San Marcello di Apamea prega per noi – 14 agosto

Teodosio I il Grande, chiamato da Graziano a governare l’impero d’Oriente, portò avanti il progetto dell’imperatore, anche dopo la morte di lui, di costituire uno stato religiosamente unito e compatto e tentò di imporre su tutto l’impero romano, anche con la forza, il cristianesimo. Fu il vero fondatore del primo stato cristiano e visse ai tempi di S. Agostino (28 ago.), il più grande Padre della Chiesa occidentale, in un’era in cui l’imperatore aveva un ruolo decisivo nello stabilire chi poteva essere considerato cristiano ortodosso e chi eretico o pagano, nonché nel comminare le pene conseguenti.

Nel 380 Teodosio e Graziano avevano pubblicato un decreto secondo il quale tutti i sudditi dovevano professare la fede dei vescovi di Roma e Alessandria; chi non avesse obbedito agli editti imperiali sarebbe stato considerato «pazzo e malato di mente» (Codex Th_ eodosianus 16,2). Furono proibiti i sacrifici e combattuti l’arianesimo e altre eresie. Le assemblee illegali presso privati vennero interdette e le case confiscate. Nel 384 l’altare della Vittoria fu tolto dal Senato.

Otto anni dopo l’editto, Teodosio mandò un ufficiale in Egitto, Siria e Asia Minore per rendere effettivo un decreto che ordinava la distruzione di tutti i templi pagani.

Questa politica spietata e violenta scatenò l’ira dei non cristiani. I monaci iniziarono a percorrere le province orientali distruggendo templi e opere d’arte, mentre orde di saccheggiatori derubavano non solo i santuari, ma anche i villaggi e intere regioni accusate di eresia. Quando il prefetto imperiale arrivò ad Apamea in Siria, ordinò ai suoi soldati di distruggere il tempio di Zeus ma, poiché questo era un edificio ampio e ben costruito, gli inesperti soldati non riuscirono ad abbatterlo.

Il vescovo della città, Marcello, suggerì al prefetto di mandare i suoi uomini altrove, promettendo di provvedere egli stesso alla distruzione del tempio. Il giorno seguente un operaio si presentò al vescovo dicendo che avrebbe fatto il lavoro in cambio di una paga doppia. Marcello accettò: l’uomo fece crollare alcune colonne portanti e diede fuoco alle fondamenta. Il vescovo fece lo stesso con altri templi, fino a che ne trovò uno difeso dai suoi fedeli e «dovette allontanarsi dalla scena della battaglia, lontano dalla portata delle frecce, perché soffriva di gotta e non avrebbe potuto né combattere né scappare». Mentre osservava la battaglia dal suo rifugio, alcuni dei fedeli del tempio lo raggiunsero e, catturatolo, lo gettarono tra le fiamme. Trovati i colpevoli, i cristiani avrebbero voluto vendicarsi dell’assassinio, ma il sinodo della provincia non lo permise, ritenendo che la morte da martire imponesse al popolo solo di rallegrarsi per l’onore concesso da Dio al loro pastore.

Questo Marcello non deve essere confuso con un altro, nato ad Apamea e divenuto abate di Costantinopoli, la cui memoria è ricordata il 29 dicembre. Può apparire strano che questo aggressivo Marcello sia stato canonizzato nonostante il comportamento brutale nei confronti delle altre religioni, ma quest’impressione deriva da una concezione della tolleranza moderna (benché lungo tutti i secoli di cristianesimo abbia sicuramente avuto alcuni, anche se pochi, sostenitori).

MARTIROLOGIO ROMANO. Ad Apamea in Siria, san Marcello, vescovo e martire, ucciso dalla furia dei pagani per aver abbattuto un tempio dedicato a Giove.

Nome: San Marcello di Apamea
Titolo: Vescovo e martire
Morte: 390 circa, Apamea, Siria
Ricorrenza: 14 agosto
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione

“Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione”. 

Vangelo Lc 12, 49-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

Impegno del giorno: Preghiamo lo Spirito Santo, affinchè infiammi i nostri cuori d’amore per Gesù.

San Massimiliano Maria Kolbe prega per noi – 14 agsto

Padre Kolbe è l’eroico frate francescano conventuale che nel campo di concentramento di Auschwitz offrì la propria vita per salvare quella di un padre di famiglia, Francesco Gaiowniczek, condannato a morire di fame come rappresaglia per la fuga di un detenuto.

Giovanni Paolo II, nell’elevarlo agli onori degli altari, il 10 ottobre 1982, lo ha proclamato «patrono del nostro difficile secolo», un esempio di pace e di fraternità in una società sconvolta dall’odio e dall’egoismo.

Kolbe nacque a SudunzskaWola, una cittadina del centro industriale di Lodz, l’8 gennaio 1894. I suoi genitori erano operai tessili. Kolbe da ragazzo conobbe il senso liberatorio e insieme opprimente di povertà e lavoro. E quell’esperienza non fu estranea ad alcune scelte che lo portarono ad abbracciare la Regola di san Francesco tra i minori conventuali di Leopoli (1907) e poi a dar vita a una istituzione che aveva proprio, in povertà e lavoro, caratteristiche tipicamente francescane, un sicuro fondamento, e cioè le «Città dell’Immacolata»: «Niepokalanów», in Polonia, e «Mugenzai No Sono», in Giappone.

Nell’ideale francescano Kolbe innestò poi la propria fiducia nella possibilità offerta dai mezzi che la tecnica in quel tempo stava mettendo a disposizione. E a chi gli faceva osservare che su di essi già il diavolo aveva allungato le sue sordide zampacce, egli rispondeva: «Ragione di più per svegliarci e metterci all’opera per riconquistare le posizioni perdute».

Quando ne ebbe l’opportunità, dimostrò la bontà e la lungimiranza dei propri progetti. E ciò avvenne in Polonia, dove ritornò nel 1919, dopo aver conseguito a Roma la laurea in teologia.

A pochi chilometri da Varsavia diede vita nel 1927 a «Niepokalanów» (Città dell’Immacolata) i cui cittadini, tutti frati, si dedicavano, vivendo in rigorosa povertà, all’apostolato per mezzo della stampa. E furono autori di un consistente boom editoriale che ancor oggi sorprende. Il «Cavaliere dell’Immacolata», la prima di una catena di riviste, fondato nel 1922 dopo un periodo iniziale di stasi, decollò raggiungendo le cinquantamila copie. In seguito si affermò come settimanale con settecentocinquantamila copie (addirittura un milione nel 1938).

L’Immacolata, cui padre Kolbe ha intitolato gran parte delle sue riviste, era il suo chiodo fisso. In tempi non troppo felici per la chiesa e per il mondo, Kolbe vedeva nella Madonna l’ideale capace di scuotere le coscienze, di ridare fiato al cristianesimo; un ideale, comunque, per il quale combattere le sante battaglie della fede. Per questo, ancor prima di essere ordinato sacerdote, aveva istituito a Roma, il 16 ottobre 1917, la Milizia dell’Immacolata, uno strumento per far conoscere e vivere la devozione alla Madre di Cristo, ancor oggi vivo e prosperoso.

Nel 1930 partì missionario per il Giappone a fondarvi un’altra Città dell’Immacolata, animata dallo stesso spirito e dagli stessi ideali. Tornato definitivamente in Polonia, dopo un paio di altri viaggi «missionari» nello stesso Giappone e in altri paesi dell’oriente, padre Kolbe si dedicò interamente alla sua opera.

La seconda guerra mondiale lo sorprese a capo del più importante complesso editoriale della Polonia.

Il 19 settembre 1939 fu arrestato dalla Gestapo, che lo deportò prima a Lamsdorf (Germania), poi nel campo di concentramento di Amlitz. Rilasciato l’8 dicembre 1939, tornò a Niepokalanów, riprendendo l’attività interrotta. Arrestato di nuovo nel 1941 fu rinchiuso nel carcere di Pawiak a Varsavia, e poi deportato nel campo di concentramento di Auschwitz, dove con uno straordinario atto d’amore chiuse una vita tutta spesa al servizio degli altri.

Nel campo viveva una legge secondo la quale, per la fuga di uno, dieci dello blocco, venivano condannati a morire di fame in un oscuro sotterraneo. Quando all’appello della sera risultò che uno mancava un grande timore invase l’animo di tutti i prigionieri…

Il Comandante scelse con un cenno della mano chi doveva morire e ad un tratto si sentì un grido: «Addio! addio! mia povera sposa, addio miei poveri figli…era il sergente Francesco Gajowniczek.

Ma ad un tratto un uomo, anzi, un numero esce con passo deciso dalle file e va diritto verso il Comandante del campo. Chi è lei? Cosa vuole? Come osa infrangere la ferrea disciplina ed affrontare il terribile Capo?

«Sono un sacerdote cattolico polacco; sono anziano, voglio prendere il suo posto, perchè egli ha moglie e figli».

Il Comandante, meravigliato, parve non riuscire a trovare la forza per parlare e stranamente accettò quella proposta…

Padre Kolbe insieme agli altri condannati fu avviato verso il blocco 11. Qui le vittime furono denudate e rinchiuse in una piccola cella, in cui dovevano morire di fame e di sete. Ma da questo tetro luogo, invece di pianti e disperazione, questa volta si udirono preghiere e canti. Padre Kolbe li guidava, attraverso il cammino della croce, alla vita eterna.

Rimase nel bunker per due settimane, quando le SS decisero di svuotare la cella della morte. Erano rimasti in vita solo quattro uomini tra cui Padre Massimiliano.

Venne ucciso con un’iniezione di acido fenico, perché la cella, che egli aveva trasformato in cenacolo di preghiera e che condivideva con gli altri condannati, serviva per altre vittime. «Porse lui stesso, con la preghiera sulle labbra, il braccio al carnefice», raccontò un testimone.

Lo trovarono qualche ora dopo, «appoggiato al muro, con la testa inclinata sul fianco sinistro e il volto insolitamente raggiante. Aveva gli occhi aperti e concentrati in un punto. Lo si sarebbe detto in estasi». Era la vigilia dell’Assunta, di una festa della Madre di Dio, che egli aveva sempre amato, chiamandola con il nome di «dolce mamma».

MARTIROLOGIO ROMANO. Memoria di san Massimiliano Maria (Raimondo) Kolbe, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali e martire, che, fondatore della Milizia di Maria Immacolata, fu deportato in diversi luoghi di prigionia e, giunto infine nel campo di sterminio di Auschwitz vicino a Cracovia in Polonia, si consegnò ai carnefici al posto di un compagno di prigionia, offrendo il suo ministero come olocausto di carità e modello di fedeltà a Dio e agli uomini.

Nome: San Massimiliano Maria Kolbe
Titolo: Sacerdote e martire
Nascita: 8 gennaio 1894
Morte: 14 agosto 1941
Ricorrenza: 14 agosto
Tipologia: Memoria liturgica
Protettore: radioamatori

Vangelo Mt 19, 13-15:: «Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me».

Vangelo Mt 19, 13-15
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, furono portati a Gesù dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li rimproverarono.
Gesù però disse: «Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli».
E, dopo avere imposto loro le mani, andò via di là.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
«A chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli».

Maria Valtorta
L’evangelo come mi è stato rivelato.

Cap. CCCLXXVIII. La parabola degli uccelli e predilezione per i fanciulli. Un tranello teso da nemici giudei e un intervento di Claudia Procula.

 1 Far precedere dalla visione del 14-08-44: la pecorella nell’ovile ai piedi del buon Pastore.

   6 Febbraio 1946

 2 Gesù a Betania, tutta ubertosa e fiorita in questo mese di nisam, sereno, puro, come se il creato fosse dilavato da ogni sozzura. Ma le turbe, che certo lo hanno cercato a Gerusalemme e che non vogliono partire senza averlo sentito, per potere portare seco, nel cuore, la sua parola, lo raggiungono. Numerose tanto che Gesù ordina di adunarle perché Egli possa ammaestrarle. E i dodici coi settantadue, che si sono ricomposti in tale numero, o giù di lì, coi nuovi discepoli aggregatisi ad essi in questi ultimi tempi, si spargono per ogni dove per eseguire l’ordine avuto.
   Intanto Gesù, nel giardino di Lazzaro, si accomiata dalle donne, e specie dalla Madre, che per suo ordine tornano in Galilea scortate da Simone d’Alfeo, Giairo, Alfeo di Sara, Marziam, lo sposo di Susanna e Zebedeo. Vi sono saluti e lacrime. Vi sarebbe molta volontà anche di non ubbidire. Una volontà data ancora dall’amore al Maestro. Ma più forte ancora è la forza dell’amore perfetto, perché tutto soprannaturale, per il Verbo Ss., e questa forza le fa ubbidire accettando la penosa separazione.
   Quella che meno parla è Maria, la Madre. Ma il suo sguardo dice più di tutto quanto dicono tutte le altre messe insieme. Gesù interpreta quello sguardo e la rassicura, la consola, la sazia di carezze, se si può mai saziare una madre, e specie quella Madre, tutt’amore e tutt’ambascia per il Figlio perseguitato. E le donne se ne vanno, infine, volgendosi, rivolgendosi a salutare il Maestro, a salutare i figli e le fortunate discepole giudee che restano ancora col Maestro.
   «Hanno sofferto ad andare…», osserva Simone Zelote.
   «Ma è bene che siano andate, Simone».
   «Prevedi giorni tristi?».
   «Agitati per lo meno. Le donne non possono sopportare le fatiche come noi. Del resto, ora che ne ho un numero quasi pari di giudee e di galilee, è bene siano divise. A turno mi avranno, avendo a turno la gioia di servirmi, esse; e il conforto del loro affetto santo, Io».

 3 La gente intanto aumenta sempre più. Il frutteto posto fra la casa di Lazzaro e quella che era dello Zelote formicola di folla. Ve ne è di tutte le caste e condizioni, né mancano farisei di Giudea, sinedristi e donne velate.
   Dalla casa di Lazzaro escono in gruppo, stretti intorno ad una lettiga su cui viene trasportato lo stesso, i sinedristi che il sabato pasquale erano in visita da Lazzaro a Gerusalemme, e altri ancora. Lazzaro, passando, fa un gesto e ha un sorriso felice per Gesù. E Gesù glielo ricambia mentre si accoda al piccolo corteo per andare là dove la gente attende.
   Gli apostoli si uniscono a Lui, e Giuda Iscariota, che è trionfante da qualche giorno, in una fase felicissima, getta qua e là gli sguardi dei suoi occhi nerissimi e scintillanti, e annuncia all’orecchio di Gesù le scoperte che fa.
   «Oh! guarda! Ci sono anche i sacerdoti!… Ecco, ecco! C’è anche Simone sinedrista. E c’è Elchia. Guarda che bugiardo! Solo pochi mesi fa diceva inferno di Lazzaro e ora lo ossequia come fosse un dio!… E là Doro l’Anziano e Trisone. Vedi che saluta Giuseppe? E lo scriba Samuele con Saulo… E il figlio di Gamaliele! E là c’è un gruppo di quelli di Erode… E quel gruppo di donne così velate sono certo le romane. Stanno appartate, ma vedi come osservano dove ti dirigi per potersi spostare e sentirti? Riconosco le loro persone nonostante i mantelloni. Vedi? Due alte, una più larga che alta, le altre di media statura, ma in proporzione giusta. Vado a salutarle?».
   «No. Esse vengono come sconosciute. Come anonime che desiderano la parola del Rabbi. Tali le dobbiamo considerare».
   «Come vuoi, Maestro. Facevo per… ricordare a Claudia la promessa…».
   «Non ce n’è bisogno. E anche ce ne fosse, non diveniamo mai dei questuanti, Giuda. Non è vero? L’eroismo della fede deve formarsi fra le difficoltà».
   «Ma era per… per Te, Maestro».
   «E per la tua idea perenne di un trionfo umano. Giuda, non ti creare illusioni. Né sul mio modo di agire futuro, né sulle promesse avute. Tu credi a ciò che ti dici da te stesso. Ma nulla potrà mutare il pensiero di Dio, ed esso è che Io sia Redentore e Re di un regno spirituale».
   Giuda non ribatte nulla.
   Gesù è al suo posto, fra il cerchio degli apostoli. Quasi ai suoi piedi è Lazzaro sul suo lettuccio. Poco lontano da Lui sono le discepole giudee, ossia le sorelle di Lazzaro, Elisa, Anastatica, Giovanna coi bambinelli, Annalia, Sara, Marcella, Niche. Le romane, o almeno quelle che Giuda ha detto tali, sono più indietro, quasi nel fondo, mescolate a un mucchio di popolani. Sinedristi, farisei, scribi, sacerdoti sono, è inevitabile, in prima fila. Ma Gesù li prega di fare largo a tre barelline, dove sono dei malati che Gesù interroga ma non guarisce subito. 

 4 Gesù, per prendere l’idea del suo discorso, richiama l’attenzione dei presenti sul gran numero di uccelli che si annidano fra le fronde del giardino di Lazzaro ed il frutteto dove sono radunati gli ascoltatori.
   «Osservate. Ve ne sono di indigeni e di esotici, di ogni razza e dimensione. E quando scenderanno le ombre, ad essi si sostituiranno gli uccelli della notte, essi pure qui numerosi, per quanto sia quasi possibile dimenticarli solo per il fatto che non li vediamo. Perché tanti uccelli nell’aria qui? Perché trovano di che vivere felici. Qui sole, qui quiete, qui pasto abbondante, ricoveri sicuri, fresche acque. Ed essi si adunano venendo da oriente e occidente, da mezzogiorno e settentrione se sono migratori, rimanendo fedeli a questo luogo se indigeni. E che? Vedremo dunque che gli uccelli dell’aria sono superiori in sapienza ai figli dell’uomo? Quanti, fra questi uccelli, sono figli di uccelli ora morti, ma che lo scorso anno, o più lontano ancora nel tempo, qui nidificavano trovandovi sollievo! Essi lo hanno detto ai loro nati, avanti di morire. Hanno indicato questo posto, ed essi, i nati, sono venuti ubbidienti. Il Padre che è nei Cieli, il Padre degli uomini tutti, non ha forse detto ai suoi santi le sue verità, dato tutte le indicazioni possibili per il benessere dei suoi figli? Tutte le indicazioni. Quelle rivolte al bene della carne e quelle rivolte al bene dello spirito. Ma che vediamo noi? Vediamo che, mentre ciò che fu insegnato per la carne – dalle tuniche di pelli, che Egli fece ai progenitori, ormai denudati ai loro occhi della veste dell’innocenza che il peccato aveva lacerata, alle ultime scoperte che per lume di Dio l’uomo ha fatte – sono ricordate, tramandate, insegnate, l’altro, quello che fu insegnato, comandato, indicato per lo spirito, non viene conservato e insegnato e praticato».
   Molti del Tempio bisbigliano. Ma Gesù li calma col gesto.

 5 «Il Padre, buono come l’uomo non può lontanamente pensare, manda il suo Servo a ricordare il suo insegnamento, a radunare gli uccelli nei luoghi di salute, a dare loro esatta conoscenza di ciò che è utile e santo, a fondare il Regno dove ogni angelico uccello, ogni spirito, troverà grazia e pace, sapienza e salute. E in verità, in verità vi dico che, come gli uccelli nati in questo luogo a primavera diranno ad altri di altri luoghi: “Venite con noi, che vi è un luogo buono dove gioirete della pace e dell’abbondanza del Signore”, e così si vedrà, l’anno novello, novelli uccelli qui affluire, nello stesso modo, da ogni parte del mondo, così come è detto dai profeti, vedremo affluire spiriti e spiriti alla Dottrina venuta da Dio, al Salvatore fondatore del regno di Dio. Ma agli uccelli diurni sono mescolati in questo luogo uccelli notturni, predatori, disturbatori, capaci da gettare terrore e morte fra gli uccelli buoni. E sono gli uccelli che da anni, da generazioni, sono tali, e nulla li può snidare perché le loro opere si fanno nelle tenebre e in luoghi impenetrabili da parte dell’uomo. Questi, col loro occhio crudele, col loro volo muto, con la loro voracità, con la loro crudeltà, nelle tenebre lavorano e, immondi, seminano immondezza e dolore. A chi li paragoneremo noi? A quanti in Israele non vogliono accettare la Luce venuta ad illuminare le tenebre, la Parola venuta ad ammaestrare, la Giustizia venuta a santificare. Per essi inutilmente sono venuto. Anzi per essi sono cagione di peccato, perché mi perseguitano e perseguitano i miei fedeli. Che allora dirò? Una cosa che ho già detto altre volte: “Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno con Abramo e Giacobbe nel Regno dei Cieli. Ma i figli di questo regno saranno gettati nelle tenebre esteriori”».

 6 «I figli di Dio nelle tenebre? Tu bestemmi!», urla uno dei sinedristi contrari. È il primo spruzzo della bava dei rettili, stati troppo tempo zitti e che non possono più tacere perché affogherebbero nel loro veleno.
   «Non i figli di Dio», risponde Gesù.
   «L’hai detto Tu! Hai detto: “I figli di questo regno saranno gettati nelle tenebre esteriori”».
   «E Io ripeto. I figli di questo regno. Del regno dove la carne, il sangue, l’avarizia, la frode, la lussuria, il delitto sono padroni. Ma questo non è il mio Regno. Il mio è il Regno della Luce. Questo vostro è il regno delle tenebre. Al Regno della Luce verranno da oriente e occidente, mezzogiorno e settentrione gli spiriti retti, anche quelli per ora pagani, idolatri, spregevoli ad Israele. E vivranno in santa comunione con Dio, avendo in sé accolta la luce di Dio, in attesa di salire alla vera Gerusalemme, dove non è più lacrima e dolore e soprattutto non è la menzogna. La menzogna che ora regge il mondo delle tenebre e satura i figli di esso, al punto che in essi non cape una briciola di luce divina. Oh! vengano i figli nuovi al posto dei figli rinnegatori! Vengano! E, quale che sia la loro provenienza, Dio li illuminerà ed essi regneranno nei secoli dei secoli!».
   «Hai parlato per insultarci!», gridano i giudei nemici.
   «Ho parlato per dire la verità».
   «Il tuo potere sta nella lingua con la quale, novello serpente, seduci le folle e le travii».
   «Il mio potere sta nella potenza che mi viene nell’essere uno col Padre mio».
   «Bestemmiatore!», urlano i sacerdoti.
   «Salvatore!

 7 O tu che giaci ai miei piedi, di che soffri?».
   «Ebbi rotta la spina da fanciullo, e da trenta anni sto sul dorso».
   «Sorgi e cammina! E tu donna, di che soffri?».
   «Pendono inerti le mie gambe da quando questo, che col marito mio mi porta, vide la luce», e accenna ad un giovanetto di almeno sedici anni.
   «Tu pure sorgi e loda il Signore. E quel fanciullo perché non va da solo?».
   «Perché è nato ebete, sordo, cieco, muto. Un pezzo di carne che respira», dicono quelli che sono coll’infelice.
   «Nel nome di Dio abbi intelletto, parola, vista e udito. Lo voglio! ».
   E, compiuto il terzo miracolo, si volge agli ostili e dice: «E che dite? ».
   «Dubbi miracoli. Perché non guarisci il tuo amico e difensore, allora, se tutto puoi?».
   «Perché Dio vuole altrimenti».
   «Ah! Ah! Già! Dio! Comoda scusa! Se ti portassimo noi un malato, anzi due, li guariresti?».
   «Sì. Se lo meritano».
   «Attendici, allora», e vanno lesti ghignando.
   «Maestro, bada! Ti tendono qualche tranello!», dicono in diversi.
   Gesù fa un gesto, come dire: «Lasciateli fare!»,

 8 e si china ad accarezzare dei fanciulli che piano piano si sono accostati a Lui lasciando i parenti. Alcune madri li imitano, portandogli quelli che sono ancora troppo incerti nel passo o poppanti del tutto.
   «Benedici le nostre creature, Tu benedetto, perché siano amanti della Luce!», dicono le madri.
   E Gesù impone loro le mani, benedicendo. Ciò origina tutto un movimento tra la folla. Tutti quelli che hanno fanciulli vogliono la stessa benedizione e spingono e urlano per farsi largo. Gli apostoli, parte perché sono innervositi dalle solite cattiverie degli scribi e farisei, parte per pietà di Lazzaro, che rischia di essere travolto dalla ondata dei parenti che portano i piccoli alla divina benedizione, si inquietano e urlano sgridando questo e quello, respingendo questo e quello, specie i fanciulloni venuti lì da soli.
   Ma Gesù, dolce, amoroso, dice: «No, no! Non fate così! Non impedite mai ai fanciulli di venire da Me, né ai loro parenti di portarmeli. Proprio di questi innocenti è il Regno. Essi saranno innocenti del gran delitto e cresceranno nella mia fede. Lasciate dunque che ad essa Io li consacri. Sono i loro angeli che a Me li conducono».
   Gesù ora è in mezzo ad una siepe di fanciulli che lo guardano estatici: tanti visetti alzati, tanti occhi innocenti, tante boccucce sorridenti…
   Le donne velate hanno approfittato della confusione per girare dietro alla folla e venire alle spalle di Gesù, come se la curiosità le spronasse a questo.

9 Tornano i farisei, scribi ecc. ecc. con due che paiono molto sofferenti. Uno specialmente geme, nella sua
barellina, stando tutto coperto dal mantello. L’altro è, in apparenza, meno grave, ma certo è molto malato perché è scheletrito e ansimante.
   «Ecco i nostri amici. Guariscili. Questi sono veramente malati. Questo soprattutto!», e indicano il gemente.
   Gesù abbassa gli occhi sui malati, poi li rialza sui giudei. Dardeggia i suoi nemici con uno sguardo terribile. Ritto dietro la siepe innocente dei fanciulli che non gli raggiungono l’inguine, pare alzarsi da un cespo di purezza per essere il Vendicatore, come se da questa purezza traesse forza per esserlo. Apre le braccia e grida: «Mentitori! Costui non è malato! Io ve lo dico. Scopritelo! O realmente sarà morto fra un istante per la truffa tentata a Dio».
   L’uomo balza fuori dalla barella urlando: «No, no! Non mi colpire! E voi, maledetti, tenete le vostre mone-te!», e getta una borsa ai piedi dei farisei fuggendo a gambe levate…
   La folla mugola, ride, fischia, applaude…
   L’altro malato dice: «E io, Signore? Io sono stato preso dal mio letto per forza ed è da questa mattina che subisco disturbo… Ma io non sapevo d’essere in mano ai tuoi nemici…».
   «Tu, povero figlio, guarisci e sii benedetto!», e gli impone le mani fendendo la siepe viva dei fanciulli.
   L’uomo alza un attimo la coperta stesa sul suo corpo, guarda non so che… Poi si alza in piedi. Così appare nudo dalle cosce in giù. E urla, urla fino ad essere roco: «Il mio piede! Il mio piede! Ma che sei, ma chi sei che rendi le cose perdute? », e cade ai piedi di Gesù e poi sorge, salta in bilico sul lettuccio e grida: «Il male mi rodeva le ossa. Il medico mi aveva strappato le dita, arsa la carne, aperto tagli fino all’osso del ginocchio. Guardate! Guardate i segni. E morivo lo stesso. E ora… Tutto guarito! Il mio piede! Il mio piede ricomposto!… E non più dolore! E forza, e benessere… Il petto libero!… Il cuore sano!… Oh! mamma! Mamma mia! Vengo a darti la gioia!».
   Fa per correre via. Ma poi la riconoscenza lo ferma. Torna da Gesù di nuovo e lo bacia, bacia i piedi benedetti finché Gesù non gli dice, accarezzandolo sui capelli: «“Và! Và da tua madre e sii buono».

10 E poi guarda i suoi nemici scornati e tuona: «E ora? Che vi dovrei fare? Che dovrei fare, o turbe, dopo questo giudizio di Dio?».
   La folla urla: «Alla lapidazione gli offensori di Dio! A morte! Basta di insinuare il Santo! Che siate maledetti!», e danno di piglio a zolle di terra, a rami, a ciottoletti, pronti a iniziare una sassaiola.
   Li ferma Gesù. «Questa è la parola della folla. Questa è la sua risposta. La mia è diversa. Io dico: andate! Non mi sporco a colpirvi. L’Altissimo si incarichi di voi. Egli è la mia difesa contro gli empi».
   I colpevoli, in luogo di tacere, pur avendo paura della plebe, non hanno ritegno di offendere il Maestro e spumanti d’ira urlano: «Noi siamo giudei e potenti! Noi ti ordiniamo di andartene. Ti proibiamo di ammaestrare. Ti cacciamo. Và via! Basta di Te. Noi abbiamo il potere nelle mani e lo usiamo; e sempre più lo faremo, perseguitandoti, o maledetto, o usurpatore, o…».
   Stanno per dire altro fra un tumulto di grida, di pianti, di fischi, quando, venuta avanti fino a mettersi fra Gesù e i suoi nemici con mossa rapida e imperiosa, con sguardo e voce ancor più imperiosa, la donna velata più alta scopre il viso e, tagliente, sferzante più di una frusta sui galeotti e di una scure sul collo, cade la sua frase: «Chi dimentica di essere schiavo di Roma?». È Claudia. Riabbassa il velo. Si inchina lievemente al Maestro. Torna al suo posto.
   Ma è bastato. I farisei si calmano di colpo. Solo uno, a nome di tutti e con un servilismo strisciante, dice: «Domina, perdona! Ma Egli turba il vecchio spirito di Israele. Tu, potente, dovresti impedirlo, farlo impedire dal giusto e prode Proconsole, vita e lunga salute a lui!».
   «Questo non ci riguarda. Sufficiente è che non turbi l’ordine di Roma. E non lo fa!», risponde sdegnosa la patrizia; poi dà un ordine secco alle compagne e si allontana, andando verso un folto d’alberi in fondo al sentiero, dietro il quale scompare, per poi ricomparire sul cigolante carro coperto del quale fa abbassare tutte le tende.

11 «Sei contento di averci fatto insultare?», chiedono tornando all’attacco i giudei, i farisei, scribi e compagni.
   La folla urla, presa da sdegno. Giuseppe, Nicodemo e tutti quelli che si sono mostrati amici – e con questi, senza unirvisi ma con uguali parole, è il figlio di Gamaliele – sentono il bisogno di intervenire rimproverando gli altri di passare la misura. La disputa passa dai nemici contro Gesù ai due gruppi opposti, lasciando fuori della disputa il più interessato in essa.
   E Gesù tace, a braccia conserte, ascoltando, mentre credo sprigioni una forza per trattenere la folla e specie gli apostoli, che vedono rosso d’ira.
   «Noi dobbiamo difenderci e difendere», urla un giudeo scalmanato; «Basta di vedere le turbe affascinate dietro di Lui», dice un altro; «Noi siamo i potenti! Noi soli! E solo noi andiamo ascoltati e seguiti», strepita uno scriba; «Vada via di qua! Gerusalemme è nostra!», sbraita un sacerdote rosso come un tacchino.
   «Siete dei perfidi!»; «Più che ciechi siete!»; «Le turbe vi abbandonano perché voi lo meritate»; «Siate santi se volete essere amati. Non è commettendo soprusi che si conserva il potere, che si fonda sulla stima del popolo in chi lo governa!», urlano alla loro volta quelli del partito opposto e molti della folla.
   «Silenzio!», impone Gesù. E quando esso si fa, dice: «La tirannia e le imposizioni non possono mutare gli affetti e le conseguenze del bene ricevuto. Io raccolgo ciò che ho dato: amore. Voi col perseguitarmi non fate che aumentare questo amore che mi vuole compensare del vostro disamore. Non sapete, con tutta la vostra sapienza, che perseguitare una dottrina non serve che ad accrescerne il potere, specie quando questa corrisponde nei fatti a ciò che insegna? Udite una mia profezia, o voi d’Israele. Quanto più perseguiterete il Rabbi di Galilea e i suoi seguaci, tentando di annullare con la tirannia la sua dottrina, che è divina, e tanto più la farete prospera ed estesa nel mondo. Ogni stilla del sangue dei martiri fatti da voi, sperando trionfare e regnare con le vostre corrotte, ipocrite leggi e precetti, non più rispondenti alla Legge di Dio, ogni lacrima dei santi conculcati, sarà seme di futuri credenti. E voi sarete vinti quando crederete di essere trionfatori. Andate. Io pure vado. Coloro che mi amano mi cerchino ai confini della Giudea e nell’Oltre Giordano, o mi attendano in essi, perché come lampo che da oriente scorre a occidente, ratto così sarà l’andare del Figlio dell’uomo fino a quando salirà sull’altare e sul trono, Pontefice e Re nuovo, e vi starà, ben fermo al cospetto del mondo, del creato e dei Cieli, in una delle sue tante epifanie che solo i buoni sanno comprendere».

12 I farisei ostili e i loro compagni se ne sono andati. Restano gli altri. Il figlio di Gamaliele lotta in se stesso per venire a Gesù, ma poi se ne va, senza parlare…
   «Maestro, Tu non ci odierai perché siamo delle stesse loro caste?», chiede Eleazaro.
   «Io non colpisco mai di anatema il singolo perché la classe è rea. Non temere», risponde Gesù.
   «Ora ci odieranno…», mormora Gioachino.
   «Onore per noi l’esserlo!», esclama Giovanni sinedrista.
   «Dio fortifichi i vacillanti e benedica i forti. Io tutti benedico in nome del Signore», e aperte le braccia dà la benedizione mosaica a tutti i presenti.
   Poi si accomiata da Lazzaro e dalle sorelle, da Massimino, dalle discepole, e inizia il suo andare…
   Le verdi campagne che costeggiano la via diretta a Gerico lo accolgono nel loro verde che si arrossa per un tramonto fastoso. 

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, noi ci affidiamo per sempre a Te!