San Tommaso d’Aquino prega per noi – 28 gennaio

Un astro di luce particolare e inestinguibile brilla nel cielo del secolo XIII; luce che attraversa i secoli, che illumina le menti: l’Angelico Dottore S. Tommaso.

Nacque ad Aquino nell’anno 1227 dal conte Landolfo e dalla contessa Teodora, parente di Federico Barbarossa, signori fra i più illustri di quei tempi.

Educato cristianamente fin dalla più tenera età, diede molti segni della sua futura scienza e grandezza.

A cinque anni fu affidato per l’educazione ai monaci benedettini di Montecassino. Vi rimase fino ai quattordici anni, fino a quando cioè i torbidi politici non decisero i genitori a riprenderlo entro le mura del proprio castello. Più tardi fu mandato all’Università di Napoli, ove, sebbene assai giovane, manifestò il suo potente ingegno, acquistandosi fama presso i condiscepoli e stima presso i maestri. Già si concepivano su di lui le più lusinghiere speranze, già i conti d’Aquino ed altri vedevano in lui il futuro campione del foro napoletano o romano, quando egli di colpo fece crollare tutti questi sogni, annunciando la sua decisione di entrare nell’Ordine di S. Domenico.

Da Napoli, per timore della famiglia che gli si opponeva decisamente, fu mandato a Parigi, ma nel viaggio, raggiunto dai fratelli, venne arrestato e ricondotto nel castello paterno di S. Giovanni a Roccasecca. Rimase prigioniero per circa un anno, vincendo tutte le difficoltà e le lusinghe. Per il suo angelico candore ed in premio della sua fortezza contro una grave tentazione, meritò d’essere cinto del cingolo di purezza da due Angeli, così che dopo d’allora mai più ebbe a subire tentazioni contro la bella virtù.

Aiutato dalle sorelle riuscì a fuggire, e tosto rientrò nel convento da cui era stato strappato. All’Università di Parigi studiò filosofia e teologia sotto il celeberrimo S. Alberto Magno e a 25 anni cominciò con somma lode a interpretare filosofi e teologi. Passò indi col suo maestro a Colonia, e qui ricevette la sacra ordinazione. Ritornato a Parigi come insegnante universitario sostenne lotte coi maestri secolari. Chiamato poi alla Corte Pontificia in qualità di teologo della curia romana vi rimase qualche anno, poi tornò a Parigi. È questo il tempo più fecondo del suo insegnamento. Da Parigi entrò in Italia e fu inviato da Gregorio X al Concilio di Lione. Ma nel viaggio mori a Fossanova, il 7 marzo 1274.

Raccolse, sistemò ed espose tutto lo scibile antico, e segnò le vie alle scienze nuove, tanto che non si esita a chiamarlo uno dei più grandi ingegni dell’umanità.

Mirabili ed eccelse furono le sue virtù. Tale e tanta fu la sua umiltà che ricusò l’arcivescovado di Napoli ripetutamente offertogli dal Sommo Pontefice. Il suo confessore ebbe a dire: « Fra Tommaso a 50 anni aveva il candore e la semplicità di un bambino di cinque anni ».

PRATICA. Impariamo da questo santo la fermezza nell’eseguire la volontà di Dio.

PREGHIERA. Dio, che illustri la Chiesa con la meravigliosa erudizione del tuo beato confessore Tommaso e la rendi feconda di tante opere, dacci, te ne preghiamo, d’intendere ciò ch’egli ci ha insegnato e di compiere, a suo esempio, ciò che ha fatto. Bibl., CINTI, Tommaso d’Aquino, Ed. Paoline.

MARTIROLOGIO ROMANO. Memoria di san Tommaso d’Aquino, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori e dottore della Chiesa, che, dotato di grandissimi doni d’intelletto, trasmise agli altri con discorsi e scritti la sua straordinaria sapienza. Invitato dal beato papa Gregorio X a partecipare al secondo Concilio Ecumenico di Lione, morì il 7 marzo lungo il viaggio nel monastero di Fossanova nel Lazio e dopo molti anni il suo corpo fu in questo giorno traslato a Tolosa.

Nome: San Tommaso d’Aquino
Titolo: Sacerdote e dottore della Chiesa
Nascita: 1227, Aquino
Morte: 7 marzo 1274, Fossanova
Ricorrenza: 28 gennaio
Tipologia: Commemorazione
Patrono di: Napoli, Priverno, Monte San Giovanni Campano, Grottaminarda, Aquino, Falerna, Pianopoli, San Mango d’Aquino, Belcastro
Protettore: degli accademici, librai, degli scolari, degli studenti, teologi
Luogo reliquie: Chiesa dei Giacobini

Vangelo Mc 4, 26-34: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno ».

Vangelo Novus Ordo Mc 4, 26-34
Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
” Il regno di Dio è come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante “.


Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’

Paralleli Novus ordo

   Cap. CLXXXIV. Il piccolo Beniamino di Magdala e due parabole sul regno dei Cieli.

  10 giugno 1945.

 1 Il miracolo deve essere avvenuto da poco, perché gli apostoli ne parlano e anche dei cittadini commentano, additandosi il Maestro che se ne va, diritto e severo, verso la periferia della città, verso la parte dei poveri.
   Si ferma ad una casuccia da cui esce saltellando un bambino seguito dalla madre. «Donna, mi lasci entrare nel tuo orto e sostare un poco finché il sole perda il suo calore?».
   «Entra, Signore. Anche in cucina se vuoi. Ti porterò acqua e ristoro»
   «Non ti affaticare. Mi basta rimanere in questo orto quieto».
   Ma la donna vuole offrire acqua temperata da non so che, e poi gironzola per l’orto come vogliosa di parlare e non osa. Si occupa delle sue verdure, ma è una finta. In realtà si occupa del Maestro e le dà noia il bambino che coi suoi strilli, quando acciuffa una farfalla o un altro insetto, le impedisce di sentire ciò che Gesù dice. Se ne inquieta e lascia andare uno schiaffetto al bambino, il quale… strilla più forte.
   Gesù – che stava rispondendo allo Zelote, che gli aveva chiesto: «Credi che Maria ne sia scossa?», con queste, parole: «Più che non vi appaia…» – si volge e chiama a Sé il bambino, che accorre a finire il suo pianto sui ginocchi di Gesù.
   La donna chiama: «Beniamino! Vieni qui. Non disturbare».
   Ma Gesù dice: «Lascialo, lascialo. Starà buono e ti lascerà quieta»; poi al bambino: «Non piangere. Non ti ha fatto male la mamma. Solo ti ha fatto ubbidire, anzi, ti voleva fare ubbidire. Perché strillavi mentre lei voleva silenzio? Forse si sente male e i tuoi gridi le danno noia».
   Il bambino, svelto svelto, con quella insuperabile schiettezza dei bambini che è la disperazione dei grandi, dice: «No. Non si sente male. Ma voleva sentire quello che Tu dicevi… Me lo ha detto. Ma io, che volevo venire da Te, facevo chiasso apposta perché Tu mi guardassi».
   Ridono tutti e la donna si fa di fiamma.

 2 «Non arrossire, donna. Vieni qui. Mi volevi sentire parlare? Perché?».
   «Perché sei il Messia. Non puoi essere che Tu il Messia, col miracolo che hai fatto… E mi piaceva sentirti. Io non vado mai fuori di Magdala perché ho… un marito difficile e cinque bambini. Il più piccolo ha quattro mesi… e Tu qui non vieni mai».
   «Sono venuto, e nella tua casa. Lo vedi».
   «Per questo volevo sentirti».
   «Dove è tuo marito?».
   «Sul mare, Signore. Se non si pesca non si mangia. Io non ho che questo orticello. Può bastare a sette persone? Eppure Zaccheo vorrebbe che si…»
   «Sii paziente, donna. Tutti hanno la loro croce».
   «Eh! no! Le spudorate non hanno che il godere. Hai visto l’opera delle spudorate! Godono e fanno soffrire. Loro non si spezzano le reni nel figliare e nel lavorare. Non si fanno venire le vesciche con la zappa o si spellano le mani con i bucati. Loro sono belle, fresche. Per loro non c’è la condanna di Eva. Sono la condanna nostra, anzi, perché… gli uomini… Tu mi capisci».
   «Ti capisco. Ma sappi che hanno anche loro la loro tremenda croce. La più tremenda. Quella che non si vede. Quella della coscienza che le rimprovera, del mondo che le schernisce, del loro sangue che le ripudia, di Dio che le maledice. Non sono felici, credi. Non si spezzano le reni nel generare e nel lavorare, non si fanno venire piaghe alle mani nel faticare. Ma si sentono spezzate lo stesso, e con vergogna. Ma il loro cuore e tutto una piaga. Non invidiare il loro aspetto, la loro freschezza, la loro apparente serenità. E’ un velo steso su una rovina che morde e non dà pace. Non invidiare il loro sonno, tu, madre onesta che sogni i tuoi innocenti… Esse hanno l’incubo sul loro guanciale. E domani, nel giorno che saranno all’agonia o alla vecchiaia, il rimorso e il terrore».
   «E’ vero… Perdona…

 3 Mi lasci stare qui?».
   «Rimani. Racconteremo una bella parabola a Beniamino, e quelli che non sono bambini l’applicheranno a loro stessi ed a Maria di Magdala. Udite.
   In voi è il dubbio sulla conversione di Maria al bene. Nessun segno in lei dà un indice verso questo passo. Sfrontata e impudente ella, conscia del suo grado e del suo potere, ha osato sfidare la gente e venire persino sulla soglia della casa dove si piange per causa sua. Al rimprovero di Pietro risponde con una risata. Al mio sguardo che l’invita con l’irrigidirsi superba. Voi forse avreste voluto, chi per amore verso Lazzaro, chi per amore verso di Me, che Io le parlassi direttamente, a lungo, soggiogandola col mio potere, mostrando la mia forza di Messia Salvatore. No. Non occorre tanto. L’ho detto per un’altra peccatrice molti mesi sono. Le anime devono farsi da sé. Io passo, getto il seme. Nel segreto il seme lavora. L’anima va rispettata in questo suo lavoro. Se il primo seme non attecchisce se ne semina un altro, un altro… ritirandosi solo quando si hanno prove sicure della inutilità del seminare. E si prega. La preghiera è come la rugiada sulle zolle: le tiene morbide e nutrite, e il seme può germogliare. Non fai così tu, donna, con le tue verdure?

 4 Ora ascoltate la parabola del lavoro di Dio nei cuori per fondarvi il suo regno. Perché ogni cuore è un piccolo regno di Dio sulla terra. Dopo, oltre la morte, tutti questi piccoli regni si agglomerano in uno solo, nello smisurato, santo, eterno Regno dei Cieli.
   Il regno di Dio nei cuori è creato dal Seminatore divino. Egli viene al suo podere – l’uomo è di Dio, perciò ogni uomo è inizialmente suo – e vi sparge il suo seme. Poi se ne va ad altri poderi, ad altri cuori. Si succedono i giorni alle notti e le notti ai giorni. I giorni portano sole o piogge, in questo caso raggi d’amore divino e effusione della divina sapienza che parla alla Verità, Dio farà le vendette ed essi periranno. Lo spirito. Le notti portano stelle e silenzio riposante: nel nostro caso richiami luminosi di Dio e silenzio per lo spirito perché l’anima si raccolga e mediti.
   Il seme, in questo succedersi di provvidenze inavvertibili e potenti, si gonfia, si fende, mette radici, si abbarbica, getta fuori le prime fogliette, cresce. Tutto questo senza che l’uomo lo aiuti. La terra produce spontaneamente l’erba dal seme, poi l’erba si fortifica e sorregge la spiga che sorge, poi la spiga si alza, si gonfia, si indurisce, si fa bionda, dura, perfetta nel suo granire. Quando è matura torna il seminatore e vi mette la falce, perché il tempo della perfezione è venuto per quel seme. Di più non potrebbe evolversi e per questo viene colto.
   Nei cuori la mia parola fa lo stesso lavoro. Parlo dei cuori che accolgono il seme. Ma il lavoro è lento. Bisogna non sciupare tutto con l’intempestività. Come è faticoso al piccolo seme fendersi e conficcare le radici nella terra! Anche al duro e selvaggio cuore è penoso questo lavoro. Deve aprirsi, lasciarsi frugare, accogliere cose nuove, faticare a nutrirle, apparire diverso perché coperto di umili ed utili cose e non più dell’attraente, pomposo e inutile esuberante fiorire che lo copriva prima. Deve accòntentarsi di lavorare con umiltà, senza attirare ammirazione, per l’utile dell’Idea divina. Deve spremere tutte le sue capacità per crescere e fare spiga. Si deve arroventare d’amore per divenire grano. E quando, dopo avere superato rispetti umani tanto, tanto, tanto penosi; dopo aver faticato, sofferto ed essersi affezionato alla sua nuova veste, ecco che se ne deve spogliare con un taglio crudele. Dare tutto per avere tutto. Rimanere spoglia per essere rivestito in Cielo della stola dei santi. La vita del peccatore che diventa santo è il più lungo, eroico, glorioso combattimento. Io ve lo dico.

 5 Comprendete da quanto vi ho detto che è giusto che Io agisca verso Maria come agisco. Ho forse agito diverso con te, Matteo?».
   «No, mio Signore».
   «E, dimmi il vero, ti ha più persuaso la mia pazienza o le rampogne acerbe dei farisei?».
   «La tua pazienza, tanto che sono qui. I farisei, coi loro sprezzi e i loro anatemi, mi facevano sprezzante, e per sprezzo facevo ancor più male di quanto avevo fino allora fatto. Succede così. Ci si irrigidisce di più quando, essendo in peccato, ci si sente trattare da peccatori. Ma quando in luogo di un insulto ci viene una carezza, si resta sbalorditi; poi si piange… e quando si piange l’armatura del peccato si schiavarda e crolla. Si resta nudi davanti alla Bontà e la si supplica, col cuore, di investirci di Sé».
   «Hai detto bene.

 6 Beniamino, ti piace la storia? Sì? Bravo. E la mamma dove è?».
   Risponde Giacomo d’Alfeo: «E’ uscita al termine della parabola, andando di corsa per quella via».
   «Andrà al mare per vedere se viene lo sposo» dice Tommaso.
   «No. E’ andata dalla vecchia madre a prendere i fratellini. La mamma li porta là per potere lavorare» dice il bambino appoggiato confidenzialmente ai ginocchi di Gesù.
   «E tu stai qui, uomo? Devi essere un bell’aspide se ti tiene solo!» osserva Bartolomeo.
   «Io sono il più grande, e l’aiuto…»
   «A guadagnarsi il Paradiso, povera donna! Quanti anni hai?» chiede Pietro.
   «Fra tre anni sono figlio della Legge» dice con superbia il monello.
   «Sai leggere?» domanda il Taddeo.
   «Si… ma vado adagio perché… perché il maestro mi mette fuori quasi tutti i giorni…»
   «L’ho detto io!» dice Bartolomeo.
   «Ma faccio così perché il maestro è vecchio e brutto e dice sempre le stesse cose che fanno dormire! Fosse come Lui (e accenna a Gesù) starei attento. Picchi, Tu, chi dorme o giuoca?».
   «Io non picchio nessuno. Ma dico ai miei scolari: “State attenti per vostro bene e per amore mio”» risponde Gesù.
   «Ecco, così sì! Per amore si. Non per paura».
   «Ma se tu diventi buono, il maestro ti vuole bene».
   «Tu vuoi bene solo a chi è buono? Poco fa hai detto che sei stato paziente con questo qui, che non era buono…».
   La logica infantile è stringente. «Io sono buono con tutti. Ma chi diventa buono è amato molto, molto da Me, e con quello sono tanto, tanto buono».
   Il bambino pensa… poi alza la testa e chiede a Matteo: «Tu come hai fatto a diventare buono?».
   «Gli ho voluto bene».

 7 Il bambino pensa ancora, e poi guarda i dodici e dice a Gesù: «Sono tutti buoni questi?».
   «Certamente che lo sono».
   «Ne sei sicuro? Delle volte io faccio il buono, ma è quando voglio fare un… malestro più grosso».
   La risata di tutti è fragorosa. Ride anche l’ometto in via di confessarsi. Ride anche Gesù, che se lo stringe al cuore e lo bacia. Il bambino, ormai molto amico di tutti, vuole giocare e dice: «Ora ti dico io chi è buono» e inizia la sua scelta. Guarda tutti e va dritto da Giovanni e Andrea, che sono vicini, e dice: «Tu e tu. Venite qui». Poi sceglie i due Giacomi e li unisce ai due. Poi prende il Taddeo. Resta molto in pensiero davanti allo Zelote e a Bartolomeo e dice: «Siete vecchi, ma siete buoni» e li unisce agli altri. Considera Pietro, che subisce l’esame facendo degli occhiacci per burla, e lo trova buono. Matteo anche lui passa e così Filippo. A Tommaso dice: «Tu ridi troppo. Io faccio sul serio. Non sai che il mio maestro dice che chi ride sempre sbaglia poi alla prova?». Ma insomma anche Tommaso passa, con pochi voti, ma passa l’esame. Poi il bambino torna da Gesù.
   «Ehi, monello! Ci sono anche io! Non sono una pianta. Sono giovane e bello. Perché non mi esamini?» dice l’Iscariota.
   «Perché non mi piaci. La mamma dice che quando una cosa non piace non la si tocca. Si lascia sulla tavola, che la prendano gli altri ai quali può piacere. E dice che, se uno offre una cosa che non piace, non si dice: “Non mi piace”. Ma si dice: “Grazie, non ho fame”. Io non ho fame di te».
   «Ma come? Guarda, se mi dici che sono buono ti do questa moneta».
   «Che me ne faccio? Cosa compero con una bugia? La mamma dice che i denari frutti di inganno diventano paglia. Una volta dalla madre vecchia mi sono fatto dare con una bugia un didramma per comperarmi le focacce col miele, e nella notte mi è diventato paglia. Lo avevo messo in quel buco lì, sotto la porta, per prenderlo al mattino, e ci ho trovato un manneilo di paglia».
   «Ma perché non mi vedi buono? Che ho? Il piede fesso? Sono brutto?».
   «No. Ma mi fai paura».
   «Ma perché?» chiede l’Iscariota avvicinandosi.
   «Non so. Lasciami stare. Non mi toccare o ti graffio».
   «Che istrice! E’ folle». Giuda ride male.
   «Non folle. Tu sei cattivo» e il bambino si rifugia in grembo a Gesù, che lo carezza senza parlare.
   Gli apostoli scherzano sull’accaduto, poco lusinghiero per l’Iscariota.

 8 Intanto ecco che torna la donna con una dozzina di persone e poi, ancora, ecco altre e altre. Saranno cinquanta circa. Tutta povera gente.
   «Parleresti loro? Almeno un pochino. Questa è la madre di mio marito, questi i miei figli. E quell’uomo là è mio marito. Una parola, Signore» supplica la donna.
   «Per dirti grazie dell’ospitalità. Sì. La dico».
   La donna entra in casa dove la reclama il poppante e si siede sulla soglia dando il seno da succhiare.
   «Udite. Qui sulle mie ginocchia ho un bambino che ha parlato molto saggiamente. Ha detto: “Tutte le cose ottenute con inganno divengono paglia”.
   La sua mamma gli ha insegnato questa verità.
   Non è favola. E’ verità eterna. Non riesce mai bene quanto si fa senza onestà. Perché la menzogna nelle parole, negli atti, nella religione, è sempre segno della alleanza con Satana, maestro di menzogna. Non vogliate credere che le opere atte a conseguire il Regno dei Cieli siano opere fragorosamente vistose. Sono atti continui, comuni, ma fatti con un fine soprannaturale d’amore. L’amore è il seme della pianta che nascendo in voi cresce fino al Cielo, e alla cui ombra nascono tutte le altre virtù. Lo paragonerò ad un minuscolo granello di senape. Come è piccino! Uno dei più piccoli fra i semi che l’uomo sparge. Eppure guardate, quando è compita la pianta, quanto si fa forte e fronzuta e quanto frutto dà. Non il cento per cento, ma il cento per uno. Il più piccolo. Ma il più solerte nel lavorare. Quanto utile vi dona.
   Così l’amore. Se voi chiuderete nel vostro seno un semino d’amore per il nostro santissimo Iddio e per il vostro prossimo e sulla guida dell’amore farete le vostre azioni, non mancherete a nessun precetto del Decalogo. Non mentirete a Dio con una falsa religione, di pratiche e non di spirito. Non mentirete al prossimo con una condotta di figli ingrati, di sposi adulteri o anche solo troppo esigenti, di ladri nei commerci, di mentitori nella vita, di violenti verso chi vi è nemico. Guardate in quest’ora calda quanti uccellini si rifugiano fra le ramaglie di quest’orto. Fra poco quel solco di senape, per ora ancora piccina, sarà un vero passeraio. Tutti gli uccelli verranno al sicuro e all’ombra di quelle piante così folte e comode, ed i piccoli degli uccelli impareranno a fare sicura l’ala proprio fra quel rameggiare che fa scala e rete per salire e per non cadere. Così l’amore, base del Regno di Dio.
   Amate e sarete amati. Amate e vi compatirete. Amate e non sarete crudeli volendo più di quanto non sia lecito da chi vi è sotosto. Amore e sincerità per ottenere la pace e la gloria dei Cieli. Altrimenti, come ha detto Beniamino, ogni vostra azione, fatta mentendo all’amore e alla verità, vi si muterà in paglia per il vostro letto infernale. Io non vi dico altre cose. Vi dico solo: abbiate presente il grande precetto dell’amore e siate fedeli a Dio Verità ed alla verità in ogni parola, atto e sentimento, perché la verità è figlia di Dio. Una continua opera di perfezionamento di voi, così come il seme continuamente cresce fino alla sua perfezione. Un’opera silenziosa, umile, paziente. Siate certi che Dio vede le vostre lotte e vi premia più di un egoismo vinto, di una parola villana trattenuta, di un’esigenza non imposta, che non se, armati in battaglia, uccideste il nemico. Il Regno dei Cieli, di cui sarete possessori se vivrete da giusti, è costruito con le piccole cose di ogni giorno. Con la bontà, la morigeratezza, la pazienza, col contentarsi di ciò che si ha, con il compatimento reciproco, con l’amore, l’amore, l’amore.
   Siate buoni. Vivete in pace gli uni con gli altri. Non mormorate. Non giudicate. Dio sarà allora con voi. Vi do la mia pace come benedizione e ringraziamento della fede che avete in Me».

 9 Poi Gesù si volge alla donna dicendo: «Dio benedica te in particolare, perché sei una santa moglie e una santa madre. Persevera nella virtù. Addio, Beniamino. Sii sempre più amante della verità, e ubbidisci a tua madre. La benedizione a te e ai tuoi fratellini, e a te madre».
   Un uomo si fa avanti. E confuso e balbetta: «Ma, ma… io sono commosso di quanto dici di mia moglie… Non sapevo.»
   «Non hai occhi e intelletto forse?».
   «Li ho».
   «Perché non li usi? Vuoi che te li snebbi?».
   «Lo hai già fatto, Signore. Ma le voglio bene, sai? È che… ci si abitua… e… e…»
   «E ci si crede lecito pretendere troppo perché l’altro è più buono di noi… Non lo fare più. Sei sempre in pericolo col tuo mestiere. Non temere delle burrasche se Dio è con te. Ma se con te è l’Ingiustizia, temi fortemente. Hai capito?».
   «Più che Tu non dica. Ma cercherò di ubbidirti… Non sapevo… Non sapevo…» e guarda la moglie come la vedesse per a prima volta.
   Gesù benedice ed esce sulla stradetta. Riprende il cammino verso la campagna.

   Cap. CCCXXVII. Ai confini della Fenicia. Discorso sulla uguaglianza dei popoli e parabola del lievito.

   (senza data)

 1 La strada che dalla Fenicia viene verso Tolemaide è una bella strada che taglia, diritta diritta, la pianura fra il mare e i monti. E per il modo come è mantenuta, è molto frequentata. Sovente tagliata da strade minori, che dai paesi dell’interno vanno a quelli della costa, offre numerosi crocivia presso i quali è generalmente una casa, un pozzo e una rudimentale mascalcia per i quadrupedi che possono aver bisogno di ferri.
   Gesù, coi sei rimasti con Lui, percorre un bel tratto di strada, due chilometri e più, sempre vedendo le stesse cose. Infine si ferma presso una di queste case con pozzo e mascalcia, ad un bivio presso un torrente sormontato da un ponte che, per essere robusto, ma largo appena quanto basta al passaggio di un carro, fa sì che vi sia sosta forzata di chi va e di chi viene, perché le due correnti opposte non potrebbero passare insieme. E ciò dà modo ai passeggeri, di razze diverse, da quel che riesco a capire, ossia fenici ed israeliti veri e propri, in odio fra di loro, di accomunarsi in un unico intento: quello di imprecare a Roma… Senza Roma essi non avrebbero neanche quel ponte, e col torrente colmo non so come avrebbero potuto passare. Ma tant’è! L’oppressore è sempre odiato anche se fa cose utili!
   Gesù si ferma presso il ponte, nell’angolo pieno di sole dove è la casa che sul lato lungo il torrente ha la maleodorante mascalcia, nella quale si stanno forgiando ferri per un cavallo e due asinelli che li hanno perduti. Il cavallo è attaccato ad un carro romano, sul quale sono militi che si dilettano di fare boccacce agli ebrei imprecanti. E ad un vecchio nasuto, astioso più di tutti, una vera e propria bocca viperina che credo morderebbe volentieri i romani pur di avvelenarli, tirano addosso una manciata di letame equino… Figurarsi quello che avviene! Il vecchio ebreo scappa urlando come lo avessero infettato di lebbra, e a lui si uniscono in coro altri ebrei. I fenici gridano ironici: «Vi piace la manna nuova? Mangiate, mangiate, per aver lena a gridare contro quelli che sono troppo buoni con voi, ipocrite vipere». I soldati sghignazzano… Gesù tace.
   Il carro romano parte finalmente, salutando il maniscalco col grido: «Salve, o Tito, e prospero soggiorno!». L’uomo, gagliardo, anziano, dal collo taurino, il volto sbarbato, gli occhi nerissimi ai lati di un naso robusto e sotto la tettoia di una fronte sporgente e ampia, un poco stempiata per mancanza di capelli che, là dove sono, sono corti e alquanto cresputi, alza il pesante martello con gesto di addio e poi si volge da capo all’incudine, sulla quale un giovane ha posto un ferro rovente, mentre un altro ragazzo brucia lo zoccolo di un somarello per regolarlo alla prossima ferratura.

 2 «Sono quasi tutti romani questi maniscalchi lungo le strade. Soldati rimasti qui dopo il servizio. E ci guadagnano… Non hanno mai impedimenti a curare le bestie… E un asino può sferrarsi anche avanti al tramonto del sabato o in tempo di Encenie…» osserva Matteo.
   «Quello che ci ha ferrato Antonio era sposato ad una ebrea» dice Giovanni.
   «Le donne stolte sono più delle donne savie» sentenzia Giacomo di Zebedeo.
   «E i figli di chi sono? Di Dio o del paganesimo?» chiede Andrea.
   «Sono del coniuge più forte, generalmente» risponde Matteo.
   «E, solo che la donna non sia lei una apostata, sono ebrei, perché l’uomo, questi uomini, lasciano fare. Non sono molto… fanatici neppure del loro Olimpo. Credo che ormai non credano altro che al bisogno del guadagno. Sono pieni di figli».
   «Spregevoli unioni, però. Senza una fede, senza una vera patria… invisi a tutti…» dice il Taddeo.
   «No. Ti sbagli. Roma non li disprezza. Anzi li aiuta sempre. Servono più così che quando portavano le armi. Penetrano in noi con la corruzione del sangue più che con la violenza. Chi soffre, se mai, è la prima generazione. Poi si spargono e… il mondo dimentica…» dice Matteo, che pare molto pratico.
   «Sì, sono i figli quelli che soffrono. Ma anche le donne ebree, congiunte così… Per loro stesse e per i loro figli. Mi fanno pietà. Nessuno parla loro più di Dio. Ma ciò non sarà più in avvenire. Allora non saranno più queste separazioni di creature e di nazioni, perché le anime saranno unite in una sola Patria: la mia» dice Gesù, fino allora silenzioso.
   «Ma allora saranno morte!…» esclama Giovanni.
   «No. Saranno raccolte nel mio Nome. Non più romani o libici, greci o pontici, iberi o gallici, egizi o ebrei, ma anime di Cristo. E guai a coloro che vorranno distinguere le anime, tutte da Me ugualmente amate e per le quali in uguale modo avrò sofferto, a seconda delle loro patrie terrene. Colui che così facesse dimostrerebbe di non aver compreso la Carità, che è universale».
   Gli apostoli sentono il velato rimprovero e curvano il capo tacendo…

 3 Il fragore del ferro battuto sull’incudine si è taciuto, e già rallentano i colpi sull’ultimo zoccolo asinino. Gesù ne approfitta per alzare la voce e farsi sentire dalla folla. Pare continui il discorso ai suoi apostoli. In realtà parla ai passanti e forse anche a chi è nella casa, delle donne certo, perché richiami di voci femminee vanno per l’aria tiepida.
   «Anche se pare inesistente, una parentela è sempre negli uomini. Quella della provenienza da un unico Creatore. Ché, se poi i figli di un unico Padre si sono separati, non per questo si è mutato il legame d’origine, così come non si muta il sangue di un figlio quando ripudia la paterna casa. Nelle vene di Caino fu il sangue di Adamo anche dopo che il delitto lo mise in fuga per il vasto mondo. E nelle vene dei figli nati dopo il dolore di Eva, gemente sul figlio ucciso, era lo stesso sangue che bolliva in quelle del lontano Caino.
   Lo stesso, e con più pura ragione, è dell’uguaglianza fra i figli del Creatore. Sperduti? Sì. Esiliati? Sì. Apostati? Sì. Colpevoli? Sì. Parlanti e credenti lingue e fedi a noi aborrite? Sì. Corrotti per unioni con pagani? Sì. Ma l’anima loro è venuta da Un solo, ed è sempre quella, anche se lacerata, sperduta, esiliata, corrotta… Anche se è oggetto di dolore al Padre Iddio, è sempre anima da Lui creata.

 4 I figli buoni di un Padre buonissimo devono avere sentimenti buoni. Buoni verso il Padre, buoni verso i fratelli, quale che siano divenuti, perché figli di uno Stesso. Buoni verso il Padre col cercare di consolarlo del suo dolore riportandogli i figli, che sono il suo dolore, o perché peccatori, o perché apostati, o perché pagani. Buoni verso gli stessi perché essi hanno l’anima venuta dal Padre chiusa in un corpo colpevole, bruttata, ebete per errata religione, ma sempre anima del Signore e uguale alla nostra.
   Ricordate, o voi d’Israele, che non vi è alcuno, fosse pure l’idolatra più lontano, con la sua idolatrica religione, da Dio, fosse pure il più pagano tra i pagani, o il più ateo fra gli uomini, che sia assolutamente privo di una traccia della sua origine. Ricordate, o voi che avete sbagliato staccandovi dalla giusta religione, scendendo a mescolanza di sessi che la nostra religione condanna, che anche se vi pare che tutto ciò che era Israele sia morto in voi, soffocato dall’amore per un uomo di diversa fede e di diversa razza, morto non è. Uno che vive ancora. Ed è Israele. E voi avete il dovere di soffiare su quel fuoco morente, di alimentare la scintilla che sussiste per volontà di Dio, per farla crescere al disopra dell’amore carnale. Questo cessa con la morte. Ma la vostra anima non cessa con la morte. Ricordatelo. E voi, voi, chiunque siate, che vedete, e molte volte inorridite di vedere gli ibridi connubi di una figlia di Israele con uno di altra razza e fede, ricordate che avete l’obbligo, il dovere, di aiutare caritatevolmente la sorella smarrita a ritrovare le vie del Padre.
   Questa è la nuova Legge, santa e gradita al Signore: che i seguaci del Redentore redimano là ovunque è da redimere, perché Dio sorrida delle anime tornate alla Casa paterna, e perché non sia reso sterile o troppo meschino il sacrificio del Redentore.

 5 Per fare fermentare molta farina, la donna di casa prende un pezzettino della pasta fatta la settimana avanti. Oh! una briciola levata alla grande massa! E la seppellisce nel mucchio di farina, e tiene ciò al riparo dai venti ostili, nel tepore previdente della casa.
   Fate voi così, veri seguaci del Bene, e fate voi così, creature che vi siete allontanate dal Padre e dal suo Regno. Date voi, i primi, una briciola del vostro lievito ad aggiunta e a rinforzo alle seconde, che lo uniranno alla molecola di giustizia che sussiste in esse. E voi ed esse tenete al riparo dei venti ostili del Male, nel tepore della Carità – che è, a seconda di ciò che siete, signora vostra, o tenace superstite in voi, anche se ormai languente – il lievito novello. Serrate ancora le pareti della casa, della correligione, intorno a ciò che lievita nel cuore di una correligionaria smarrita, che si senta amata ancora da Israele, ancora figlia di Sionne e sorella vostra, perché fermentino tutte le buone volontà e venga nelle anime e per le anime, tutte, il Regno dei Cieli».

 6 «Ma chi è? Ma chi è?» si chiede la gente, che non sente più fretta di passare nonostante il ponte sia sgombro, né di proseguire se lo ha superato.
   «Un rabbi».
   «Un rabbi d’Israele».
   «Qui? Ai confini della Fenicia? È la prima volta che ciò accade!».
   «Eppure è così. Aser mi ha detto che è quello che dicono il Santo».
   «Allora forse si rifugia fra noi perché di là lo perseguitano».
   «Sono certi rettili!».
   «Bene se viene da noi! Farà prodigi…».
   Intanto Gesù si è allontanato, prendendo un sentiero nei campi, e se ne va…

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!