San Giuseppe da Leonessa prega per noi – 4 febbraio

Prigioniero dei Turchi a Costantinopoli, fra Giuseppe era restato per tre giorni appeso a una croce per un piede e per una mano. E non era morto. Dio solo sa come riuscisse a sopravvivere a quel supplizio, e come si rimarginassero le sue terribili ferite. Si parlò dell’intervento miracoloso di un Angelo, che avrebbe sostenuto il suo corpo e curato le sue piaghe.

Certo non era facile spiegare in altro modo quella resistenza che sfidava tutte le leggi naturali, comprese quelle – terribilmente logiche – della tortura. E quasi un miracolo fu il fatto che il Sultano, forse ammirato per l’accaduto, commutasse la pena di morte con l’esilio perpetuo.

A Costantinopoli, il cappuccino Fra Giuseppe aveva compiuto un gesto degno veramente da folle. Aveva tentato di entrare nel palazzo per predicare davanti al Sultano in persona, sperando di convertirlo. Catturato dalle guardie, era stato giudicato reo di lesa maestà.

Bisogna dire che fino allora i Turchi lo avevano lasciato libero di predicare in città, dopo aver assistito i cristiani prigionieri. L’estrema povertà del frate e dei suoi compagni, sotto il saio color tabacco, lasciava perplessi i rappresentanti del potere e della religione ufficiale. Era difficile vedere in quegli umilissimi stranieri, sprovvisti di tutto, altrettanti pericolosi cospiratori contro la sicurezza dello Stato.

Giuseppe era nato nel 1556, a Leonessa, e nella cittadina laziale dal fiero nome, presso Spoleto, era entrato sedicenne tra i cappuccini della riforma, mutando il nome di Eufrasio Desiderato in quello dell’umile sposo della Vergine. Aveva compiuto il proprio noviziato nel convento delle Carceri, sopra Assisi, e in quella piega boscosa del Subasio si era temprato alla più dura penitenza e alla più rigorosa astinenza.

Con una tipica espressione francescana, chiamava il proprio corpo « frate asino », e diceva che come tale non aveva bisogno di essere trattato come un corsiero, un purosangue. Bastava trattarlo come un asino, con poca paglia e molte frustate.

La paglia forse si, ma le frustate – come abbiamo visto – non gli erano mancate durante la sua avventura in Turchia, dove il generale dell’Ordine lo aveva inviato, trentenne, per assistervi i prigionieri cristiani.

Tornato in Italia, poté seguire quella vocazione missionaria che l’aveva spinto a predicare davanti al Sultano. Questa volta, però, fu predicatore sull’uscio di casa, nei villaggi e nella città reatina, sua patria. I risultati furono altrettanto consolanti, e il suo zelo di carità ancor più necessario, perché il più difficile terreno di missione è spesso quello stesso sul quale fiorisce la santità in mezzo alle ortiche del vizio e ai rovi dell’indifferenza.

Cinquantacinquenne, s’infermò, ritirandosi nel convento d’Amatrice. Gli venne diagnosticato un tumore, e si tentò di operarlo, Dio sa come. Fu quello il suo secondo supplizio, ma rifiutò di essere legato, come suggerivano i medici. E non si sollevò più dal lettuccio chirurgico. Come anestetico si era stretto al petto, lungamente, il Crocifisso.

MARTIROLOGIO ROMANO. Ad Amatrice nel Lazio, san Giuseppe da Leonessa, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, che a Costantinopoli aiutò i prigionieri cristiani e, dopo aver duramente patito per aver predicato il Vangelo fin nel palazzo del Sultano, tornato in patria rifulse nella cura dei poveri.

Nome: San Giuseppe da Leonessa
Titolo: Cappuccino
Nascita: 8 gennaio 1556, Leonessa
Morte: 4 febbraio 1612, Amatrice
Ricorrenza: 4 febbraio
Tipologia: Commemorazione
Patrono di: Leonessa
Protettore: delle missioni

Vangelo Mt 25, 14-23: ” Signore, me ne hai affidati due; eccone guadagnati altri due”.

Vangelo Mt 25, 14-23
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Un uomo, in procinto di partire, chiamati i servi consegnò loro i suoi beni: a chi diede cinque talenti, a chi due, a chi uno: a ciascuno secondo la sua capacità, e subito partì. Tosto colui, che aveva ricevuto cinque talenti, andò a negoziarli e ne guadagnò altri cinque. Similmente quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Ma colui che ne aveva ricevuto uno andò a fare una buca nella terra e vi nascose il danaro del suo padrone. Or molto tempo dopo ritornò il padrone di quei servi, e li chiamò a render conto. E venuto quello che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque dicendo: “Signore, me ne desti cinque, ecco ne ho guadagnati altri cinque”. E il padrone a lui: “Bene, servo buono e fedele, perché sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; entra nella gioia del tuo Signore”. E presentatosi l’altro che aveva ricevuto due talenti, disse: “Signore, me ne hai affidati due; eccone guadagnati altri due”. E il padrone a lui: “Bene, servo buono e fedele, perché sei stato fedele, nel poco, ti darò potere su molto: entra nella gioia del tuo Signore”».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
“Bene, servo buono e fedele, perché sei stato fedele, nel poco, ti darò potere su molto: entra nella gioia del tuo Signore”».

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo

   Cap. CCLXX. La notizia dell’uccisione di Giovanni Battista.

   4 settembre 1945

 1 Gesù sta guarendo dei malati senz’altra assistenza di quella di Mannaen. Sono nella casa di Cafarnao, nell’orto ombroso in questa ora mattutina. Mannaen non ha più né cintura preziosa né lamina d’oro alla fronte. Il vestito è tenuto raccolto da un cordone di lana e il copricapo da una strisciolina di tela. Gesù è a testa nuda, come sempre quando è in casa.
  Finito di guarire e di consolare i malati, Gesù sale con Mannaen nella stanza alta e si siedono ambedue sul davanzale della finestra che guarda il monte, perché la parte del lago è tutta presa dal sole che è ancora ben caldo, nonostante che la canicola debba essere superata da qualche tempo.
  «Fra poco hanno inizio le vendemmie», dice Mannaen.
  «Già. E poi verranno i Tabernacoli… e sarà presto l’inverno. Tu quando conti di partire?».
  «Umh!… Io non partirei mai… Ma penso al Battista. Erode è un debole. Saputo suggestionare in bene, se non diventa buono, rimane per lo meno… non sanguinario. Ma sono pochi quelli che lo consigliano bene. E quella donna!… Quella donna!… Ma vorrei stare qui finché non tornano i tuoi apostoli. Non che io presuma molto di me… ma qualche cosa valgo ancora… benché il mio auge sia molto diminuito da quando hanno capito che seguo le vie del Bene. Ma non me ne importa. 

 2 Vorrei avere il vero coraggio di sapere abbandonare tutto per seguire Te completamente, come quei discepoli che Tu aspetti. Ma ci riuscirò mai? Noi che non siamo del popolo, siamo più duri a seguirti. Perché?».
  «Perché avete i tentacoli delle povere ricchezze che vi trattengono».
  «Veramente so anche di alcuni che non sono propriamente ricchi, ma dotti o sulla via di essere dotti, ed essi pure non vengono».
  «Anche essi hanno i tentacoli delle povere ricchezze che li trattengono. Non si è ricchi solo di denaro. Vi è anche la ricchezza del sapere. Pochi giungono alla confessione di Salomone: “Vanità delle vanità, tutto è vanità”, ripresa e ampliata non tanto materialmente quanto in profondità nel Cioelet[71]. L’hai presente? La scienza umana è vanità, perché aumentare soltanto l’umano sapere “è affanno e afflizione di spirito, e chi moltiplica la scienza moltiplica gli affanni”. In verità te lo dico che così è. E anche dico che così non sarebbe se l’umana scienza fosse sostenuta e imbrigliata dalla soprannaturale sapienza e dal santo amore di Dio. Il piacere è vanità perché il piacere non dura, ma rapido dilegua dopo aver arso lasciando cenere e vuoto. I beni accumulati con svariate industrie sono vanità per l’uomo che muore, perché ad altri li lascia e coi beni non può respingere la morte. La donna, contemplata come femmina e come tale appetita, è vanità. Onde si conclude che l’unica cosa che vanità non sia è la santa temenza di Dio e l’ubbidienza ai suoi comandi, ossia la sapienza dell’uomo, che non è solo carne ma possiede la seconda natura: quella spirituale. Chi sa così concludere e volere, sa staccarsi da ogni tentacolo di povero possesso e andare libero incontro al Sole».
  «Mi voglio ricordare queste parole. Quanto mi hai dato in questi giorni! Ora posso andare nella bruttura della Corte, che pare luminosa solo agli stolti, che pare potente e libera, e non è che miseria, carcere e tenebra, e andarvi con un tesoro che mi permetterà di vivervi meglio in attesa del meglio. Ma vi giungerò mai io a questo meglio, che è l’essere tuo totalmente?».
  «Vi giungerai».
  «Quando? L’anno prossimo? O più là? O quando la vecchiaia mi farà saggio?».
  «Vi giungerai raggiungendo maturità di spirito e perfezione di volere nel volgere di poche ore».
  Mannaen lo guarda pensieroso, indagatore… Ma non chiede altro.
  Un silenzio. Poi Gesù dice: «Hai mai avvicinato Lazzaro di Betania?».
  «No, Maestro. Posso dire di no. Che se ci fu qualche incontro non può dirsi amicizia. Sai… Io con Erode, e Erode contro di lui… Perciò…».
  «Lazzaro ora ti vedrebbe oltre le cose, in Dio. Devi cercare di avvicinarlo come condiscepolo».
  «Lo farò se Tu lo vuoi…».

 3 Delle voci agitate si sentono nell’orto. Chiedono con ansia:
  «Il Maestro! Il Maestro! Qui è?».
  Risponde la voce cantante della padrona di casa: «Nella stanza alta è. Chi siete? Malati?».
  «No. Discepoli di Giovanni e vogliamo Gesù di Nazaret».
  Gesù si affaccia dalla finestra dicendo: «La pace sia a voi…
  Oh! Voi siete? Venite! Venite!».
  Sono i tre pastori Giovanni, Mattia e Simeone. «Oh! Maestro!», dicono alzando il capo e mostrando un volto addolorato. Neppure la vista di Gesù li rasserena.
  Gesù lascia la stanza andando loro incontro sulla terrazza. Mannaen lo segue. Si incontrano proprio là dove la scaletta sbocca sul terrazzo assolato.
  I tre si inginocchiano baciando il suolo. E poi Giovanni per tutti dice: «Ed ora raccoglici, Signore, perché noi siamo la tua eredità», e delle lacrime scendono sul volto del discepolo e dei compagni.
  Gesù e Mannaen hanno un solo grido: «Giovanni!?».
  «È stato ucciso…».
  La parola cade come fosse un enorme fragore che copra ogni rumore del mondo. Eppure è stata detta molto piano. Ma pietrifica chi la dice e chi la sente. E sembra che la Terra, per raccoglierla e per raccapricciarne, sospenda ogni suo rumore, tanto vi è un periodo di silenzio profondo e di profonda immobilità negli animali, nelle fronde, nell’aria. Sospeso lo sgrugolio dei colombi, troncato il flauto di un merlo, ammutolito il coro dei passeri e, quasi gli si fosse spezzato di colpo l’ordigno, una cicala frinente tace improvvisamente, mentre si sospende il vento che carezzava pampini e foglie facendo fruscio di seta e cigolio di pali.

 4 Gesù diventa di un pallore di avorio mentre gli occhi gli si dilatano invetrandosi di pianto. Apre le braccia dicendo, e la voce è profonda per lo sforzo di renderla sicura: «Pace al Martire della giustizia ed al mio Precursore». Poi raccoglie le braccia e lo spirito e certo prega, comunicando con lo Spirito di Dio e del Battista.
  Mannaen non osa un gesto. Al contrario di Gesù, egli è arrossito vivamente ed ha avuto un moto d’ira. Poi si è irrigidito, e tutto il suo turbamento si rivela dal movimento meccanico della destra, che cincischia il cordone della veste, e della sinistra che involontariamente cerca il pugnale… e Mannaen scuote il capo commiserando la sua debolezza di mente che non ricorda di essersi disarmato per essere «il discepolo del Mite, presso il Mite».
  Gesù riapre la bocca e gli occhi. Il suo viso, il suo sguardo, la sua voce, hanno ripreso la maestà divina che gli sono abituali. Solo permane una grave mestizia temperata di pace.
  «Venite. Mi racconterete. Da oggi siete miei». E li conduce nella stanza chiudendo la porta, socchiudendo le tende, a temperare la luce, a far raccoglimento intorno al dolore e alla bellezza della morte del Battista, a far separazione fra questa perfezione di vita e il mondo corrotto.
  «Parlate», ordina.
  Mannaen sembra sempre di pietra. È vicino al gruppo. Ma non dice parola.

 5 «Fu la sera della festa… Imprevedibile l’evento… Solo due ore prima Erode si era consigliato con Giovanni, licenziandolo poi con benignità… E poco, poco prima che avvenisse… l’omicidio, il martirio, il delitto, la glorificazione, aveva mandato un servo con frutta gelate e vini rari al prigioniero. Giovanni aveva distribuito a noi quelle cose… Lui non ha mai mutato la sua austerità… Noi soli c’eravamo, perché per merito di Mannaen noi eravamo nel palazzo come servi alle cucine e alle scuderie. E questa era grazia che ci permetteva di vedere sempre il nostro Giovanni… Eravamo alle cucine io e Giovanni, mentre Simeone sorvegliava i servi di scuderia perché trattassero con cura le cavalcature degli ospiti… Il palazzo era pieno di grandi, di capi militari e di signori di Galilea. Erodiade si era chiusa nelle sue stanze dopo una violenta scena avvenuta al mattino fra lei ed Erode…».
  Mannaen interrompe: «Ma quando era venuta la iena?».
  «Due giorni avanti. Inaspettata… Dicendo al monarca che non poteva vivere lontana da lui ed essere assente nel dì della sua festa. Vipera e maga come sempre, lo aveva reso uno zimbello… Ma Erode al mattino di quel giorno si era rifiutato, benché già ebbro di vino e di lussuria, di concedere alla femmina ciò che chiedeva con alte grida… E nessuno pensava fosse la vita di Giovanni!… Era nelle sue stanze, sdegnosa. Aveva respinto i cibi regali mandati da Erode su vassoi preziosi. Solo aveva trattenuto un vassoio prezioso colmo di frutta, ricompensando il dono con un’anfora di vino drogato per Erode… Drogato… Ah! che bastava la sua natura ebbra e viziosa a drogarlo al delitto! Dai servi di mensa seppimo che dopo la danza delle mime di corte, anzi a metà della stessa, era irrotta nella sala del convito Salomè, danzando. E le mime, davanti alla fanciulla regale, si erano ritirate contro le pareti. La danza era perfetta, ci hanno detto. Lubrica e perfetta. Degna degli ospiti… Erode… Oh! che forse un nuovo gusto di incesto gli fermentava dentro!… Erode, al termine di questa danza, entusiasta, disse a Salomè: “Bene hai ballato! Io lo giuro che meriti premio. Io lo giuro che te lo darò. Io lo giuro che ti darò qualunque cosa che tu mi possa chiedere. Alla presenza di tutti lo giuro. E parola di re è fedele anche senza giuramenti. Chiedi dunque che vuoi”. E Salomè, fingendo perplessità, innocenza e modestia, raccogliendosi nei veli, con mossa pudica dopo tanta impudicizia, disse: “Permettimi, o grande, di riflettere un momento. Mi ritiro e poi verrò, perché la tua grazia mi ha turbata”… E si ritirò andando dalla madre. Selma mi ha detto che entrò ridendo, dicendo: “Madre, hai vinto! Dàmmi il vassoio”. Ed Erodiade con un grido di trionfo ordinò alla schiava di dare alla fanciulla il vassoio trattenuto prima, dicendo: “Va’ e torna con la testa odiata, e ti vestirò di perle e oro”. E Selma, inorridendo, ubbidì… Salomè rientrò danzando nella sala, e danzando andò a prostrarsi ai piedi del re dicendo: “Ecco. Su questo bacile che tu hai mandato alla madre, in segno che l’ami e che mi ami, io voglio la testa di Giovanni. E poi danzerò ancora, se tanto ti piaccio. Danzerò la danza della vittoria. Perché io ho vinto! Ho vinto te, re! Ho vinto la vita, e felice sono!”. Questo disse, e a noi lo ripeté un coppiere amico. E Erode si turbò, preso da due voglie: esser fedele alla parola, essere giusto. Ma non seppe essere giusto, perché un ingiusto è. Fece cenno al carnefice, che era dietro al sedile reale, e quello, preso dalle mani alzate di Salomè il vassoio, scese dalla sala del convito verso le stanze basse. Lo vedemmo traversare la corte io e Giovanni… e dopo poco udimmo il grido di Simeone: “Assassini!” e poi lo vedemmo ripassare con la testa sul vassoio… Giovanni, il tuo Precursore, era morto…».

 6 «Simeone, puoi dirmi come morì?», chiede dopo qualche tempo Gesù.
  «Sì. Era in preghiera…. Mi aveva detto prima: “Fra poco torneranno i due mandati, e chi non crede crederà. Ma però ricorda che, se io più non vivessi al loro ritorno, io, come uno che è presso alla morte, ancor ti dico, perché tu a loro lo ridica:
  ‘Gesù di Nazaret è il vero Messia’”. Pensava sempre a Te… Entrò il carnefice. Io gridai forte. Giovanni alzò il capo e lo vide. Si alzò in piedi. Disse: “Non puoi che troncarmi la vita. Ma la verità, che dura, è che non è lecito fare il male”. E stava per dirmi qualcosa quando il carnefice roteò la spada pesante, mentre ancora Giovanni era in piedi, e la testa cadde dal busto con un gran fiotto di sangue, che fece rossa la pelle caprina e di cera il volto magro in cui rimasero vivi, aperti, accusatori, gli occhi. Mi rotolò ai piedi… Io caddi insieme al corpo di lui, per debolezza di dolore… Dopo… dopo… Dopo che Erodiade l’ebbe sfregiato, fu gettato il capo ai cani. Ma noi lo raccogliemmo pronti ed in un velo prezioso lo legammo insieme al tronco, ricomponendo nella notte il corpo e trasportandolo fuori Macheronte. Lo imbalsamammo in un folto di acacie lì presso, al primo sole, con l’aiuto di altri discepoli… Ma ancora ci fu preso per altri sfregi. Perché ella non può distruggerlo e non può perdonarlo… E i suoi schiavi, temendo la morte, furono più feroci di sciacalli nel levarci quel capo. 

 7 Se tu c’eri, Mannaem!…».
  «Se io c’ero… Ma è la sua maledizione quel capo… Nulla si leva alla gloria del Precursore, anche se incompleto è il corpo. Non è vero, Maestro?».
  «È vero. Anche lo avessero distrutto i cani, non sarebbe mutata la gloria».
  «E non è mutata la parola, Maestro. I suoi occhi, benché sfregiati sotto una gran ferita, dicono ancora: “Non ti è lecito”. Ma noi lo abbiamo perduto!», dice Mattia.
  «E ora siamo tuoi, perché così egli ha detto, dicendo anche che Tu sai già».
  «Sì. Da mesi siete miei. Come veniste?».
  «A piedi, a tappe. Lungo, penoso cammino fra rovente di sabbie e di sole e ancor più rovente di dolore. Sono quasi venti giorni che camminiamo…».
  «Ora riposerete».
  Mannaen chiede: «Dite: Erode non si stupì della mia assenza?».
  «Sì. E fu inquieto prima e furente poi. Ma passato il furore disse: “Un giudice di meno”. Così ci riferì il coppiere amico».
  Gesù dice: «Un giudice di meno! Ha Dio per giudice e basta quello. Venite dove dormiamo. Siete stanchi e polverosi. Troverete vesti e sandali dei compagni vostri. Prendeteli, ristoratevi. Ciò che è di uno è di tutti. Tu, Mattia, che alto sei, puoi prendere una mia veste. Poi provvederemo. Entro sera, poiché è vigilia del sabato, verranno gli apostoli miei. Nella settimana prossima verrà Isacco coi discepoli e poi verranno Beniamino e Daniele; dopo i Tabernacoli, Elia, Giuseppe e Levi verranno pure. È tempo che ai dodici si uniscano altri. Andate ora al riposo».
  Mannaen li accompagna e poi torna. 

 8 Gesù resta con Mannaen. Si siede pensieroso, visibilmente triste, col capo reclinato sulla mano, il gomito puntato sul ginocchio a far da sostegno. Mannaen è seduto presso la tavola e non si muove. Ma è cupo. Il suo volto è una tempesta.
  Dopo molto Gesù alza il capo, lo guarda e chiede: «E tu? Che farai ora?».
  «Non lo so ancora… Lo scopo di rimanere a Macheronte è finito. Ma vorrei ancora rimanere presso la Corte per sapere…
 per proteggere Te, sapendo».
  «Ti converrebbe meglio seguirmi senza indugio. Ma non ti forzo. Verrai quando sarà disfatto, molecola a molecola, il vecchio Mannaen».
  «Vorrei anche levare quella testa a quella donna. Non è degna di averla…».
  Gesù ha un pallido accenno di sorriso e, schietto, dice: «E poi non sei ancora morto alle ricchezze umane. Ma mi sei caro ugualmente. So che non ti perdo, anche se attendo. Io so attendere…».
  «Maestro, io vorrei darti la mia generosità per consolarti…
  Perché Tu soffri. Lo vedo».
  «È vero. Io soffro. Molto! Molto!…».
  «Solo per Giovanni? Non credo. Tu lo sai in pace».
  «Lo so in pace e non lo sento lontano».
  «E allora?».
  «E allora!… Mannaen, l’alba cosa precede?».
  «Il giorno, Maestro. Perché lo chiedi?».
  «Perché la morte di Giovanni precede il giorno in cui sarò il Redentore. E la parte umana di Me freme di fronte a questa idea… Mannaen, Io vado sul monte. Resta tu a ricevere chi viene, a soccorrere quelli che già sono venuti. Resta fino al mio ritorno. Poi… farai ciò che vorrai. Addio».
  E Gesù esce dalla stanza. Scende piano la scaletta, traversa l’orto e, per la parte posteriore di esso, si imbuca in un sentieruolo fra orti scapigliati e frutteti di ulivi, meli, viti e fichi, e prende il pendio di un piccolo colle dove mi scompare alla vista.

   Cap. CCCXLVIII. Mannaen riferisce su Erode Antipa e da Cafarnao va con Gesù a Nazareth. Svelate le trasfigurazioni della Vergine.

   2 Dicembre 1945

 1 Quando pongono piede sulla spiaggetta di Cafarnao, sono accolti dal gridìo dei bambini che emulano le rondini indaffarate alla costruzione dei nidi novelli, tanto scorrono veloci, garrendo con le loro vocette, dalla spiaggia alle case, ilari della semplice gioia dei fanciulli, per i quali è spettacolo meraviglioso e magico oggetto un pesciolino trovato morto sulla riva, o un sassetto che l’onda ha levigato e che, per il suo colore, sembra una pietra preziosa, o il fiore scoperto fra due sassi, o lo scarabeo cangiante catturato a volo. Tutti prodigi da far vedere alle mamme, perché prendano parte alla gioia del loro figliolino.
   Ma ora queste rondinelle umane hanno visto Gesù e tutti i loro voli convergono verso di Lui, che sta per porre piede sulla spiaggetta. Ed è una tiepida valanga viva di carni fanciulle, è una catena soave di manine tenerelle, è un amore di cuori infantili quello che si abbatte su Gesù, che ne è stretto, legato, riscaldato come da un dolce fuoco. 
   «Io! Io!».
   «Un bacio!».    
   «A me!».
   «Anche io!».
   «Gesù! Ti voglio bene!».
   «Non andare più via per tanto!».
   «Venivo tutti i giorni qui a vedere se venivi».
   «Io andavo alla tua casa».
   «Tieni questo fiore, era per la mamma, ma te lo do».
   «Ancora un bacio a me, bello forte. Quello di prima non mi ha toccato perché Giaele mi ha spinto indietro..».
   E le vocette continuano mentre Gesù tenta camminare fra quella rete di tenerezze.
   «Ma lasciatelo un po stare! Via! Basta!», gridano discepoli e apostoli cercando di allentare la stretta. Ma sì! Sembrano liane munite di ventose! Di qui vengono staccate, di là si appiccicano.
   «Lasciate! Lasciate fare! Con pazienza arriveremo», dice sorridendo Gesù, e fa passi inverosimilmente piccoli per potere procedere senza calpestare i piedini nudi.

 2 Ma quello che lo libera dall’amorosa stretta è il sopraggiungere di Mannaen con altri discepoli, fra i quali i pastori che erano in Giudea.
   «La pace a te, Maestro!», tuona l’imponente Mannaen nel suo splendido abito, senza più ori alla fronte e alle dita, ma con una magnifica spada al fianco che suscita l’ammirazione venerabonda dei bambini, i quali, davanti a questo magnifico cavaliere vestito di porpora e con una così stupenda arma al fianco, si scansano intimoriti. E così Gesù può abbracciarlo e abbracciare Elia, Levi, Mattia, Giuseppe, Giovanni, Simeone e non so quanti altri. 
   «Come mai sei qui? E come hai saputo che ero sbarcato?».
   «Saputo, lo si è saputo dai gridi dei bambini. Hanno trapassato i muri come frecce di gioia. Ma qui sono venuto pensando che è prossimo il tuo viaggio in Giudea e che certo vi prenderanno parte le donne… Ho voluto esserci anche io… Per proteggerti, Signore, se non è troppa superbia il pensarlo. Vi è molta effervescenza in Israele contro di Te. Dolorosa cosa a dirsi. Ma tu non la ignori».

 3 Parlando così, raggiungono la casa e vi entrano.
   Mannaen continua il suo discorso dopo che il padrone di casa e la moglie hanno venerato il Maestro.  
   «Ormai l’effervescenza e l’interessamento su di Te ha pervaso ogni luogo, scuotendo e richiamando l’attenzione anche dei più ottusi e distratti da cose molto diverse da ciò che Tu sei. Le notizie di ciò che Tu operi sono penetrate persino dentro alle sozze muraglie di Macheronte o nei lussuriosi rifugi di Erode, siano essi il palazzo di Tiberiade o i castelli di Erodiade o la splendida reggia degli Asmonei presso il Sisto. Superano come ondate di luce e di potenza le barriere di tenebre e di bassezza, abbattono i cumuli del peccato messi a fare da trincea e da riparo ai sozzi amori della Corte e ai truci delitti, saettano come strali di fuoco scrivendo parole ben più gravi di quelle del convito di Baldassarre sulle licenziose pareti delle alcove e delle sale del trono e dei banchetti. Urlano il tuo Nome e la tua potenza, la tua natura e la tua missione. E Erode ne trema di paura; ed Erodiade si convelle nei letti, paurosa che Tu sia il Re vendicatore che le leverà ricchezze e immunità, se pur non anche la vita, gettandola in balìa delle turbe che faranno vendetta dei suoi molti delitti. Si trema a corte. E per Te. Si trema di paura umana e di paura sovrumana. Da quando la testa di Giovanni è caduta mozzata, sembra che un fuoco arda le viscere dei suoi uccisori. Non hanno più neppure la loro misera pace di prima, pace da porci sazi di crapule, che trovano silenzio ai rimproveri della coscienza nell’ubriachezza o nella copula. Non c’è più nulla che li pacifichi… Sono perseguitati… E si odiano dopo ogni ora di amore, sazi l’uno dell’altra, incolpandosi l’un l’altro di aver commesso il delitto che turba, che ha passato la misura; mentre Salomè, come presa da un demonio, è scossa da un erotismo che degraderebbe una schiava delle macine. La Reggia è fetente più di una cloaca.
   Erode mi ha interrogato più volte su Te. Ed io ogni volta ho risposto: “Per me è il Messia, il Re d’Israele dell’unica stirpe regale, quella di Davide. È il figlio dell’uomo detto dai Profeti, è il Verbo di Dio, Colui che, per essere il Cristo, l’Unto di Dio, ha il diritto di regnare su ogni vivente”. Ed Erode sbianca di paura sentendo in Te il Vendicatore. E respinge la paura, l’urlo della coscienza che il rimorso sbrana, dicendo – poiché i cortigiani per confortarlo dicono che Tu sei Giovanni falsamente creduto morto, e con ciò lo fanno basire più che mai di orrore, oppure Elia, o qualche altro profeta dei tempi passati – dicendo: “No, non può essere Giovanni! Quello io l’ho fatto decapitare, e la sua testa l’ha Erodiade in sicura custodia. E non può essere uno dei profeti. Non si rivive, una volta morti. Ma non può essere neppure il Cristo. Chi lo dice? Chi lo dice che lo è? Chi osa dirmi che Egli è il Re dell’unica stirpe regale? Io sono il Re! Io! E non altri. Il messia è stato ucciso da Erode il Grande: in un mare di sangue è stato affogato, appena nato. Sgozzato è stato come un agnellino… e aveva pochi mesi… Lo senti come piange? Il suo belato mi grida sempre dentro alla testa insieme al ruggito di Giovanni: ‘Non ti è lecito’… Non mi è lecito?! Si. Tutto mi è lecito, perché io sono ‘il re’. Qua vino e donne, se Erodiade si rifiuta ai miei amplessi, e che danzi Salomè per svegliare il mio senso spaurito dai tuoi paurosi racconti”.
   E si ubriaca fra le mime della Corte, mentre nelle sue stanze ulula la femmina folle le sue bestemmie al Martire e le sue minacce a Te, e nelle sue Salomè conosce cosa è essere nata dal peccato di due libidinosi e avere aderito ad un delitto, ottenendolo con l’abbandono del corpo alle smanie lubriche di un sozzo. Ma poi torna in sé Erode e vuole sapere di Te, e vorrebbe vederti. E per questo favorisce le mie venute a Te, nella speranza che io ti porti a lui. Cosa che non farò mai, per non portare la tua santità in un antro di fiere immonde. E vorrebbe averti Erodiade per colpirti. E lo grida col suo stilo fra le mani… E vorrebbe averti Salomè, che ti ha visto, a tua insaputa, a Tiberiade lo scorso etamin, e che insania di Te… Questa è la Reggia, Maestro! Ma io vi resto, perché così sorveglio le intenzioni su Te».
   «Io te ne sono grato, e l’Altissimo te ne benedice. È anche questo servire l’Eterno nei suoi decreti».
   «L’ho pensato. E per questo sono venuto».
   «Mannaen, Io ti prego di una cosa, poiché sei venuto. Non con Me ma con le donne scendi verso Gerusalemme. Io vado con questi per via ignota e non potranno farmi del male. Ma esse sono donne e indifese, e chi le accompagnerà è di animo mite e ammaestrato ad offrire la guancia a chi già l’ha percosso. La tua presenza sarà protezione sicura. Un sacrificio, comprendo. Ma staremo insieme in Giudea. Non negarmelo, amico».
   «Signore, ogni tuo desiderio è legge per il tuo servo. Sono al servizio della Madre tua e delle condiscepole da questo momento fino a quando Tu vorrai».
   «Grazie. Anche questa tua ubbidienza sarà scritta in Cielo.

 4 Ora dedichiamo l’attesa delle barche per tutti curando i malati che mi attendono».
   E Gesù scende nell’orto dove sono barelle o infermi e li sana rapidamente, mentre accoglie l’ossequio di Giairo e degli amici, pochi, di Cafarnao.
   Le donne, intanto – e sono Porfiria e Salome, più l’anziana moglie di Bartolomeo e quella meno anziana di Filippo con le figlie giovinette – si occupano delle vivande per la numerosa turba di discepoli, che saranno sfamati con le corbe di pesce che Betsaida e Cafarnao hanno offerto. E un gran sventrare di ventri argentati, ancora palpitanti, in un gran sciacquare di pesci nei catini, un gran sfrigolio degli stessi nelle graticole, avviene in cucina, mentre Marziam, con altri discepoli, alimenta i fuochi e porta brocche d’acqua in aiuto alle donne. Il pasto è presto pronto e presto consumato. Ed essendo armai reclutate le barche per il trasporto di tanti, non resta che imbarcarsi per Magdala, su un lago incantato, tanto è sereno, angelico nel castone smeraldino delle rive. I giardini e la casa di Maria di Magdala si aprono ospitali nel meriggio solare ad accogliere il Maestro e i suoi discepoli, e tutta Magdala si riversa a salutare il Rabbi che va verso Gerusalemme.

 5E le fresche pendici dei colli galilei sentono la marcia solerte e lieta della turba fedele, seguita da un comodo carro dove sono Giovanna con Porfirea, Salome, le mogli di Bartolomeo e Filippo e le due giovinette figlie di quest’ultimo, più i ridenti Maria e Mattia, irriconoscibili nell’aspetto da quello che erano cinque mesi addietro.
   Marziam marcia bravamente con gli adulti, anzi, per volere di Gesù, è proprio nel gruppo aposto-lico, fra Pietro e Giovanni, e non perde parola di quanto dice Gesù.
   Il sole splende in un cielo purissimo e folate tiepide portano odore di bosco, di mentucce, di viole, dei primi mughetti, dei rosai sempre più fioriti e, sovrano su tutti, quell’odore fresco, lievemente amarognolo, dei fiori delle piante da frutto, che da ogni dove spargono neve di petali sulle zolle erbose. Tutti ne hanno fra i capelli mentre procedono in un continuo cinguettio d’uccelli, fra canti di seduzione e trepidi richiami da folto a folto, tra i maschi audaci e le femmine pudiche, mentre le pecore brucano, pingui di maternità, e i primi agnellini urtano il musetto rosato nella tonda mammella per aumentare la secrezione del latte, oppure caroleggiano sui prati d’erba tenerella come bambini felici.

 6 Come viene presto Nazaret dopo Cana, dove Susanna si unisce alle altre donne portando seco i prodotti della sua terra in ceste e vasi, e un intero tralcio di rose rosse tutte in bocci, prossimi a schiudersi, «da offrirsi a Maria», dice.
   «Io pure, vedi?», dice Giovanna scoprendo una specie di cassa dove sono adagiate rose e rose fra muschi umidi. «Le prime e le più belle. Sempre un nulla per Lei, tanto cara!».
   Vedo che ogni donna ha portato derrate per il viaggio pasquale, e con le derrate chi questo fiore, chi quella pianta per l’orto di Maria; e Porfirea si scusa di non avere portato che un vaso di canfora, splendido nelle minute foglioline glauche che sprigionano il loro aroma solo asfiorarle. « Maria la desiderava questa pianta balsamica…», dice. E tutte la elogiano per la bellezza rigogliosa dell’arboscello. «Oh! l’ho vegliato tutto l’inverno, tenendolo al riparo dal gelo e dalla grandine nella mia stanza. Marziam mi aiutava a portarlo al sole ogni mattina, a ritirarlo ogni sera… E quel caro fanciullo, se non ci fosse stata la barca e ora il carro, se lo sarebbe caricato sulle spalle per portarlo a Maria, facendo cortesia a Lei e a me», dice l’umile donna, che si rinfranca sempre più per la bontà di Giovanna e che non sta in se dalla gioia di essere in viaggio per Gerusalemme, e col Maestro, il suo uomo e il suo Marziam.
   «Non ci sei mai stata?».
   «Finché visse mio padre, ogni anno. Ma poi… la madre non vi andò più… i fratelli mi ci avrebbero portata, ma facevo comodo alla madre e non mi lasciava andare. Dopo ho sposato Simone… e non sono stata più molto bene in salute. Simone avrebbe dovuto stare molto in viaggio e si annoiava…Rimanevo perciò a casa ad attenderlo… Il Signore vedeva il mio desiderio… ed era come facessi il sacrificio nel Tempio…», dice la mite donna.
   E Giovanna , che l’ha vicina, le mette la mano sulle splendide trecce dicendole: «Cara». E in quell’aggettivo c’è tanto amore, tanta comprensione e tanto significato.

 7 Ecco Nazaret… ecco la casa di Maria d’Alfeo, che è già fra le braccia dei figli, e con le mani, gocciolanti e rosse del bucato che sta facendo, se li carezza, e poi corre, asciugandosele nel grembiule grossolano, ad abbracciare Gesù… Ed ecco la casa di Alfeo di Sara, immediatamente precedente quella di Maria. E Alfeo che ordina al nipotino più grande di correre ad avvertire Maria, e intanto sgamba a passi da gigante verso Gesù con una bracciata di nipotini fra le braccia, e lo saluta insieme a quella nidiata stretta fra le braccia come un mazzo di fiori offerto a Gesù. Ed ecco Maria farsi sulla porta, nel sole, nel suo abito da casa di un chiaro azzurro un poco stinto, l’oro dei capelli splendente vaporoso sulla fronte verginale e massiccio nel pesante nodo delle trecce sulla nuca, e cadere sul petto del figlio che la bacia con tutto il suo amore.
   Gli altri si fermano prudenti per lasciarli liberi nel primo incontro. Ma Ella subito si stacca e volge il viso, inattaccabile all’età, ora tutto roseo per la sorpresa e luminoso di sorriso, e saluta con la sua voce d’angelo: «La pace a voi, servi del Signore e discepoli del Figlio mio. La pace a voi, sorelle nel Signore », e con le discepole, scese dal carro, scambia un bacio fraterno.
   «Oh! Marziam! Ora non potrò più tenerti fra le braccia! Sei un uomo ormai. Ma vieni dalla Mamma di tutti i buoni, che un bacio te lo darò ancora. Caro! Dio ti benedica e ti faccia crescere nelle sue vie, robusto come cresce il tuo corpo giovinetto, e più ancora. Figlio mio, dovremo portarlo a suo nonno. Sarà felice di vederlo così», dice poi volgendosi a Gesù.
   E poi abbraccia Giacomo e Giuda d’ Alfeo. E dà loro la notizia che certo essi amano: «Quest’anno Simone viene con me, come discepolo del Maestro. Me lo ha detto».
   E uno per uno saluta i più noti, i più influenti, avendo per ognuno una parola di grazia. Mannaen viene condotto a Lei da Gesù e presentato come una scorta nel viaggio verso Gerusalemme.
   «Tu non vieni con noi, Figlio?».
   «Madre, ho altri luoghi da evangelizzare. Ci vedremo a Betania».
   «La tua volontà sia fatta ora e sempre. Grazie, Mannaen. Tu: angelo umano; i nostri custodi: angeli del Cielo; e noi saremo sicure come fossimo nel Santo dei Santi». E offre la sua manina a Mannaen in segno di amicizia. E il cavaliere, cresciuto nel fasto, si inginocchia per baciare la mano gentile che si offre a lui.

 8 Intanto sono stati scaricati i fiori e quanto deve restare a Nazaret. Poi il carro va al suo destino in qualche scuderia della città. La piccola casa pare un roseto per le rose sparse ogni dove dalle discepole. Ma la pianta di Porfirea, posata sulla tavola, raccoglie la più viva ammirazione di Maria, che la fa portare in luogo acconcio secondo le indicazioni della moglie di Pietro. Non possono certo entrare tutti nella minuscola casa, nell’orto che non è una tenuta né un podere, ma che sembra salire verso il cielo sereno, farsi aereo, tante sono le nuvole dei fiori sulle piante del brolo. E giuda d’ Alfeo, sorridendo, chiede a Maria: «Hai colto anche oggi il tuo ramo per la tua anfora?».
   «Senza dubbio, Giuda. E quando siete venuti lo contemplavo…».
   «E risognavi, Mamma, il tuo mistero lontano», dice Gesù abbracciandola col braccio sinistro e attirandosela contro il cuore.
   Maria alza il viso imporporato e sospira: «Si, Figlio mio… e sognavo il primo palpito del tuo cuore in me..».
   Gesù dice: «Restino le discepole, gli apostoli, Marziam, i discepoli pastori, il sacerdote Giovanni, Stefano, Erma e Mannaen. Gli altri si spargano in cerca di alloggio…».
   «Molti possono stare in casa mia…», urla dalla soglia, sulla quale è bloccato, Simone d’Alfeo.
   «Sono loro condiscepolo e li reclamo».
   «Oh! fratello, vieni avanti, che ti possa baciare », dice espansivo Gesù, mentre Alfeo di Sara e Ismaele e Aser, i due discepoli, ex-asinai, di Nazaret, a loro volta dicono: «A casa nostra. Venite, venite!».
   I discepoli non prescelti se ne vanno e può essere chiusa la porta… per essere riaperta però subito dopo per la venuta di Maria d’Alfeo, che non può stare lontana anche se si sciupa il suo bucato. Sono quasi quaranta persone e perciò si spargono nell’orto tiepido e quieto, finché sono distribuiti i cibi, che ognuno trova con sapori celesti tanto è felice di consumarli nella casa del Signore, distribuiti da Maria. 
   Torna Simone, che ha sistemato i discepoli, e dice: «Non mi hai chiamato come gli altri, ma io ti sono fratello e ci sto lo stesso».
   «Bene vieni, Simone.

 9 Vi ho qui voluti per farvi conoscere Maria. Molti di voi conoscete la “madre” Maria, alcuni la “sposa” Maria. Ma nessuno conosce la “vergine” Maria. Io ve la voglio fare conoscere in questo giardino in fiore, nel quale il vostro cuore viene col desiderio nelle lontananze forzate e come ad un riposo nelle fatiche dell’apostolato.
   Vi ho ascoltato parlare, voi apostoli, discepoli e parenti, ed ho sentito le vostre impressioni, i vostri ricordi, le vostre asserzioni sulla Madre mia. Io vi trasfigurerò tutto questo, molto ammirativo ma ancora molto umano, in un soprannaturale conoscere. Perché mia Madre, prima di Me, va trasfigurata agli occhi dei più meritevoli, per mostrarla quale Essa è. Voi vedete una donna, una donna che per la sua santità vi pare diversa dalle altre, ma che in realtà vedete come un’anima fasciata dalla carne, come quella di tutte le sue sorelle di sesso. Ma Io ora vi voglio scoprire l’anima di mia Madre. La sua vera ed eterna bellezza.
   Vieni qui, Madre mia. Non arrossire. Non ritrarti intimidita, colomba soave di Dio. Tuo Figlio è la Parola di Dio e può parlare di te e del tuo mistero, dei tuoi misteri, o sublime Mistero di Dio. Sediamoci qui, in quest’ombra leggera di alberi in fiore, presso la casa, presso la tua stanza santa. Così! Alziamo questa tenda ondeggiante e ne escano onde di santità e di Paradiso da questa stanza verginale, a saturare di te tutti noi… Si. Io pure. Che Io mi profumi di te, Vergine perfetta, per potere sopportare i fetori del mondo, per potere vedere candore avendo saturata la pupilla del tuo Candore… Qui Marziam, Giovanni, Stefano, e voi discepole, bene di fronte alla porta aperta sulla dimora casta della Casta fra tutte le donne. E dietro voi, amici miei. E qui, al mio fianco, tu, diletta Madre mia.

10 Vi ho detto poc’anzi “l’eterna bellezza dell’anima di mia Madre”. Sono la Parola e perciò so usare della parola senza errore. Ho detto “eterna”, non “immortale”. E non senza scopo l’ho detto. L’immortale è chi, essendo nato, non muore più. Così l’anima dei giusti è immortale in Cielo, l’anima dei peccatori è immortale nell’inferno, perché l’anima, creata che sia, non muore più che alla grazia. Ma l’anima ha vita, esiste dal momento che Dio la pensa. È il pensiero di Dio che la crea. L’anima di mia Madre è da sempre pensata da Dio. Perciò è eterna nella sua bellezza, nella quale Dio ha riversato ogni perfezione per averne delizia e conforto.
   È detto nel libro del nostro avo Salomone (Proverbi 8, 22-31), che ti antevide e perciò profeta tuo può essere detto: “Dio mi possedette all’inizio delle sue opere, fin dal principio, avanti la Creazione. Ab eterno io fui stabilita, al principio, prima che fosse fatta la Terra. Non erano ancora gli abissi ed io ero concepita. Non ancora le sorgenti delle acque sgorgavano, non ancora le montagne erano fermate sulla loro grave mole, ed io già ero. Prima delle colline io ero partorita. Egli non aveva ancora fato la Terra, i fiumi, né i cardini del mondo, ed io già ero.
   Quando preparava i cieli e il Cielo, io ero presente. Quando con legge inviolabile chiuse sotto la volta l’abisso, quando rese stabile in alto la volta celeste e vi sospese le fonti delle acque, quando fissò al mare i suoi confini e dette legge alle acque di non passare il loro termine, quando gettava i fondamenti della Terra, io ero con Lui a ordinare tutte le cose. Sempre nella gioia io scherzavo dinanzi a Lui continuamente. Scherzavo nell’universo”.
   Si, o Madre di cui Dio, l’Immenso, il Sublime, il Vergine, l’Increato, era gravido, e ti portava come il suo dolcissimo pondo, giubilando di sentirti agitarti in Lui, dandogli i sorrisi dei quali fece il Creato! Tu che a dolore partorì per darti al Mondo, anima soavissima, nata dal Vergine per essere la “Vergine”, Perfezione del Creato, Luce del Paradiso, Consiglio di Dio, che guardandoti poté perdonare la Colpa perché tu sola, da te sola, sai amare come tutta l’Umanità messa insieme non sa amare. In te il Perdono di Dio! In te il Medicamento di Dio, tu, carezza dell’Eterno sulla ferita dall’uomo fatta a Dio! In te la Salute del mondo, Madre dell’Amore incarnato e del concesso Redentore! L’anima della Madre mia! Fuso dell’Amore col Padre, Io ti guardavo dentro di Me, o anima della Madre mia!… E il tuo splendore, la tua preghiera, l’idea di essere da te portato, mi consolavano in eterno del mio destino di dolore e di esperienze disumane di ciò che è il mondo corrotto per il Dio perfettissimo. Grazie, o Madre! Io sono venuto già saturo delle tue consolazioni, Io sono sceso sentendo te sola, il tuo profumo, il tuo canto, il tuo amore… Gioia, gioia mia!

11 Ma udite, voi che ora sapete che una sola è la Donna nella quale non è macchia, una sola la Creatura che non costa ferita al Redentore, udite la seconda trasfigurazione di Maria, l’Eletta di Dio.
   Era un sereno pomeriggio di adar ed erano in fiore gli alberi nell’orto silenzioso, e Maria, sposa a Giuseppe, aveva colto un ramo di albero in fiore per sostituirlo all’altro che era nella sua stanzetta. Da poco era venuta a Nazaret, Maria, presa dal Tempio per ornare una casa di santi. E con l’anima tripartita fra il Tempio, la casa e il Cielo, Ella guardava il ramo in fiore, pensando che con uno simile, sbocciato insolitamente, un ramo reciso in questo brolo nel colmo dell’inverno e fioritosi come per primavera davanti all’Arca del Signore – forse lo aveva scaldato il Sole-Iddio raggiante sulla sua Gloria – Dio le aveva significato la sua volontà… E pensava ancora che nel giorno delle nozze Giuseppe le aveva portato altri fiori, ma mai simili al primo che portava scritto sui petali leggeri: “Ti voglio unita a Giuseppe”… Tante cose pensava… E pensando salì a Dio. Le mani erano solerti fra la rocca e il fuso, e filavano un filo più sottile d’uno dei capelli del suo capo giovinetto…
   L’anima tesseva un tappeto d’amore, andando solerte, come spola sul telaio, dalla Terra al Cielo. Dai bisogni della casa, dello sposo, a quelli dell’anima di Dio. E cantava, e pregava. E il tappeto si formava sul mistico telaio, si srotolava dalla Terra al Cielo, saliva a sperdersi lassù… Formato di che? Dai fili sottili, perfetti, forti, delle sue virtù, dal filo volante della spola che Ella credeva “sua”, mentre era di Dio: la spola della volontà di Dio sulla quale era avvolta la volontà della piccola, grande Vergine d’Israele, la Sconosciuta al mondo, la Conosciuta da Dio, la sua volontà avvolta, fatta una con la volontà del Signore. E il tappeto si infiorava di fiori d’amore, di purezza, di palme di pace, di palme di gloria, di mammole, di gelsomini… Ogni virtù fioriva sul tappeto dell’amore che la Vergine di Dio svolgeva, invitante, dalla Terra al Cielo. E poiché il tappeto non bastava, Ella lanciava il cuore cantando: “Venga il mio Diletto nel suo giardino e mangi il frutto dei suoi pomi… Il mio Diletto discenda nel suo giardino, all’aiuola degli aromi, a pascersi tra i giardini, a coglier gigli. Io son del mio Diletto, e il mio Diletto è mio, Egli che pasce fra i gigli!”. E da lontananze infinite, fra torrenti di Luce, veniva una Voce quale orecchio umano non può udire, né gola umana formare.
   E diceva: “Quanto sei bella, amica mia! Quanto sei bella!… Miele stillano le tue labbra… Un giardino chiuso tu sei, una fonte sigillata, o sorella, mia sposa…”, e insieme le due voci si univano per cantare l’eterna verità: “L’amore è forte più della morte. Nulla può estinguere o sommergere il ‘nostro’ amore”. E la Vergine trasfigurava così… così… così… mentre scendeva Gabriele e la richiamava, col suo ardere, alla Terra, le riuniva lo spirito alla carne, perché Ella potesse intendere e comprendere la richiesta di Colui che l’aveva chiamata “Sorella” ma che la voleva “Sposa”.
   Ecco, là avvenne il Mistero… E una pudica, la più pudica di tutte le donne, Colei che neppure conosceva lo stimolo istintivo della carne, tramortì davanti all’Angelo di Dio, perché anche un angelo turba l’umiltà e la verecondia della Vergine, e solo si placò udendolo parlare, e credette, e disse la parola per cui il “loro” amore divenne Carne e vincerà la Morte, né nessun’acqua potrà estinguerlo, né malvagità sommergerlo…».

12 Gesù si china dolcemente su Maria che gli è scivolata ai piedi quasi estatica, nella rievocazione dell’ora lontana, luminosa di una luce speciale che pare le esali dall’anima, e le chiede sommessamente: «Quale la tua risposta, o Purissima, a chi ti assicurava che divenendo la Madre di Dio non avresti perduto la tua perfetta Verginità?».
   E Maria, quasi in sogno, lentamente, sorridendo, con gli occhi dilatati per un pianto felice: «Ecco l’Ancella del Signore! Si faccia di me secondo la sua Parola», e reclina la testa sui ginocchi del Figlio, adorando.
   Gesù la vela col suo manto, nascondendola agli occhi di tutti, e dice: «E fu fatto. E si farà sino alla fine. Sino all’altra e all’altra ancora delle sue trasfigurazioni. Sarà sempre “l’Ancella di Dio”.
   Farà sempre come dirà “la Parola”. Mia Madre! Questa è mia Madre. Ed è bene che voi cominciate a conoscerla in tutta la sua santa Figura… Madre! Madre! Rialza il tuo viso, Diletta… Richiama i tuoi devoti alla Terra dove per ora siamo…», dice scoprendo Maria dopo qualche tempo, durante il quale non era rumore oltre al ronzio delle api e al chioccolio della piccola fonte.
   Maria alza il viso molle di pianto e sussurra: «Perché, Figlio, mi hai fatto questo? I segreti del Re sono sacri…».
   «Ma il Re li può svelare quando vuole. (Tobia 12, 7) Madre, l’ho fatto perché sia compreso il detto di un Profeta: (Geremia 31, 22) “Una Donna chiuderà in sé l’Uomo”, e l’altro dell’altro Profeta: (Isaia 7, 14) “La Vergine concepirà e partorirà un Figlio”.
   E anche perché essi, che inorridiscono di troppe cose, per loro avvilenti, del Verbo di Dio, abbiano a contrappeso tante altre cose che li confermino nella gioia di essere “miei”. Così non si scandalizzeranno mai più e conquisteranno anche per ciò il Cielo… 

13 Ora chi deve andare alle case ospitali vada. Io resto con le donne e Marziam. Domani all’alba siano qui tutti gli uomini, ché voglio condurvi qui vicino. Poi torneremo a salutare le discepole per poi tornare a Cafarnao a radunare altri discepoli e invitarli dietro a queste»…  

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!