sia lecito mangiarli se non ai soli sacerdoti?».
E diceva loro: «Il Figlio dell’uomo è signore del sabato».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
«Il Figlio dell’uomo è signore del sabato».

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo

   Cap. CCXVII. Le spighe colte nel giorno di sabato.

  13 luglio 1945.

 1 Ancora lo stesso luogo, ma il sole è meno implacabile perché si avvia al tramonto.
   «Occorre andare per raggiungere quella casa» dice Gesù.
   E vanno. La raggiungono. Chiedono pane e ristoro. Ma il fattore li respinge duramente.
   «Razza di filistei! Vipere! Sempre quelli! Sono nati da quel ceppo e dànno i frutti di veleno» brontolano i discepoli affamati e stanchi.
   «Vi sia reso ciò che date».
   «Ma perché mancate di carità? Non è più il tempo del tagione. Venite avanti. Ancora non è notte, e morenti di fame non siete. Un poco di sacrificio perché queste anime giungano ad avere fame di Me» esorta Gesù.
   Ma i discepoli, e credo più per dispetto che per insopportabile fame, entrano nel bel mezzo di un campo e si dànno a cogliere spighe, le sgranano sulle palme e si mettono a mangiarle.
   «Sono buone, Maestro» urla Pietro.
   «Non ne prendi? E poi hanno un doppio sapore… Ne vorrei mangiare tutto il campo».
   «Hai ragione! Così si pentirebbero di non averci dato un pane» dicono gli altri, e vanno camminando fra le spighe e mangiando di gusto.
   Gesù cammina solo sulla strada polverosa. A un cinque o sei metri indietro sono lo Zelote con Bartolomeo, ma parlano fra di loro.

 2 Un altro quadrivio, per una via secondaria che traversa la via maestra, e fermi a quel punto un gruppo di arcigni farisei, certo di ritorno dalle funzioni del sabato, alle quali hanno assistito nel paesotto che si vede in fondo a questa via secondaria, largo, piatto, come fosse un bestione acquattato nella sua tana.
   Gesù li vede, li guarda mite e sorridente, e saluta: «La pace sia con voi».
   In luogo della risposta al saluto, uno dei farisei chiede arrogantemente: «Chi sei?».
   «Gesù di Nazaret».
   «Vedete che è Lui?» dice uno agli altri.
   Intanto Natanaele e Simone si accostano al Maestro mentre gli altri, camminando fra i solchi, vengono verso la via. Masticano ancora e hanno nel cavo delle mani chicchi di grano.
   Il fariseo che ha parlato per primo, forse il più potente, torna a parlare con Gesù che si è fermato in attesa di sentire il resto: «Ah! Tu dunque sei il famoso Gesù di Nazaret? Come mai fin qui?».
   «Perché anche qui vi sono anime da salvare».
   «Bastiamo noi a questo. Noi sappiamo salvare le nostre e sappiamo salvare quelle dei nostri dipendenti».
   «Se così è, bene fate. Ma Io sono stato mandato per evangelizzare e salvare».
   «Mandato! Mandato! E chi ce lo prova? Non le tue opere certo!».
   «Perché dici così? Non ti preme la tua vita?».
   «Ah! già! Tu sei quello che amministri la morte a quelli che non ti adorano. Vuoi allora uccidere tutta la classe sacerdotale, farisaica, quella degli scribi e molte altre, perché esse non ti adorano e non ti adoreranno mai. Mai, capisci? Mai, noi, gli eletti di Israele, ti adoreremo. E neppure ti ameremo».
   «Non vi forzo ad amarmi e vi dico: “Adorate Dio” perché…»
   «Ossia Te, perché Tu sei Dio, vero? Ma noi non siamo i pidocchiosi popolani galilei, né gli stolti di Giuda che vengono dietro a Te dimenticando i nostri rabbi…»
   «Non ti inquietare, uomo. Io non chiedo nulla. Compio la mia missione, insegno ad amare Dio e torno a ripetere il Decalogo perché è troppo dimenticato e, ancor di più, è male applicato. Io voglio dare la Vita. Quella eterna. Io non auguro morte corporale, né, meno ancora, morte spirituale. La vita che ti domandavo se non ti premeva di perdere, era quella dell’anima tua, perché Io la tua anima l’amo, anche se essa non mi ama. E mi addoloro vedendo che tu la uccidi coll’offendere il Signore spregiando il suo Messia».
   Il fariseo sembra preso da una convulsione tanto si agita; si scompone le vesti, si spennacchia le frange, si leva il copricapo e si arruffa i capelli, e grida: «Udite! Udite! A me, a Gionata di Uziel, discendente diretto di Simone il Giusto, a me, questo si dice. Io offendere il Signore! Non so chi mi tenga da maledirti, ma…».
   «La paura ti tiene. Ma fàllo pure. Non ne sarai incenerito lo stesso. A suo tempo lo sarai e mi invocherai allora. Ma fra Me e te vi sarà, allora, un ruscello rosso: il mio Sangue».
   «Va bene.

3 Ma intanto, Tu, che ti dici santo, perché permetti certe cose? Tu, che ti dici Maestro, perché non istruisci i tuoi apostoli prima degli altri? Guardali lì, dietro a Te!… Eccoli con ancora lo strumento del peccato fra le mani! Li vedi? Hanno colto delle spighe, ed è sabato. Hanno colto delle spighe non loro. Hanno violato il sabato e hanno rubato».
«Avevamo fame. Abbiamo chiesto al paese, dove siamo giunti ieri sera, alloggio e cibo. Ci hanno cacciati. Solo una vecchierella ci ha dato del suo pane e un pugno d’ulive. Dio glielo renda centuplicato perché ha dato tutto ciò che aveva, chiedendo soltanto una benedizione. Abbiamo camminato per un miglio e poi abbiamo sostato, come di legge, bevendo l’acqua di un rio. Poi, venuto il tramonto, siamo andati a quella casa… Ci hanno respinto. Tu vedi che in noi c’era volontà di ubbidire alla Legge» risponde Pietro.
«Ma non lo avete fatto. Non è lecito in sabato fare opera manuale e non è mai lecito prendere ciò che è di altri. Io e i miei amici ne siamo scandalizzati».
«Io, invece, no. Non avete mai letto come Davide a Nobe prese i pani sacri della Proposizione per cibarsi lui ed i suoi compagni? I pani sacri erano di Dio, nella sua casa, riserbati per ordine eterno ai sacerdoti. È detto: “Apparterranno ad Aronne e ai suoi figli che li mangeranno in luogo santo perché sono cosa santissima”. Eppure Davide li prese per sé e per i suoi compagni, perché ebbe fame. Or dunque, se il santo re entrò nella casa di Dio e mangiò i pani della Proposizione in sabato, lui a cui non era lecito cibarsene, eppure non gli fu ascritto a peccato, perché Dio continuò anche dopo questo ad averlo caro, come puoi tu dire che noi siamo peccatori se cogliamo sul suolo di Dio le spighe cresciute e maturate per suo volere, le spighe che sono anche degli uccelli, e che tu neghi che se ne cibino gli uomini, figli del Padre?» chiede Gesù.
«Li avevano chiesti quei pani, non li avevano presi senza chiedere. E ciò cambia aspetto. E poi non è vero che Dio non ascrisse questo a peccato a Davide. Lo colpì ben duramente Dio!».
«Ma non per questo. Per la lussuria, per il censimento, non per…» ribatte il Taddeo.
«Oh! basta! Non è lecito, e non è lecito. Non avete diritto di farlo, e non lo farete.

 4 Andatevene. Non vi vogliamo nelle nostre terre. Non abbiamo bisogno di voi. Non sappiamo che fare di voi».
   «Ce ne andremo» dice Gesù, impedendo ai suoi di ribattere oltre.
   «E per sempre, ricordalo. Che mai più Gionata di Uziel ti trovi al suo cospetto. Via!».
   «Sì. Via. Eppure ci troveremo ancora. E allora sarà Gionata quello che mi vorrà vedere per ripetere la condanna e per liberare per sempre il mondo di Me. Ma allora sarà il Cielo che ti dirà: “Non ti è lecito di farlo”, e quel “non ti è lecito” ti suonerà nel cuore come urlo di buccina per tutta la vita, e oltre la vita. Come nei giorni di sabato i sacerdoti nel Tempio violano il riposo sabatico e non fanno peccato, così noi, servi del Signore, possiamo, posto che l’uomo ci nega l’amore, attingere amore e soccorso dal Padre santissimo, senza per questo commettere colpe. Qui c’è Uno che è ben più grande del Tempio e può prendere ciò che vuole di quanto è nel creato, perché Dio ha messo tutto a far da sgabello alla Parola. Ed Io prendo e dono. Così le spighe del Padre, posate sulla immensa tavola che è la terra, come la Parola. Prendo e dono. Ai buoni come ai malvagi. Perché Misericordia sono. Ma voi non sapete cosa è la Misericordia. Se sapeste cosa vuol dire il mio essere Misericordia, capireste anche che Io non voglio che quella. Se voi sapeste cosa è la Misericordia non avreste condannato degli innocenti. Ma voi non lo sapete. Voi non sapete neppure che Io non vi condanno, voi non sapete che Io vi perdonerò, che chiederò, anzi, perdono al Padre per voi. Perché Io voglio misericordia e non castigo. Ma voi non sapete. Non volete sapere. E questo è un peccato più grande di quello che mi ascrivete, di quello che dite abbiano fatto questi innocenti. Del resto sappiate che il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato, e che il Figlio dell’uomo è padrone anche del sabato. Addio…».
   Si volge ai discepoli: «Venite. Andiamo a cercare un letto fra le sabbie che sono ormai vicine. Avremo sempre a compagne le stelle e ci daranno ristoro le rugiade. Dio provvederà, Lui che mandò la manna ad Israele, a nutrire noi pure, poveri e fedeli a Lui».
   E Gesù lascia in asso il gruppo astioso e se ne va coi suoi, mentre la sera scende con le prime ombre violette…
   Trovano finalmente una siepe di fichi d’India sulla cui cima, irta di palette pungenti, sono dei fichi che iniziano a maturare. Ma tutto è buono per chi ha fame. E, pungendosi, colgono i più maturi e vanno, finché i campi cessano in dune sabbiose. Viene da lontano un rumore di mare.
   «Sostiamo qui. La sabbia è soffice e calda. Domani entreremo in Ascalona» dice Gesù, e tutti cadono stanchi ai piedi di un’alta duna.

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra, noi ci affidiamo a Te!