San Gaziano di Tours prega per noi – 18 dicembre

Nell’Historia Francorum la famosa opera di Gregorio di Tours, racconta che nell’anno 250 furono inviati da Roma sette vescovi per evangelizzare la Gallia, fra questi vi era Graziano.

Graziano si fermò nella Gallia lugdunense e predicò la fede cristiana a Tours per circa cinquant’anni, fondando la diocesi di Tours. Inizialmente incontrò una grande ostilità da parte degli abitanti di Tours, tanto da essere costretto a celebrare i riti nelle catacombe. Quando morì fu sepolto in un cimitero cristiano nelle vicinanze di Tours. Gregorio riferisce: “in ipsius vici cimiterio, qui erat christianorum”.

Un secolo dopo, San Martino, che fu il terzo vescovo di Tours, traslò le sue spoglie nella chiesa, costruita dal secondo vescovo san Lidorio, sulla quale venne poi costruita la cattedrale di Tours, inizialmente dedicata a san Maurizio e dal 1357 dedicata a Gaziano e soprannominata “La Gatianne”.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Tours nella Gallia lugdunense, ora in Francia, san Gaziano, primo vescovo, che si dice sia stato trasferito da Roma a questa città e sia stato sepolto nel cimitero cristiano del luogo.

Nome: San Gaziano di Tours
Titolo: Vescovo
Nascita: III secolo , Roma
Morte: 307 circa, Tours, Francia
Ricorrenza: 18 dicembre
Tipologia: Commemorazione

Vangelo Mt 1, 18-24: «Il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù ».

Vangelo Novus Ordo Mt 1, 18-24
Dal Vangelo secondo Matteo

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
«Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio:
a lui sarà dato il nome di Emmanuele»,
che significa «Dio con noi».
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
«Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa » .

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Vetus Ordo 

   Cap. XLV. Predicazione di Giovanni Battista e Battesimo di Gesù. La manifestazione divina.

   […].

   Lo stesso 3 febbraio 1944, a sera.

   45.1Vedo una pianura spopolata di paesi e di vegetazione. Non ci sono campi coltivati, e ben poche e rare sono le[95] piante riunite qua e là a ciuffi, come vegetali famiglie, dove il suolo è nelle profondità meno arso che non sia in genere. Faccia conto che questo terreno arsiccio e incolto sia alla mia destra, avendo io il nord alle spalle, e si prolunghi verso quello che è a sud rispetto a me.
   A sinistra invece vedo un fiume di sponde molto basse, che scorre lentamente esso pure da nord a sud. Dal moto lentissimo dell’acqua comprendo che non vi devono essere dislivelli nel suo letto e che questo fiume scorre in una pianura talmente piatta da costituire una depressione. Vi è un moto appena sufficiente acciò l’acqua non stagni in palude. (L’acqua è poco fonda, tanto che si vede il fondale. Giudico non più di un metro, al massimo un metro e mezzo. Largo come è l’Arno verso S. Miniato-Empoli: direi un venti metri. Ma io non ho occhio esatto nel calcolare). Pure è d’un azzurro lievemente verde verso le sponde, dove per l’umidore del suolo è una fascia di verde folta e rallegrante l’occhio, che rimane stanco dallo squallore petroso e arenoso di quanto gli si stende avanti.
   Quella voce intima[96], che le ho spiegato di udire e che mi indica ciò che devo notare e sapere, mi avverte che io vedo la valle del Giordano. La chiamo valle, perché si dice così per indicare il posto dove scorre un fiume, ma qui è improprio il chiamarla così, perché una valle presuppone dei monti, ed io qui di monti non ne vedo vicini. Ma insomma sono presso il Giordano, e lo spazio desolato che osservo alla mia destra è il deserto di Giuda. Se dire deserto per dire luogo dove non sono case e lavori dell’uomo è giusto, non lo è secondo il concetto che noi abbiamo del deserto. Qui non le arene ondulate del deserto come lo concepiamo noi, ma solo terra nuda, sparsa di pietre e detriti, come sono i terreni alluvionali dopo una piena. In lontananza, delle colline.
   Pure, presso il Giordano, vi è una grande pace, un che di speciale, di superiore al comune, come è quello che si nota sulle sponde del Trasimeno. È un luogo che pare ricordarsi di voli d’angeli e di voci celesti. Non so dire bene ciò che provo. Ma mi sento in un posto che parla allo spirito.

   45.2Mentre osservo queste cose, vedo che la scena si popola di gente lungo la riva destra (rispetto a me) del Giordano. Vi sono molti uomini vestiti in maniere diverse. Alcuni paiono popolani, altri dei ricchi, non mancano alcuni che paiono farisei per la veste ornata di frange e galloni.
   In mezzo ad essi, in piedi su un masso, un uomo che, per quanto è la prima volta che lo vedo, riconosco subito per il Battista. Parla alla folla, e le assicuro che non è una predica dolce.
   Gesù ha chiamato[97] Giacomo e Giovanni «i figli del tuono». Ma allora come chiamare questo veemente oratore? Giovanni Battista merita il nome di fulmine, valanga, terremoto, tanto è impetuoso e severo nel suo parlare e nel suo gestire.
   Parla annunciando il Messia ed esortando a preparare i cuori alla sua venuta estirpando da essi gli ingombri e raddrizzando i pensieri. Ma è un parlare vorticoso e rude. Il Precursore non ha la mano leggera di Gesù sulle piaghe dei cuori. È un medico che denuda e fruga e taglia senza pietà.

   45.3Mentre lo ascolto — e non ripeto le parole perché sono quelle riportate[98] dagli evangelisti, ma amplificate in irruenza — vedo avanzarsi lungo una stradicciuola, che è ai bordi della linea erbosa e ombrosa che costeggia il Giordano, il mio Gesù. (Questa rustica via, più sentiero che via, sembra disegnato dalle carovane e dalle persone che per anni e secoli l’hanno percorso per giungere ad un punto dove, essendo il fondale del fiume più alto, è facile il guado. Il sentiero continua dall’altro lato del fiume e si perde fra il verde dell’altra sponda).
   Gesù è solo. Cammina lentamente, venendo avanti, alle spalle di Giovanni. Si avvicina senza rumore e ascolta intanto la voce tuonante del Penitente del deserto, come se anche Gesù fosse uno dei tanti che venivano a Giovanni per farsi battezzare e per prepararsi ad esser mondi per la venuta del Messia. Nulla distingue Gesù dagli altri. Sembra un popolano nella veste, un signore nel tratto e nella bellezza, ma nessun segno divino lo distingue dalla folla.
   Però si direbbe che Giovanni senta una emanazione di spiritualità speciale. Si volge e individua subito la fonte di quel­l’emanazione. Scende con impeto dal masso che gli faceva da pulpito e va sveltamente verso Gesù, che si è fermato qualche metro lontano dal gruppo appoggiandosi al fusto di un albero.

   45.4Gesù e Giovanni si fissano un momento. Gesù col suo sguardo azzurro tanto dolce. Giovanni col suo occhio severo, nerissimo, pieno di lampi. I due, visti vicino, sono l’antitesi l’uno dell’altro. Alti tutti e due — è l’unica somiglianza — sono diversissimi per tutto il resto. Gesù biondo e dai lunghi capelli ravviati, dal volto d’un bianco avoriato, dagli occhi azzurri, dall’abito semplice ma maestoso. Giovanni irsuto, nero di capelli che ricadono lisci sulle spalle, lisci e disuguali in lunghezza, nero nella barba rada che gli copre quasi tutto il volto non impedendo col suo velo di permettere di notare le guance scavate dal digiuno, nero negli occhi febbrili, scuro nella pelle abbronzata dal sole e dalle intemperie e per la folta peluria che lo copre, seminudo nella sua veste di pelo di cammello, tenuta alla vita da una cinghia di pelle e che gli copre il torso scendendo appena sotto i fianchi magri e lasciando scoperte le coste a destra, le coste sulle quali è, unico strato di tessuti, la pelle conciata dall’aria. Sembrano un selvaggio e un angelo visti vicini.
   Giovanni, dopo averlo scrutato col suo occhio penetrante, esclama: «Ecco l’Agnello di Dio. Come è che a me viene il mio Signore?».
   Gesù risponde placido: «Per compiere il rito di penitenza».
   «Mai, mio Signore. Io sono che devo venire a Te per essere santificato, e Tu vieni a me?».
   E Gesù, mettendogli una mano sul capo, perché Giovanni s’era curvato davanti a Gesù, risponde: «Lascia che si faccia come voglio, perché si compia ogni giustizia e il tuo rito divenga inizio ad un più alto mistero e sia annunciato agli uomini che la Vittima è nel mondo».

   45.5Giovanni lo guarda con occhio che una lacrima fa dolce e lo precede verso la riva, dove Gesù si leva il manto, la veste e la tunica[99], rimanendo con una specie di corti calzoncini, per poi scendere nell’acqua dove è già Giovanni, che lo battezza versandogli sul capo l’acqua del fiume, presa con una specie di tazza, che il Battista tiene sospesa alla cintola e che mi pare una conchiglia o una mezza zucca essiccata e svuotata.
   Gesù è proprio l’Agnello. Agnello nel candore della carne, nella modestia del tratto, nella mitezza dello sguardo.
   Mentre Gesù risale la riva e, dopo essersi vestito, si raccoglie in preghiera, Giovanni lo addita alle turbe, testimoniando d’averlo conosciuto per il segno che lo Spirito di Dio gli aveva indicato quale indicazione infallibile del Redentore.
   Ma io sono polarizzata nel guardare Gesù che prega, e non mi resta presente che questa figura di luce contro il verde della sponda.
   
   4 febbraio 1944.

   45.6Dice Gesù:
   «Giovanni non aveva bisogno del segno per se stesso. Il suo spirito, presantificato sin dal ventre di sua madre, era possessore di quella vista di intelligenza soprannaturale che sarebbe stata di tutti gli uomini senza la colpa di Adamo.
   Se l’uomo fosse rimasto in grazia, in innocenza, in fedeltà col suo Creatore, avrebbe visto Dio attraverso le apparenze esterne. Nella Genesi è detto che il Signore Iddio parlava familiarmente con l’uomo innocente e che l’uomo non tramortiva a quella voce, non si ingannava nel discernerla. Così era la sorte dell’uomo: vedere e capire Iddio, proprio come un figlio fa col genitore. Poi è venuta la colpa, e l’uomo non ha più osato guardare Dio, non ha più saputo vedere e comprendere Iddio. E sempre meno lo sa.
   Ma Giovanni, il mio cugino Giovanni, era stato mondato dalla colpa quando la Piena di Grazia s’era curvata amorosa ad abbracciare la già sterile ed allora feconda Elisabetta. Il fanciullino nel suo seno era balzato di giubilo, sentendo cadere la scaglia della colpa dalla sua anima come crosta che cade da una piaga che guarisce. Lo Spirito Santo, che aveva fatto di Maria la Madre del Salvatore, iniziò la sua opera di salvazione, attraverso Maria, vivo Ciborio della Salvezza incarnata, su questo nascituro, destinato ad esser a Me unito non tanto per il sangue quanto per la missione, che fece di noi come le labbra che formano la parola. Giovanni le labbra, Io la Parola. Egli il Precursore nell’Evangelo e nella sorte di martirio. Io, Colui che perfeziona della mia divina perfezione l’Evangelo iniziato da Giovanni ed il martirio per la difesa della Legge di Dio.
   Giovanni non aveva bisogno di nessun segno. Ma alla ottusità degli altri il segno era necessario. Su cosa avrebbe fondato Giovanni la sua asserzione, se non su una prova innegabile che gli occhi dei tardi e le orecchie dei pesanti avessero percepita?

   45.7Io pure non avevo bisogno di battesimo. Ma la sapienza del Signore aveva giudicato esser quello l’attimo e il modo dell’incontro. E, traendo Giovanni dal suo speco nel deserto e Me dalla mia casa, ci unì in quell’ora per aprire su Me i Cieli e farne scendere Se stesso, Colomba divina, su Colui che avrebbe battezzato gli uomini con tal Colomba, e farne scendere l’annuncio, ancor più potente di quello angelico perché del Padre mio: “Ecco il mio Figlio diletto col quale mi sono compiaciuto”. Perché gli uomini non avessero scuse o dubbi nel seguirmi e nel non seguirmi.

   45.8Le manifestazioni del Cristo sono state molte. La prima, dopo la Nascita, fu quella dei Magi, la seconda nel Tempio, la terza sulle rive del Giordano. Poi vennero le infinite altre che ti farò conoscere, poiché i miei miracoli sono manifestazioni della mia natura divina, sino alle ultime della Risurrezione e Ascensione al Cielo.
   La mia patria fu piena delle mie manifestazioni. Come seme gettato ai quattro punti cardinali, esse avvennero in ogni strato e luogo della vita: ai pastori, ai potenti, ai dotti, agli increduli, ai peccatori, ai sacerdoti, ai dominatori, ai bambini, ai soldati, agli ebrei, ai gentili. Anche ora esse si ripetono. Ma, come allora, il mondo non le accoglie. Anzi non accoglie le attuali e dimentica le passate. Ebbene, Io non desisto. Io mi ripeto per salvarvi, per portarvi alla fede in Me.

   45.9Sai, Maria, quello che fai? Quello che faccio, anzi, nel mostrarti il Vangelo? Un tentativo più forte di portare gli uomini a Me. Tu lo hai desiderato con preghiere ardenti. Non mi limito più alla parola. Li stanca e li stacca. È una colpa, ma è così. Ricorro alla visione, e del mio Vangelo, e la spiego per renderla più chiara e attraente.
   A te do il conforto del vedere. A tutti do il modo di desiderare di conoscermi. E, se ancora non servirà e come crudeli bambini getteranno il dono senza capirne il valore, a te resterà il mio dono e ad essi il mio sdegno. Potrò una volta ancora fare[100] l’antico rimprovero: “Abbiamo sonato e non avete ballato; abbiamo intonato lamenti e non avete pianto”.
   Ma non importa. Lasciamo che essi, gli inconvertibili, accumulino sul loro capo i carboni ardenti, e volgiamoci alle pecorelle che cercano di conoscere il Pastore. Io son Quello, e tu sei la verga che le conduci a Me».

   45.10Come vede, mi sono affrettata a mettere quei particolari[101] che, per la loro piccolezza, mi erano sfuggiti e che lei ha desiderato di avere. […].


San Malachia

Liturgia Novus Ordo: Mt 1, 18-24.

Vangelo Novus Ordo Mt 1, 18-24
Dal Vangelo secondo Matteo

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
«Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio:
a lui sarà dato il nome di Emmanuele»,
che significa «Dio con noi».
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Novus ordo

   Cap. XXV. Presentazione di Giovanni Battista al Tempio e partenza di Maria. La Passione di Giuseppe

   5-6 aprile 1944.

 1 Nella notte fra il mercoledì e il giovedì della settimana santa vedo così.
   Da un comodo carro, al quale è legato anche il somarello di Maria, vedo scendere Zaccaria, Elisabetta e Maria con in braccio il piccolo Giovanni, e Samuele con un agnello e una cesta col colombo. Scendono davanti al solito stallaggio, che deve esser la tappa di tutti i pellegrini al Tempio, per depositare le loro cavalcature.
   Maria chiama l’ometto che ne è padrone e chiede se nessun nazareno è giunto nella giornata di ieri o nelle prime ore del mattino. «Nessuno, donna», risponde il vecchietto. Maria resta stupita, ma non aggiunge altro.
   Fa sistemare da Samuele il ciuchino e poi raggiunge i due maturi genitori e spiega il ritardo di Giuseppe: «Sarà stato trattenuto da qualche cosa. Ma oggi verrà certo». Riprende il bambino, che aveva consegnato a Elisabetta, e si avviano al Tempio.

 2 Zaccaria è ricevuto con onore dalle guardie e salutato e complimentato da altri sacerdoti. È tutto bello, oggi, Zaccaria nelle sue vesti sacerdotali e nella sua gioia di padre felice. Pare un patriarca. Penso che Abramo gli doveva somigliare quando gioiva di offrire Isacco al Signore.
Vedo la cerimonia della presentazione del nuovo israelita e la purificazione della madre. Ed è ancor più pomposa di quella di Maria, perché per il figlio di un sacerdote i sacerdoti fanno gran festa. Accorrono in massa e si dànno un gran da fare intorno al gruppetto delle donne e del neonato.
   Anche della gente si è accostata curiosa e odo i commenti. Dato che Maria ha sulle braccia l’infante mentre si avviano al luogo stabilito, la gente la crede la madre.
   Ma una donna dice: «Non può essere. Non vedete che Ella è incinta? Il bambino non ha più di pochi giorni ed Ella è già grossa».
   «Eppure», dice un altro, «non può esser che Ella la madre. L’altra è vecchia. Sarà una parente. Ma madre a quell’età non può essere».
   «Andiamo loro dietro e vedremo chi ha ragione».
E lo stupore diviene ben grande quando si vede che colei che compie il rito della purificazione è Elisabetta, la quale offre il suo agnellino belante per l’olocausto e il suo colombo per il peccato.
   «La madre è quella. Hai visto?».
   «No!».
   «Sì».
   La gente bisbiglia incredula ancora. Bisbiglia tanto che un «Ssst!» imperioso parte dal gruppo sacerdotale presente al rito. La gente tace un momento, ma bisbiglia più forte quando Elisabetta, raggiante di santo orgoglio, prende il bambino e si inoltra nel Tempio per farne la presentazione al Signore.
   «È proprio quella».
   «È sempre la madre che lo offre».
   «Che miracolo è mai questo?».
   «Che sarà quel bambino concesso in così tarda età a quella donna?».
   «Qual segno è mai questo?».
   «Non sapete?», dice uno che giunge trafelato. «È figlio del sacerdote Zaccaria della stirpe di Aronne, quello che divenne muto mentre offriva l’incenso nel Santuario».
   «Mistero! Mistero! E ora parla di nuovo! La nascita del figlio gli ha slegata la lingua».
   «Quale spirito gli avrà mai parlato e resa morta la sua lingua per abituarlo al silenzio sui segreti di Dio?».
   «Mistero! Quale verità conoscerà Zaccaria?».
   «Sia il figlio suo il Messia atteso da Israele?».
   «In Giudea è nato. Ma non a Betlem e non da una vergine. Messia esser non può».
   «Chi dunque mai?».
   Ma la risposta resta nei silenzi di Dio, e la gente rimane con la sua curiosità.
   Il cerimoniale è compiuto. I sacerdoti festeggiano, ora, anche la madre e il piccino. L’unica poco osservata, anzi schivata quasi con ribrezzo[62] quando si accorgono del suo stato, è Maria.

  3 Finite tutte le felicitazioni, i più tornano sulla via, e Maria vuole tornare allo stallaggio per vedere se è giunto Giuseppe. Non è giunto. Maria resta delusa e pensierosa.
   Elisabetta si preoccupa per Lei. «Fino all’ora sesta possiamo restare, ma poi dobbiamo partire per essere a casa avanti la prima vigilia. È ancor troppo piccino per stare oltre nella notte».
E Maria, calma e mesta: «Resterò in un cortile del Tempio. Andrò dalle mie maestre… Non so. Qualcosa farò».
   Zaccaria interviene con un progetto subito accettato come buona risoluzione. «Andiamo dai parenti di Zebedeo. Giuseppe certo là ti cerca e, se non avesse a venire là, ti sarà facile trovare chi ti accompagna verso la Galilea, ché in quella casa è un continuo andare e venire di pescatori di Genezareth».
   Prendono il ciuchino e vanno da questi parenti di Zebedeo, i quali altro non sono che quelli dai quali hanno sostato Giuseppe e Maria or sono quattro mesi.
   Le ore passano veloci e Giuseppe non compare. Maria domina il suo cruccio ninnando il piccolo, ma si vede che è pensierosa. Come per nascondere il suo stato, non si è mai levato il manto, nonostante il caldo intenso che fa sudare tutti.

 4 Finalmente un gran picchio alla porta annuncia Giuseppe. Il volto di Maria splende rasserenato.
   Giuseppe la saluta, poiché Ella si presenta per prima e lo saluta con riverenza. «La benedizione di Dio su te, Maria!».
   «E su di te, Giuseppe. E lode al Signore che sei venuto! Ecco, Zaccaria ed Elisabetta stavano per partire, per esser a casa avanti notte».
   «Il tuo messo giunse a Nazareth mentre io ero a Cana per dei lavori. Ieri l’altro a sera lo seppi. E subito partii. Ma, per quanto abbia camminato senza sostare, ho fatto tardi, perché s’era perso un ferro all’asinello. Perdona!».
   «Tu perdona per esser stata tanto tempo lontana da Nazareth! Ma, vedi, tanto felici erano    d’avermi seco, che ho voluto accontentarli sino ad ora».
   «Bene hai fatto, Donna. Il bambino dove è?».
   Entrano nella stanza dove è Elisabetta che dà il latte a Giovanni avanti di partire. Giuseppe complimenta i genitori per la robustezza del bambino che, staccato dalla mammella per mostrarlo a Giuseppe, strilla e scalcia come lo scorticassero. Ridono tutti davanti alle sue proteste. Anche i parenti di Zebedeo, che sono accorsi portando frutta fresca e latte e pane per tutti e un gran vassoio di pesce, ridono e si uniscono alla conversazione degli altri.

 5 Maria parla molto poco. Sta quieta e silenziosa, seduta nel suo angolino con le mani in grembo sotto il suo manto. E, anche quando beve una tazza di latte e mangia un grappolo d’uva dorata con un poco di pane, poco parla e poco si muove. Guarda Giuseppe con un misto di pena e di indagine.
   Anche egli la guarda. E dopo qualche tempo, curvandosi sulla sua spalla, le chiede: «Sei stanca o soffri? Sei pallida e triste».
   «Ho dolore a separarmi da Giovannino. Gli voglio bene. L’ho avuto sul cuore da pochi momenti nato…».
   Giuseppe non chiede altro.
   L’ora della partenza di Zaccaria è venuta. Il carro si ferma alla porta e tutti si avviano ad esso. Le due cugine si abbracciano con amore. Maria bacia e ribacia il piccino prima di deporlo sul grembo della madre, già seduta nel suo carro. Poi saluta Zaccaria e gli chiede la benedizione. Nell’inginocchiarsi davanti al sacerdote, il manto le scivola dalle spalle e le forme le appaiono nella luce intensa del pomeriggio estivo. Non so se Giuseppe le noti in questo momento, intento come è a salutare Elisabetta. Il carro parte.

  6 Giuseppe rientra in casa con Maria, che riprende il suo posto nell’angolo semioscuro. «Se non ti spiace viaggiare di notte, io proporrei di partire al tramonto. Il caldo è forte nel giorno. La notte invece è fresca e quieta. Dico per te, per non farti prendere troppo sole. Per me è cosa da nulla stare sotto al solleone. Ma tu…».
   «Come vuoi, Giuseppe. Credo io pure che sia bene andare di notte».
   «La casa è tutta in ordine. E l’orticello. Vedrai che bei fiori! Giungi in tempo per vederli tutti fiorire. Il melo, il fico e la vite sono carichi di frutti come non mai, e il melograno ho dovuto sorreggerlo, tanto ha i rami carichi di frutti così già formati che mai si vide esser tali di questo tempo. L’ulivo, poi… Avrai olio in abbondanza. Ha fatto una fiorita miracolosa e non si è perso un fiore. Tutti sono già piccole ulive. Quando saranno mature, la pianta sembrerà piena di scure perle. Non c’è che il tuo orto così bello in tutta Nazareth. Anche i parenti ne sono stupiti. E Alfeo dice che questo è un prodigio».
   «Le tue cure lo hanno creato».
   «Oh! no! Povero uomo! Che devo aver fatto io? Un poco di cura alle piante ed un poco d’acqua ai fiori… Sai? Ti ho fatto una fonte in fondo, presso la grotta, e vi ho messo una vasca. Così non avrai ad uscire per aver l’acqua. L’ho condotta da quella sorgente che sta sopra all’uliveto di Mattia. È pura e abbondante. Un piccolo rivolo l’ho condotto a te. Ho fatto un piccolo canale ben coperto, e ora viene e canta come un’arpa. Mi doleva che tu andassi alla fonte del paese e ne tornassi carica delle anfore piene d’acqua».
   «Grazie, Giuseppe. Tu sei buono!».
   I due sposi tacciono, ora, come stanchi. E Giuseppe sonnecchia anche. Maria prega.

 7 Viene la sera. Gli ospiti insistono perché prima di mettersi in viaggio i due mangino ancora. Giuseppe mangia infatti pane e pesce. Maria solo frutta e latte.
Poi partono. Montano sui loro ciuchini. Giuseppe ha legato sul suo, come nel venire, il cofano di Maria, e prima che Ella monti sul somarello osserva che la sella sia ben sicura. Vedo che Giuseppe osserva Maria quando monta in sella. Ma non dice nulla.
Il viaggio ha inizio sotto le prime stelle che cominciano a palpitare in cielo. Si affrettano alle porte per giungervi avanti che siano chiuse, forse. Quando escono da Gerusalemme e prendono la via maestra che va verso la Galilea, le stelle gremiscono ormai tutto il cielo sereno. E un grande silenzio è per la campagna. Solo si sente cantare qualche usignolo e il battere degli zoccoli dei due asinelli sul terreno duro della via arsa dall’estate.

 8 Dice Maria:
   «È la vigilia del Giovedì santo. A taluni parrà fuori posto questa visione. Ma il tuo dolore di amante del mio Gesù Crocifisso è nel tuo cuore e vi resta anche se una dolce visione si presenta. Essa è come il tepore che si sviluppa da una fiamma, che è ancora fuoco ma non è già più fuoco. Il fuoco è la fiamma, non il tepore di essa, che ne è unicamente una derivazione. Nessuna visione beatifica o pacifica varrà a toglierti quel dolore dal cuore. E tienilo caro più della tua stessa vita. Perché è il dono più grande che Dio possa concedere ad un credente nel suo Figlio. Inoltre non è la mia, nella sua pace, visione disforme alle ricorrenze di questa settimana.

 9 Anche il mio Giuseppe ha avuto la sua Passione. Ed essa è nata in Gerusalemme quando gli apparve il mio stato. Ed essa è durata dei giorni come per Gesù e per me. Né essa fu spiritualmente poco dolorosa. E unicamente per la santità del Giusto che m’era sposo fu contenuta in una forma, che fu talmente dignitosa e segreta che è passata nei secoli poco notata.
   Oh! la nostra prima Passione! Chi può dirne la intima e silenziosa intensità? Chi il mio dolore nel constatare che il Cielo non mi aveva ancora esaudita rivelando a Giuseppe il mistero?
   Che egli lo ignorasse l’avevo compreso vedendolo meco rispettoso come di solito. Se egli avesse saputo che portavo in me il Verbo di Dio, egli avrebbe adorato quel Verbo, chiuso nel mio seno, con atti di venerazione che sono dovuti a Dio e che egli non avrebbe mancato di fare, come io non avrei ricusato di ricevere, non per me, ma per Colui che era in me e che io portavo così come l’Arca dell’alleanza portava il codice di pietra e i vasi della manna.
   Chi può dire la mia battaglia contro lo scoramento, che voleva soverchiarmi per persuadermi che avevo sperato invano nel Signore? Oh! io credo che fu rabbia di Satana! Sentii il dubbio sorgermi alle spalle e allungare le sue branche gelide per imprigionarmi l’anima e fermarla nel suo orare. Il dubbio che è così pericoloso, letale allo spirito. Letale, perché è il primo agente della malattia mortale che ha nome “disperazione” e al quale si deve reagire con ogni forza, per non perire nell’anima e perdere Dio.
   Chi può dire con esatta verità il dolore di Giuseppe, i suoi pensieri, il turbamento dei suoi affetti? Come piccola barca presa in gran bufera, egli era in un vortice di opposte idee, in una ridda di riflessioni l’una più mordente e più penosa dell’altra. Era un uomo, in apparenza, tradito dalla sua donna. Vedeva crollare insieme il suo buon nome e la stima del mondo, per lei si sentiva già segnato a dito e compassionato dal paese, vedeva il suo affetto e la sua stima in me cadere morti davanti all’evidenza di un fatto.

 10 La sua santità qui splende ancor più alta della mia. Ed io ne rendo questa testimonianza con affetto di sposa, perché voglio lo amiate il mio Giuseppe, questo saggio e prudente, questo paziente e buono, che non è separato dal mistero della Redenzione, ma sibbene è ad esso intimamente connesso, perché consumò il dolore per esso e se stesso per esso, salvandovi il Salvatore a costo del suo sacrificio e della sua santità.
   Fosse stato men santo, avrebbe agito umanamente, denunciandomi come adultera perché fossi lapidata e il figlio del mio peccato perisse con me. Fosse stato men santo, Dio non gli avrebbe concesso la sua luce per guida in tal cimento. Ma Giuseppe era santo. Il suo spirito puro viveva in Dio. La carità era in lui accesa e forte. E per la carità vi salvò il Salvatore, tanto quando non mi accusò agli anziani, quanto quando, lasciando tutto con pronta ubbidienza, salvò Gesù in Egitto.

 11 Brevi come numero, ma tremendi di intensità i tre giorni della Passione di Giuseppe. E della mia, di questa mia prima passione. Perché io comprendevo il suo soffrire, né potevo sollevarlo in alcun modo per l’ubbidienza al decreto di Dio, che mi aveva detto: “Taci!”.
   E quando, giunti a Nazareth, lo vidi andarsene dopo un laconico saluto, curvo e come invecchiato in poco tempo, né venire a me alla sera come sempre usava, vi dico, figli, che il mio cuore pianse con ben acuto duolo. Chiusa nella mia casa, sola, nella casa dove tutto mi ricordava l’Annuncio e l’Incarnazione, e dove tutto mi ricordava Giuseppe a me sposato in una illibata verginità, io ho dovuto resistere allo sconforto, alle insinuazioni di Satana e sperare, sperare, sperare. E pregare, pregare, pregare. E perdonare, perdonare, perdonare al sospetto di Giuseppe, al suo sommovimento di giusto sdegno.
   Figli, occorre sperare, pregare, perdonare per ottenere che Dio intervenga in nostro favore. Vivete anche voi la vostra passione. Meritata per le vostre colpe. Io vi insegno come superarla e mutarla in gioia. Sperate oltre misura. Pregate senza sfiducia. Perdonate per esser perdonati. Il perdono di Dio sarà la pace che desiderate, o figli.

 12 Null’altro per ora vi dirò. Sin dopo il trionfo pasquale sarà silenzio. È la Passione. Compassionate il Redentore vostro. Uditene i lamenti e numeratene ferite e lacrime. Ognuna di esse è scesa per voi e per voi fu patita. Ogni altra visione scompaia davanti a questa che vi ricorda la Redenzione compiuta per voi».

  

   Cap.XXVI. Giuseppe chiede perdono a Maria. Fede, carità e umiltà per ricevere Dio.

   31 maggio 1944

  1Dopo 53 giorni riprende la Mamma a mostrarsi con questa visione che mi dice da segnare in questo libro. La gioia si riversa in me. Perché vedere Maria è possedere la Gioia.

  2Vedo dunque l’orticello di Nazaret. Maria fila all’ombra di un foltissimo melo stracarico di frutta, che cominciano ad arrossare e sembrano tante guance di bambino nel loro roseo e tondo aspetto.
  Ma Maria non è per nulla rosea. Il bel colore, che le avvivava le guance a Ebron, le è scomparso. Il viso è di un pallore di avorio, in cui soltanto le labbra segnano una curva di pallido corallo. Sotto le palpebre calate stanno due ombre scure e i bordi dell’occhio sono gonfi come in chi ha pianto. Non vedo gli occhi, perché Ella sta col capo piuttosto chino, intenta al suo lavoro e più ancora ad un suo pensiero che la deve affliggere, perché l’odo sospirare come chi ha un dolore nel cuore.
  È tutta vestita di bianco, di lino bianco, perché fa molto caldo nonostante che la freschezza ancora intatta dei fiori mi dica che è mattina. È a capo scoperto e il sole, che scherza con le fronde del melo mosse da un lievissimo vento e filtra con aghi di luce fin sulla terra bruna delle aiuole, le mette dei cerchiolini di luce sul capo biondo, e là i capelli sembrano di un oro zecchino.
  Dalla casa non viene nessun rumore, né dai luoghi vicini. Si sente solo il mormorio del filo d’acqua che scende in una vasca in fondo all’orto.

  3Maria sobbalza per un picchio dato risolutamente all’uscio di casa. Posa conocchia e fuso e si alza per andare ad aprire. Per quanto l’abito sia sciolto e ampio, non riesce a nascondere completamente la rotondità del suo bacino.
  Si trova di fronte Giuseppe. Maria impallidisce anche nelle labbra. Ora il suo viso pare un’ostia, tanto è esangue. Maria guarda con occhio che interroga mestamente. Giuseppe guarda con occhio che pare supplichi. Tacciono, guardandosi. Poi Maria apre la bocca: «A quest’ora, Giuseppe? Hai bisogno di qualche cosa? Che vuoi dirmi? Vieni».
  Giuseppe entra e chiude la porta. Non parla ancora.
  «Parla, Giuseppe. Che vuoi da me?».
 «Il tuo perdono». Giuseppe si curva come volesse inginocchiarsi. Ma Maria, sempre così riservata nel toccarlo, lo afferra per le spalle risolutamente e glielo impedisce.
  Il colore va e viene dal volto di Maria, che ora è tutta rossa e ora di neve come prima. «Il mio perdono? Non ho nulla da perdonarti, Giuseppe. Non devo che ringraziarti ancora per tutto quanto hai fatto qui dentro in mia assenza e per l’amore che mi porti».
 Giuseppe la guarda, e vedo due grossi goccioloni formarsi nell’incavo del suo occhio profondo, stare lì come sull’orlo di un vaso e poi rotolare giù sulle guance e sulla barba. «Perdono, Maria. Ho diffidato di te. Ora so. Sono indegno di avere tanto tesoro. Ho mancato di carità, ti ho accusata nel mio cuore, ti ho accusata senza giustizia perché non ti avevo chiesto la verità. Ho mancato verso la legge di Dio non amandoti come mi sarei amato…».
  «Oh! no! Non hai mancato!».
  «Sì, Maria. Se fossi stato accusato di un tal delitto, mi sarei difeso. Tu… Non concedevo a te di difenderti, perché stavo per prendere delle decisioni senza interrogarti. Ho mancato verso te recandoti l’offesa di un sospetto. Anche solo un sospetto è offesa, Maria. Chi sospetta non conosce. Io non ti ho conosciuta come dovevo. Ma per il dolore che ho patito,… tre giorni di supplizio, perdonami, Maria».
  «Non ho nulla da perdonarti. Ma, anzi, io ti chiedo perdono per il dolore che ti ho dato».
  «Oh! sì, che fu dolore! Che dolore! Guarda, stamane mi hanno detto che sulle tempie sono canuto e sul viso ho rughe.
  Più di dieci anni di vita sono stati questi giorni!

  4Ma perché, Maria, sei stata tanto umile da tacere, a me, tuo sposo, la tua gloria, e permettere che io sospettassi di te?».
  Giuseppe non è in ginocchio, ma sta così curvo che è come lo fosse, e Maria gli posa la manina sul capo e sorride. Pare lo assolva. E dice: «Se non lo fossi stata in maniera perfetta, non avrei meritato di concepire l’Atteso, che viene ad annullare la colpa di superbia che ha rovinato l’uomo. E poi ho ubbidito… Dio mi ha chiesto questa ubbidienza. Mi è costata tanto… per te, per il dolore che te ne sarebbe venuto. Ma non dovevo che ubbidire. Sono l’Ancella di Dio, e i servi non discutono gli ordini che ricevono. Li eseguiscono, Giuseppe, anche se fanno piangere sangue».
  Maria piange quietamente mentre dice questo. Tanto quietamente che Giuseppe, curvo come è, non se ne avvede sinché una lacrima non cade al suolo. Allora alza il capo e — è la prima volta che gli vedo fare questo gesto — stringe le manine di Maria nelle sue brune e forti e bacia la punta di quelle rosee dita sottili, che spuntano come tanti bocci di pesco dall’anello delle mani di Giuseppe.

  5«Ora bisognerà provvedere perché…». Giuseppe non dice di più, ma guarda il corpo di Maria, e Lei diviene di porpora e si siede di colpo per non rimanere così esposta, nelle sue forme, allo sguardo che l’osserva. «Bisognerà fare presto. Io verrò qui… Compiremo il matrimonio… Nell’entrante settimana. Va bene?».
  «Tutto quanto tu fai va bene, Giuseppe. Tu sei il capo di casa, io la tua serva».
  «No. Io sono il tuo servo. Io sono il beato servo del mio Signore che ti cresce in seno. Tu benedetta fra tutte le donne d’Israele. Questa sera avviserò i parenti. E dopo… quando sarò qui lavoreremo per preparare tutto a ricevere… Oh! come potrò ricevere nella mia casa Dio? Nelle mie braccia Dio? Io ne morrò di gioia!… Io non potrò mai osare di toccarlo!…».
  «Tu lo potrai, come io lo potrò, per grazia di Dio».
  «Ma tu sei tu. Io sono un povero uomo, il più povero dei figli di Dio!…».
  «Gesù viene per noi, poveri, per farci ricchi in Dio, viene a noi due perché siamo i più poveri e riconosciamo di esserlo. Giubila, Giuseppe. La stirpe di Davide ha il Re atteso e la nostra casa diviene più fastosa della reggia di Salomone, perché qui sarà il Cielo e noi divideremo con Dio il segreto di pace che più tardi gli uomini sapranno. Crescerà fra noi, e le nostre braccia saranno cuna al Redentore che cresce, e le nostre fatiche gli daranno un pane… Oh! Giuseppe! Sentiremo la voce di Dio chiamarci “padre e Madre!”. Oh!…».
  Maria piange di gioia. Un pianto così felice! E Giuseppe inginocchiato, ora, ai suoi piedi, piange col capo quasi nascosto nell’ampia veste di Maria, che le fa una caduta di pieghe sui poveri mattoni della stanzetta.
   La visione cessa qui.

  6Dice Maria:
  «Nessuno interpreti in modo errato il mio pallore. Non era dato da paura umana. Umanamente mi sarei dovuta attendere la lapidazione. Ma non temevo per questo. Soffrivo per il dolore di Giuseppe. Anche il pensiero che egli mi accusasse, non mi turbava per me stessa. Soltanto mi spiaceva che egli potesse, insistendo nell’accusa, mancare alla carità. Quando lo vidi, il sangue mi andò tutto al cuore per questo. Era il momento in cui un giusto avrebbe potuto offendere la Giustizia, offendendo la Carità. E che un giusto mancasse, egli che non mancava mai, mi avrebbe dato dolore sommo.

  7Se io non fossi stata umile sino al limite estremo, come ho detto a Giuseppe, non avrei meritato di portare in me Colui che, per cancellare la superbia nella razza, annichiliva Sé, Dio, all’umiliazione d’esser uomo.

 8Ti ho mostrato questa scena, che nessun vangelo riporta, perché voglio richiamare l’attenzione troppo sviata degli uomini sulle condizioni essenziali per piacere a Dio e ricevere la sua continua venuta in cuore.
  Fede. Giuseppe ha creduto ciecamente alle parole del messo celeste(Mt 1,20-21). Non chiedeva che di credere, perché era in lui convinzione sincera che Dio è buono e che a lui, che aveva sperato nel Signore, il Signore non avrebbe serbato il dolore d’esser un tradito, un deluso, uno schernito dal suo prossimo. Non chiedeva che di credere in me perché, onesto come era, non poteva pensare che con dolore che altri non lo fosse. Egli viveva la Legge, e la Legge dice: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Noi ci amiamo tanto che ci crediamo perfetti anche quando non lo siamo. Perché allora disamare il prossimo pensandolo imperfetto?
  Carità assoluta. Carità che sa perdonare, che vuole perdonare. Perdonare in anticipo, scusando in cuor proprio le manchevolezze del prossimo. Perdonare al momento, concedendo tutte le attenuanti al colpevole.
  Umiltà assoluta come la carità. Sapere riconoscere che si è mancato anche col semplice pensiero, e non avere l’orgoglio, più nocivo ancora della colpa antecedente, di non voler dire: “Ho errato”. Meno Dio, tutti errano. Chi è colui che può dire: “Io non sbaglio mai”? E l’ancor più difficile umiltà: quella che sa tacere le meraviglie di Dio in noi, quando non è necessario proclamarle per dargliene lode, per non avvilire il prossimo che non ha tali doni speciali da Dio. Se vuole, oh! se vuole, Dio disvela Se stesso nel suo servo! Elisabetta mi “vide” quale ero, lo sposo mio mi conobbe per quel che ero quando fu l’ora di conoscerlo per lui.

  9Lasciate al Signore la cura di proclamarvi suoi servi. Egli ne ha un’amorosa fretta, perché ogni creatura che assurga a particolare missione è una nuova gloria aggiunta all’infinita sua, perché è testimonianza di quanto è l’uomo così come Dio lo voleva: una minore perfezione che rispecchia il suo Autore. Rimanete nell’ombra e nel silenzio, o prediletti dalla Grazia, per poter udire le uniche parole che sono di “vita”, per poter meritare di avere su voi e in voi il Sole che eterno splende.
  Oh! Luce beatissima che sei Dio, che sei la gioia dei tuoi servi, splendi su questi servi tuoi e ne esultino nella loro umiltà, lodando Te, Te solo, che sperdi i superbi ma elevi gli umili, che ti amano, agli splendori del tuo Regno».

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!