San Carlo Borromeo prega per noi – 4 novembre

S. Carlo, fulgida gloria della Chiesa, nacque ad Arona sul Lago Maggiore il giorno 2 ottobre 1538 dal conte Gilberto Borromeo e Margherita de’ Medici.

Dopo i primi studi, fu inviato all’Università di Pavia per il diritto; qui gli giunse notizia che un suo zio materno, il cardinal de’ Medici, era stato fatto Papa col nome di Pio W. Dobbiamo riconoscere che egli cedette alquanto alle consuetudini mondane del suo secolo; ma la morte del fratello Federico gli mostrò la vanità delle cose umane, ed egli docile alla voce di Dio riformò completamente se stesso e i suoi familiari, dandosi ad una vita austera e penitente.

Poco più che ventenne fu creato cardinal segretario del Papa ed in seguito fatto arcivescovo di Milano. Come segretario lavorò con zelo indefesso per il Concilio di Trento, e poi per la pratica attuazione dei decreti di quel concilio.

Morto Pio IV, suo zio, S. Carlo lasciò Roma per recarsi alla sua sede arcivescovile allora ridotta in tale stato da scoraggiare qualsiasi tentativo di riforma; ma l’Arcivescovo non indietreggiò. Con prudenza e con fortezza si diede ad abbattere e poi a riedificare. Pubblicò subito i decreti del Concilio di Trento, praticandoli egli per primo : eliminò dal suo palazzo ogni pompa secolaresca e vendette quanto aveva di superfluo, dandone il ricavato ai poveri.

Sapeva che il mezzo migliore per riformare il popolo era quello di formare dei buoni sacerdoti, ed a questo scopo, seguendo le norme del concilio, fondò diversi seminari ed istituì la Congregazione degli Oblati.

Infiammato dal suo zelo apostolico percorse più volte la sua vasta archidiocesi per le visite pastorali. Sarebbe certo suggestivo poterlo seguire nei suoi innumerevoli viaggi a Roma, in Piemonte, a Trento, nella Svizzera e dovunque vi fosse del bene da compiere. Visitava i più celebri santuari che incontrava sul suo cammino, lasciando ovunque segni di grande pietà.

Però dove maggiormente rifulsero la sua carità e il suo zelo, fu nella terribile peste scoppiata a Milano, mentre egli si trovava in visita pastorale nel 1572. Tutti i personaggi più distinti fuggivano terrorizzati: San Carlo invece, tornato prontamente in città, organizzò l’assistenza agli appestati, il soccorso ai poveri, l’aiuto ai moribondi, dappertutto era il primo, ovunque dava l’esempio. Per invocare poi l’aiuto divino, indisse processioni di penitenza, alle quali partecipò a piedi scalzi e prescrisse preghiere e digiuni. Alla peste seguì la più grave miseria, e il santo prelato, dopo aver dato quanto possedeva, vendette i mobili dell’arcivescovado, contraendo anche forti debiti.

Nell’ottobre 1584 si ritirò sul monte Varallo per un corso di esercizi spirituali. Ivi s’ammalò e trasportato a Milano spirò il giorno 3 novembre.

PRATICA. Riconosciamo nei sacerdoti, e specialmente nei vescovi, il diritto di pascere le anime e condurre i popoli a Dio, e siamo docili alle loro direttive.

PREGHIERA. Custodisci, o Signore, la tua Chiesa colla continua protezione di S. Carlo, confessore e vescovo, sicchè, come la sollecitudine pastorale lo rese glorioso, così la sua intercessione ci renda sempre fervorosi nel tuo servizio.

MARTIROLOGIO ROMANO. Memoria di san Carlo Borromeo, vescovo, che, fatto cardinale da suo zio il papa Pio IV ed eletto vescovo di Milano, fu in questa sede vero pastore attento alle necessità della Chiesa del suo tempo: indisse sinodi e istituì seminari per provvedere alla formazione del clero, visitò più volte tutto il suo gregge per incoraggiare la crescita della vita cristiana ed emanò molti decreti in ordine alla salvezza delle anime. Passò alla patria celeste il giorno precedente a questo.

Nome: San Carlo Borromeo
Titolo: Vescovo
Nascita: 2 ottobre 1538, Arona, Novara
Morte: 3 novembre 1584, Milano
Ricorrenza: 4 novembre
Tipologia: Memoria liturgica
Patrono di: Lombardia, Peschiera Borromeo, Rovato, Rocca di Papa, Casalmaggiore, Portomaggiore, Salò, Nizza Monferrato, Fiesso d’Artico, Marcallo con Casone >>> altri comuni
Protettore: catechisti, direttori spirituali, malati di stomaco, meleti, seminaristi, vescovi

Vangelo Lc 15, 1-10: « Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte ».

Vangelo Novus Ordo Lc 15, 1-10
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
« Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo

   Cap. CCXXXIII. La parabola della pecorella smarrita, ascoltata anche da Maria di Magdala.

    12 agosto 1944

 1 Gesù parla alle folle. Montato sul margine arborato di un torrentello, parla a molta gente sparsa su un campo che ha il grano segato e mostra l’aspetto desolante delle spie arse. É sera. Il crespuscolo scende, ma già sale la luna. Una bella e chiara sera di prima estate. Dei greggi tornano all’ovile e il din-don dei campanacci si mescola ad un grande cantare di grilli o cicale, un grande gri, gri, gri…
   Gesù prende lo spunto dalle mandre che passano. Dice:
   «Il Padre vostro è come un pastore sollecito. Che fa il pastore buono? Cerca pascoli buoni per le sue pecorelle, quelli dove non sono cicute e tossici, ma dolci trifogli, aromatiche mentucce e amari ma salutiferi radicchi. Cerca là dove insieme al cibo sia fresco e puro ruscello e ombria di piante e non regnino aspidi fra il verde delle zolle. Non si cura di preferire i pascoli più grassi perché sa che in essi è facile trovare insidia di colubri e d’erbe nocive, ma dà le sue preferenze ai pascoli montani, dove le rugiade fan monda e fresca l’erbetta, ma il sole la pulisce dai rettili, là dove l’aria è mossa e buona e non pesante e malsana come quella di pianura. Il buon pastore osserva una per una le sue pecore. Le cura se sono malate, le medica se ferite. A quella che si ammalerebbe per troppa ingordigia di cibo dà la voce, all’altra che prenderebbe un male per rimanere troppo all’umido o troppo al sole dice di venire in altro luogo. E se una svogliata non mangia, egli le cerca gli steli aciduli e aromatici atti a risvegliarle l’appetito e glieli porge di sua mano parlandole come a persona amica.
   Così fa il Padre buono che è nei Cieli coi suoi figli erranti sulla Terra. Il suo amore è la verga che li raduna, la sua voce è la guida, i suoi pascoli la sua Legge, il suo ovile il Cielo.

2 Ma ecco che una pecorella lo lascia. Quanto Egli l’amava! Era giovane, pura, candida, come nuvola in cielo d’aprile. Il pastore la guardava con tanto amore, pensando a quanto bene poteva ad essa fare e quanto amore riceverne. Ed essa lo abbandona.
   É passato, lungo la via che costeggia il pascolo, un tentatore. Non ha la casacca austera, ma veste una veste di mille colori. Non ha cintura di pelle con l’ascia e il coltello pendenti, ma una cintura d’oro da cui pendono sonagli argentini, melodiosi come voce di usignolo, e fiale di essenze che inebbriano… Non ha bordone come il pastore buono col quale radunare e difendere le pecore, e se non basta il bordone egli è pronto a difenderle con l’ascia e coltello e anche con la vita. Ma questo tentatore che passa ha fra le mani un turibolo brillante di gemme, da cui sale un fumo che è lezzo e profumo insieme, ma che sbalordisce così come lo sfaccettio dei gioielli – oh! quanto falsi! – abbacina. Egli va cantando e lascia cadere manate di un sale che brilla sulla strada oscura…
   Novantanove pecore guardano e stanno.
   La centesima, la più giovane e cara, fa un balzo e scompare dietro al tentatore. Il pastore la chiama. Ma lei non torna. Va più veloce del vento per raggiungere colui che è passato e, per sorreggersi nella corsa, gusta di quel sale che le scende dentro e la brucia di un delirio strano per cui anela ad acque fonde e verdi in un cupo di selve. E nelle selve, dietro il tentatore, si sprofonda e penetra e sale e scende e cade… una, due, tre volte. E una, due, tre volte sente intorno al suo collo l’abbraccio viscido dei rettili, e volendo bere beve acque inquinate, e volendo nutrirsi morde erbe lucide di bave schifose.

3 Che fa intanto il pastore buono? Chiude al sicuro le novantanove fedeli e poi si pone in cammino, e non resta di andare sinché non trova tracce della perduta. Poiché ella non torna a lui, che pure affida ai venti le sue parole di richiamo, egli va a lei. E la vede da lungi, ebbra fra le spire dei rettili, tanto ebbra che non sente nostalgia del volto che l’ama; e lo deride. E la rivede, colpevole di esser penetrata, ladra, nell’altrui dimora, tanto colpevole che non osa più guardarlo… Eppure il pastore non si stanca… e va. La cerca, la cerca, la segue, l’incalza. Piangendo sulle tracce della perduta – lembi di vello: lembi d’anima; tracce di sangue: delitti diversi; lordure: prove della sua lussuria – egli va e la raggiunge.
   Ah! ti ho trovata, diletta. Ti ho raggiunta! Quanto cammino ho fatto per te. Per riportarti all’ovile. Non chinare la fronte avvilita. Il tuo peccato è sepolto nel mio cuore. Nessuno, fuorché Io che ti amo, lo conoscerà. Io ti difenderò dalle critiche altrui, ti coprirò con la mia persona per farti scudo contro le pietre degli accusatori. Vieni. Sei ferita? Oh! mostrami le tue ferite. Le conosco. Ma voglio che tu me le mostri con la confidenza che avevi quando eri pura e guardavi a me, tuo pastore e dio, con occhio innocente. Eccole. Hanno tutte un nome. Come sono profonde! Chi te le ha fatte tanto profonde queste nel fondo del cuore? Il Tentatore, lo so. É lui che non ha bordone né ascia, ma che colpisce più a fondo col suo morso avvelenato, e dietro a lui colpiscono i gioielli falsi del suo turibolo: coloro che ti hanno sedotta col loro brillare… e che erano zolfi d’inferno tratti alla luce per arderti il cuore. Guarda quante ferite! Quanto vello lacerato, quanto sangue, quanti rovi.

 4 O povera piccola anima illusa! Ma dimmi: se Io ti perdono, tu mi ami ancora? Ma dimmi: se Io ti tendo le braccia, tu vi accorri? Ma dimmi: hai sete dell’amore buono? E allora vieni e rinasci. Torna nei pascoli santi. Piangi. Il tuo col mio pianto lavano le tracce del tuo peccato, ed Io per nutrirti, poiché sei consumata dal male che ti ha arsa, mi apro il petto, le vene mi apro, e ti dico: “Pasciti, ma vivi!”. Vieni, che ti prendo sulle braccia. Andremo più solleciti ai pascoli santi e sicuri. Tutto dimenticherai di quest’ora disperata. E le novantanove sorelle, le buone, giubileranno per il tuo ritorno perché, Io te lo dico, mia pecorella smarrita che ho cercato venendo da tanto lontano, che ho raggiunto, che ho salvato, si fa più festa fra i buoni per uno smarrito che torna, che non per novantanove giusti che mai si sono allontanati dall’ovile». Gesù non si è mai voltato a guardare sulla via che ha alle spalle e sulla quale è sopraggiunta, fra le penombre della sera, Maria di Magdala, ancora elegantissima, ma vestita almeno, e ricoperta da un velo oscuro che ne confonde i tratti e le forme. Ma quando Gesù parla dal punto: «Io ti ho trovata, diletta», Maria porta le mani sotto al velo e piange, piano e continuamente. La gente non la vede perché ella è al di qua dell’argine che borda la via. La vede solo la luna ormai alta e lo spirito di Gesù…

   il quale mi dice: «Il commento è nella visione. Ma te ne parlerò ancora. Ora riposa perché è ora. Ti benedico, Maria  fedele».

   Cap. CCXLI. Vocazione della figlia di Filippo. L’arrivo a Magdala e la parabola della dramma perduta.

   2 agosto 1945.
 
 La barca bordeggia il tratto da Cafarnao a Magdala.
   Maria di Magdala è per la prima volta nella sua posa abituale di convertita: seduta sul fondo della barca ai piedi di Gesù, che è invece austeramente seduto su una delle panchette della stessa barca. Il viso della Maddalena è oggi molto diverso da quello di ieri; non è ancora il viso radioso della Maddalena che corre incontro al suo Gesù ogni volta che Egli va a Betania, ma è già un viso sgombro da timori e da tormenti, e l’occhio, che prima era avvilito per quanto prima ancora era sfrontato, ora è serio ma sicuro, e nella sua dignitosa serietà brilla ogni tanto una scintilla di letizia ascoltando Gesù che parla con gli apostoli o con sua Madre e Marta.
   Parlano della bontà di Porfirea, così semplice e così amorosa, parlano dell’accoglienza affettuosa di Salome e delle donne di Bartolomeo e Filippo, e il medesimo dice: «Se non fosse che sono ancora molto fanciulle, e la madre è contraria a saperle per le vie, esse pure ti seguirebbero, Maestro».
   «Mi segue l’anima loro. Ed è ugualmente santo amore.

 2 Filippo, ascoltami. La tua maggiore sta per essere promessa, non è vero?».
   «Sì, Maestro. Un degno sponsale e un buono sposo. Non è vero, Bartolomeo?».
   «È vero. Ne sono garante perché conosco la famiglia. Non ho potuto accettare di essere io chi propone l’affare, ma lo avrei fatto, se non fossi trattenuto presso il Maestro, con piena pace di creare una santa famiglia».
   «Ma la fanciulla mi ha pregato di dirti di non farne nulla».
   «Non le piace lo sposo? È in errore. Ma la gioventù è folle.
   Spero si persuaderà. Non c’è motivo di respingere un ottimo sposo. A meno che… No, non può essere!», dice Filippo.
   «A meno che? Termina, Filippo», sprona Gesù.
   «A meno che non ami un altro. Ma non è possibile! Non esce mai di casa e in casa vive molto ritirata. Non è possibile!».
   «Filippo, ci sono amatori che penetrano anche nelle case più chiuse; che sanno parlare a quelle che amano nonostante tutte le barriere e le sorveglianze; quelli che abbattono ogni ostacolo di vedovanze, o di fanciullezze ben custodite, o… di altro ancora, e che prendono quelle che vogliono. E ci sono anche amatori che non possono essere rifiutati. Perché sono prepotenti nel volere. Perché sono seducenti nel convincere ogni resistenza, fosse anche quella del demonio. Tua figlia ama uno di questi. E il più potente».
   «Ma chi? Uno della corte di Erode?».
   «Quella non è potenza!».
   «Uno… uno della casa del Proconsole, un patrizio romano?
 Non lo permetterò a nessun costo. Il puro sangue d’Israele non avrà contatti col sangue impuro. A costo di uccidere mia figlia.

 Non sorridere, Maestro! Io soffro!».
   «Perché sei come un cavallo imbizzarrito. Vedi ombre dove è solo luce. Ma sta’ quieto. Non è che un servo anche il Proconsole, e servi sono i suoi patrizi amici, e servo è Cesare».
   «Ma Tu scherzi, Maestro! Mi hai voluto fare paura. Non c’è nessuno più grande di Cesare e più padrone di lui».
   «Ci sono Io, Filippo».
   «Tu? Tu vuoi sposare mia figlia?!».
  «No. La sua anima. Sono Io l’amatore che penetra nelle case più chiuse e nei cuori ancor più serrati da sette e sette chiavi. Sono Io che so parlare nonostante tutte le barriere e sorveglianze. Sono Io che abbatto tutti gli ostacoli e prendo ciò che voglio prendere: puri e peccatori, vergini e vedovi, liberi da vizi e schiavi di essi. E a tutti do un’unica e nuova anima, rigenerata, beatificata, eternamente giovane. Gli sponsali miei. E nessuno può rifiutare di darmi le mie dolci prede. Non padre, non madre, non figli e neppure Satana. Sia che Io parli all’anima di una fanciulla come è la tua figlia, o di un peccatore im merso nel peccato e tenuto da Satana con sette catene, l’anima viene a Me. E nulla e nessuno me la strappa più. Né nessuna ricchezza, potenza, gioia del mondo, comunica la letizia perfetta che è di quelli che si coniugano con la mia povertà, con la mia mortificazione. Nudi di ogni povero bene, rivestiti di ogni celeste bene. Ilari della serenità di essere di Dio, solo di Dio… Essi sono i padroni della Terra e del Cielo. La prima perché la signoreggiano, il secondo perché lo conquistano».
   «Ma nella nostra Legge ciò non è mai stato!», esclama Bartolomeo.
   «Spògliati dell’uomo vecchio, Natanaele. Quando ti ho visto per la prima volta ti ho salutato dicendoti perfetto israelita senza frode. Ma ora tu sii di Cristo, non di Israele. Siilo senza frode e senza lacci. Rivestiti di questa nuova mentalità. Altrimenti non potrai capire tante bellezze della redenzione che Io sono venuto a portare alla Umanità tutta».
   Filippo interviene dicendo: «E mia figlia dici che è stata chiamata da Te? E che farà ora? Io non te la contrasto di certo. Ma voglio sapere, anche per aiutarla, in che è la sua chiamata…».
   «Nel portare i gigli di un amore verginale nel giardino di Cristo. Ce ne saranno tante nei secoli avvenire!… Tante!… Aiuole di incensi per controbilanciare le sentine dei vizi. Anime oranti per controbilanciare i bestemmiatori e gli atei. Aiuto a tutte le infelicità umane e gioia di Dio».

 4 Maria di Magdala apre le labbra per chiedere, e lo fa arrossendo ancora ma con più spigliatezza degli altri giorni: «E noi, le rovine che Tu edifichi, che diventiamo?».
   «Quello che sono le sorelle vergini…».
   «Oh! non può essere! Abbiamo calpestato troppo fango e… e… e non può essere».
   «Maria, Maria! Gesù non perdona mai a metà. Ti ha detto che ti ha perdonato. E così è. Tu e tutti coloro che come te peccarono, e che il mio amore perdona e disposa, profumerete, pregherete, amerete, conforterete, rese conscie del male e atte a curarlo dove è, anime che per gli occhi di Dio sono martiri. Care perciò come le vergini».
   «Martiri? In che, Maestro?».
   «Contro voi stesse e i ricordi del passato e per sete di amore e di espiazione».
   «Lo devo credere?…». La Maddalena guarda tutti quelli che sono nella barca, chiedendo conferma alla sua speranza che si accende.
   «Chiedilo a Simone. Parlai di te e di voi peccatori in genere, in una sera stellata, nel tuo giardino. E i tuoi fratelli tutti ti possono dire se la mia parola non ha cantato per tutti i redenti i prodigi della Misericordia e della conversione».
   «Me ne ha parlato, con voce di angelo, anche il bambino.
   Sono tornata con l’anima rinfrescata da quella sua lezione. Mi ha fatto conoscere Te meglio ancora di mia sorella, tanto che oggi mi sentivo più forte per affrontare Magdala. Ora che Tu mi dici questo, io sento crescere la mia fortezza. Ho dato scandalo al mondo. Ma, te lo giuro, mio Signore, ora il mondo guardando me giungerà a comprendere cosa è il tuo potere».
   Gesù le posa per un momento la mano sul capo, mentre Maria Ss. le sorride come Lei sa fare: paradisiacamente.

 5 Ecco Magdala stesa al bordo del lago, con il sole sorgente di fronte, la montagna d’Arbela alle spalle che la protegge dai venti, e la stretta valle dirupata e selvaggia, da cui sbocca un torrentello nel lago, che si inoltra verso l’occidente con le sue coste a picco, piene di una bellezza fascinosa e severa.
   «Maestro», grida Giovanni dall’altra barca, «ecco la valle del nostro ritiro…», e splende in volto come gli si fosse acceso un sole nell’interno.
   «La nostra valle, sì. L’hai ben riconosciuta».
   «Non si può non ricordare i luoghi dove si è conosciuto Iddio», risponde Giovanni.
   «Allora io ricorderò sempre questo lago. Perché su esso ti ho conosciuto. Lo sai, Marta, che qui ho visto il Maestro, una mattina?…».
   «Sì, e per poco si va tutti a fondo, noi e voi. Donna, credi pure che i tuoi rematori non valevano uno spicciolo», dice Pietro che sta facendo la manovra di approdo.
   «Non valevano nulla né i rematori né chi era con essi… Ma è sempre stato il primo incontro, e questo ha un grande valore. E poi ti ho visto sul monte, e poi a Magdala, e poi a Cafarnao… Tanti incontri, tante catene spezzate… Ma Cafarnao è stato il luogo più bello. Lì mi hai liberata…».

 6 Scendono a terra dove già sono scesi quelli dell’altra barca. Entrano in città.
   La curiosità semplice o… non semplice dei magdaliti deve essere come una tortura per la Maddalena. Ma la sopporta eroicamente, seguendo il Maestro che è avanti, framezzo a tutti i suoi apostoli, mentre le tre donne sono dopo di loro. Il bisbiglio è forte. L’ironia non manca. Tutti quelli che, finché Maria era la signora prepotente di Magdala, la rispettavano in apparenza per tema di rappresaglie, ora che la vedono e la sanno staccata per sempre dai suoi amici potenti, umile e casta, si permettono di mostrarle anche disprezzo e lanciarle epiteti poco lusinghieri.
   Marta, che soffre quanto lei di questo, le chiede: «Vuoi ritirarti in casa?».
   «No. Non lascio il Maestro. E Lui, prima che la casa sia purificata da ogni traccia del passato, non lo invito là dentro».
   «Ma tu soffri, sorella!».
   «Me lo sono meritato». E, soffrire, deve soffrire. Il sudore che le imperla la faccia, il rossore che la copre fin sul collo non sono solo dovuti al caldo.
   Traversano tutta Magdala andando nei quartieri poveri, fi* no alla casa dove sostarono l’altra volta. La donna rimane di stucco quando, alzando il capo dal lavatoio per vedere chi la saluta, si trova di fronte Gesù e la ben nota signora di Magdala, non più pomposa, non più ingioiellata, ma con la testa velata da un lino leggero, vestita di viola pervinca, un abito accollato, stretto, certo non suo nonostante che si sia lavorato a farlo tale, fasciata in un mantello pesante che deve essere un supplizio con quel calore.
   «Mi permetti di sostare nella tua casa e parlare di qui a chi mi segue?». Ossia a tutta Magdala, perché tutta la popolazione ha fatto coda al gruppo apostolico.
   «E me lo chiedi, Signore? Ma la mia casa è tua». E si dà da fare a portare sedie e panche alle donne e agli apostoli.
   Passando presso la Maddalena ha un inchino da schiava.
   «Pace a te, sorella», risponde questa. E la sorpresa della donna è tale che lascia cadere il panchetto che ha fra le mani. Ma non dice niente. L’atto però mi fa pensare che Maria trattasse i suoi sudditi piuttosto superbamente. E finisce di strabiliare, la donna, quando si sente chiedere come stanno i bambini, dove sono, e se la pesca ha dato buoni frutti.
   «Bene stanno… Sono a scuola o dalla madre mia. Solo il piccolo dorme nella cuna… La pesca è buona. Mio marito ti porterà le decime…».
   «Non occorre più. Usale per i tuoi bambini. Mi lasci vedere il pargolo?».
   «Vieni»…

 7 La gente si è affollata sulla via.
   Gesù inizia a parlare:
   «Una donna aveva dieci dramme nella sua borsa. Ma in un movimento la borsa le cadde dal seno, aprendosi, e le monete ruzzolarono per terra. Ella le raccolse con l’aiuto delle vicine presenti e le contò. Erano nove. La decima era introvabile. Dato che era prossima la sera e la luce mancava, la donna accese la lampada, la posò al suolo e presa una scopa si dette a scopare attentamente per vedere se era ruzzolata lontano dal luogo dove era caduta. Ma la dramma non si trovava. Le amiche se ne andarono stanche di ricerche. La donna spostò allora il cassapanco, la scansia, il cofano pesante, smosse le anfore e gli orcioli posati nella nicchia del muro. Ma la dramma non si trovava. Allora si pose carponi e cercò nel mucchio delle spazzature, messo contro la porta di casa, per vedere se la dramma era rotolata fuori di casa mescolandosi agli avanzi delle verdure. E trovò infine la dramma tutta sporca, sepolta quasi dalle spazzature ricadute su di essa.
   La donna giubilante la prese, la lavò, l’asciugò. Era più bella di prima, ora. E la mostrò alle vicine che chiamò di nuovo a gran voce, e che si erano ritirate dopo averla aiutata nelle prime ricerche, dicendo: “Ecco! Vedete? Voi mi consigliavate di non faticare più. Ma io ho insistito e ho ritrovato la dramma perduta. Rallegratevi perciò con me che non ho avuto il dolore di perdere uno solo dei miei tesori”.

 8 Anche il Maestro vostro, e con Lui i suoi apostoli, fa come la donna della parabola. Egli sa che un movimento può far cadere un tesoro. Ogni anima è un tesoro e Satana, che è astioso di Dio, provoca i mal movimenti per fare cadere le povere anime. C’è chi nella caduta si ferma presso la borsa, ossia va poco lontano dalla Legge di Dio che raccoglie le anime nella salvaguardia dei comandamenti. E c’è chi va più lontano, ossia si allontana più ancora da Dio e dalla sua Legge. C’è infine chi rotola fino nelle spazzature, nelle lordure, nel fango. E là finirebbe a perire con l’essere arso nei fuochi eterni, così come le immondezze vengono arse in luoghi acconci.
   Il Maestro lo sa e cerca instancabile le monete perdute. Le cerca in ogni luogo, con amore. Sono i suoi tesori. E non si stanca e non si ripugna di nulla. Ma fruga, fruga, smuove, spazza, finché trova. E trovato che abbia, lava l’anima ritrovata col suo perdono e chiama gli amici, tutto il Paradiso e tutti i buoni della Terra, e dice: “Rallegratevi con Me perché ho trovato ciò che si era smarrito, ed è più bello di prima perché il mio perdono lo fa nuovo”.
   In verità vi dico che si fa molta festa in Cielo e giubilano gli angeli di Dio e i buoni della Terra per un peccatore che si converte. In verità vi dico che non c’è cosa più bella delle lacrime del pentimento. In verità vi dico che solo i demoni non sanno, non possono giubilare per questa conversione che è un trionfo di Dio. E anche vi dico che il modo come un uomo accoglie la conversione di un peccatore è misura della sua bontà e della sua unione con Dio.
   La pace sia con voi».
   La gente capisce la lezione e guarda la Maddalena, venuta a sedersi sulla porta con il poppante fra le braccia, forse per darsi un contegno, e sfolla lentamente rimanendo solo la padrona della casetta e la madre sua sopraggiunta coi bambini. Manca Beniamino, ancora a scuola.

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!